"Sigma Draconis" - читать интересную книгу автора (Arnason Eleanor)LixiaOtto di noi furono fatti atterrare, ciascuno per proprio conto: tre sul continente grande, che si estendeva con una forma irregolare attorno al polo meridionale del pianeta, pieno di crepacci e lobi. Il centro del continente era costituito da ghiaccio. Le coste erano verdi, verdeazzurre e gialle: praterie, foreste e deserti, a detta delle persone che analizzavano gli ologrammi. Altri quattro andarono sul continente piccolo, che si trovava a nord dell’equatore. Lì non c’erano ghiacci degni di nota e quasi nessun deserto, ma vegetazione in abbondanza. C’erano montagne: una catena a occidente, lungo la costa, e altre catene minori a est e a sud. Nulla di imponente, nulla di simile alle Montagne Rocciose o all’Himalaya. Ma, secondo i planetologi, due delle catene erano vulcaniche. Una era attiva. L’altra poteva esserlo. L’ultima persona fu fatta atterrare su una delle numerose isole dell’arcipelago che dal continente grande si estendeva ad arco fin oltre l’equatore, raggiungendo quasi il continente piccolo. Altre isole costellavano il resto del pianeta-oceano. Erano piccolissime e assai distanziate fra loro. Interessanti per i biologi, naturalmente. Non c’è niente come un’isola per studiare l’evoluzione. Decidemmo, però, che non erano il posto dal quale avremmo dovuto iniziare. Io andai sulla costa nordorientale del continente settentrionale. Ero equipaggiata con una giacca di tela di jeans e una leggera camicia di cotone. I miei stivali erano di plastica, resistenti e flessibili. Nell’avambraccio destro, sotto la pelle, avevo una fila di capsule che mi fornivano le vitamine che non erano disponibili su questo pianeta. Nel mio intestino c’erano cinque nuovi tipi di batteri, studiati per scomporre le proteine locali, trasformandole in aminoacidi che io potessi digerire. Avevo uno zaino che conteneva una radio, una cassetta con l’attrezzatura medica, un poncho, un’altra camicia, esattamente come la prima, e un cambio di biancheria. Un grosso scomparto era pieno di gingilli. Questi erano fabbricati con materiali originari del pianeta. Non volevamo introdurre niente di alieno all’infuori di noi stessi. Da ultimo, avevo un medaglione appeso a una catena di metallo grigio. Il medaglione era di metallo, piatto e scuro, con inseriti dei pezzi di vetro. Era un registratore audiovisivo, e quasi indistruttibile, così mi era stato detto. Qualunque cosa mi fosse successa, sarebbe sopravvissuto. Sbarcai su una spiaggia, in prossimità di una fila di dune. Erano alte e spoglie, di un colore rosa arancione. La barca che mi aveva trasportata virò e tornò verso l’aeroplano. Io mi diressi verso l’interno, arrampicandomi su una duna. Quando arrivai in cima, sentii un rombo e mi guardai attorno. L’aeroplano si stava muovendo sull’acqua. Si levarono spruzzi, poi del fumo. Era in aria. Le ali risplendevano alla luce del sole. L’aeroplano continuava a salire. Un minuto o due più tardi, era sparito. Guardai il cielo deserto e tutt’a un tratto mi sentii molto sola. Allora incominciai a scendere lungo l’altro versante della duna. Arrivata in fondo, trovai una pista. Non era una gran cosa. Stretta e sabbiosa, si allontanava serpeggiando dalle dune in direzione di un boschetto di alberi. Erano state delle persone a tracciarla? Qualche forma di vita intelligente? Sapevamo che il pianeta era abitato. Le immagini fornite dai satelliti avevano mostrato villaggi e mandrie le cui migrazioni, stando a quanto ci avevano detto gli zoologi, erano troppo sistematiche per essere assolutamente naturali. In ogni caso, mi trovavo di fronte a una pista. Decisi di seguirla. Questa mi condusse fra gli alberi e in mezzo ad alcune colline. Spesso le cime delle colline erano spoglie