"Sigma Draconis" - читать интересную книгу автора (Arnason Eleanor)

Enshi

Seguimmo un nuovo sentiero che risaliva il fiume. Avevamo il sole sempre davanti a noi, o così sembrava, comunque. Stavamo viaggiando verso ovest.

All’incirca a metà pomeriggio prendemmo un’altra pista. Conduceva a nord in una zona di basse colline. Il terreno era sabbioso, gli alberi bassi e stentati. Qui e là incontravamo affioramenti di roccia sabbiosa di un colore giallo e arancione spento. La pista si vedeva a stento: una linea indistinta che si snodava fra le rocce e gli alberi. Finalmente, nel tardo pomeriggio, arrivammo a una capanna fatta di lunghi rami e addossata a una roccia. Sui rami erano stese delle pelli e del fumo usciva da un’apertura. Una ben misera e triste dimora!

Nia si fermò. — Portiamo doni! — gridò.

Una voce profonda rispose: — Andatevene.

— Sono Nia, la lavoratrice del ferro. Vuoi un coltello? Ha una lama tagliente. L’impugnatura è in osso. Un’ottima fattura, secondo me.

Ci fu un lungo silenzio. — Metti giù il coltello. Vattene. Torna quando il sole sarà sparito.

— Sì — rispose Nia. Rovistò nel proprio sacco e tirò fuori un coltello, che posò sul terreno. Poi si voltò e si allontanò. Io la seguii.

Percorremmo soltanto un breve tratto. Nia mise giù il sacco. — È una distanza sufficiente. Lui non può vederci qui. Mi sedetti. — Chi era?

— Non conosco il suo nome.

— È un… — Esitai. Non conoscevo il termine che significava uomo — È ciò che diventa un ragazzo?

— Un uomo. Sì. Chi altri vivrebbe qui da solo? L’ho già incontrato prima d’ora. È più amichevole della maggior parte degli uomini.

— E questo lo chiami essere amichevole?

— Sì. Gli uomini da queste parti non conoscono le buone maniere. Le loro madri li tirano su male, e i vecchi che dovrebbero insegnare loro come comportarsi quando lasciano il villaggio, questi vecchi sono scorbutici e meschini. Non hanno rispetto di se stessi. Questa è comunque la mia opinione.

— Perché gli uomini lasciano il villaggio?

Nia mi fissò a occhi sgranati. — Che genere di domanda è questa?

— Tutti gli uomini lasciano il villaggio?

— Sì. Naturalmente. — Aggrottò la fronte. — Che specie di persona sei? Perché fai una domanda del genere?

Ci pensai su un momento. — Vengo da molto, molto lontano. La mia gente è diversa dalla tua. Non saprei dire quanto diversa. Forse le differenze sono di poco conto, cose superficiali, come la pelliccia che tu hai e io no. Forse sono differenze notevoli. In ogni modo, fra la mia gente uomini e donne vivono insieme.

Nia corrugò di nuovo la fronte. — Ma com’è possibile? Dopo il cambiamento, nessun uomo può sopportare di stare insieme ad altre persone, fuorché nel periodo degli accoppiamenti, naturalmente, e a eccezione di Enshi.

— Enshi? — domandai.

Nia guardò fisso il cielo. — Il sole è quasi sparito. Possiamo tornare indietro.

Tornammo alla capanna. Attraverso le aperture fra le pelli si vedeva brillare la luce di un fuoco. Non vidi nessuno, né dentro né fuori. Il coltello era sparito e al suo posto c’era un canestro pieno di pesce affumicato.

— Questo è buono! — esclamò Nia. — Adesso non moriremo più di fame.

Il canestro aveva un coperchio. Nia glielo mise e lo chiuse, poi ficcò tutto quanto dentro il sacco. — Muoviamoci. Torneremo verso il fiume e troveremo un posto dove accamparci. A quest’individuo non piacerà che restiamo qui.

— È vero — fece la voce profonda. — È un buon coltello, Nia.

Nia lanciò un’occhiata alla capanna. — Il pesce ha un buon odore. Grazie.

Ci allontanammo. Il cielo si fece scuro e comparvero le stelle insieme a una luna: un punto luminoso che saliva rapidamente dall’orizzonte orientale. Ci fermammo in un avvallamento. Nia accese un fuoco e mangiammo un paio di porzioni di pesce. Era oleoso e pieno di lische, con un forte gusto affumicato. Non mi piacque in modo particolare.

— Chi è Enshi? — domandai.

Nia teneva lo sguardo fisso sul fuoco; il suo viso aveva un’espressione triste e meditabonda. Alla fine alzò gli occhi. — Ho composto una poesia su Enshi quando mi trovavo da queste parti ormai da un anno. Dice così:


"Io mi trovo in questo luogo buio,

questa foresta.


"Lui si trova in quel luogo buio,

quella tomba."


— È morto?

Nia fece il gesto dell’affermazione. — Non voglio parlare di lui. I vostri uomini vivono davvero insieme alle donne?

— Sì.

— È una cosa molto strana. È giusto?

La parola che aveva usato aveva diversi significati: "consueto", "ben fatto", "morale".

— Noi pensiamo di sì. Siamo sempre vissuti in questo modo.

Nia emise un suono scoppiettante. — Se Hakht lo sapesse, avrebbe la certezza che tu sei un demonio. Naturalmente, la sua gente fa parecchie cose che non sono giuste.

— Che cosa? — domandai.

Nia aggrottò la fronte, poi si grattò il naso. — A loro non piacciono gli uomini, neppure i propri figli. "Un figlio è una bocca", dichiarano. Intendono dire che un figlio è qualcosa che mangia cibo, fa baccano e non combina niente di utile.

— Ah! — osservai.

Nia fece il gesto dell’approvazione. — È una cosa molto scorretta. Ma c’è dell’altro… — Esitò. — A loro non va di accoppiarsi con gli uomini. Spesso in primavera si allontanano dal villaggo, due donne insieme. Se ne stanno nella foresta. Fanno cose con le mani. — Nia rabbrividì. — La tua gente fa delle cose del genere?

— Alcuni di noi sì. Io no.

— Credi che sia giusto?

Ci pensai su un momento. — È comune. Non credo che sia sbagliato. — Usai una parola che significava "insolito", "immorale", "mal fatto", o "fatto in modo gravemente insensato".

Nia rabbrividì di nuovo. — Io l’ho fatto una volta. Yohai continuava a chiedermelo. Una primavera sono andata con lei. Non so perché. Non mi è piaciuto. Ho provato un senso di vergogna. Aiya! - S’interruppe per un momento. — Quanto vorrei che avessimo qualcosa da bere.

Il giorno seguente facemmo ritorno al fiume e continuammo a seguirlo, dirette verso ovest. Il territorio era pianeggiante e coperto di foreste. Non c’era una nuvola nel cielo e il fiume scintillava. Creature simili a uccelli svolazzavano da un albero all’altro e altre cose, che non riuscivo a vedere, si aggiravano nel sottobosco. Ne scorsi una che ci attraversò il sentiero: un guscio bronzeo lungo più o meno mezzo metro con sotto parecchie piccole zampe che si muovevano rapide. Dalla parte superiore sporgevano due enormi occhi sfaccettati.

— Che cos’è? — chiesi mentre l’animale spariva.

— È chiamato wahakh - rispose Nia. — Può vivere sia nell’acqua sia fuori. La gente di qui sostiene che porti messaggi degli spiriti e qualche volta faccia da guida alle donne impegnate in viaggi dello spirito. Non lo mangiano mai, sebbene sia delizioso cotto arrosto. — Fece una pausa. — Lo lasceremo in pace.

Verso sera arrivammo a un lago. L’acqua era limpida e di un verde scuro. Lungo i bordi crescevano giunchi.

Nia si guardò attorno. — Sono stata qui prima d’ora, quando sono venuta a est, dopo aver lasciato il mio popolo. Ricordo che questo posto mi faceva venire in mente un lago della mia terra. Il Grande Lago dei Giunchi. Questo è più piccolo, naturalmente. Aiya! Come passano gli anni!

Ci accampammo. Nia trascorse la sera con lo sguardo fisso sul fuoco. Io mi allontanai, chiamai Eddie e gli riferii quello che era successo in quegli ultimi giorni.

— Tu corri dei rischi, non è vero? — disse lui.

— Qualcuno. Non molti.

— Quella pazza di una sciamana potrebbe aver deciso di ucciderti.

— Non credo che sia probabile. Ho la sensazione che queste persone non siano violente.

— Aha! Vallo a raccontare a Derek.

— Che cos’è successo?

— Ha deciso che doveva rivelare alla gente del suo villaggio che era un uomo, per vedere che cosa sarebbe successo. Ricorderai che è estremamente curioso. Hanno cercato di lapidarlo. Ha afferrato la sua radio ed è scappato.

— Sta bene?

— Sì. Ma che cosa sarebbe accaduto a qualcun altro, qualcuno che non fosse stato in grado di correre come lui?

Ci pensai per un po’. Derek era alto e biondo e veniva dalla California meridionale, un aborigeno che aveva trascorso l’infanzia viaggiando a piedi nel deserto. Quando aveva 15 anni, c’era stata una siccità. Lui era arrivato a una base commerciale sulla costa e aveva detto: "Sono stanco di vivere così. Insegnatemi qualcos’altro".

Lo mandarono a scuola e lui si dedicò alla corsa come attività sportiva. Era bravo sulle distanze brevi. Sulle lunghe distanze era imbattibile.

— Dov’è adesso? Sulla nave?

— No. Si sta dirigendo verso ovest. La regione, a quanto dice, è piacevole. Colline ondulate, foreste, qualche prateria. C’è selvaggina in abbondanza, assai più che in California. Ha intenzione di costruirsi un arco.

Un insetto mi svolazzò accanto. Cercai di colpirlo e lo mancai. — Come sta Gregory?

— Bene. Ma dice che la sua gente lo tratta in modo diverso. Gli parlano adagio e in tono risoluto e gli danno un sacco di ordini. Ordini molto semplici. È convinto che abbiano stabilito che non è molto intelligente. Quale altra spiegazione potrebbe esserci? Non conosce il comportamento corretto e non è in grado di badare a se stesso.

Sorrisi.

— Un’altra cosa — disse Eddie.

Aha, pensai. Il lavoro per oggi. — Di che si tratta?

— Gregory sostiene che dev’esserci dell’oro nelle montagne. La sua gente porta un sacco di gioielli, e per lo più sono in oro.

— Che cosa c’è di tanto interessante in questo?

— I planetologi pensano che possa essere rilevante. Il pianeta ha una densità maggiore della terra e ci sono abbondanti prove di attività vulcanica. A quanto dicono, ci sono buone probabilità di trovare metallo in prossimità della superficie. Non soltanto oro, ma argento, platino, stagno, iridio, cromo, per nominarne alcuni. — La sua voce aveva un suono particolare: piatto e attento.

— Che cosa sta succedendo?

— Quassù incominciano a mostrare interesse. Soprattutto i membri dell’equipaggio. Non credo che abbiano abbastanza da fare. Parlano di possibilità. Se qui c’è il metallo, se è di ottima qualità, se è vicino alla superficie, forse addirittura in superficie, allora lo si potrebbe estrarre.

Mi dondolai all’indietro sui calcagni e guardai la radio. Naturalmente non potevo vederla davvero. La notte era troppo buia. — Una colonia mineraria? A diciotto anni luce da casa? Hanno idea di quanto costerebbe il trasporto?

— Stanno pensando a un centro industriale. Una colonia per costruire navi.

— A nessuno verrà mai in mente di costruire una nave in fondo a un pozzo di gravità, a meno che tu non stia parlando del genere di nave che viaggia sull’acqua, e non credo che sia così.

— L’assemblaggio finale verrebbe fatto nello spazio.

— Mmm! — dissi.

— Ci sono dei problemi — continuò Eddie. — Tutti riconoscono che ci sono parecchie difficoltà, ma non smettono di parlarne. Sono assolutamente affascinati dall’idea di tutto quel metallo.

La cosa non era affatto sorprendente. I nostri antenati si erano dati da fare sulla Terra. La maggior parte del metallo, del carbone e del petrolio che era facile raggiungere era esaurita, così come altre risorse. Buona parte dell’acqua. Buona parte del suolo. Centinaia, no, migliaia di specie di piante e animali.

Eddie proseguì. — Stavo pensando a Cortés e a ciò che accadde quando scoprì l’oro nel Messico.

— Ti preoccupi troppo.

— Uuh. Scommetto che è ciò che Montezuma disse ai suoi consiglieri.

Mi fregai gli occhi e mi sforzai di pensare. Ero sfinita. — Eddie, devo dormire.

— È notte lì giù da te? Immagino di sì. Sogni d’oro, Lixia.

Tornai all’accampamento e mi coricai. Nel cielo sopra di me brillavano le stelle. Da qualche parte lassù c’era un satellite ripetitore e molto più lontano, verso sud, oltre il centro dell’oceano, c’era la nave interstellare Number One. La vedevo con l’immaginazione, girare alla luce del pianeta principale di questo sistema, con solo un lieve luccichio: un enorme pezzo di idruro di litio a forma di sigaro. La superficie era butterata e scolorita. Più di metà della massa si era consumata. L’idruro di litio era stato il nostro combustibile oltre che la nostra protezione principale contro le radiazioni.

A un’estremità del sigaro c’era una serie di serpentine di metallo e ceramica. Erano i magneti che contenevano e controllavano la reazione della fusione che faceva funzionare la nave. L’altra estremità era vuota. Quando avevamo lasciato la Terra c’era stato un ombrello fatto di cermet, protezione aggiuntiva contro la minuscola quantità di materia fra le stelle. Avevamo lasciato cadere l’ombrello quando ci eravamo girati. Da quel punto in avanti, era il motore ad agire da protezione, bruciando qualunque frammento di detriti spaziali potesse trovarsi davanti a noi e riducendolo in vapori ionici, che i magneti allontanavano.

Tutto qui: un sigaro di un bianco sporco e una serie di anelli, neri, marrone chiaro e grigi. Gli alloggiamenti erano invisibili, nascosti al centro del sigaro: un cilindro fatto di ceramica, rivestito di sale.

Era quella la parte della nave che conoscevo: i locali e i corridoi rivestiti internamente di piastrelle, che davano alla nave uno dei suoi numerosi soprannomi: il mio preferito, il Clipper di Porcellana.

Naturalmente non aveva vele. Quell’idea era stata abbandonata fin dall’inizio. E non c’era molta porcellana a bordo. Il materiale delle pareti mi ricordava la terracotta. Era opaco e un po’ ruvido, di un colore arancione chiaro. In alcuni punti era smaltato a vetro, di solito bianco e blu.

