"Il Volo Dell'angelo Di Pietra" - читать интересную книгу автора (O'Connell Carol)

7

Augusta cercò a fondo nelle tasche del vestito. «Non riesco a capire dove possano essere finite quelle chiavi. Stamattina le avevo.»

Il cavallo bianco al di là dello steccato abbassò la testa e le diede un colpetto alla spalla.

«Ecco, ora ricordo. Le ho date a Henry Roth. Mi aveva detto che avrebbe dato un'occhiata alla giuntura d'un tubo. Sai, l'idraulico di qui è un ladro.»

«Non voglio disturbare il signor Roth mentre lavora.» Charles accarezzò il muso vellutato del cavallo. Era un animale splendido.

«Non c'è problema.» Augusta tenne aperto il cancello del recinto e il cavallo uscì, strofinandole il muso sul collo. «Telefoneremo a Henry dopo cena.»

Attraversarono lo spazio aperto che si estendeva fra il recinto e una vecchia rimessa che necessitava di una mano di vernice.

Il cavallo non aveva la cavezza ma li seguiva, docile come un vecchio cane.

«Allora, Charles, come trovi la nostra piccola città? Noiosa?»

«Assolutamente no. Oggi ho conosciuto Malcolm Laurie. È un tipo affascinante.»

Augusta tirò il chiavistello di un'ampia porta ad arco che si spalancò su un interno scuro e fresco, pervaso da un odore acre di fieno e di cavallo. Dal fóndo di uno dei box giunse il rumore di acqua corrente, e il cavallo si diresse spedito verso l'abbeveratoio. Dopo aver richiuso la porta, Augusta guardò Charles con occhi severi.

«Non ti innamorare di Malcolm.»

Era un ordine.

«Scusa?» Credeva forse che lui fosse…

«Sai, erano anni che non facevo arrossire così un uomo. Vieni con me.»

Innamorarsi di Malcolm?

Gli fece cenno di seguirla. Charles le camminò a fianco, le mani infilate in tasca, cercando le parole giuste per protestare. Lei lo afferrò per un braccio, come aveva fatto quando si erano incontrati la prima volta.

«Calmati, Charles. Non intendevo nulla di carnale. Succede in continuazione che gli uomini si innamorino di altri uomini. Pensa a come sono idolatrati gli eroi di guerra e quelli dello sport. L'amore di un uomo per un altro uomo è molto più forte di quello per una donna.»

«Non è proprio la stessa cosa» disse, forse un po' troppo in fretta.

«Vuoi dire, non come il sesso? E invece sì. Malcolm usa il sesso proprio come una donna. È senza vergogna. Gli uomini ne sono affascinati come potrebbe esserlo una donna.»

Charles raddrizzò le spalle e affondò ancor di più le mani nelle tasche. «Il capo di una setta religiosa ha la devozione dei suoi seguaci.» Si chiese se il suo tono non fosse troppo sulla difensiva. «Ma basandoci sul profilo psichiatrico tipico di…»

«Lascia perdere il vudù psichiatrico.» Gli strinse più forte il braccio e lo guardò accigliata. «Non pensare alla cerniera dei tuoi calzoni, e fai attenzione. Stai attraversando un brutto momento, Charles. Sei vulnerabile, è facile persuaderti o ingannarti. Ci siamo passati tutti. Uomo o donna, ciascuno di noi sente a volte il bisogno di esser stretto fra le braccia. Malcolm ti ha invitato allo spettacolo di domani sera, vero?»

«La cerimonia di commemorazione? Sì.» Perché si sentiva come se avesse confessato di avere un appuntamento amoroso?

«Quando vedrai Malcolm su quel palco, ti sembrerà più grande di quel che ricordavi. Ti ipnotizzerà con gli occhi e ti farà entusiasmare promettendoti il paradiso in terra.»

Questo Malcolm l'aveva già fatto. Il regno dei cieli è in mezzo agli uomini, ma loro non lo vedono.

«E crederai in lui perché hai bisogno di credere.» Augusta aprì la porta fra le due scalinate e si fermò con la mano sulla maniglia. «Malcolm ti mostrerà un angolo di paradiso così reale che vorrai andarci a vivere. Ne rimarrai affascinato e gliene sarai riconoscente.»