fatta eccezione per alcune macchie di una pianta che somigliava un po’ ad alta erba gialla. Le foglie, o i fili, erano rigide e avevano bordi seghettati. Non era un organismo dall’aspetto gradevole. Si trattava di un pianeta non ostile? Negli avvallamenti fra le colline c’erano altri alberi. Erano piccoli e contorti, con piccole foglie scure. Dai tronchi spuntavano spine che erano lunghe e sottili, simili ad aghi. Un altro organismo dall’aspetto sgradevole. Incominciarono a venirmi in mente raccapriccianti storie di fantascienza. Perché avevo letto quella roba? Gli anziani della mia famiglia mi avevano messa in guardia: la fantascienza non portava a niente di buono. Non serviva a niente innervosirsi o pensare al passato. Mi trovavo in un luogo del tutto nuovo e non avevo la minima idea di come fosse. Il mio lavoro, per il momento, consisteva nell’osservare. Successivamente, quando avessi avuto delle informazioni, avrei potuto pensare, ricordare e confrontare. Dopo circa un chilometro giunsi in prossimità di un manufatto. Si trovava in un avvallamento al centro di una radura. I pendii tutt’attorno erano coperti di alberi. Mi fermai. La cosa era alta tre metri e fatta di pezzi di legno lunghi e stretti. Mi fece pensare a una palestra nella giungla oppure alle costruzioni rituali fabbricate dagli aborigeni della California meridionale. Avevo trascorso del tempo insieme a loro. In mezzo ai seni e sulla parte superiore delle braccia avevo le cicatrici della loro cerimonia di iniziazione. Non ero mai riuscita a capire perché mai mi ci fossi sottoposta fino in fondo. Ma conservavo le cicatrici. Me le ero guadagnate e, ogni volta che mi facevo una doccia, mi ricordavano di non lasciarmi coinvolgere troppo dai sistemi di valori di altri popoli. Ispezionai la costruzione. Adesso notai che sotto c’erano i residui di un fuoco. Tre oggetti grigi erano appesi a una delle stecche più basse. Mi inginocchiai e li esaminai. Pesci o qualcosa di molto simile a pesci. Mi dondolai all’indietro sui talloni e mi sentii soddisfatta. Una rastrelliera per affumicare il pesce. A farla era stato un qualche essere intelligente. Ero la prima persona della Terra a vedere da vicino un manufatto alieno; su questo pianeta, in ogni caso, e per quel che ne sapevo. Restai dov’ero alcuni minuti, osservando i pezzi di legno. Erano nodosi e contorti. Non c’era del legno migliore in quella zona? Mi guardai attorno. Tutti gli alberi nelle vicinanze avevano rami contorti. La struttura era tenuta insieme da strisce di fibra. Ne strappai via un pezzetto e lo arrotolai fra le dita. Al tatto sembrava una qualche specie di prodotto vegetale. Forse corteccia. Qualcosa fece un rumore alle mie spalle. Mi alzai lentamente e mi girai, tenendo le mani tese all’infuori con le palme in avanti. Il gesto significava "Vedi? Non porto armi". C’era una creatura lì ferma ai margini della radura, a forse venti metri di distanza. Un bipede. Era all’incirca della mia statura, tarchiato e coperto di pelame. Il pelo era di un bruno scuro, quasi nero. La creatura aveva due braccia, una testa e una faccia. Ero troppo lontana per distinguerne le fattezze. La creatura, uomo, donna o animale che fosse, indossava un gonnellino e in una mano teneva un coltello. — Sono estremamente pacifica. — Tenevo le mani tese all’infuori e il tono della mia voce era sommesso e uniforme. — Non ho cattive intenzioni. La creatura disse qualcosa che io, naturalmente, non riuscii a capire. Ma il tono non mi piaceva. Era forte e aveva un che di aspro. — Non ho cattive intenzioni. La creatura sollevò il coltello e fece un passo avanti. Io indietreggiai. — Non possiamo discuterne? — Mi concentrai nel mantenere un tono di voce sommesso e conciliante. Evitavo di incontrare gli occhi della creatura. Fra