Era un ottimo materiale: leggero, forte e durevole, immune dalla corrosione, resistente al calore e un eccellente isolante. Eddie era un fanatico. Non eravamo andati fra le stelle in un barattolo di latta. Eravamo andati in qualcosa fatto di argilla e di sale. C’era abbondanza di entrambi nel posto dal quale venivamo. Non avevamo bisogno del metallo su questo pianeta.

Nei tre giorni successivi io e Nia proseguimmo sempre verso ovest. La terra saliva. Ci addentrammo in un canyon. Sul fondo c’era un corso d’acqua stretto e poco profondo. In primavera doveva essere un fiume notevole, poiché scorreva al centro di un ampio letto. Perfino ora l’acqua si muoveva rapida e, qua e là, era striata di schiuma.

Su entrambi i lati s’innalzavano pareti rocciose. Erano di un grigio scuro e screziate da qualcosa che luccicava alla luce del sole. Era forse mica?

Vidi una nuova specie di animale. Era minuscolo e di un color grigio scuro, lo stesso delle scogliere. La sua pelle, o il guscio, luccicava come se fosse screziato di mica. Quasi ovunque nel canyon l’animale sembrava essere raro, ma in un tratto c’erano centinaia di quelle piccole creature. Immobili, erano invisibili. Le vedevo quando si muovevano, guizzando via da sotto i miei piedi e correndo su per una qualche roccia per allontanarsi da me. Pareva quasi che frammenti di roccia prendessero vita, trasformandosi in… cosa? Lucertole? Non esattamente. Per prima cosa avevano sei zampe. Sulla Terra questo ne avrebbe fatto degli insetti. Ma non somigliavano a insetti e inoltre, a quanto pareva, gli insetti di questo pianeta avevano almeno otto zampe.

— Non so che cosa siano — disse Nia. — E non so perché ce ne siano tanti. Questo non è il mio territorio. Fammi domande quando arriviamo nell’aperta pianura.

Feci il gesto dell’intesa.

Il terzo giorno, sul tardi, Nia disse: — C’è una persona che ci segue.

— Che cosa? — Mi voltai a guardare indietro.

Il canyon era in ombra e non riuscivo a vedere lontano, ma per quello che potevo vedere il sentiero era deserto.

Nia mi afferrò per il braccio e tirò con forza. — Continua a camminare. Non fargli capire che sappiamo.

Proseguimmo arrancando.

— L’ho visto due volte oggi, questa mattina e poco tempo fa. Se ha intenzione di fare del male, agirà questa notte.

— Male? — domandai.

— Ci sono uomini che escono di senno. Diventano violenti. Aggrediscono altre persone.

— Perché?

— Non lo so. Ma alcuni uomini, quando passano attraverso il cambiamento, diventano come animali. Non riescono a controllarsi. E ci sono altri uomini che sono buoni finché non invecchiano. Allora diventano deboli, non riescono a procurarsi donne e questo li rende furiosi. Ne ho incontrato uno del genere. Non attaccano gruppi numerosi di donne, ma se una persona viaggia da sola o in gruppetti di due o tre… è come andare in cerca di guai! — Mi lanciò un’occhiata. — Dobbiamo trovare un posto per accamparci.

Proseguimmo finché non arrivammo in un punto dove il fondo del canyon si allargava più del normale. Il torrente si apriva. All’altra estremità la parete del canyon era accidentata. C’erano fenditure ed enormi massi neri. Una cascata precipitava fra le rocce e c’era della vegetazione: arbusti e qualche alberello.

— Ci accamperemo sull’altra sponda del fiume — disse Nia. Si tolse i sandali e li prese in mano.

La seguii fino alla riva del corso d’acqua. Lei lanciò un’occhiata indietro, con noncuranza. — Adesso è vicino. È convinto che l’oscurità lo nasconda, ma io ho buoni occhi.

Entrò sguazzando nell’acqua e io la seguii. Come promesso dagli addetti all’approvvigionamento, i miei stivali erano impermeabili.

A metà del fiume l’acqua si fece più profonda. Nia affondò fino alle ginocchia. Mi fermai e riflettei su cosa fare. Non potevo togliermi gli stivali lì dov’ero e non mi andava l’idea di tornare indietro per la strada da cui ero venuta. Il sole era tramontato e il canyon era ormai quasi avvolto nell’oscurità. Da qualche parte, fra le ombre, si nascondeva l’uomo. Non avevo alcuna voglia di imbattermi in lui, soprattutto da sola. Andai avanti. Gli stivali mi si riempirono d’acqua.

Nia era già arrivata sull’altra sponda. Si chinò e si strofinò la pelliccia delle gambe, poi pestò i piedi. Mi inerpicai sulla riva accanto a lei e mi tolsi gli stivali, capovolgendoli. L’acqua si riversò in grande quantità.

Nia fece un balzo. — Non addosso a me, idiota! Mi sono appena asciugata la pelliccia!

— Mi dispiace. — Mi tolsi i calzini e li strizzai. — E adesso che cosa facciamo?

— Ci accamperemo qui. — Indicò con un cenno della mano i massi precipitati al suolo. — L’uomo dovrà avvicinarsi per vederci. Ho intenzione di restare in attesa.

Fra le rocce c’era un avvallamento, uno spazio sgombro. Mettemmo giù il nostro bagaglio. Alle ultime luci del giorno raccogliemmo della legna.

— Ora — disse sottovoce Nia — tu accendi il fuoco. Ma non prima che te lo dica io.

Mentre mi davo da fare, la sentivo muoversi vicino a me, invisibile nell’oscurità fra le rocce. Il rumore che faceva cessò. Restai in ascolto. Un uccello zufolò e riuscivo a sentire il rumore della corrente. Nient’altro.

Alle mie spalle risuonò una voce: — Accendi il fuoco.

Tirai fuori l’accendino. Le foglie secche presero immediatamente fuoco. Fiamme gialle guizzarono attorno ai rami. Riuscivo a vedere. Sull’altro lato dell’avvallamento c’era il sacco di Nia e qualcosa che somigliava a una persona che giaceva lunga distesa sul terreno, avvolta in un mantello o in una coperta. Ma avevo sentito la voce di Nia alle mie spalle. Ne ero sicura. Qualunque cosa ci fosse sotto quel mantello, non era la mia compagna.

— Ti sei già messa a dormire? — dissi. — Va bene. Buonanotte. — Misi un altro ramo sul fuoco. Avevo sete, ma era troppa la paura per andare fino al fiume. Pensai di mangiare. Il pane era secco e il pesce salato. Se avessi mangiato l’uno o l’altro, avrei avuto ancora più sete. In ogni caso, il mio stomaco era in subbuglio.

Il fuoco si affievolì. Aggiunsi altri rami. Avevo la sensazione che qualcuno mi stesse osservando. La pelle della schiena mi formicolava e incominciavo a sudare. Mi alzai e mi stiracchiai, poi mi guardai attorno con noncuranza. Non si vedeva niente, a parte un mucchio di pietre. Mi sedetti. Un sasso sbatacchiò. Balzai di nuovo in piedi. Che cos’era stato? Restai in ascolto, ma non sentii niente.

Tornai a sedermi. Dopo un minuto mi misi a fare i miei esercizi di respirazione. Inspirai e pensai alla sillaba so. Espirai e pensai alla sillaba hum. Pian piano mi rilassai. Mi resi conto che era una bellissima notte. L’aria era fresca e secca. Il cielo era limpido e le stelle splendevano luminose. Oltre il limitare del canyon stava sorgendo una luna: un punto di luce rossastra. Continuai a respirare in modo lento e profondo. So. Hum. So. Hum.

Un grido! Balzai in piedi, guardandomi attorno. Qualcosa si mosse dietro un masso. Afferrai la mia ascia e corsi.

Due corpi lottavano nell’oscurità. Erano entrambi scuri, entrambi pelosi. Non riuscivo a distinguerli l’uno dall’altro. Rotolarono fuori dall’ombra piombando nel campo di luce del fuoco. Vidi levarsi una mano che teneva un coltello. Attorno al polso aveva un alto bracciale di rame. Nia non portava gioielli. Sollevai l’ascia e la feci roteare, abbattendo la parte piatta contro il braccio dell’individuo. Ci fu un gemito. La mano si aprì. Il coltello cadde. Indietreggiai.

I due ruzzolarono di nuovo, finendo quasi nel fuoco. Nia era in cima. In una mano teneva un martello mentre con l’altra cercava di afferrare la gola dell’uomo. Lui le agguantò la tunica con entrambe le mani, poi inarcò la schiena e si sollevò. Nia venne scagliata verso l’alto. Era a mezz’aria. Non riuscivo a crederlo. Come poteva essere tanto forte? Nia atterrò nel fuoco. Volarono scintille. I rami in fiamme si sparpagliarono per il terreno. Nia strillò.

L’uomo si drizzò di scatto e afferrò un ramo. Era in fiamme da un’estremità all’altra. Come faceva a tenerlo in mano? Era pazzo? Si diresse verso di me. La sua espressione era senza dubbio quella di un folle. Gli occhi guardavano fissamente e la bocca era spalancata. Ululava.

Sollevai la mia ascia. Lui roteò il ramo. Bloccai il colpo. Sentii la scossa lungo il braccio dal polso alla spalla. L’uomo arretrò e sollevò di nuovo il ramo. Stava ancora bruciando e l’uomo continuava a ululare.

Il ramo si abbatté, ma lo bloccai di nuovo. L’uomo lo lasciò andare. Il ramo cadde fiammeggiando e lui afferrò il manico della mia ascia, torcendo e tirando con violenza. Persi la presa.

Lui fece roteare l’ascia in un unico, rapido movimento, e la sollevò sopra la testa. Faceva un verso simile a un segnale di evacuazione, un grido acuto e uniforme.

Non c’era il tempo di sottrarsi. Aveva raggiunto il massimo dello slancio. La lama dell’ascia balenò. Sentii in bocca il gusto della bile.

Il grido s’interruppe di colpo, l’uomo grugnì e poi, con un’espressione sorpresa, si accasciò.

Nia era ritta dietro l’uomo: una sagoma scura contro la luce del fuoco sparpagliato. Teneva ancora in mano il martello.

Tirai un respiro profondo.

Lei domandò: — In che condizioni è? Ho colpito più forte che ho potuto.

Mi inginocchiai e gli tastai la gola. Non c’erano pulsazioni. Era normale? Non ne avevo idea. Gli misi la mano sulla bocca; non c’era respiro. — Dove l’hai colpito?

— Alla testa. Con questo. — Sollevò il martello.

Gli tastai la parte posteriore del capo e trovai un punto dove c’era una rientranza nel cranio. Tirai indietro la mano. Avevo del sangue sulle dita e anche qualcos’altro: un oggetto, attaccato alla punta del mio dito medio. Era duro e triangolare, con i bordi ruvidi. Non ero in grado di vedere il colore, ma ero quasi certa di sapere di che cosa si trattava. Un frammento d’osso. Mi ripulii la mano sul gonnellino dell’uomo, poi guardai Nia. — Credo che tu l’abbia ucciso.

— Aiya! Un altro. — Lasciò cadere il martello e si massaggiò la faccia. — Devo sedermi.

Mi alzai e le tesi una mano. Lei crollò contro di me. L’afferrai, ma era troppo pesante. Non riuscivo a tenerla diritta. Caddi e piombai sull’uomo morto, e Nia mi rovinò addosso.

Dannazione!

— Nia? — Lei non rispose. Spingendo e contorcendomi, riuscii a liberarmi dai due corpi pelosi, mi alzai in piedi e rigirai Nia. Non fu una cosa facile. Il suo corpo era floscio. Un peso morto.

Le tastai la gola. Ah! C’erano pulsazioni, forti e regolari, forse un po’ frequenti. Non potevo esserne sicura. Mi avvicinai al fuoco, trovai un ramo che bruciava ancora e me lo portai dietro. Che cosa c’era che non andava? La tunica di Nia era stracciata e uno dei bordi strappati bruciava ancora senza fiamma, ma non vidi altri segni di bruciature. Mi inginocchiai e le esaminai le mani. Un palmo era gonfio. Forse quella era una bruciatura. Toccai il palmo. Nia trasalì ed emise un gemito.

— Sei sveglia?

Lei batté le palpebre.

— Dove ti fa male?

Nia corrugò la fronte. — La mano e la gamba.

Le tastai le gambe. Non c’era sangue. Non trovai ferite.

— La caviglia — disse.

Le toccai la caviglia sinistra. Lei trasalì di nuovo. La premetti. Nia si lamentò. Qualcosa non andava in quel punto. Ma che cosa? Come facevo a capire se c’era qualcosa di rotto o fuori posto? Non sapevo come dovesse essere al tatto una caviglia. Non su quel pianeta. Non la caviglia di un’aliena. Riflettei un momento. C’era sempre una simmetria bilaterale. Esaminai la caviglia destra, poi tornai a controllare la sinistra.

— Sembrano uguali al tatto.

Nia si accigliò. — A te. Non a me. Su che cosa sono sdraiata?

— Sull’uomo.

— Aiya! - Si sollevò su un gomito. — Aiutami.

— Non voglio che tu ti muova.

— E io non voglio stare sdraiata su un cadavere.

Corrugai la fronte, cercando di ricordare le mie cognizioni di pronto soccorso. Sarebbe stato giusto muoverla? Facevo fatica a concentrarmi, forse perché avevo appena contribuito a uccidere qualcuno e il corpo si trovava proprio di fronte a me.

Nia si stava sforzando di mettersi seduta. Misi giù la mia torcia elettrica e l’aiutai a sollevarsi dal morto. — La tua schiena è a posto? — m’informai. — Ti sei fatta male da qualche altra parte? Senti qualche altro dolore?

— Te l’ho detto. Alla mano e alla gamba. Nient’altro. Credo che mi sdraierò.

La feci coricare al suolo con cautela. Lei giacque lunga distesa accanto al morto. Mi alzai e afferrai l’uomo per le braccia. Era pesante, molto più pesante di Nia, e completamente floscio. Riuscii a tirarlo per circa un metro, poi rinunciai e lo lasciai andare. Le sue braccia colpirono il suolo con un tonfo sordo. — Questo è tutto. Se ne resta lì.

— Non mi sento bene — si lamentò Nia.

Non pensavo che avesse una gamba spezzata, ma non ne ero certa. Meglio applicare una stecca, e procurarmi dell’acqua fredda per la mano. E un mantello. Poteva benissimo trattarsi di un collasso.

— Avrò bisogno della tua pentola per cucinare.

— Prendila. Che uomo forte! Ho fatto un errore. Pensavo che fosse vecchio o molto giovane. Non sono intelligente come mi ritenevo.

Presi il suo mantello e la coprii, poi andai al fiume con la pentola per cucinare, la riempii d’acqua e la riportai indietro. — Mettici dentro la mano. Farà bene alla bruciatura. Io riaccendo il fuoco.