Augusta scosse il capo in segno di disapprovazione, lo guardò fisso. Entrò in casa e si diresse in cucina.

Charles la seguiva docile, proprio come aveva fatto il cavallo.

Augusta si avvicinò alla cucina a gas, voltandogli le spalle. «Poi ti chiederà qualcosa, una cosa piccola rispetto al dono che ti ha fatto lui. E tu sarai lieto di dargliela…» Accese la fiamma del fornello. «È così che comincia. Forse non finirai a letto con lui, ma basterà che tu gli ceda una volta e avrai perso.»

Ora gli era di fronte, e gesticolava roteando un cucchiaio di legno. «In un certo senso, ti ritroverai sottomesso. Avrai gli occhi pieni d'amore e di fiducia. Lui potrà farti quel che vuole, e tu desidererai che lo faccia. Quindi, Charles, ti ripeto, non t'innamorare di quell'uomo.»

Charles annuiva. L'incantesimo di cui parlava Augusta l'aveva già sperimentato al tempo in cui si era innamorato di Mallory.

Purtroppo allora nessuno l'aveva messo in guardia. E adesso era troppo tardi.

Prese posto a tavola e osservò la schiena di Augusta mentre lei rimestava nella pentola. Sebbene avesse saltato la colazione, non aveva fame, era troppo agitato.

Si sentiva perfettamente al sicuro dai tipi come Malcolm. Era Mallory, quella ladra fuori classe, che l'aveva umiliato togliendogli l'orgoglio e l'amor proprio. Aveva percorso più di mille chilometri per sentirsi cacciare via a quel modo. Non era patetico?

Malcolm aveva ragione. Se voleva Mallory, non doveva più correrle dietro. Doveva cercare di non rivederla. Lei sarebbe rimasta disorientata e per una volta le sue previsioni sarebbero state smentite. Bene, anzi benissimo. Avrebbe avuto quel che si meritava.

Grazie, Malcolm.

In tavola arrivarono due piatti colmi di zuppa profumata: pollo e riso. Sollevò lo sguardo e incrociò quello di Augusta. Lo stava fissando con tale intensità che si chiese se gli stesse leggendo nel pensiero. Era forse più abile di Malcolm Laurie?

Augusta stava osservando la sua lenta caduta nel pericoloso precipizio che gli aveva appena descritto. Aveva cercato di avvertirlo, ma lui non l'aveva ascoltata.

«Adesso capisco» ammise Charles. Ed era finalmente vero. Non si sarebbe lasciato sedurre dal predicatore. Mallory era sua amica. L'avrebbe aiutata, che lei lo volesse o no. Se fosse stato lui a trovarsi nei guai, Mallory avrebbe fatto lo stesso. Come aveva potuto dimenticarlo?

Charles e Augusta mangiarono in silenzio, ma fra loro continuò un fitto scambio di sguardi. Lui sorrise e abbassò il capo, facendole capire che ammirava la sua profonda conoscenza dell'animo umano. Lei ricambiò il sorriso, approvando il suo buonsenso.

Alla seconda tazza di caffè, l'umore di Charles era radicalmente cambiato. Il cibo lo aveva rigenerato. Si sentiva quasi euforico.

Augusta lo teneva d'occhio, con un'espressione di benevola malizia. «Scommetto che ora ti senti meglio.»

«Molto meglio. La tua cucina ha fatto miracoli.»

Lei fece un cenno affermativo. «È merito dell'erba scaccia-diavoli.»

«Come, scusa?»

«L'Hypericum perforatum.» Indicò una delle piantine sul davanzale della finestra. «È quella con i bei fiorellini gialli. La somministravo a mia madre per curare la sua depressione. Naturalmente lei morì. Ma con te, a quanto sembra, sono stata più fortunata.»

«Hai drogato la zuppa?»

«Oh, non molto. E tra un po' quello sciocco sorriso ti sparirà dalla faccia.»

«Allora è vero. Mi hai drogato

«È ora di chiamare Henry» disse, allontanando la seggiola dal tavolo.