molte specie, compresa la mia, uno sguardo diretto era una sfida. La creatura fece un altro passo nella mia direzione. Decisi di andarmene. — D’accordo. Hai vinto. Addio. Attraversai arretrando la radura. La creatura mi seguì per un tratto, poi si fermò accanto alla rastrelliera. Quando arrivai al limitare della radura, mi fermai. — Ne sei sicuro? La creatura sollevò più in alto il coltello e sbraitò qualcosa. Mi voltai e mi allontanai a tutta velocità. Avevo la pelle della schiena che formicolava. Continuavo a immaginare la lama di un coltello che vi si conficcava. Quando arrivai in cima alla successiva collina, mi voltai a guardare. La pista era deserta. Non c’era niente che mi seguisse. Bene. E adesso? Forse la creatura che avevo incontrato era un eremita. Senza dubbio dovevano esserci altri membri della specie che fossero amichevoli o curiosi. Proseguii, andando sempre verso l’interno. Incominciavo a notare dei rumori: un sommesso ronzio che immaginai provenisse da pseudoinsetti nascosti fra gli alberi. Cose simili a uccelli svolazzavano di ramo in ramo. Quando erano fermi, emettevano mugolii o fischi. Mi resi conto, per la prima volta, che la giornata era mite e radiosa. Soffiava una leggera brezza. Nel cielo, che era di un intenso verdeazzurro, si muovevano alticumuli. L’aria odorava di acqua salmastra. Il mio pensiero corse alla mia infanzia nel Libero Stato delle Hawaii, sull’isola di Kauai. Ero vissuta in una grande casa, a cinque minuti dall’oceano. Nove genitori si erano presi cura di me, e c’erano stati una dozzina di fratelli e sorelle con cui giocare. Sarebbe dovuto essere un periodo felice. Ricordavo la luce del sole, fiori, volti gentili, una spiaggia bianca, acqua azzurra, e niente risacca. Ma ero stata una bambina imbronciata, sempre ansiosa di andarsene. Nel pomeriggio camminavo ormai attraverso una foresta acquitrinosa. Qui gli alberi erano alti e diritti. Il loro fogliame scuro non lasciava filtrare la luce del sole. L’aria era ferma e fresca e aveva una nuova fragranza: il profumo della foresta. Era intenso e caratteristico, diverso da qualunque odore avessi sentito in precedenza. Pensavo che l’avrei riconosciuto se mai l’avessi sentito di nuovo, sebbene non ne fossi assolutamente certa. Era molto più facile ricordare qualcosa se aveva un nome e una descrizione. Per il momento, avrei chiamato quella fragranza "diversa" e "gradevole". Nel tardo pomeriggio arrivai in prossimità di un villaggio. Dapprima sentii l’odore del fumo di legna, poi vidi delle abitazioni davanti a me fra gli alberi. Non riuscivo a distinguerle chiaramente. La foresta era troppo piena di ombre. Qui e là la luce di un fuoco brillava attraverso una porta o una finestra. Mi fermai e riflettei su cosa fare. Non sarebbe servito a nulla aggirarsi furtivamente. Se mi avessero scoperta a spiare, mi sarei trovata davvero nei guai. La cosa migliore, la cosa che avevo fatto nella California meridionale e nel New Jersey, era di entrare direttamente. Beninteso, quella tecnica non aveva funzionato nel New Jersey. Laggiù gli abitanti avevano cercato di sacrificarmi al loro dio, il Distruttore delle Città. Decisi di non pensare a quell’episodio. Passai ancora un minuto o due a farmi coraggio, poi entrai nel villaggio. Ai margini c’erano piccole capanne, costruite in legno. Erano molto distanziate fra loro, come se gli individui che vi abitavano non fossero troppo amichevoli. Più avanti, gli edifici erano grandi e lunghi, disposti vicini gli uni agli altri. Alcuni bambini, nudi a parte la pelliccia, correvano nelle strade. Un gruppetto di tre mi vide e si fermò a fissarmi a bocca aperta. Erano abbastanza vicini da permettermi di vedere le loro facce: rotonde, piatte e coperte di pelo. Ogni faccia aveva una bocca, un