Nia fece il gesto dell’assenso. Andai a raccogliere legna. Quando il fuoco si fu ravvivato, preparai una stecca. Avevo una fasciatura elastica nella mia cassetta del pronto soccorso. Come imbottitura usai la mia maglietta e un paio di calzini di ricambio.

— Spero che sia una cosa temporanea — dissi. — Ho bisogno di quei calzini. Come va la mano?

— Meglio, ma ora mi fa male la spalla.

Tirai indietro il mantello. La pelliccia su una spalla era arruffata. La toccai e mi guardai la mano. Le dita erano rosse. — Un’altra ferita. Quell’individuo ti ha conciata ben bene.

— Ho capito quando l’ho visto che ero nei pasticci. Ma era troppo tardi per cambiare il mio piano. È una brutta ferita?

Presi un pezzo di garza e pulii dal sangue la ferita. — È un’incisione. Deve averti raggiunta con la punta del coltello. — Esaminai il contenuto della mia cassetta del pronto soccorso. Che cosa potevo usare che non fosse pericoloso? Nia non era umana. Non avevo idea di come avrebbe reagito a un qualunque farmaco umano.

Ebbi brevi e terribili fantasie su reazioni allergiche, reazioni tossiche, collasso e morte.

Ma la ferita andava protetta. Non pensavo che una fasciatura potesse essere in alcun modo dannosa.

Tirai fuori il barattolo. — Questo brucerà soltanto un pochino. — Schiacciai il pulsante.

— Aiya! - esclamò Nia.

La ferita sparì. Al suo posto c’era una piccola pezza scura di plastica. La pezza era grumosa e da sotto sporgevano ciuffi di peli, ricoperti da uno strato di plastica. Idiota! mi dissi. Avrei dovuto radere la zona attorno alla ferita. Be’, non l’avevo fatto, e ormai la cosa migliore da fare era di lasciare in pace la ferita. Mi dondolai all’indietro sui talloni. — Qualcos’altro?

— No. — Nia tirò fuori la mano dalla pentola, poi fece una smorfia. — Questa fa ancora male.

— Vado a prendere altra acqua.

Mi recai al fiume, riempii di nuovo la pentola e la portai indietro. Nia vi immerse la mano. I suoi occhi erano quasi chiusi. Ebbi l’impressione che fosse sfinita. Le rimboccai il mantello attorno al corpo.

— Grazie. — Aveva la voce assonnata. Chiuse gli occhi.

Misi altra legna sul fuoco, poi tirai fuori il poncho dal mio zaino. Era leggero e impermeabile con un rivestimento interno termico rimovibile. Decisi di non togliere la fodera. Invece mi avvolsi nel poncho, mi coricai e mi addormentai.

Mi svegliai più tardi, sentendo freddo. Il fuoco si era quasi spento. Mi alzai e misi dei rami sui tizzoni. Subito guizzarono le fiamme. Com’era silenzioso il canyon! Sentivo il rumore dell’acqua, ma nient’altro. Nel cielo sopra di me splendevano le stelle. Riconobbi l’Orsa Maggiore. Era come me la ricordavo, forse un po’ più luminosa. Dipendeva di certo dall’aria del canyon, che era secca ed estremamente limpida.

Mi avvicinai a Nia. Aveva ancora la mano nella pentola e c’era un’espressione di dolore sulla sua faccia. Ma stava dormendo e respirava in modo lento e regolare.

Le controllai la gamba. Il gonfiore si era arrestato. La fasciatura non era stretta. Nia si lamentò quando la toccai, ma non si svegliò. Tornai vicino al mio zaino e tirai fuori la radio.

Questa volta trovai Antonio Nybo. Un altro nordamericano. Ce n’erano parecchi nel team di sociologi, forse perché c’erano tante società diverse nell’America del Nord. Tony veniva da qualche parte della Confederazione degli Stati Spagnoli. In quel momento non riuscivo a ricordare esattamente dove. Non la Florida. Forse il Texas. O Chicago. Gran parte del suo lavoro era stato fatto nella California meridionale, studiando gli agricoltori ispano-americani che stavano tornando nel deserto californiano e interagivano, non sempre in modo facile, con gli aborigeni.

— Lixia! Come stai? — La sua voce era gaia e piacevole, con un leggero accento.

— Ho avuto una giornata interessante. — Gli raccontai l’accaduto, poi aggiunsi: — Ora arriviamo al problema. Non credo che la gamba sia rotta, ma non ne sono sicura. C’è un modo di scoprirlo anche senza un’esplorazione?

— Chiederò al team medico. Va bene se ti richiamo?

— Sì.

Concluse la trasmissione. Io mi alzai e mi stiracchiai, poi mi toccai cinque volte le dita dei piedi. Il mio stomaco gorgogliava e mi ricordai che non avevo cenato. Presi un pezzo di pane. Era stantio. Lo gustai comunque.

La radio emise un suono. L’accesi.

— Per prima cosa dicono che hanno bisogno di ulteriori informazioni. — Riuscivo a sentire la nota divertita nella voce di Antonio. — Dicono anche che una frattura dovrebbe provocare un’emorragia maggiore… di una distorsione, voglio dire. E un’emorragia produce lividi, di solito. O hanno detto "spesso"? In ogni caso, se nei prossimi tre giorni il suo piede diventerà nero e blu, può darsi che abbia una frattura. Ma anche una brutta distorsione può produrre dei lividi.

— Che cosa mi stai dicendo?

— Il solo modo di esserne certi è di fare un’esplorazione. I medici propongono di venire giù con la necessaria attrezzatura.

— Oh.

— Pensano che dovrebbero venire — disse Tony a bassa voce. — E a loro piacerebbe, piacerebbe terribilmente, mettere le mani su un nativo. È interessante ciò che si scopre quando si fa una domanda apparentemente semplice. Gli alieni non sono abbastanza alieni.

— Che cosa?

— Non mi riferisco al livello cellulare. In quello dobbiamo presumere che siano come il resto della vita sul pianeta. I biologi sostengono che è fuori di dubbio che gli organismi che hanno esaminato siano alieni e appartengano a una diversa linea evolutiva. È per questo che sono in grado di affermare, con tanta fiducia, che non possiamo prenderci le malattie locali. E non possiamo neppure contagiare le nostre malattie a nessun essere di questo pianeta. — Antonio fece una pausa. — Forse ti interesserà sapere che Eddie ha chiesto al team medico di controllare due volte questo fatto.

— Perché?

— Un’indigena è morta subito dopo che sei arrivata al tuo villaggio.

— Ho spiegato a Eddie di che cos’è morta la donna. Vecchiaia, veleno o magia. Non c’è stato niente di innaturale nella sua morte.

Antonio rise. — Eddie era preoccupato dei batteri inseriti nel tuo intestino. Quelli destinati a metabolizzare gli alimenti locali. Il team biologico l’ha negato categoricamente. I batteri non possono vivere al di fuori di un umano. Il team biologico si è offeso e ha parlato di gente che si muove al di fuori della propria area di competenza, soprattutto gente delle scienze sociali che, come tutti sanno, non sono scienze reali come la biologia e la chimica.

— Ohi.

— Il problema non è al livello cellulare. È il fatto che gli indigeni somigliano a noi. E non dovrebbero, secondo tutte le migliori teorie. Dovremmo avere a che fare con aragoste intelligenti o alberi parlanti.

"Secondo il team biologico, i nativi sono un esempio di evoluzione parallela, come la tigre marsupiale dai denti a sciabola del Sud America. Ma nessuno è davvero soddisfatto di questa spiegazione. Abbiamo bisogno di altre informazioni. Quelli del team medico vogliono dei campioni di tessuto, e vogliono sapere che cosa succede ai livelli intermedi, fra l’intero organismo che somiglia a noi e la biochimica che è quasi certamente aliena. Come sono gli organi? I muscoli e lo scheletro? Il sistema endocrino? La chimica del cervello? In breve, vogliono entrare in un indigeno e dare una gran buona occhiata attorno. Intendo riferire la cosa al comitato per l’amministrazione giornaliera."

— Okay.

— Nel frattempo, i medici dicono di trattare la ferita come una frattura.

— Okay. — Spensi la radio.

— Li-sa?

Era Nia. Le lanciai un’occhiata. Se ne stava sollevata su un gomito e mi fissava. I suoi occhi riflettevano la luce del fuoco. Brillavano come oro.

— Sì.

— C’è un demonio in quella scatola?

Diedi un colpetto alla radio. — Questa?

Nia fece il gesto dell’affermazione.

— No.

— Allora come fa a parlare?

— Un’ottima domanda. — Ci pensai per un momento. — È un modo con cui le persone possono parlare quando sono lontane fra di loro. Il mio amico ha una scatola come questa. Quando vi parla dentro, la sua voce esce da qui. — Tocccai di nuovo la radio. — Io posso rispondere parlando dentro la mia scatola.

Nia corrugò la fronte. — Fra il Popolo del Rame, il popolo di Nahusai, ci sono canti di richiamo. Quando Nahusai voleva qualcosa, pioggia o sole o uno spirito, faceva un disegno che raffigurava la cosa che voleva. Poi cantava al disegno. La cosa che voleva avrebbe sentito il suo canto e sarebbe venuta. Questo è quanto mi ha detto, in ogni modo.

Feci il gesto del dissenso. — Questa non è una cerimonia. È un utensile, come il tuo martello.

— Hakht non ci crederebbe.

— Che cosa ne sa?

Nia emise un suono iroso. — Questo è vero. Bene, allora, la scatola è un utensile, anche se è un genere di utensile che non ho mai visto prima. Non ho mai sentito neppure parlare di un attrezzo come quello. — Fece una pausa. — Sembra utile. Ora torno a dormire.

Al mattino mi svegliai prima di Nia. Il cielo era limpido e la luce del sole illuminava l’orlo del canyon. Andai fra le rocce e feci i miei bisogni, poi mi recai al fiume e mi lavai. Nel tornare passai accanto all’uomo morto. Era disteso sulla schiena, le braccia tese sopra la testa. Era grande e grosso, non alto, ma robusto e muscoloso, con una pelliccia lunga e ispida. Il suo gonnellino era marrone con ricami color arancione, e la sua cintura aveva una fibbia di rame.

Aveva la bocca spalancata. Gli vidi i denti, che erano gialli, e la lingua, che era spessa e scura. Gli occhi, anch’essi aperti, avevano l’iride color arancione.

Mi resi conto che avrei dovuto seppellirlo. Gli insetti si stavano già ammassando. Maledizione. Non avevo neppure un badile. Lanciai un’occhiata a Nia. Dormiva ancora. Mi chinai, afferrai una pietra e la deposi accanto al corpo. Puzzava di urina. Povero stupido. Che modo di andarsene! Ma c’era un bel modo? Andai a prendere altre pietre.

Gli insetti mi ronzavano attorno. Le nuvole si spostavano lente nello stretto cielo. Erano piccole e rotonde come batuffoli di cotone. Incominciava a farmi male la schiena. Mi scorticai una mano sul bordo ruvido di una pietra. La ferita non era grave. Non sanguinava nemmeno, ma bruciava.

Finalmente l’uomo sparì, nascosto dalle pietre. Era sufficiente. Non era necessario che gli facessi un tumulo. Mi raddrizzai. Ormai le nuvole erano scomparse e la luce del sole penetrava obliqua nel canyon. Nia si stava tirando su a sedere.

— Bene — disse. — Il suo spirito dovrebbe avere una casa. Altrimenti il vento lo prenderà e lo trasporterà in giro per il cielo. Nessuno merita un tale destino.

— C’è qualche cerimonia che bisognerebbe celebrare?

— No. Se ci fosse qui una sciamana, canterebbe. Questo scaccerebbe la malasorte. Ma non so le parole giuste e neppure che cosa bruciare nel fuoco. — Aggrottò la fronte e si grattò il naso. — Dovrei fare qualcosa. Gli darò un coltello. Un dono d’addio.

— D’accordo — dissi.

Facemmo colazione, poi fasciai la mano di Nia. Non parlammo molto. Nia aveva l’aria stanca e io mi ritrovai a pensare all’uomo morto sotto il mucchio di pietre.

All’incirca a metà mattina la mia radio ronzò.

— La tua scatola — disse Nia. — Vuole parlare con te.

Accesi la radio. — Sì?

— Lixia? Sono Antonio. Ho parlato con il comitato per l’amministrazione giornaliera.

— Sì?

— Hanno votato per il no. E poi hanno deciso che questo non era un problema amministrativo. Era una questione di politica. Io non ero presente alla riunione, ma dev’esserci stato qualcuno del comitato che si è irritato per il voto e ha sollevato la questione della politica per avere un’altra opportunità.

Assentii col capo alla radio.

— Così la questione è stata rimessa al comitato rappresentativo dell’intera nave. Abbiamo fatto la riunione. Una seduta di emergenza, ma nondimeno una buona riunione.

— Che cosa è successo?

— Eddie, naturalmente, è contrario a qualunque tipo di intervento. Conosci le sue argomentazioni. Non starò a ripetertele. La Ivanova si è dichiarata d’accordo con lui.

— Davvero?

— Secondo lei, abbiamo deciso di non manifestarci alle popolazioni di qui finché non avessimo saputo di più su di loro. Ci sono buone ragioni a favore della nostra decisione: la nostra stessa sicurezza e il timore di mettere in pericolo la cultura indigena a causa dell’ignoranza. Come facciamo a sapere che genere di informazioni sono in grado di recepire?

"Ora, secondo la Ivanova, ci viene chiesto di abbandonare una linea di azione elaborata con gran cura, decisa in modo democratico e di importanza storica. E tutto a causa di una piccolissima frattura. Una probabile piccolissima frattura.

"Avrebbe un’opinione diversa se fosse uno dei nostri a essere in pericolo. Ma la persona ferita è una nativa, e la ferita non è affatto pericolosa."

— Già — dissi.

— Quanto ai nostri amici della Repubblica Cinese. — Antonio fece una pausa a effetto.

— Sì?

— Loro sostengono che tutto questo non sarebbe mai accaduto se i membri del team esplorativo fossero stati addestrati in modo appropriato.

— E questo che significa?

— Avresti dovuto seguire un corso di medicina socialista. Agopuntura, nozioni di erboristeria e ideologia marxista. Per quanto riesco a capire, dovresti infilzare di aghi la tua compagna e leggerle alcuni brani scelti dal Manifesto comunista.

— Chi ha tirato fuori questa splendida linea di ragionamento?

— Chi ti viene in mente? È un vecchio argomento cinese perfettamente conservato e viene da un vecchio cinese perfettamente conservato, il signor Fang.