Il sorriso di Charles non scomparve, ma si fece un po' teso mentre la seguiva fuori dalla cucina ed entrava in una grande stanza dal soffitto basso.

Una luce tenue illuminava le stampe di Audubon appese alle pareti. Su un tavolino tondo finemente decorato c'era un gufo bianco imbalsamato, accanto al quale era posato un blocco da disegno. Sparsi nella stanza c'erano altri uccelli impagliati che lo fissavano con occhi scintillanti, i corpi immobilizzati nell'attimo cruciale prima di spiccare il volo o di attaccare.

Augusta, come Audubon, usava uccelli morti come modelli per i suoi disegni.

I mobili erano di periodi e stili diversi, ma tutti in perfette condizioni. Accanto a un armadio, due scaffali Régence contenevano volumi di ornitologia impilati in disordine. C'era un letto sistemato nella nicchia della finestra. Si sarebbe detto che, pasti a parte, la vita di Augusta avvenisse tutta lì dentro.

Charles aveva appena preso posto sul divano, quando la gatta gli si accostò con fare minaccioso. Il messaggio era chiaro: Charles si era seduto dove non avrebbe dovuto. Si spostò in un angolo del divano e la gatta si acciambellò sul cuscino centrale, fissandolo con silenzioso disprezzo.

Augusta stava parlando in un telefono che Charles datò agli inizi del secolo. «Ho contato dodici colpi. Batti di nuovo se ho contato bene, Henry.» Poi si rivolse a Charles. «Domani a mezzogiorno, ti sta bene?»

«Certo.» Notò una stretta scala che portava al piano di sopra.

«Bene, allora. Grazie, Henry. Vi incontrerete direttamente a Casa Shelley. La chiave più grossa apre la porta d'ingresso mentre la più piccola è quella della soffitta, dove ho conservato gli effetti personali di Cass.»

Charles fece un gesto della mano per indicare l'intera stanza. «Questa è una straordinaria raccolta d'antiquariato. Mi piace la tua casa.»

«Ma non hai ancora visto le altre quaranta e rotte stanze. Vuoi fare un giro?»

«Oh, sì, grazie.»

La gatta non era più sul cuscino accanto a lui, ma li stava precedendo sulla scala. Salirono e si trovarono il passaggio sbarrato dall'animale. Faceva le fusa, in attesa. Augusta soffiò, proprio come un gatto. L'animale si spostò, prendendo posto dietro a Charles.

«Sta' attento a non farla uscire.» Augusta oltrepassò la porta lasciando a Charles il compito di tenere a distanza quella furia selvaggia. Lui se la cavò con un piccolo strappo ai calzoni.

Entrarono in una lunga galleria. I soffitti erano alti almeno sei metri. Augusta gli fece notare i ricchi fregi delle cornici, decorate con tralci di rose. «I fiori sono stati fatti con un impasto di stucco e muschio di Spagna.»

Lo guidò in una sala ancora più grande. Le finestre altissime andavano dal pavimento al soffitto e illuminavano la tappezzeria a brandelli e la muffa sui mobili. L'arredamento era stato rovinato dalla pioggia entrata dai vetri rotti. A un divano mancavano le gambe anteriori, mentre un prezioso tappeto orientale era ormai del tutto sfilacciato. La causa di tanta rovina non era certo la povertà; con la vendita di alcuni di quei pezzi si sarebbe potuto provvedere alla manutenzione della casa.

Entrarono nella sala da pranzo, sulle cui pareti, rovinate dalle infiltrazioni, erano appesi dipinti preziosi con cornici deformate dall'umidità.

«Perché è tutto così malridotto?»

«Be', ho dovuto lasciare che la casa marcisse. È una promessa che ho fatto a mio padre in punto di morte.»

Suo padre era forse morto pazzo? Non era opportuno chiederlo, e Charles tenne la domanda per sé mentre ripercorrevano la strada fino alla galleria, dove altre porte si aprivano su una grande sala da ballo. La luce del tramonto lo abbagliò, poi gli occhi gli caddero nell'impiantito di marmo, completamente distrutto.