naso e un paio di occhi gialli. — Salve — dissi in tono cordiale. I bambini strillarono e corsero via. Proseguii fra le case. Più volte passai accanto a persone grandi. Adulti. Mi fissavano, ma non dissero niente. Non fecero nessun gesto minaccioso. La cosa era incoraggiante. Arrivai in uno spazio aperto che sembrava trovarsi più o meno al centro del villaggio. Una piazza. Mi accosciai e rimasi in attesa. Ormai il sole era sparito e il cielo incominciava a farsi scuro. La gente si assembrava ai margini della piazza, parlando sommessamente. Sudavo. Se avessi fatto un errore, se costoro non fossero stati amichevoli, sarei morta lì. Qualcuno si diresse verso di me: una persona alta e magra. Lui, o lei, portava una veste lunga e numerose collane. Qualcuno di importante. Uno sciamano o un capo. Naturalmente usavo le definizioni della Terra. Mi alzai lentamente in piedi, poi tesi le mani all’infuori. — Vengo in pace. La persona mi osservò con cura. Finalmente allargò le mani, ripetendo il mio gesto. E adesso che cosa sarebbe successo? Lasciamo che sia l’indigeno a deciderlo. Aspettai. La persona si tolse una collana e me la offrì. La presi. Le palline erano piccoli cilindri di rame. C’era un ciondolo: un pezzo di conchiglia intagliata a forma di pesce. Era quasi certamente un gesto amichevole. — Grazie. — Mi misi la collana. Adesso dovevo ricambiare. Mi sfilai lo zaino dalle spalle, poi mi chinai e l’aprii. — Ecco. — Mi raddrizzai, porgendo una collana fatta di conchiglie. Quel particolare tipo di conchiglia, blu scuro e lucente, era stato trovato nell’oceano settentrionale del pianeta, attorno a un piccolo arcipelago che avevamo chiamato Isole Deserte. Io e Harrison Yee avevamo raccolto le conchiglie e le avevamo intagliate, usando tecniche che Harrison aveva appreso presso l’Università di Pechino, alla Facoltà di Antropologia. L’individuo prese il mio dono, poi mi fece un cenno, si voltò e si allontanò. Lo seguii. Passammo accanto a una folla di gente che stava a guardare. Avevo la camicia intrisa di sudore. Arrivammo davanti a una casa. La persona gesticolò di nuovo. Entrai e mi trovai in una vasta stanza lunga. Al centro ardeva un fuoco. Alla sua luce rossastra scorsi delle pareti di tronchi e travi di legno. Il pavimento era di terra o argilla. Mi guardai attorno. Non c’era mobilia, ma c’erano mucchi di pellicce negli angoli. Lungo le pareti vidi dei paioli. Alcuni erano alti un metro. Neri e lucidissimi, scintillavano alla luce del fuoco. L’aria odorava di fumo di legna e di qualcos’altro: un aroma pungente. Guardai verso l’alto. Dalle travi pendevano mazzi di piante. Erbe aromatiche, pensai. Chissà se erano selvatiche o coltivate? Quegli individui coltivavano la terra? Avevano la ruota del vasaio? Quali metalli lavoravano oltre al rame? Il mio ospite mi seguì all’interno. Lo guardai. Ora, alla luce del fuoco, notai le spalle curve, le mani ossute, la pelliccia che diventava grigia. Era una persona anziana, ne ero quasi certa. Gli occhi arancioni mi osservavano. Le palpebre erano pesanti, le pupille due fessure verticali. Dopo un momento la persona parlò. — Mi dispiace. Non conosco la tua lingua. Il mio ospite allungò una mano e mi toccò con estrema delicatezza il viso. Non c’era pelo nella parte interna della mano. La pelle era dura e secca al tatto. — Uh! Io avevo i capelli tirati indietro e legati sulla nuca. La persona mi sfiorò il lato della testa, tastando la capigliatura in quel punto, poi toccò i capelli che mi ricadevano fra le scapole. — Tirai indietro la mano e mi tolsi il fermaglio dai capelli, scuotendo la testa. I capelli ricaddero liberi. Il mio ospite sussultò. Mi afferrò alcune ciocche e tirò. Per un attimo sopportai il dolore, poi dissi: — Ehi — e toccai molto delicatamente la mano