I cinesi avevano sostenuto che sarebbe stato difficile andare fra le stelle senza bambini, e folle andarci senza persone di età ed esperienza. Il resto di noi era rimasto irremovibile riguardo ai bambini. Non ce n’erano sulla nave. Ma avevamo accettato un certo numero di persone sopra i sessant’anni e alcuni sopra i settanta. Il signor Fang era prossimo all’ottantina, un uomo magro con lunghi capelli bianchi e folte sopracciglia grigie. Veniva da Zhendu nello Sichuan, un esperto lavoratore del vimini ed esperto giardiniere, responsabile della sala principale del giardino della nave. Vi cresceva del bambù, una dozzina e più di varietà. Lungo le pareti c’erano graticci coperti di palme rampicanti. Erano la materia prima per l’arredamento. La maggior parte della mobilia della nave era di bambù e canna. Il signor Fang la riparava quando si rompeva e ne fabbricava di nuova quando era necessario.

Mi piaceva. Avevo trascorso parecchie ore nella sua officina a vederlo lavorare. Di quando in quando discutevamo di filosofia. Amava in particolare gli antichi Taoisti e Carlo Marx.

"Loro rispettavano, almeno in teoria, la saggezza del popolo. Questo è ciò che conta, Lixia. Un filosofo che teme o disprezza la gente uscirà con idee mostruose."

— Qual è stato il risultato della votazione? — chiesi a Tony.

— Tu che cosa ti aspetti? Abbiamo parlato per ore e siamo finiti dove avevamo cominciato. Per il momento ci atterremo alla nostra decisione originaria. Non scenderemo sul pianeta, se non forse per aiutare la nostra gente. Tu sei una dei nostri. Il team medico non è soddisfatto.

— Ah, bene. — Mi grattai la testa. — E adesso che faccio?

— Continua a curare la ferita come se fosse una frattura. Tienila ferma con una stecca. Impedisci alla tua amica di usare quel piede. Il tempo guarisce tutte le ferite.

— Splendido. Se sono tutti qui i consigli che hai da offrire, posso interrompere la trasmissione.

— Buona fortuna.

Spensi la radio, poi lanciai un’occhiata a Nia.

— Che cosa ha detto la tua scatola?

— Dovresti stare ferma finché la caviglia non sarà guarita.

Lei fece una smorfia. — E come posso farlo? Siamo quasi senza cibo, e qui non c’è niente da mangiare. Dobbiamo arrivare a un villaggio.

— Ce n’è uno nelle vicinanze?

— Sì. A una giornata da qui. Meno di una giornata. Vi abita il Popolo del Rame delle Pianure. — Nia serrò un pugno. — Che sfortuna! — Si colpì la coscia, poi sussultò. — Potrei percorrere una breve distanza se avessi un bastone a cui appoggiarmi, ma non riuscirò a camminare fino al villaggio. E c’è anche da inerpicarsi. Il sentiero sale nel punto in cui l’acqua cade. — Corrugò la fronte. — Va’ tu, Li-sa. Racconta alla gente del villaggio quello che è accaduto. Chiedi alla loro sciamana di venire a portarmi la medicina. Le farò un bel dono. Dille che sono una lavoratrice del ferro. Una molto brava, del Popolo del Ferro. Posso fabbricare un coltello in grado di tagliare qualsiasi cosa all’infuori della pietra. — Rifletté un momento. — Non taglierà neppure il ferro. Ma qualsiasi altra cosa.

— Okay.

— Che cosa? — domandò.

— Ci andrò.

— Che cos’è quella parola? Ok…?

— Okay. Significa "sì" oppure "sono d’accordo".

— Okay — disse Nia. — Adesso va’. Se camminerai in fretta, sarai al villaggio prima di notte. Torna domani. Fino ad allora me la caverò.

Presi il mio zaino e mi misi in cammino. Sull’altra riva del fiume mi fermai per asciugarmi i piedi. Non riuscivo a vedere Nia, ma scorgevo il fumo che saliva dal nostro fuoco, e vedevo la tomba dell’uomo pazzo. Pensavo di vederla. Forse era solo un altro mucchio di pietre.

Mi infilai i calzini e gli stivali. Poi mi voltai e mi allontanai.

Una cosa curiosa riguardo al canyon. Viste da lontano, le pareti apparivano spoglie, e il fondo del canyon era pietra grigia. Avvicinandomi, però, scorgevo fiori e insetti dai vivaci colori. Gli animali a sei zampe erano spariti. Ora vedevo creature che sembravano uccelli o forse minuscoli dinosauri. Si tenevano eretti sulle zampe posteriori ed erano coperti di penne. Ma avevano braccia al posto delle ali. Ne vidi uno catturare un insetto. Afferrò l’insetto con le piccole mani fornite di artigli e aprì la bocca. Scorsi file di denti. Un attimo dopo, uno scricchiolio! E l’insetto era sparito.

Il cacciatore inclinò il capo e mi guardò. Ricambiai lo sguardo. Il corpo della creatura era ricoperto di penne azzurre all’infuori del ventre e della gola. Il ventre era bianco, la gola di un giallo sulfureo.

La creatura sibilò nella mia direzione.

— Oh, sì? — dissi.

Quella fuggì.

A mezzogiorno mi fermai a mangiare. Sopra di me gli uccelli si libravano nel vento. Un pesce saltò nel fiume. Mi riposai un momento, poi proseguii. Il fiume si fece più turbolento. Il sentiero prese a salire e a scendere, serpeggiando attorno a grossi blocchi di pietra nera e grigiastra, dalla forma irregolare. Davanti a me vidi la fine del canyon: una parete di pietra, malamente frastagliata, piena di fenditure. L’acqua scendeva fra le fenditure, comparendo e scomparendo. Alla sommità, l’acqua si trovava alla luce del sole. Luccicava come argento. Più in basso, in ombra, era grigia. In fondo alla scogliera c’era una pozza d’acqua, seminascosta da una nebbiolina.

Perfino in distanza riuscivo a sentire il rumore dell’acqua. Era uno scroscio sommesso e continuo.

Continuai a camminare. La pista seguiva un lato della pozza. Accanto a me c’era la parete del canyon. Nella roccia erano stati incisi dei disegni: spirali e triangoli e figure di animali.

Aha! pensai. Un luogo sacro. Ma sacro a che cosa? Le spirali potevano rappresentare il sole. Da noi sulla Terra il triangolo era spesso un simbolo di fertilità o di sessualità femminile. Gli animali erano specie locali, o così almeno supponevo. Un quadrupede con le corna. Un bipede con un collo simile a uno struzzo e lunghe braccia striminzite. Venivano adorati oppure cacciati? O entrambe le cose?

Il vento spingeva verso di me gli spruzzi della cascata. Il sentiero si era fatto scivoloso. Decisi di concentrarmi su dove mettevo i piedi.

La pista girava attorno a un’alta roccia ricoperta di pittogrammi. Sull’altro lato c’era un uomo. Non c’era alcun dubbio sul suo sesso. Era nudo e il suo membro maschile era abbastanza grosso da essere ben visibile. Stava danzando, saltellando da un piede all’altro. Teneva in mano una pertica. In cima c’erano un paio di corna, verdi a causa della corrosione. Quasi certamente rame. L’uomo fece una piroetta e agitò il lungo bastone, poi tornò a girarsi, trovandosi così faccia a faccia con me. Ora mi resi conto che una cosa la portava: un filo di grosse perline rotonde e di un azzurro intenso. Mi ricordavano le perline di faenza provenienti dall’Egitto.

Lui smise di danzare e mi fissò. Rimasi immobile, guardando indietro. Era grande all’incirca quanto me, forse un po’ più robusto. La sua pelliccia era marrone scuro, lunga e ispida; gli occhi grandi e di un giallo chiaro.

Disse qualcosa che non compresi.

— Non conosco quella lingua — risposi.

— Tu parli il linguaggio dei doni — fece lui. — Devi essere una straniera. Ho pensato che fossi un demonio, ma un demonio mi avrebbe capito. — Corrugò la fronte. — Immagino che potresti essere un demonio che viene da molto lontano. Un demonio che viene da lontano potrebbe non sapere la lingua del mio popolo. È questo che sei?

— Un demonio? No. Sono una persona. Mi chiamo Lixia. E tu chi sei?

L’uomo parve sorpreso. — La Voce della Cascata. Non hai sentito parlare di me?

— No.

— Devi venire da molto, molto lontano.

— Sì.

— Io parlo per lo spirito della cascata. Esso è molto potente e conosce quasi ogni cosa. — L’uomo si mise a cantare:


"Conosce

ciò che dicono i pesci

nell’acqua.


"Conosce

ciò che dicono gli uccelli

nel vento.


"Conosce

ciò che dicono i demoni

nelle viscere della terra…


"Quelli che muovono,

quelli che scuotono,

quelli che mandano su fuoco…


"Conosce

ciò che si dicono

l’un l’altro".


— La gente mi fa domande. Mi chiede che cosa sento nel rumore dell’acqua. — Saltellò su un piede e si girò, sempre saltellando. Poi barcollò e appoggiò entrambi i piedi per terra. — Che cosa vuoi? Perché sei qui?

— Sto viaggiando con una del tuo popolo. È ferita e sto cercando aiuto.

L’uomo aggrottò la fronte. Agitò il suo bastone e gridò:


"O cascata,

dimmi,

dimmi come interpretare tutto ciò".


Inclinò il capo e rimase in ascolto. Ascoltai anch’io, ma non sentii niente all’infuori dello scroscio dell’acqua.

— La cascata dice che probabilmente parli con sincerità. In ogni caso, dice la cascata, porta sfortuna molestare i viandanti o coloro che chiedono aiuto. Pertanto ti aiuterò. Vieni con me. — Si voltò e s’incamminò su per il sentiero. Esitai un momento, poi lo seguii. Non era mai una buona idea discutere con un oracolo, soprattutto uno di una società che non si comprendeva. Ben presto ci trovammo a una buona distanza sopra la pozza. Guardai giù e vidi l’acqua spumeggiante. Nella foschia splendeva, tenue, un frammento di arcobaleno.

La pista si addentrava in una fenditura. Procedemmo fra nere pareti di roccia lungo le quali gocciolava l’acqua. Sulla roccia c’erano chiazze di una sterposa vegetazione color arancione. Una creatura camminava fra le chiazze. Era all’altezza della mia spalla e si muoveva lenta, dell’azzurro del cielo terrestre e con almeno una dozzina di zampe. Dal davanti spuntavano due antenne che ondeggiavano lievemente. Altre due antenne spuntavano sul dietro e anche queste ondeggiavano appena. Non riuscii a scorgere né una bocca né occhi.

Immaginai che l’animale stesse procedendo in avanti, ma non avevo modo di giudicarlo. Pensai di raccoglierlo. Forse c’erano organi visibili nella parte inferiore. Ma non mi erano mai piaciuti gli animali con più di otto zampe.

La mia guida si muoveva rapida. La seguii, scivolando di quando in quando sulla pietra bagnata.

Stavamo arrivando alla fine del passaggio. Le pareti erano alte solo un paio di metri e in cima vi crescevano delle piante. Vidi foglie, steli e fiori.

L’altezza delle pareti diminuì ulteriormente. Ormai riuscivo a vedere al di là di queste e della vegetazione. Stavamo emergendo su una pianura.

Su un lato, in lontananza, c’era una rupe, piuttosto bassa e costellata di alberi. In tutte le altre direzioni la terra era pianeggiante e coperta da una specie di pianta dalle foglie lunghe, sottili e flessibili. La pianta era alta circa un metro. Il suo colore variava: verde e verdeazzurro, gialloverde e un grigio-verdeazzurro argenteo. Non avrei saputo dire che cosa significassero le differenze nel colore. C’era più di una specie di pianta che cresceva sulla pianura? O il colore rappresentava variazioni all’interno di una specie?

— Ecco. — L’uomo indicò la rupe. — Il fiume è laggiù. La pista corre lungo il fiume. Seguila. All’imbrunire arriverai a un villaggio. Chiedi della sciamana e dille che hai un messaggio della Voce della Cascata. Dille che la cascata ordina di dare a questa persona ciò che chiede. Di’ che non c’è nessun male in questo. Lo so. Me l’ha detto la cascata.


"Non rifiutare di credermi,

o popolo.

Io so ciò che sa il fiume.


"Conosco i segreti

scoperti

dalla pioggia."


Agitò il suo bastone e danzò di lato, poi fece una piroetta e indicò la pista più sotto. — Va’!

Ubbidii. Quando arrivai in cima alla rupe, mi guardai indietro. Scorgevo la pista che serpeggiava fra la pseudo-erba, ma non riuscivo a vedere l’uomo. Doveva essere tornato nel canyon presso la cascata.

Scesi faticosamente lungo il pendio in direzione del fiume, che in quel punto era ampio e poco profondo, ombreggiato da alberi dalle foglie di un azzurro scuro.

Al centro del fiume c’era un banco di ghiaia sul quale si riposavano una mezza dozzina di creature: grossi quadrupedi privi di pelo e con la coda. Uno di questi sollevò il capo e mi fissò, poi emise un brontolio di avvertimento. Si alzarono tutti quanti ed entrarono pesantemente nell’acqua.

Forse lucertole? Il nome sembrava appropriato e mi offriva una sommaria qualificazione, anche se avrei dovuto ricordare che queste creature non erano autentiche lucertole.

Arrivai al villaggio al tramonto. Sorgeva in cima alla ripida scogliera del fiume, e tutto ciò che riuscii a vedere in un primo tempo fu una barriera fatta di tronchi oltre la quale saliva del fumo. Fuochi per cucinare. Parecchi. Sulla palizzata c’erano insegne come quella che aveva tenuto in mano l’oracolo: lunghe pertiche che terminavano in corna di metallo. Le corna rosseggiavano alla luce del sole. Rame lucidato, mi dissi.

Mi inerpicai su per il sentiero fino al cancello. C’era una donna lì ferma, che osservava il sole che calava. Era scura come i due uomini nel canyon e indossava una tunica di un azzurro acceso.

— Dammi il benvenuto — dissi.

La donna si girò.

— Chi sei?

— Una viandante. La Voce della Cascata mi ha detto di venire qui.

— Davvero? Entra. Sei arrivata appena in tempo.

Entrammo. Lei chiuse il cancello e vi mise una sbarra di traverso. — Ecco! — Si ripulì le mani. — Vieni con me. Ti condurrò dalla sciamana.

La seguii lungo una strada stretta che si snodava avanti e indietro fra le case. Queste erano costruzioni ottagonali, fatte di tronchi. Gli interstizi fra i tronchi erano stati riempiti con una pianta gialla e lanuginosa che sembrava essere viva e in crescita. I tetti erano spioventi e s’innalzavano dai bordi verso il centro, dove c’era un’apertura per il fumo. Non ero in grado di vedere queste aperture, ma il fumo era ben visibile e saliva da quasi tutte le case. I tetti erano ricoperti di terriccio, un eccellente tipo di materiale isolante, e nel terriccio crescevano alcune piante. Erano piccole e scure. Mi protesi e colsi una foglia. Era rotonda, spessa e simile a cera. La schiacciai e ne sprizzò dell’acqua. Una pianta grassa o qualcosa di molto simile. Era probabile che non bruciasse, il che costituiva un grosso vantaggio. Dal foro per il fumo uscivano senza dubbio scintille e se fossero finite su una pianta secca, queste persone avrebbero avuto un incendio della prateria che infuriava proprio sulle loro teste. A che cosa serviva quella pianta? Era commestibile? O soltanto ornamentale?