«È l'opera sconsiderata di uno dei miei cavalli» disse Augusta. «Era un animale forte, di razza Appaloosa. Eppure, queste lastre avevano sopportato di tutto prima di spaccarsi… Sai, è marmo italiano.»

Per Charles era davvero troppo. Un cavallo in casa.

Sbalordito, la seguì lungo lo scalone principale, ascoltando una serie di commenti particolareggiati sull'arredamento delle singole stanze. Ovunque c'erano orologi preziosi, tutti fermi alla stessa ora, quella della morte del padre.

Con un certo disgusto, Augusta disse: «La casa è fatta con legno di cipresso. Inattaccabile dalle termiti. I muri non cadono. Anche i pavimenti, fatti di Pinus palustris, il pino della Georgia, resistono all'umidità. Ma sto facendo progressi col tetto. Ci sono dei buchi notevoli che lasciano passare la luce del giorno… e i pipistrelli. Però, poveri animaletti, non amano la luce diretta del sole. Alcuni stanno migrando ai piani inferiori».

Charles diede un'occhiata all'ultima stanza prima di un'altra rampa di scale. Il pavimento era sporco di escrementi. Il locale doveva essere la dimora dei pipistrelli. Contro una parete c'era un letto a baldacchino riccamente intagliato. Ne aveva visto uno simile in una casa d'aste di New York. Una zanzariera sfilacciata e marcescente lo copriva in parte, confondendosi con le ragnatele. Sul materasso giaceva un pipistrello morto e mummificato.

Continuarono a salire. In soffitta notò altri pezzi d'antiquariato diventati ormai nidi di ragni.

«Aspetta qui un attimo» disse Augusta. «Voglio assicurarmi che siano tutti fuori. Negli ultimi trent'anni fra i pipistrelli ci sono stati solo pochi casi di rabbia, ma non si sa mai, è meglio essere prudenti.» Scomparve oltre una porta, e un fetore disgustoso si diffuse dallo spiraglio.

Charles si voltò verso l'unica fonte di luce e di aria. Non si trattava della finestra rotonda che aveva notato arrivando. Questa permetteva una visuale del terreno sul retro della casa. Sull'ampio davanzale era appoggiato un binocolo.

Guardando in basso, alla luce del crepuscolo poteva ancora distinguere il tracciato di quello che una volta era stato un labirinto ben congegnato, costellato da aiuole semidistrutte. Il sentiero lastricato di un tempo scompariva fra i cespugli rossi, blu e arancione che fiorivano selvatici qua e là.

Gli uccelli che in gran numero popolavano il giardino, si levarono d'improvviso in volo dagli arbusti dove erano nascosti, creando un'onda variopinta fra la vegetazione. Charles sollevò il binocolo e lo regolò sugli alberi e sui cespugli. Qua e là spuntavano i piccoli recipienti colmi di semi che Augusta aveva fissato agli alberi.

Lei era tornata e gli stava accanto, mentre gli uccelli continuavano a volare e a cinguettare.

«Complimenti, Augusta. È il giardino più bello che abbia mai visto.»

«Lascia che ti mostri il panorama dall'altro lato, finché c'è ancora un po' di luce. Tappati il naso, passando dalla porta.»

Fece come gli era stato suggerito, ma la puzza di escrementi e urina era così forte che gli lacrimarono gli occhi. Sentiva lo scricchiolio degli insetti sotto le suole delle scarpe. Mentre Augusta lo guidava facendo luce con una torcia, Charles cercava di evitare le deiezioni sparse sul pavimento.

Non tutti i pipistrelli erano volati via al tramonto. Un paio di occhietti brillavano per la luce riflessa della pila elettrica. Superato un arco al centro della soffitta, un soffio di aria fresca attenuò la puzza. In alto, fra le travi del tetto, si apriva un buco da cui filtrava la luce. Fra due assi rimaste esposte alle intemperie cresceva una pianta di Polypodium: la felce della resurrezione.

Sul pavimento un pipistrello si dibatteva nella polvere, trascinandosi dietro l'ala spezzata.