pelosa. La persona mollò la presa. Parlò di nuovo, forse per scusarsi, e mi invitò con un cenno ad avvicinarmi al fuoco. Arrivarono altre persone, che indossavano gonnellini o tuniche. Vidi altre collane fatte di rame e cinture con fibbie di metallo. Il metallo era giallo, ottone oppure bronzo. I nuovi arrivati stesero pellicce sul pavimento. Io e il mio ospite ci sedemmo. Qualcuno portò una ciotola piena di liquido. Il mio ospite bevve, poi mi offrì la ciotola. Era di argilla cotta, nera come i paioli e lucente. All’esterno, sotto il bordo, era inciso un disegno geometrico. Il liquido all’interno appariva scuro e aveva un odore pungente. Mi ricordai di ciò che mi avevano detto i biochimici. Probabilmente potevo mangiare quello che mangiavano gli indigeni. "Naturalmente ci sono un sacco di cose che non riuscirai a metabolizzare, neppure con i virus che ti abbiamo fornito. Se resterai laggiù per un certo periodo di tempo, ciò provocherà in te parecchie carenze. Ma non pensiamo che resterai avvelenata." Sollevai la ciotola e bevvi. Il liquido era acido oltre che pungente. Piuttosto saporito. Avevo consumato cose di gran lunga peggiori nel New Jersey. Dissi: — Grazie — e porsi la ciotola al mio ospite. Lui, o lei, mosse la mano in modo rapido e deciso, un gesto che significava qualcosa. Le altre persone dissero "ya" e "uh". Mi sembrò che fossero più rilassate di prima. In ogni caso, stesero altre pellicce. Altre persone si sedettero finché mi trovai circondata. L’aria era satura del loro odore di polvere e pelliccia. Fu portato del cibo. Non ero sicura di che genere di roba si trattasse. Mangiai adagio e con circospezione e il meno possibile. Ma mangiai. Nella maggior parte delle società di cui ero a conoscenza, rifiutare il cibo era un gesto offensivo. Un antropologo doveva avere la digestione di una capra. Le persone attorno a me incominciarono a conversare sommessamente. Spesso mi lanciavano occhiate. Solo il mio ospite restava in silenzio e continuava a porgermi nuovi piatti, osservandomi per assicurarsi che mangiassi. Un piatto era costituito da pesce, ne ero quasi certa. Un altro mi ricordava dei pomodori verdi in salamoia. Un terzo aveva l’aspetto di Le persone che mi stavano attorno ruttarono ed emisero dei suoni simili al tubare. Una serie di "uh" e "ya". Feci altrettanto. Il pasto continuò. Cominciai a sentirmi stordita. Qualcosa che avevo ingerito stava facendomi un effetto narcotico. Le persone tutt’attorno si fecero più rumorose. Parecchi tesero le mani per toccarmi i vestiti, le mani o la faccia. Qualcuno tirò fuori uno strumento simile a un flauto. Qualcun altro incominciò a battere fra loro due bastoncini cavi. Un battito e un sibilo, un battito e un sibilo, così faceva la musica. Mi appoggiai all’indietro su un gomito e rimasi a osservare il suonatore di flauto. Lui, o lei, indossava una tunica gialla e un paio di alti braccialetti di rame che mandavano bagliori con l’ondeggiare del suonatore, tenendo il tempo con la musica. Non avevo difficoltà a sentirne il ritmo; era quasi sempre regolare: un cuore con una leggera aritmia. La musica cessò. Il mio ospite si alzò in piedi e io mi guardai attorno. C’era un nuovo individuo nella stanza, appena dentro l’uscio aperto. Al pari del mio ospite, anche questo portava una veste lunga. Un segno di importanza? O di età? Sesso o occupazione? Portava un cappello, il primo che mi capitasse di vedere: alto e appuntito, e ornato di conchiglie. Mi alzai in piedi, ondeggiando un poco. Mi ci volle un momento per mettere a fuoco le immagini. Il nuovo arrivato aveva un’aria torva. Vidi una fonte di problemi nel portamento rigido ed eretto, nelle spalle tenute alte e arretrate, negli occhi strizzati, quasi chiusi, che mi fissavano in modo diretto. L’uomo, o la