La donna si fermò davanti a una casa particolarmente grande. — O sciamana, vieni fuori!

La porta si aprì. Uscì una donna, bassa e grassa, che indossava una lunga veste tutta macchiata. La veste era biancastra e le macchie si vedevano facilmente. Una scelta infelice per una persona evidentemente rozza. Aveva addosso almeno una dozzina di collane. Alcune erano comunissimi fili di perline, altre erano elaborate, con catene, campanelle e ciondoli a forma di animali. Erano tutte di rame, e tutte aggrovigliate. Pensai che in nessun modo la donna si sarebbe potuta togliere una sola collana.

— È arrivata questa stranissima persona, o santa. Sostiene di avere un messaggio della Voce della Cascata.

La sciamana mi scrutò con attenzione. — Dov’è la tua pelliccia? Sei stata ammalata?

— No. Vengo da molto lontano. La mia gente è priva di pelliccia.

— Aiya! Ciò è davvero strano. Qual è il tuo messaggio?

— La Voce della Cascata dice che vuole che tu mi aiuti.

— No.

— Che cosa?

— Quell’uomo non può aver detto così. Lui non ha desideri. Non ha opinioni. Egli è la Voce della Cascata. Quando parla, è la cascata che parla. Perciò, quello che hai detto era sbagliato. Non è quell’uomo che vuole che io ti aiuti. È la cascata che vuole che ti aiuti.

L’altra donna fece il gesto dell’approvazione.

— Di che cosa hai bisogno? — domandò la sciamana.

— Ho un’amica che è stata ferita. Si trova a una giornata da qui, verso est, nel canyon. Vuoi andare a cercarla?

La sciamana corrugò la fronte e si grattò il mento. Poi fece il gesto dell’assenso. — Domani. — Si voltò e tornò in casa. La porta si chiuse.

— Aiya! - esclamò l’altra donna. — È una cosa che lei non fa mai. Non va mai dalle persone, sono loro che devono venire da lei. Ma tutti ascoltano la Voce della Cascata. E quell’uomo un tempo era suo figlio, e lei gli voleva molto bene. Vieni con me.

La seguii fino a un’altra casa. All’interno c’era un unico, vasto locale con grossi pilastri che sostenevano il tetto. Erano stati intagliati e dipinti di rosso, bianco, nero e marrone. I disegni erano complessi, costituiti da linee ricurve. Sembravano raffigurare degli animali. Qui e là vidi delle facce e delle mani munite di artigli. Le facce avevano occhi di rame e lingue di rame che sporgevano arrotolate dal pilastro.

Al centro della casa un fuoco ardeva in una buca e lì vicino erano sedute tre persone. Erano bambini abbastanza grandicelli. Stavano facendo un gioco. Uno scagliava una manciata di bastoncini, un altro si chinava a osservare il disegno che avevano formato. — Aiya! Che fortuna che hai!

Il terzo guardò nella nostra direzione. — E questa che cos’è?

— Una persona. Sii cortese. Portaci qualcosa da mangiare.

Ci sedemmo. La donna disse: — Io sono Eshtanabai, la mediatrice. È stata una fortuna che ci fossi io al cancello invece di una donna qualunque.

— Tu sei che cosa?

I bambini ci portarono delle scodelle di poltiglia e una caraffa piena di liquido. Il liquido era aspro. La poltiglia era quasi insapore. Mangiammo e bevemmo. Eshtanabai mi spiegò.

— Le persone si arrabbiano le une con le altre. Non si parlano. Se ne stanno sedute nelle loro case e tengono il broncio. Io vado da ciascuna di queste persone. Ascolto ciò che hanno da dire. Dico: "Questa controversia non è bene. Non c’è un modo per mettervi fine? Che cosa vuoi? Quale soluzione ti soddisferà?". Allora vado avanti e indietro, avanti e indietro finché tutti sono d’accordo su ciò che andrebbe fatto. È un lavoro difficile. Mi causa dei gran mal di testa.

— Posso immaginarlo.

— Qualcuno deve farlo. La sciamana è troppo santa. La Voce della Cascata non sempre parla in modo logico. Come potrebbe un uomo, perfino quell’uomo, appianare una controversia?

Non avevo una risposta a quell’interrogativo. Finimmo di mangiare, poi mi coricai, usando il mio zaino come guanciale. Uno dei bambini mise altra legna sul fuoco. Un altro bambino incominciò a suonare un flauto. La melodia era dolce e malinconica. Chiusi gli occhi e ascoltai. Un momento dopo mi addormentai.

Mi svegliai nel cuore della notte con un terribile torcicollo. Il fuoco era quasi spento. Attorno a me, nella casa buia, sentivo il suono del respiro. I miei compagni dormivano. Mi tirai su a sedere e mi massaggiai il collo, poi tornai a coricarmi. Questa volta non usai lo zaino come guanciale. Quando mi svegliai di nuovo era mattina. La luce del sole splendeva attraverso la porta aperta. Eshtanabai era seduta accanto al fuoco. I bambini erano spariti.

— La sciamana ha lasciato il villaggio — mi disse. — Con lei sono andate altre persone. Porteranno qui la tua amica.

— Bene. Quando?

— Domani o il giorno dopo.

Feci colazione, ancora poltiglia, poi uscimmo. Il cielo era sereno, l’aria tiepida. Odorava di mucchi di letame. Decisi di dare un’altra occhiata alla pianura. Trovai il cancello del villaggio e lo varcai.

Una pista conduceva attorno al villaggio. La seguii. La pianura si estendeva verso sud e verso est, quasi assolutamente piatta. C’erano animali in lontananza: puntini neri che di quando in quando si muovevano. Mi riparai gli occhi con la mano, ma non riuscii a distinguerli.

Sul lato settentrionale del villaggio c’erano orti che somigliavano in tutto e per tutto agli orti del villaggio di Nahusai. Mi fermai nei pressi di uno degli orti.

Una donna alzò lo sguardo. — Sei tu la straniera.

— Sì.

— Sei certamente strana.

Indicai con la mano gli animali sulla pianura. — Che cosa sono quelli?

Lei sgranò gli occhi. — Non lo sai?

Feci il gesto che significava "no".

— Com’è possibile che qualcuno sia così ignorante?

Non dissi nulla. Dopo un momento la donna parlò. — Sono cornacurve. Il grosso della mandria è a nord. In autunno gli uomini li porteranno indietro. Allora l’intera pianura sarà nera.

— Dove sono gli uomini adesso?

Lei si accigliò. — Ma non sai proprio niente? Sono con la mandria. Dove altro dovrebbero essere?

— Grazie. — Proseguii.

Il giorno seguente il cielo era nuvoloso. Scesi al fiume, portando con me il mio zaino. Mi sistemai ai piedi di un albero e tirai fuori la radio.

Eddie era tornato. — Come sta la tua amica? — s’informò.

— Non lo so. Sono andata in cerca di aiuto, e l’aiuto è andato in cerca di Nia. Scoprirò come sta nel corso della giornata.

— Tu dove sei?

Gli descrissi l’ubicazione del villaggio e gli riferii il mio incontro con la Voce della Cascata.

— Be’, sembra proprio affascinante. — Tacque per un minuto o due, poi disse: — Non ne so molto sugli oracoli. Erano importanti in Grecia, non è vero?

— Sì.

— Forse dovrei leggere un po’. Com’è il villaggio?

Glielo descrissi. — Per quanto sono in grado di stabilire, tutti gli adulti sono donne. Gli uomini si trovano su al nord e si prendono cura di una mandria di animali. Sono migratori. Le donne invece non si spostano. Come va la nave?

— Più o meno come sempre. Abbiamo ricevuto un messaggio dalla Terra.

— Ah, sì? — Provai la consueta eccitazione. — Qualcosa di interessante?

— C’è una nuova colonia spaziale e gli ucraini stanno incominciando a colonizzare la regione selvaggia attorno a quella che un tempo era Kiev. E qualcuno ha inventato una radio funzionale più veloce della luce. Ci hanno inviato i progetti.

Mi dondolai all’indietro sui calcagni. Non saremmo stati più isolati. Non avremmo più dovuto aspettare per quarant’anni la risposta a una domanda. — Quanto tempo ci vorrà per fabbricare quell’oggetto?

Eddie scoppiò a ridere. — Noi possiamo fabbricare l’apparecchio radioricevente. Gli ingegneri ne sono quasi certi. Ma per inviare messaggi dovremo poter produrre una nuova e stranissima particella, e la macchina che può farlo è grande.

— Merda.

— Esattamente il mio pensiero. Forse ti interesserà sapere che la particella è stata chiamata fred. Non in onore di Frederick Engels. Su questo il messaggio era molto chiaro. — La voce di Eddie aveva il tono che usava quando descriveva una manifesta follia. — È stata scoperta… no, teorizzata, da due persone più o meno nello stesso tempo. Tutto in questa particella succede in serie di due, secondo il messaggio. La persona di Pechino voleva darle il nome di guanyon in onore della dea cinese della misericordia, Guan Yin. A quanto sembra, la dea le è apparsa in sogno, ritta su un fiore di loto e con in mano l’equazione decisiva scritta su un ventaglio.

"La persona di Santiago voleva dare alla particella il nome di pablon in onore del poeta Pablo Neruda. Non so perché. Forse ha avuto un’equazione in sogno. Nessuno dei due era disposto a cedere. Così la particella viene chiamata fred. Si presenta sempre come una di una coppia. Così l’altra particella è stata chiamata frieda.

— Suppongo che questo sia un altro esempio della terribile bizzarria dei fisici — osservai.

— Aha.

— Perché hanno mandato i progetti se non possiamo usarli?

— Per nostra informazione e nell’eventualità che ci imbattessimo in una grande quantità di metallo, una grande quantità di silice e una moderna società industriale. Bisogna essere sempre preparati, come ha detto qualcuno. Forse Frederick Engels.

Mi grattai il naso. — Che cosa ti preoccupa?

— A parte il fred? Derek ha scoperto un blocco di rame. È largo un metro e, per quanto è in grado di stabilire, è puro. Si trovava sulla riva di un fiume. Depositato semplicemente lì in piena vista. Quassù dicono che forse potremo trovare le risorse per costruire il nuovo trasmettitore. Voi laggiù state scoprendo troppo. Perché non state zitti?

— Andiamo, Eddie. Sai che non possiamo farlo. La segretezza è nemica della democrazia. Ci sono altre notizie?

— Derek si sta spostando verso nord e verso ovest. Si trova solo a un centinaio di chilometri da te. Vorrebbe unirsi a te. Pensi che la tua amica sarebbe contraria a viaggiare con un uomo?

— Sì.

— Era quello che temevo.

Vidi qualcosa muoversi con la coda dell’occhio. — Devo andare. — Spensi la radio e la ficcai dentro lo zaino, poi mi guardai attorno e scorsi un animale bipede abbastanza simile a quello che avevo visto nel canyon. Questo, però, era di una nuova varietà, alto come me con una schiena color blu scuro. Il ventre era bianco panna, e aveva una cresta: un ciuffo di piume lunghe che risplendevano azzurre alla luce del sole. L’animale era intento a mangiare da un albero ricoperto di bacche, protendendo le lunghe braccia e strappando le bacche, una manciata alla volta. Si riempiva la bocca di bacche, poi inghiottiva e ne coglieva altre. Mi alzai. L’animale girò il lungo collo e mi fissò, poi riprese a mangiare. C’era qualcosa di stranamente umano nei suoi movimenti. Non poteva essere intelligente. La sua testa munita di cresta era piccolissima. Nondimeno, restai a osservarlo finché non ebbe finito di mangiare e non si fu allontanato. Poi tornai al villaggio.

Alla sera la sciamana tornò. La vidi entrare nel villaggio. Indossava una lunga Veste azzurra e un cappello fatto di penne. Cinque donne la seguivano. Due di loro portavano una barella sulla quale era distesa Nia. Aveva gli occhi chiusi. Sembrava addormentata.

— Non preoccuparti — mi disse Eshtanabai. — La nostra sciamana curerà la tua amica.

— Lo spero.

La sciamana disse: — Portate la donna nella mia casa. Andrò a raccogliere erbe medicinali.

Eshtanabai mi toccò il braccio. — Vieni con me. La sciamana non vorrà visitatori, fatta eccezione per i santi spiriti. E a te non piacerebbe incontrarli. Non è prudente.

— D’accordo.

Trascorsi la sera in casa di Eshtanabai. Mi sentivo irrequieta e turbata. Che cosa stava succedendo a Nia? Mi mordicchiavo le unghie e osservavo il fuoco. Eshtanabai giocava con i bambini. Dopo un po’ me ne andai fuori. Il villaggio era silenzioso salvo per il suono di un tamburo. Era forse la sciamana? Non lo sapevo. Guardai in su. Il cielo era limpido e le stelle splendevano luminose. Un vento fresco soffiava dalla pianura. Era un bel pianeta: puro e pulito, e quasi disabitato. Noi stavamo lavorando al nostro pianeta da oltre un secolo quando la nave era partita e il lavoro era continuato. Erano già due secoli. C’erano ancora sfregi ovunque: montagne spogliate, paludi avvelenate, vaste distese dove la terra era inutilizzabile, almeno per gli umani: erosa, arida o piena di sale, l’acqua esaurita, pompata completamente e utilizzata nel Ventesimo Secolo.

Che cosa avevano avuto in mente le popolazioni di allora? Avevano lasciato i loro discendenti quasi privi d’acqua e con enormi montagne di uranio. Che genere di eredità era mai quella? Come pensavano che saremmo sopravvissuti?

Ce l’avevamo fatta senza molto aiuto da parte loro. Era sorprendente quante persone eravamo riusciti a salvare. Quando pensavo alla Terra, mi venivano in mente masse di gente. Soltanto l’oceano era veramente disabitato, così come le calotte polari e le terre distrutte.

Guardai in su verso il cielo stellato e provai un terribile senso di perdita.

Non che la mia società non mi andasse a genio. Era sana, decorosa, umana, la migliore società che la Terra avesse mai conosciuto. Ma era enormemente complessa. Non c’era nulla di facile. Nulla di chiaro e lineare. Per la prima volta la storia era un processo consapevole. Per la prima volta gli individui potevano plasmare deliberatamente la propria vita, con la consapevolezza di ciò che facevano.

Discutevamo ogni punto. Votavamo. Venivamo a compromessi. Costituivamo fazioni e coalizioni. Pensavamo sempre alla giustizia e all’equità, alle conseguenze di quello che facevamo, al futuro.