«Mi chiedo se la gatta è arrivata fin quassù.» Augusta guardò la povera bestia e scosse il capo. «Vedi la banda rossa alla zampa? Questo esemplare fu contrassegnato quindici anni fa. L'inviato governativo avrebbe voluto fare lo stesso con l'intera colonia, ma era talmente maldestro che ne azzoppò parecchi, finché io non lo cacciai di casa.»

Il pipistrello era agli sgoccioli. La ferita che aveva sull'ala sembrava effettivamente causata dalle unghie di un gatto. E se il pipistrello non volava, non poteva nutrirsi.

«Ha un nome?»

«Charles, il giorno in cui mi sentirai chiamare per nome un pipistrello, di' pure in giro che è arrivato il momento di farmi internare.»

«Scusa, intendevo il nome della specie. Vespertilionide? Serotinus

«L'addetto del governo che viene a controllarli li chiama grossi chirotteri o a volte Genus Eptesicus. Io li chiamo cibo per gufi.»

L'anziana signora si era fermata accanto a un'altra finestra rotonda che dominava la città. Su un treppiedi c'era un cannocchiale, mentre sul davanzale era poggiato un quaderno d'appunti aperto su una mappa approssimativa che registrava i siti di tutti i nidi.

Augusta gli indicò una casa vittoriana dall'altro lato del cimitero. Un'ampia striscia terrosa partiva dall'edificio, e Charles la riconobbe come la strada del mistero che costeggiava il Finger Bayou, quella con il cartello dal nome sbiadito.

«Quella è la casa di Cass Shelley.» Spostò il cannocchiale e mise a fuoco. «Ecco, da' un'occhiata.»

Charles appoggiò un occhio all'oculare. Casa Shelley era stata ridipinta di fresco. I cespugli erano stati potati, e i fiori crescevano ordinati nelle aiuole, separate dagli alberi davanti alla facciata da un perimetro di pietre. Non v'era alcun segno di abbandono. Strano, per una proprietà affidata alle cure di Augusta.

Oltre il limite dell'Upland Bayou c'erano le case e i negozi di Dayborn. Augusta indicò un filare di alberi al di là della piazza.

«Vedi quegli alberi frangivento? Segnano il confine di Dayborn e l'inizio di Owltown. È lì che abitano i seguaci della New Church, in prefabbricati e roulotte.»

Charles seguì con gli occhi il suo dito. Un ampio fascio di luci al neon era chiuso all'estremità più distante da un altro bayou.

«Owltown non dorme mai» disse Augusta. «Ventiquattr'ore su ventiquattro si possono comprare liquori e droga. Si gioca d'azzardo fino all'alba. Tutta opera dei Laurie. In quel posto quasi tutti sono imparentati con loro, per nascita o per matrimonio. Non andarci dopo il tramonto, a meno che tu non abbia una pistola.»

«Perché si chiama Owltown?»

«Ha sempre avuto quel nome. Fino a trent'anni fa, l'abitava una folta colonia di gufi di una specie rara. Questo prima che i Laurie prendessero il controllo dell'habitat e deforestassero l'area intorno all'ansa del Lower Bayou per traformarla in una specie di luna-park. Che spreco.»

«Mi par di capire che quella gente non ti vada a genio.»

«Se andassi a Owltown con dei fiammiferi in tasca non so se riuscirei a resistere alla tentazione di dar loro fuoco.» Rimise il cannocchiale al suo posto. «Be', adesso hai visto proprio tutto.»

«Grazie del tour.»

«Non c'è di che, Charles. C'è qualcos'altro che posso fare per te?»

«Mi puoi dire com'è morta Cass Shelley.»

Parve sinceramente sorpresa. «Pensavo che Henry o Betty te lo avessero già detto.»

«Non gliel'ho mai chiesto. Allora, com'è morta la madre di Mallory?»

«Dev'essere accaduto all'esterno della casa. Fu lì che Henry trovò il cane di Kathy. La povera bestia era in fin di vita. Le impronte delle mani insanguinate di Cass macchiavano buona parte del muro. L'erba era bagnata dal suo sangue, trovarono perfino due dei suoi denti. C'erano pietre sparse dappertutto. E sulle pietre altro sangue e brandelli di pelle.»

«Mi stai dicendo che fu lapidata?»