donna, portava un bastone in cima al quale erano appese delle penne che ondeggiavano, ma non per il vento. L’individuo tremava. Non riuscivo a capire se il movimento fosse intenzionale. La persona disse qualcosa. Il suono delle sue parole era incollerito. Il mio ospite rispose seccamente. Le persone attorno a me incominciarono ad alzarsi e a indietreggiare. Era una qualche specie di conflitto di poteri ed ebbi la sensazione di trovarmici al centro. L’individuo con il bastone disse ancora qualcosa. Il mio ospite serrò la mano a pugno e l’agitò, poi indicò la porta. Questo era abbastanza chiaro. "Tu, tal dei tali, vattene!" L’individuo con il bastone lanciò un’occhiata astiosa e se ne andò. Gli altri lo seguirono alla spicciolata finché rimasero solo in tre: il mio ospite, il suonatore di flauto e una persona dal pelame bruno rossiccio che luccicava come rame alla luce del fuoco. — Uh! — disse il mio ospite. Gli altri fecero dei gesti che probabilmente significavano la loro approvazione. Mi sentivo stanca e stordita. Avevo preso troppo di qualcosa, con molta probabilità del liquido. Dovevo andare cauta nel berlo in futuro. Mi strofinai il viso. Il mio ospite mi guardò, poi gesticolò. Raccolsi il mio zaino. Lui, o lei, mi condusse fino a un’estremità della stanza, dove c’era un mucchio di pellicce. Il mio ospite gesticolò di nuovo. Mi coricai. — È stata una bella festa. Buonanotte. Il mio ospite se ne andò. Io sistemai il mio zaino in modo che si trovasse fra me e la parete e mi misi a dormire. Mi destai con un mal di testa e una sensazione di disorientamento, mi drizzai a sedere e mi guardai attorno, e scoprii che mi trovavo in un vasto spazio interno. La luce penetrava da un’apertura sopra di me e da una porta aperta. Era gialla, il colore della luce del sole a pomeriggio inoltrato. Ma ero quasi certa che fosse mattina. Una voce parlò poco lontano. Guardai in direzione del suono. Era la persona anziana, il mio ospite. Indossava una lunga veste color arancione scuro e un’alta cintura fatta di rame. In una mano teneva un bastone di legno decorato con pezzetti di conchiglia. L’altra mano era tesa verso di me, con il palmo all’insù. Giudicai che si trattasse di un saluto. A quel punto mi ero ormai ricordata dove mi trovavo in quel momento. L’anziano individuo venne più vicino e si sedette. Parlò di nuovo, in tono sommesso e cortese. Io mi misi una mano sul petto e dissi il mio nome. — Lixia. Dopo un momento, il mio ospite disse: — Li-sa — e puntò il dito verso di me. — Lixia — ripetei. Il mio ospite si portò la mano ossuta al petto. — Nahusai. Lo additai a mia volta. — Nahusai. La risposta fu un gesto, un rapido movimento della mano. Il mio intuito mi disse che significava "sì". Bene, allora. Conoscevo una parola. Si riferiva al mio ospite, ma che cosa significava? Era un nome, un titolo o un termine generico come "essere umano"? Col tempo l’avrei capito. Entrò una persona: il suonatore di flauto. Indossava la stessa tunica della sera precedente e gli stessi braccialetti di rame. — Yohai — disse il mio ospite e puntò il dito. Il suonatore di flauto ci guardò. Era un nome. Ne ero quasi certa. Yohai preparò la colazione: una poltiglia di un bruno grigiastro. Aveva un gusto aspro. Ne appresi il nome: Che fosse un giardino? Pensai di no. Le piante crescevano in modo disordinato e avevano un aspetto selvatico. Era uno spiazzo invaso dalle erbacce. Al centro di quel terreno aperto sorgeva una costruzione delle dimensioni più o meno di uno sgabuzzino. Non appena vi arrivai vicino, mi resi conto di che cosa fosse. Una latrina. Puzzava tremendamente. Ci pensai su per un po’, quindi me ne servii. Dopo chiesi come lo chiamassero. — Yohai gesticolò di nuovo e io lo seguii. Attraversammo il villaggio. Le strade erano