Il tamburo s’interruppe. La brezza cambiò direzione. Ora sentivo gli odori dei fuochi per cucinare e delle latrine. Decisi di tornare dentro.

L’indomani mattina mi recai alla casa della sciamana.

Mi accompagnava Eshtanabai. — O santa — gridò. — La persona senza pelo è venuta a far visita.

La porta si aprì. La sciamana fece capolino. — La tua amica è ammalata. Brucia. Sento il calore nei punti in cui la sua pelliccia è sottile. Ed è debole. Ma la curerò. Non temere.

— Posso entrare?

La sciamana si accigliò, poi fece il gesto dell’assenso e aprì di più la porta.

Il fuoco era spento. La sola luce penetrava dall’apertura per il fumo: un raggio di luce dorata che scendeva obliquo e illuminava un vecchio canestro, scolorito e sformato. Ogni altra cosa nella casa era nascosta dall’oscurità. Vidi dei mucchi di roba, ma non avrei saputo dire di che cosa si trattasse.

— Nia? — Mi guardai attorno.

Uno dei mucchi si mosse e sollevò una mano. Mi avvicinai. Era Nia, che giaceva avvolta in una coperta.

— Come stai?

— Mi sento in modo orribile. Siediti. Tienimi compagnia.

Lanciai un’occhiata alla sciamana. Lei fece il cenno dell’assenso, così mi sedetti.

Nia chiuse gli occhi. Per un po’ di tempo non disse niente, infine parlò. — La sciamana è brava? Lo sai?

— Sembra che abbiano una buona opinione di lei.

— Bene. Forse allora vivrò. — Aprì gli occhi. — Enshi è venuto da me la notte scorsa. Porta male sognare i morti. Ma lui non mi ha minacciata. Scherzava e mi ha detto come si sta a vivere nel cielo. Non male, ha detto, anche se di quando in quando soffre la fame. È sempre stato un pessimo cacciatore. Perfino quando sono gli animali ad andare da lui, come fanno in quella terra, gli capita di mancare il bersaglio. Che uomo inutile! Ma raccontava delle belle storie, e aveva un carattere meraviglioso. Non si adirava mai. — Chiuse gli occhi. Attesi. Riaprì gli occhi. — Abbiamo fatto una cosa vergognosa.

Diedi un’occhiata attorno. La sciamana era sulla porta e stava parlando con Eshtanabai. Era troppo lontana per sentire.

Nia sollevò il capo e guardò le due donne, poi tornò a coricarsi. — Non voglio parlartene. Non qui. Non sono pazza. Sono stanca. Voglio dormire.

La lasciai e trascorsi la giornata a gironzolare per il villaggio, osservando i bambini che giocavano nelle strade e chiacchierando con madri e nonne. Erano persone cortesi e amichevoli. Una lavoratrice del rame mi mostrò come lavorava il metallo. Un’anziana donna mi raccontò come fosse stato creato il mondo da un seme lasciato cadere dall’uccello che vive sull’albero del sole. Alla sera cenai con Eshtanabai.

— La tua amica si rimetterà. Me l’ha detto la sciamana. La sciamana sostiene che la tua amica lavora il metallo. Le ha promesso un coltello.

Feci il gesto dell’affermazione, seguito da quello dell’approvazione.

— Appartiene al Popolo del Ferro?

— Sì.

— Loro vivono più a ovest, oltre il Popolo dell’Ambra. Ho sentito dire che sono violenti.

— Non saprei.

— A detta del Popolo dell’Ambra, litigano parecchio e quando fanno un dono, si assicurano sempre che il dono che ricevono in cambio sia altrettanto buono.

Feci il gesto che significava "può darsi" o "se lo dici tu".

L’indomani vidi di nuovo Nia. Nella buca ardeva un bel fuoco e la casa della sciamana era piena di fumo aromatico. La mia amica si era tirata su a sedere, la schiena appoggiata a un palo. Mi sedetti anch’io. La sciamana se ne andò, chiudendosi l’uscio alle spalle.

— Gliel’ho chiesto io — disse Nia. — Ho fatto un altro sogno. Ho visto Hua, la donna che mi ha allevata. È morta prima che qualcuno sapesse ciò che avevo fatto. Ma adesso lo sa. Ed è furiosa. Mi ha detto parole taglienti. Aiya! Se facevano male!

"Le ho risposto che ciò che avevo fatto non la riguardava affatto. E, in ogni caso, non avevo fatto niente di malvagio. E lei: ’Sono tutti d’accordo con me. È stata una cosa cattiva’. E io ho ribattuto: ’Racconterò la cosa a Li-sa. Lei viene da molto lontano. Sa come vengono fatte le cose in luoghi diversi. Lasciamo decidere a lei se la cosa che ho fatto era malvagia oppure no’. Poi mi sono svegliata." Nia mi guardò. Trovavo difficile decifrare l’espressione del suo viso, ma ebbi l’impressione che fosse stanca e infelice.

Le dissi: — Raccontami la tua storia, se lo desideri.

Nia aggrottò la fronte e si grattò il naso. Poi incominciò. Fino a quel momento l’avevo giudicata un tipo forte e di poche parole. Non aveva mai parlato molto, ma ora le parole le uscivano facilmente. Doveva essersi esercitata a ripetere la sua storia. Me la figurai mentre la raccontava, molto probabilmente a se stessa. Doveva averla provata più e più volte, cercando di dare un senso a quanto era accaduto.

— Il primo errore è stato questo: ho aiutato Enshi a incontrare sua madre. Non so perché l’ho fatto. Lui è sempre stato molto bravo con le parole. Riusciva sempre a far sembrare giusto e ragionevole quello che voleva.

"Lo accompagnai fino dentro il villaggio, di notte, naturalmente, e aspettai fuori della tenda. Lui e sua madre parlarono. Sua madre gli diede dei doni. Enshi aveva perduto i doni che aveva ricevuto in precedenza. Era tipico di lui. Quando ebbe finito, andai con lui ai margini del villaggio. E ora viene il secondo errore." Nia serrò una mano e colpì il terreno. — Enshi voleva tornare di nuovo. Si sentiva solo sulla pianura. Disse che sarebbe morto là fuori in quel deserto se non avesse avuto qualcosa da aspettare con ansia. Il fuoco caldo nella tenda di sua madre, buon cibo, nuovi indumenti. Come sapeva parlare bene! Accettai di aiutarlo. — Nia si massaggiò la faccia. — Che sciocca sono stata!

"Sua madre incominciò a lamentarsi delle sue vicine. Diceva che c’era troppo baccano nel villaggio. Era stufa dell’odore della cucina delle vicine. C’erano troppe immondizie. C’erano troppi insetti. Incominciò con il montare la propria tenda lontano da tutte le altre. L’avevano progettato insieme loro due. Adesso era facile per Enshi trovare la tenda della madre, ed era improbabile che qualcuno lo vedesse.

"Ma avevano bisogno di qualcuno che portasse messaggi dentro e fuori il villaggio. Avevano bisogno di qualcuno che stesse di guardia quando lui veniva. Lo feci per tutta l’estate e tutto l’autunno. In inverno lui non poteva entrare nel villaggio. La gente avrebbe visto le sue impronte nella neve. Andavo io a cercarlo, portandogli cibo e un mantello nuovo, un mantello folto fatto di pelliccia. In primavera ci incontrammo e ci accoppiammo. Avvenne fra le colline. Era lì che stavano i giovani. Lui aveva il peggior territorio possibile. Era tutto pietre, tutto un salire e scendere. Lì non c’era niente da mangiare. Nondimeno, andai da lui." Diede di nuovo una botta sul terreno. — Forse Hua ha ragione. Forse sono davvero una pervertita.

Non dissi una parola. Nia continuò. — Non aveva niente di valore da donare. Raccoglieva delle cose: penne da un cespuglio o pietre che luccicavano alla luce del sole. Componeva delle poesie. Che genere dj dono è mai quello? Era un uomo inutile! — S’interruppe un momento. Aveva un’aria perplessa. — Quando mi trovavo con lui, sentivo… non so come definire quel sentimento. Avevo la sensazione di aver trovato una nuova parente, una sorella o una madre. Qualcuno con cui stare seduta alla sera, qualcuno con cui chiacchierare. Mi sentivo soddisfatta. Quando il periodo della smania fu terminato, rimasi ancora. Mi piaceva restare lì. Mi trattenni altri dieci giorni. Poi tornai a casa, e le persone mi chiesero che cosa fosse successo. Risposi che il mio cornacurve si era azzoppato. Raccontai loro che ero stata costretta a fare a piedi buona parte della strada del ritorno. Ormai ero una bugiarda. — Aggrottò la fronte. — Che cosa accadde in seguito? Ci spostammo a nord e piantammo le nostre tende nella regione dell’estate. La vecchia Hua si fece male. Si provocò una bruciatura mentre lavorava alla fucina. La bruciatura non guarì. La sua gamba incominciò a marcire. Alla fine morì.

"Tutti dissero che era morta come si conviene a una donna, senza lamentarsi o fare un gran baccano. Gli spiriti erano contenti di lei. È quello che diceva la gente. Io lo trovavo difficile da sopportare.

"Dopo che fu sottoterra, la sciamana eseguì le cerimonie della purificazione e le cerimonie per scacciare la sventura."

— Perché? — chiesi.

Nia parve sorpresa. — Tutte le morti sono infauste, e Hua era morta inaspettatamente. Era vecchia ma forte, e si era già bruciata parecchie volte prima di allora. Le bruciature erano sempre guarite.

Feci il gesto che significava "capisco" o "vedo".

— La cattiva sorte rimase — proseguì Nia. — Dapprima non sembrava che fosse così. L’estate era propizia. C’era abbastanza pioggia. I fiumi erano pieni di pesci e gli arbusti avevano tante di quelle bacche che i loro rami si piegavano fino a toccare il suolo. Avevamo da mangiare in abbondanza.

"Alla fine dell’estate arrivarono al villaggio persone provenienti da occidente. Portarono stagno e pellicce bianche. Una di loro si ammalò, poi morì. La nostra sciamana morì. Io mi ammalai e lo stesso accadde a Nuha. Era la madre di Enshi. Era uscita di senno e continuava a gridare: ’Enshi! Enshi!’. Poi chiese agli spiriti di perdonarla. Disse che era tutta colpa mia. Suo figlio non avrebbe mai fatto niente di sbagliato. L’avevo spinto io a comportarsi in modo vergognoso. Avevo fatto infuriare gli spiriti. Promise a tutti che se fosse morta non se ne sarebbe andata via. Il suo spirito sarebbe rimasto nel villaggio e avrebbe trovato il modo di vendicarsi di me.

"Nuha morì. Io mi ristabilii, anche se per qualche tempo pensai che sarei morta anch’io. Quando fui in grado di alzarmi e di camminare, le vecchie del villaggio mi invitarono ad andarmene.

"Aiya! Quanto era difficile! Chiesi loro di lasciarmi restare. Le supplicai. Ma loro dissero: ’Vattene’.

"Andai in cerca di Enshi, e noi due insieme ci dirigemmo a sud finché non arrivammo alle Colline del Ferro. Erano a metà strada fra la terra dell’estate e la dimora invernale. Laggiù il suolo è rosso. I fiumi e i torrenti sono marroni come la ruggine. Ogni anno alcune donne vanno laggiù a estrarre il ferro. Restano fino all’autunno, scavando il ferro e fondendolo per ricavarne delle barre. Poi si ricongiungono con il villaggio. Quando arrivammo fra quelle colline, le donne stavano ormai facendo i bagagli. Ci nascondemmo fra i cespugli. Esse caricarono i loro carri e finalmente se ne andarono.

"Trovammo un riparo all’entrata di una miniera. Era costruito di legno e di pietra e la donna che l’aveva fabbricato si era lasciata dietro alcuni dei propri utensili. Trovammo un’ascia, un piccone e un badile. C’era anche un’incudine, una grossa incudine, troppo pesante da trasportare.

"Restammo lì tutto l’inverno. Rischiammo di morire di fame. Avevo un bambino dentro di me, ma morì e venne fuori come sangue. Enshi riteneva responsabile la propria madre. La pregò di andarsene, poi le disse: ’Fa’ del male a me! Fa’ del male a me! Sono io che ho agito in modo ignobile’."

Nia smise di parlare. Io cambiai posizione e mi massaggiai le gambe. Incominciavo a sentirle intorpidite.

— In primavera ci addentrammo di più fra le colline. Le donne tornarono. Rubavamo a loro. Enshi era bravo in questo. O almeno era più abile di me.

"Trovammo un fiume pieno di pesci: molto più dentro fra le colline, lontano da tutti gli altri. Nelle vicinanze c’era una scogliera rossa di ferro. Fabbricai delle trappole per catturare pesci. Enshi imparò a estrarre il ferro. Costruimmo un rifugio e io montai una fucina. Nuha ci lasciò in pace." Nia aggrottò la fronte. — Non provavo una particolare vergogna. C’erano giorni in cui mi pareva che ciò che facevamo fosse giusto. Che cosa c’era di sbagliato in me?

Feci il gesto che significava "nessun commento".

— Quell’inverno avevamo cibo in abbondanza. Alla fine dell’inverno io ebbi una bambina. Le diedi il nome Hua. A Enshi piaceva. La teneva in braccio e le parlava. Qualche volta lei lo faceva arrabbiare, ma lui non gridava né menava colpi. La metteva giù e andava a fare una passeggiata. Era pazzo, senza dubbio.

Io girai la mano per dirle "forse sì e forse no".

— Ho la gola secca. Vuoi portarmi qualcosa da bere? — Mi fece cenno col dito. Andai a prendere una brocca d’acqua. Nia ne bevve un bel sorso. — Aiya! Quanto è buona! Che cosa stavo dicendo?

— Hai avuto una bambina.

— Due. L’altro era un maschio. Anasu. Nacque il terzo inverno che passammo fra le colline. A quel punto mi ero abituata a stare da sola, a parte Enshi e i bambini. Mi piaceva. Mi piace ancora. Ci sono troppe chiacchiere in un villaggio. Troppi pettegolezzi. Troppe discussioni. Ma non fra le colline. Lassù è tutto tranquillo. Una volta ogni tanto Enshi diventava irrequieto e si allontanava da solo. A volte io facevo lo stesso. Quelli erano i momenti che preferivo, credo. Salivo finché non c’era più niente sopra di me all’infuori del cielo. Stavo al di sopra di tutto. Mi sedevo ad ascoltare il vento. Allora mi sentivo soddisfatta.

"Dopo di che dovevo tornare giù ad aiutare Enshi con i bambini.

"Tutto questo andò avanti per cinque inverni. Poi, una primavera, arrivò il pazzo. Si avvicinò cavalcando, una mattina. Il suo cornacurve era così magro che avrei potuto contare ogni costola. Quanto all’uomo, era lacero e grigio. Aveva perso un occhio e il suo aspetto era orribile.