I tratti somatici di Jimmy Simms erano quelli dei Laurie, ma la struttura ossea aveva una delicatezza quasi femminile. E benché avesse compiuto trent'anni, il suo volto non rasato era macchiato qua e là dai fili setosi di una barba adolescenziale.

Da tempo il padre di Jimmy non parlava più con quel suo figliolo incompiuto, e non lo faceva neppure più entrare in casa. Ma durante i lunghi anni di lontananza la madre aveva continuato a passargli gli abiti smessi del padre. Jimmy si arrotolava i calzoni troppo lunghi, ma le scarpe erano così grandi che, nonostante la carta di giornale infilata in punta, zoppicava sempre per via delle vesciche che gli si formavano sui piedi.

Con passo strascicato percorse il sentiero che saliva a Casa Shelley. Il vecchio labrador retriever nero lo riconobbe e sollevò la testa.

Jimmy affondò la mano nella tasca della giacca a vento e tirò fuori un cartoccio. Lo aprì e mostrò al cane gli avanzi del filetto di pesce che aveva appena ripescato dal bidone della spazzatura dietro il Jane's Café, e glieli depose sul terreno davanti al muso.

Da quando il cane aveva perso i denti, e non riusciva più a masticare la carne rossa, Jimmy gli portava cibi più morbidi.

«Babe Laurie è morto» gli comunicò per il quinto giorno consecutivo, convinto che ripetendolo sarebbe riuscito a farsi capire. Si sedette per terra e gli carezzò la testa.

Il cane si limitò ad annusare il pesce poi appoggiò la testa grigia sulle zampe.

Il sole era tramontato e la luce stava sfumando. Jimmy per consuetudine non rimaneva mai fuori di casa con il buio, ma quella sera decise che sarebbe rientrato a casa solo quando fosse sorta la luna.

L'animale si addormentò. Dai suoi lamenti sommessi e dal frenetico contrarsi di una zampa posteriore, Jimmy dedusse che stesse facendo sogni agitati. Poi si svegliò di colpo, sollevò la testa e girò il muso verso l'alto, finché la luna non fu riflessa nei suoi occhi. Jimmy trasalì; sembravano incandescenti.

Con grande sforzo il cane si rizzò sulle zampe. Produsse un suono roco che crebbe fino a divenire un portentoso latrato.

Il vecchio labrador aveva ancora momenti di splendore. Ma presto sarebbe morto e a Jimmy sarebbe mancata molto la sua compagnia.


Il cane credeva che il suo nome fosse una nota alta e prolungata e due fischi brevi emessi dalla bocca di una bimba. Nessuno lo aveva più chiamato con quei suoni da quando la bambina era partita. Lei aveva compiuto l'inimmaginabile. Se ne era andata, lasciandolo lì, ferito e sanguinante. E continuava ad abbandonarlo notte dopo notte, in ogni sogno.

Aprì la bocca ringhiando al giovane che gli stava accanto, fino a quando questo non si alzò e si allontanò zoppicando.

Il cane riprese a lamentarsi, unendo la propria follia a quella di Alma Furgueson, giù a Owltown. Il cane latrava e Alma piangeva. I vicini della donna si sforzavano di non sentire.

Alma cercava di sfuggire alla vista dei sassi lanciati contro la carne, le ossa e i denti di Cass, rincattucciandosi sotto le coperte.

Il vicino più prossimo alla casa di Alma, abituato da molto tempo al lamento della donna, stavolta si tolse dalla testa il cuscino e svegliò la moglie. Rimasero entrambi in ascolto di quel canto di dolore, mai udito con tale forza in precedenza. Pareva quasi che la donna e il cane stessero duettando.


Supina sul letto nella cella del carcere, anche Mallory stava ascoltando. Voltò il viso verso le sbarre che la separavano dal cane.

Alzò un pugno e si accanì sul cuscino fino a strapparlo, seminando piume in giro per la cella. Allontanò le coperte, si alzò, e si diresse alla finestra per sentire meglio quel verso.

Dopo un po', il vecchio labrador, esausto, smise il suo canto. Mallory tornò a dormire, distesa sotto una coperta punteggiata di piume che ricordava l'ala protettrice di un angelo.