"Mi trovavo nella fucina e battevo un pezzo di ferro per un piccone. Enshi era andato a caccia. E i bambini… non ricordo dove fossero. Vicino a me, immagino.

"Udii una voce. Era aspra e profonda. ’Sei pronta, donna?’

"Alzai lo sguardo. Lui smontò e venne verso di me. ’È il tempo?’ chiese.

"’No’ risposi. ’Che cosa ci fai qui?’

"Lui si fermò e inclinò la testa di lato. Ricordo questo particolare e ricordo lo sguardo del suo unico occhio. Era folle. Succede ai vecchi. Perdono il loro territorio; gli uomini più giovani li cacciano via. Ma loro non si arrendono. Rifiutano di tornare al villaggio. Invece continuano a vagabondare da soli. Non hanno un posto. Dimenticano le regole e le usanze. Sono pericolosi.

"Strinsi con forza il mio martello.

"Lui disse: ’Presto. Un altro giorno o due. So giudicarlo. Ero solito avere cinque donne, sei donne, in una stagione. Aiya! I doni che portavano e l’odore dei loro corpi’.

"’Vattene’ gli dissi. ’Non ti voglio qui.’

"’Posso aspettare’ ribatté lui. ’Ho aspettato già molto tempo. Resterò.’

"Fu allora che vidi Enshi alle spalle dell’uomo, con in mano il suo arco. ’No’ disse. ’Questa donna è mia. Vattene di qui.’

"Il vecchio si girò. ’Tu, piccola creatura pelle e ossa! Credi di poterti confrontare con me? Ho incontrato uomini grossi il doppio di te. Ed erano loro ad abbassare lo sguardo. Erano loro ad andarsene.’

"Enshi sollevò l’arco. C’era una freccia pronta, sistemata contro la corda. Incominciò a tendere l’arco. ’Ti ucciderò, vecchio. Ti conficcherò una freccia nel ventre.’

"Il vecchio disse: ’Questo è oltraggioso. Non sai come vanno fatte queste cose? Nessun vero uomo usa mai una freccia contro un altro uomo. Un coltello è l’arma appropriata. Anche una clava va bene. Ma niente che uccida da lontano. Un vero confronto avviene corpo a corpo’.

"Enshi parlò in risposta. Disse: ’Non mi importa quali siano le regole. Questa donna è mia. Farò ciò che devo per tenermela’."

Nia fece una breve pausa. Il suo viso appariva pensieroso. — Sollevai il mio martello e dissi: "Neppure a me importa delle regole. Se mi verrai vicino, ti ucciderò, vecchio. Credimi. Dico la verità".

"Che altro c’è da dire? Il vecchio rinunciò e se ne andò. Il giorno dopo ebbe inizio la smania. Enshi e io restammo insieme per tre giorni. Credo che sia giusto. Forse quattro giorni. Una mattina mi svegliai. La luce penetrava dalla porta del nostro rifugio. Enshi era vicino a me. Il vecchio gli stava sopra. Lo vidi conficcare il coltello nella gola di Enshi. Anasu gridò. Mi alzai, ma era troppo tardi. Il vecchio era completamente pazzo e forte come talvolta lo sono i pazzi. Era molto più forte di me, e io non sono una persona debole. Mi spinse a terra e ficcò il suo pene dentro di me. Cercai di liberarmi. Lui mi colpì. Il coltello che teneva in mano mi fece un taglio sulla spalla. Ho ancora la cicatrice. I bambini piangevano. Tutti e due. Il vecchio faceva dei grugniti. Lo morsicai. Mi colpì di nuovo." Nia si accigliò. — Qualche volta me lo sogno ancora. Ho del sangue in bocca. C’è del sangue per terra. Sento il vecchio sopra di me e dentro di me. Sento piangere i bambini. Nel sogno, so che Enshi è morto. Dopo un po’ mi sveglio.

"Ma allora non mi svegliai. Il vecchio restò finché la smania non fu terminata. Furono cinque o sei giorni. Ci accoppiammo più e più volte." Nia serrò i pugni. "Quando non ci accoppiavamo, mi teneva legata. Non era stupido, sebbene fosse pazzo. Sapeva che avrei preso i bambini e sarei fuggita. Diceva che ero io la pazza. Nessuna donna normale gli avrebbe ordinato di andarsene. Nessuna donna normale avrebbe cercato di respingerlo.

"I bambini avevano fame. Piangevano. Allora mi slegò in modo che potessi dar loro da mangiare. Ma non volle lasciarmi seppellire Enshi. Trascinò il suo corpo fuori dal rifugio e lo lasciò disteso lì allo scoperto, nello spiazzo fuori dalla porta. Il tempo era molto caldo. Enshi si gonfiò. Incominciò a puzzare. Arrivarono insetti e uccelli. Quando la porta della capanna era aperta, riuscivo a vederli banchettare. Hua continuava a dire: ’Che cosa c’è che non va? Che cosa è successo a Enshi?’.

"Le dissi di stare tranquilla. Avrebbe fatto infuriare il vecchio.

"Che altro potrei dire? Due uomini si erano scontrati nel periodo degli accoppiamenti. Uno aveva ucciso l’altro. Era una cosa che non accadeva spesso, ma non era sbagliata. Perché continuavo a pensare che fosse sbagliata? Perché odiavo il vecchio? Aveva il diritto di accoppiarsi con me. Aveva vinto lui, sebbene forse non in modo del tutto leale."

Nia smise di parlare. Attesi. Avevo un gusto aspro in bocca e non riuscivo a pensare a niente da dire.

— La smania finì e il vecchio se ne andò. Seppellii Enshi. Diedi da mangiare ai bambini, li pulii e li consolai. Poi sellai i nostri animali.

"Portai i bambini con me. Non potevo fare altro. Tenevo in braccio Anasu mentre Hua cavalcava il cornacurve di Enshi. Dovetti legarla alla sella. Seguimmo le tracce del vecchio. Ci vollero due giorni.

"Lo trovai ai piedi delle colline, ai margini della pianura. Si era acceso un fuoco nell’ultimo boschetto prima che iniziasse la pianura. Aiya! Ricordo quello che provai quando vidi il suo fumo salire in volute verso il cielo!

"Legai i cornacurve. Misi a terra i bambini e dissi a Hua di tenere d’occhio suo fratello. Dissi loro di non piangere, che sarei tornata presto, e scesi lungo la collina. Adesso avevo un arma. Un arco. Era lo stesso che era appartenuto a Enshi. Ricordo il momento della giornata. Appena dopo il tramonto. Il cielo a occidente era arancione. Il fuoco del vecchio brillava fra gli alberi. Mi avvicinai strisciando. Lo vidi rannicchiato accanto al fuoco." Nia s’interruppe. "Lo colpii nella schiena. Lui gridò e cadde riverso. Lo colpii di nuovo.

"Che altro c’è da dire? Mi accertai che fosse morto. Poi spensi il fuoco e tornai dai miei bambini. Erano rimasti in silenzio, nascosti in un cespuglio, come un paio di cuccioli di cornacurve. Aiya! Com’erano stati bravi! Li lodai e diedi loro da mangiare.

"In seguito mi recai a nord fino al villaggio. Affidai i bambini ad Angai. Adesso era lei la sciamana. Mi disse che li avrebbe cresciuti nel modo giusto. Io non potevo. Mi diressi verso est e finii dove mi hai trovata, nel villaggio di Nahusai."

Nia si appoggiò all’indietro e chiuse gli occhi. Doveva aver perso peso in quegli ultimi giorni. La sua faccia appariva più magra del solito ed era facile scorgere le ossa, perfino sotto la pelliccia. Aveva la mascella pesante. La fronte era rotonda e bassa. Gli zigomi erano grossi e non c’era alcuna rientranza dove il naso si univa alla fronte. Saliva diritto, ampio e piatto fino in cima. Aprì gli occhi e batté le palpebre. — Decidi tu fra noi due. Ha ragione Hua? Sono una pervertita?

Alzai lo sguardo in cerca di ispirazione. L’apertura per il fumo era scura. C’era qualcosa lassù che bloccava la luce.

Che diavolo? Mi alzai in piedi.

La cosa si mosse. Entrò di nuovo la luce del sole. Riuscivo a vedere il cielo. — Torno subito — dissi a Nia. Uscii e mi girai.

Come tutti i tetti del villaggio, anche questo era ricoperto di vegetazione. Le piccole foglie rotonde splendevano alla luce del sole e c’erano fiori arancioni. Fra i fiori svolazzavano gli insetti. Avevano ali gialle. Più o meno a metà della pendenza del tetto c’era la sciamana. La lunga veste era tirata su e potevo vederle le gambe. Erano ossute e pelose, con grosse ginocchia.

— Hai ascoltato dall’apertura per il fumo. Hai sentito quello che ha detto Nia.

— I miei occhi saranno cattivi, ma le mie orecchie sono le migliori del villaggio. Aiya! Che racconto disgustoso! Dovrei costringervi ad andarvene oggi. — Scese fino al bordo del tetto e si sedette. — Aiutami.

Mi protesi verso la donna, che si lasciò cadere fra le braccia. Era leggera e puzzava. Era un miscuglio di odori, conclusi mentre la mettevo giù. Pelo, muschio e alito cattivo. La vecchia aveva bisogno di un dentista. Feci un passo indietro.

— La Voce della Cascata ha detto di aiutarvi e quindi devo farlo. Quel pazzo! Perché non è cresciuto nel modo giusto e non è andato a raggiungere i suoi fratelli? Ma lui no, quel folle! Lui doveva sentire voci e vedere cose nei sogni. Vado a parlare con lui e quello danza qua e là e farfuglia. Nudo, per di più. Uno di questi inverni si prenderà una brutta infreddatura e morirà. Lascia che te lo dica, è duro fare la madre. Adesso, vattene via! La donna là dentro è debole. Ha bisogno di riposare.

Aprii la bocca.

— Non le dirò quello che ho sentito. Va’! Levati di mezzo!

Mi voltai e mi allontanai. Alle mie spalle la sciamana brontolava. Udii la parola "perversione" e la parola "disgustoso". Poi disse ad alta voce: — Perché queste cose capitano a me?

Continuai a camminare finché non arrivai a casa di Eshtanabai. La donna era seduta sulla soglia, appoggiata all’intelaiatura della porta, e aveva l’aria tranquilla e soddisfatta.

Mi fermai. Lei alzò lo sguardo. — Come sta la tua amica?

— Meglio. Dimmi, com’è la sciamana?

— Vecchia e bizzarra. Molti dicono che non è più quella di un tempo. Ma ricorda ancora le cerimonie. Parla del passato. Le donne anziane lo fanno sempre. E si preoccupa dei suoi figli. Non delle figlie. Queste si trovano nel villaggio. Sa come tirano avanti. Si preoccupa dei figli maschi. Ne ha avuti cinque e sono vissuti tutti abbastanza a lungo per subire il cambiamento. Quattro si trovano su a nord, se non sono già morti. Il quinto, il più giovane, l’hai conosciuto. È nato dal suo ultimo accoppiamento, quando stava già diventando vecchia. Forse è per questo che è diventato un oracolo. Le donne anziane hanno figli strani. Lo sanno tutti. Perché me lo domandi?

Feci il gesto che poteva significare qualsiasi cosa o niente, il gesto dell’incertezza.

— Non è un gran che come risposta. — Eshtanabai si alzò in piedi. — Vieni dentro. Ho un po’ di bara.

Era la bevanda alcolica indigena. O, per lo meno, la sostanza inebriante indigena sotto forma di liquido.

— Ci ubriacheremo. Non ho nient’altro da fare per oggi. — Mi precedette dentro casa.

La seguii. Perché no? Ci sedemmo accanto al fuoco. Era un mucchio di tizzoni. Vedevo un minuscolo rosseggiare in fondo al mucchio, dal quale saliva un filo di fumo che si avvolgeva in volute nel raggio di luce che penetrava dall’apertura nel soffitto. Eshtanabai riempì due scodelle e me ne porse una. Bevvi. Il liquido era amaro e mi bruciava in bocca. Tossii, poi deglutii.

— Bevine ancora — fece lei. Vuotò la sua tazza, poi la riempì. — Ascolta. — Si protese in avanti. — Credo che tu sia preoccupata per la sciamana. È una brava donna. Vecchia e stramba, ma brava. Ma non tutto quello che esce dalla sua bocca è santo. Soltanto un oracolo è santo in ogni momento, ed è una terribile tensione. La maggior parte degli oracoli muoiono giovani. Bevi ancora un po’. Ti farà bene. È dura starsene seduti ad aspettare che qualcuno che si ama si ristabilisca.

Bevvi il resto del bara.

Eshtanabai me ne versò dell’altro. — La sciamana è spesso santa, ma a volte è una vecchia sciocca, che parla dei propri figli. Noi cerchiamo di essere gentili, e non è facile. L’anno scorso abbiamo mandato via un ragazzo, e lei si è ubriacata. Non ha cantato le canzoni appropriate, le canzoni che dicono al ragazzo: "Sii coraggioso! Stai facendo quello che è giusto!". Ha cantato della donna che si è accoppiata con il vento. Quella canzone non è quella adatta.

— Di che cosa parla?

— Non la conosci? È una storia molto vecchia. È successa molto tempo fa, quando vivevamo come il Popolo dell’Ambra. Le nostre case erano tende e noi seguivamo la mandria. C’era una donna che si allontanò nel periodo dell’accoppiamento. Ci fu un terribile uragano quell’anno. I cornacurve fuggirono in preda al panico e gli uomini li inseguirono. Di conseguenza questa donna non trovò un uomo. La smania finì. Lei tornò al villaggio. Dopo un po’ di tempo si vide chiaramente che era gravida. Verso la fine dell’inverno ebbe una figlia. Era la figlia del vento. Nessuno riusciva a vedere la neonata ed era difficile da trovare. Quando aveva fame, andava dalla madre a poppare. Allora, toccandola, la madre apprese che era una femmina e coperta di soffice pelliccia. Ma per la maggior parte del tempo la bambina era irrequieta. Correva nella tenda della madre. Correva per il villaggio. Un giorno fuggì dal villaggio nella pianura. Non ritornò mai più. Sua madre sapeva che sarebbe successo. Compose una canzone per la figlia prima che se ne andasse. Fa così:


"Hola!

mia piccina.

Hola!

mia figlia del vento.


"Adesso turbini

nella mia tenda

Adesso fai svolazzare

i tendaggi.


"Presto te ne andrai

nell’immensa pianura

per sempre."


"È questa la canzone che la vecchia cantò quando allontanammo dal villaggio il ragazzo. Tutti s’infuriarono, soprattutto la madre del ragazzo. Una donna ha numerosi rituali nella sua vita. Un uomo ne ha soltanto uno: la cerimonia di addio. E la vecchia l’aveva rovinata. Ne aveva fatto una triste ricorrenza. Ma che cosa possiamo fare? Non è facile trovare una brava sciamana, e questa è eccellente. E gli spiriti mandano la pioggia per i nostri orti quando lei glielo chiede. Prendi ancora da bere."

Bevemmo. Eshtanabai mi raccontò della vecchia sciamana, quella che avevano avuto prima di questa. Era una donna avida.

— Aiya! Aveva una casa piena di oggetti. Più diventava vecchia, più pretendeva. Chiedeva più di quanto valessero le cerimonie. Noi glielo davamo. Eravamo costrette. Nessuno desiderava la malasorte o la collera degli spiriti. Ma gli spiriti si adirarono ugualmente. Le cerimonie non funzionavano.

— Perché?

Eshtanabai aggrottò la fronte. — Perché davamo troppo. Guarda. Io riempo la tua ciotola. Sono generosa. La riempio fino all’orlo. Questo è un dono adeguato. Tu ne hai abbastanza e ciò ti rende contenta. Io so che mi darai qualcosa in cambio e ciò mi rende contenta. Ma se continuo a versare e il bara trabocca, se ti bagna le mani e si rovescia sui tuoi indumenti e sul pavimento, non è un dono opportuno. È un insulto e un pasticcio.

"Un dono è un legame. Ma soltanto uno sciocco lega una corda forte a un pezzetto di cordoncino. Devi legare fra loro solo cose simili, altrimenti il nodo si scioglierà o si spezzerà."

— Ne sei sicura?

Eshtanabai batté le palpebre. — Quello che so è che gli spiriti non ascoltavano quella donna. I suoi rituali non ci facevano ottenere niente. Trovammo una nuova sciamana, una che prende ciò che è giusto e dà ciò che è giusto, anche se è mezza matta e parla dei propri figli. Ecco. Lascia che ti faccia vedere di nuovo. — Versò dell’altro liquido. — Fino all’orlo e non di più. Che cosa mi darai, o senzapelo?

Mi recai dov’era il mio zaino, tirai fuori una collana e gliela diedi. Lei mi offrì altro bara. Le diedi un braccialetto scolpito ricavato da un legno indigeno e intarsiato con i denti di una specie di pesce locale. Era stato Derek a fare il braccialetto. Era un eccellente artista. Era ormai il crepuscolo e il cielo a occidente era di un rosa arancione. Alta nel cielo c’era una delle lune: un brillante punto luminoso. Pensai che stavano succedendo troppe cose e non ne avevo più il controllo. Oh, bene. Andai nella parte posteriore della casa e crollai addormentata su un mucchio di pellicce.

L’indomani mattina tornai a casa della sciamana. Nia era seduta e mangiava una ciotola di poltiglia. — Perché hai difficoltà a camminare? — mi domandò.

— Ho fatto una cosa stupida. Ohi, la mia testa! — Mi sedetti.

— Non sei più tornata ieri.

— La sciamana mi ha detto che avevi bisogno di riposo. — Vedevo Nia sfocata. Mi fregai gli occhi.

— Non mi hai dato una risposta. — Nia mise giù la sua ciotola. C’era un grumo di poltiglia sul fondo. Lei lo raccolse con un dito e se lo mise in bocca. — Ho ragione io? Oppure ha ragione Hua?

— Che cosa?

— Sono una pervertita?

Mi massaggiai il collo. — Come faccio a saperlo? Ma posso dirti questo: le persone hanno usanze diverse. Ci sono posti in cui gli uomini e le donne vivono insieme come facevate tu ed Enshi. Ci sono posti in cui la gente direbbe che ciò che ti ha fatto il vecchio è stata una cosa orribile.

— Ah! — esclamò Nia. — Dove sono quesi posti?

— Molto lontano da qui.

— Forse un giorno andrò in un posto così.

Non dissi una parola. Il mio mal di testa stava peggiorando e avevo difficoltà a concentrarmi.

Nia si grattò il naso. — Ma forse non mi piacerebbe un posto simile.

— Forse no.

Alla sera mi recai al fiume. Faceva molto caldo ed era umido e afoso laggiù. L’aria brulicava di insetti. Feci una chiamata a Eddie e gli raccontai la storia di Enshi.

— Interessante. Sembra che abbiano inventato la monogamia. Mi riferisco a Nia e a Enshi.

— E il vecchio ha inventato lo stupro.

— Uhu. — Non disse più nulla per un minuto o due. Lo stupro era un argomento che rendeva nervosa la maggior parte degli uomini. Finalmente parlò. — Abbiamo fatto un altro rilevamento col satellite. Non ci sono città. Nemmeno una. Secondo Tony, la cosa ha senso. Gli uomini non possono sopravvivere in un’area urbana. E gli uomini devono essere vicini alle donne. Altrimenti l’accoppiamento sarebbe difficile, forse impossibile. L’intera specie è ferma a uno stadio di sviluppo pre-urbano, e lo sarà sempre.

Un insetto mi volò su per il naso. Sbuffai e tossii. Un secondo insetto mi volò in bocca. Lo sputai fuori. — Eddie, non posso restare qui. Ci sono insetti dappertutto.

— Okay. Harrison vuole che ti informi sulla guerra. Non crede che esista su questo pianeta.

— Okay. — Corsi al villaggio. Il cancello era chiuso. Dovetti gridare e picchiare sul legno finché non arrivò qualcuno che mi fece entrare.

Il giorno seguente parlai con Eshtanabai. Lei non aveva mai sentito parlare di violenza organizzata. — Come potrebbe accadere una cosa del genere? Capita talvolta che due uomini si incontrino e nessuno dei due accetti di cedere. Allora si battono. E ci sono donne folli che litigano con le loro vicine. Ma nessuno si schiererà con una donna litigiosa. E nessuno prenderà mai le parti di un uomo.

Mmm, pensai. Mi trovavo su un pianeta dove non esistevano guerre, né città, né amore sessuale. Era un bene o un male? Non avrei saputo dirlo.

Eshtanabai mi tese una scodella. — Prendi un po’ di bara. Beviamo e parliamo di qualcosa che abbia senso.

Dopo un po’ domandai: — Perché avete palizzate attorno al vostro villaggio?

— Ci sono animali sulla pianura. Assassini. Seguono la mandria. E quando la mandria arriva a sud, si aggirano in cerca di prede. Cercano qualsiasi cosa si possa mangiare. Rifiuti. Bambini. La palizzata è per tenerli fuori.

— Aiya!

— Inoltre, a noi piacciono le palizzate. Ci sentiamo più a nostro agio quando ci guardiamo attorno e vediamo che siamo rinchiuse.

La cosa aveva un significato logico per me. Ero cresciuta su un’isola. Il vasto oceano non mi disturbava, ma non mi ero mai sentita del tutto felice nella pianura centrale americana. Ce n’era troppa. Non mi sentivo a mio agio ritta su un pezzo di terra che si estendeva, apparentemente, senza fine.

Chiacchierammo di altre cose. Mi mantenni più o meno sobria. Eshtanabai era chiaramente confusa. Aveva forse un problema con le sostanze inebrianti? In questo caso, perché? La tensione di fare la mediatrice? Oppure c’era qualche altro problema, psicologico o fisico, del quale non sapevo nulla?

Dormimmo. Mi svegliai con la luce del sole. Nia venne a farmi visita, zoppicando e appoggiandosi a un bastone.

— Sono pronta a partire — dichiarò. — Questo posto mi rende irrequieta, e la sciamana mi rivolge delle occhiatacce molto brutte.

— Riesci a camminare a stento — le dissi.

— A questo proposito so che cosa fare. Non pensare di restare qui ancora per molto tempo.

Si allontanò zoppicando. Mi diressi verso la casa accanto. C’era un’anziana donna che sapeva tutto quello che c’era da sapere sui rapporti di parentela. Così almeno mi aveva detto la mia ospite.

Nia tornò nel tardo pomeriggio. Io ero seduta fuori dalla porta, accanto all’anziana donna. Mi stava spiegando gli obblighi fra sorelle e i figli delle sorelle.

Nia si fermò e si appoggiò al suo bastone, un rozzo pezzo di legno. Aveva ancora la corteccia e vicino alla parte superiore spuntava un ramoscello. — Partiamo domani. Ho dato i miei attrezzi alla lavoratrice del rame. Lei mi ha dato in cambio due cornacurve. Possiamo cavalcare.

L’anziana donna si accigliò. — Mi stai interrompendo. Stavo per spiegare chi offre i doni a un ragazzo quando è pronto a lasciare il villaggio. Questa persona senza pelo è sorprendente. Non sa niente di niente. Ma è disposta ad ascoltare, e non interrompe.

Nia emise un suono iroso. — Me ne vado. Ma sta’ pronta, Li-sa. Voglio partire all’alba. — Se ne andò zoppicando.

La vecchia terminò la sua spiegazione. Le diedi una collana fatta di perline di legno. Il legno veniva da un’isola dell’oceano occidentale, un luogo freddo e piovoso che mi faceva pensare a Ecotopia nel Nord America. Questo… il legno, non Ecotopia… era rosso e di grana molto sottile, pieno di pieghe e volute. La superficie lucidata luccicava.

— Aiya! - esclamò l’anziana donna. — Questa farà colpo su tutti. — Si mise la collana.

Torni a casa di Eshtanabai. La mia ospite era fuori; ritenni che stesse lavorando nel suo orto. Mi sedetti. A suo tempo tornò.

— State per partire.

Feci il cenno dell’assenso.

— Bene.

— Che cosa?

— La sciamana è furiosa. Se restate, ci sarà un litigio, molto brutto. Non c’è niente di peggio di una sciamana adirata.

— Immagino che tu abbia ragione. — Riflettei un momento. — Che cosa è successo alla vecchia sciamana? Quella avida? Doveva essere furiosa quando avete trovato qualcuno per sostituirla.

— Era furiosa. Ma non aveva potere. Gli spiriti avevano cessato di ascoltarla. Se ne è andata via sulla pianura. Con ogni probabilità è morta. O ha trovato un altro villaggio. — Eshtanabai sembrava totalmente disinteressata.

Erano gente fredda. Era forse perché non amavano come noi? Poi mi ricordai di Hakht e di Nia. Nessuna delle due era fredda.

— Questa sera mangeremo bene — disse Eshtanabai. — Pesce del fiume e un uccello grasso. Domani vi darò del cibo per il viaggio.

— Grazie.

Mangiammo bene. Il pesce era farcito di verdure e arrostito. L’uccello era cotto in umido. Bevemmo un sacco di bara. Venne gente a farci visita e a guardarmi fissamente. La vecchia della porta accanto fece sfoggio della sua collana. Uno dei bambini di Eshtanabai suonò un flauto. Un altro batté su un tamburo. Tutt’a un tratto Eshtanabai balzò su. Afferrò un ramo dal fuoco e lo fece roteare attorno alla testa. Poi corse fuori dalla casa. Tutti noi la seguimmo. Fuori nella strada la mia ospite danzava, girava e agitava la sua torcia. Le altre donne gridavano: — Hola! — I due bambini continuavano a suonare il flauto e il tamburo. Eshtanabai cantava nella sua lingua, che io non comprendevo. Incedeva impettita avanti e indietro. Le altre donne facevano gesti di approvazione e affermazione.

Che cosa stava succedendo? Mi guardai attorno. Nia era appoggiata contro la parete di una casa. Teneva le braccia conserte e la fronte aggrottata.

— Che cos’è? — domandai.

— Non so dirti le parole, ma so che cosa significano. Lei si sta vantando. Sta dicendo: "Io sono saggia. Sono prudente. Posso appianare ogni lite". Dice loro: "Io sono generosa. Voi avete mangiato il mio cibo. Io ho trovato un modo per liberarci da queste strane persone che ci hanno messe tutte a disagio. Vedrete tutto il bene che faccio per voi". È questo che sta dicendo.

Era un discorso politico. Osservai con interesse. Comparvero altre torce. Adesso danzavano tutte all’infuori di me e di Nia. I bambini si arrampicavano in cima alle case, saltavano fra il fogliame e gridavano. Eshtanabai proseguiva nella sua cantilena.

Dopo un po’ Nia disse: — Il Popolo del Rame è sempre lo stesso. Fa sempre troppo baccano. Me ne vado a dormire. — Se ne andò zoppicando.

La festa finì all’incirca un’ora più tardi. Non era rimasto più niente da bere né da mangiare. Eshtanabai aveva detto tutto quello che aveva da dire. Andammo tutti a dormire. All’alba arrivò Nia e mi svegliò scrollandomi. Io brontolai e mi girai dall’altra parte.

— Muoviti — mi sollecitò Nia.

Andai incespicando fino alla latrina. Quando tornai, Eshtanabai si era alzata. Raccolsi le mie cose e lei mi diede un sacco pieno di cibo.

— Addio, senzapelo.

Risposi con il gesto del congedo, seguito dal gesto della gratitudine.

Nia disse: — Andiamo.

La seguii fuori. In quel momento l’aria era fresca, ma somigliava alle mattine d’estate nel Minnesota o nel Wisconsin. La giornata sarebbe stata molto calda. Nia mi guidò attraverso il villaggio. Non aveva il bastone, e faceva fatica a camminare. Alla fine l’aiutai io. Arrivammo al cancello. Lei l’aprì e uscimmo. In lontananza, verso est, il sole stava sorgendo, nascosto dal villaggio. La sua luce illuminava il cielo. C’erano due animali legati presso il cancello: quadrupedi, ed erbivori, ne ero quasi certa. Avevano zampe lunghe e un ampio torace, e la coda era simile a quella dei cervi. Le loro corna erano sottili e ricurve come quelle delle antilopi. Uno degli animali mosse di scatto la testa e sbuffò; l’altro batté una zampa.

— Questi sono cornacurve — mi spiegò Nia. — Sono in condizioni abbastanza buone, sebbene uno stia invecchiando. Non sono in grado di dire granché delle selle. Dovrebbero durare finché non arriveremo ovunque stiamo andando.

Slegò uno degli animali e montò in sella. Io esitai, poi slegai l’altro animale. Questo si mosse.

— Aspetta un minuto — dissi. Misi un piede nella staffa, mi aggrappai alla sella e mi tirai su. L’animale si mosse di nuovo, facendo un passo e agitando la testa. In qualche modo riuscii a issarmi in sella, ma lasciai cadere il sacco del cibo.

— Non sai cavalcare — osservò Nia.

— Non molto bene.

Lei sollevò la gamba sopra la sella con un movimento agile e naturale come se stesse scendendo da un parapetto. Quando toccò il suolo, fece una smorfia e si lamentò. Brontolò fra sé e allungò la mano per afferrare il sacco. Un attimo dopo era di nuovo in sella al suo animale. — Sarà un lungo viaggio — mi disse.