piene di bambini. Incontrammo solo alcuni adulti. I bambini smettevano di giocare e mi fissavano. Gli adulti facevano finta che non ci fossi. Avevo la sensazione che Yohai fosse a disagio e mi sentivo un po’ a disagio anch’io. Ma la giornata era bella, mite e radiosa. Soffiava un leggero vento incostante che portava il profumo della foresta e quello molto debole dell’oceano. Non era una giornata in cui stare in ansia, e non lo feci. Arrivammo alla fine del villaggio. Lì c’erano degli orti: appezzamenti rettangolari lunghi e stretti che si estendevano fra le case e la foresta. Ciascuno di questi era recintato da uno steccato di legno, abbastanza basso da poter vedere al di sopra. All’interno degli steccati c’erano persone che lavoravano, una o due in ogni orto. Si muovevano fra file di piante. Alcune strappavano le erbacce. Altre raccoglievano. Altre ancora versavano acqua da recipienti che somigliavano ad anfore. Ecco la risposta a uno dei miei interrogativi. Quella società era agricola, almeno in una certa misura. Entrammo in un orto. A un’estremità c’era un albero. Yohai mi condusse alla sua ombra e indicò il terreno. Mi sedetti. Il mio compagno, o compagna che fosse, incominciò a lavorare mentre io mi guardavo attorno. In lontananza, verso est, c’erano cumuli frastagliati nel cielo. Un temporale per quella sera. Nell’orto accanto c’era un bimbo, piccolo e peloso, seduto sotto una pianta. Mentre lo osservavo, sollevò la manina cercando di afferrare una delle foglie. Ma la foglia era troppo in alto. A poca distanza, un adulto versava acqua. Svuotò il recipiente, poi si sedette, si rassettò e si girò. Sotto la sua tunica scorsi il rigonfiamento dei seni. Due seni. Era la prima persona che vedevo che non avesse il torace piatto. Era chiaramente una madre che allattava. La donna mi guardò, poi fece un gesto: un fendente verticale. Ebbi la sensazione che fosse ostile, così distolsi lo sguardo. A mezzogiorno Yohai mi raggiunse. Sedemmo insieme e mangiammo del pane. Il pane era piatto e dal gusto aspro. Più tardi Yohai mi insegnò alcune parole: pane, cielo, albero. Tornammo verso casa. Il mio ospite era lì. Yohai se ne andò. Mi sedetti e imparai altre parole. Nel tardo pomeriggio sentii il brontolio del tuono. Incominciò a piovere; dapprima una pioggerellina, poi un vero acquazzone. Io e il mio ospite cenammo. Era la stessa roba della colazione: Più tardi restammo seduti senza parlare. Il sole era tramontato. La pioggia luccicava, illuminata dalla luce del fuoco: una cortina argentea contro la porta. Mi appoggiai a un palo. Il mio ospite se ne stava chino accanto al fuoco, raggomitolato nella veste arancione. Ogni tanto muoveva una mano. Rigirava un braccialetto o picchiettava sul terreno. Era una persona con un problema grave, e avevo la sensazione che fossi io il problema. Yohai mi aveva dato l’impressione di un’audacia nervosa, di qualcuno che ritenesse doveroso fare una cosa che non desiderava fare. "Vedete che cosa abbiamo qui. Vedete il nostro ospite. Vedete la persona di cui non ci vergognamo." Quello era stato il messaggio che intendeva trasmettere quando mi aveva condotta nell’orto. Che cosa stava succedendo esattamente? Decisi di non fare congetture. Le informazioni che avevo erano troppo scarse e non potevo essere sicura di comprendere qualcosa di quel popolo. Il giorno seguente ci fu ancora pioggia. Io e il mio ospite lavorammo sulla terminologia: oggetti casalinghi per lo più, e alcuni verbi di uso comune. Nel pomeriggio Yohai tirò giù un piccolo telaio che stava appeso alla parete e incominciò a tessere una striscia di stoffa. Il filato era bianco e blu. Io osservavo. Yohai lavorava rapidamente. Ben presso iniziai a distinguere un disegno; era geometrico, pieno di angoli acuti. Secondo me, aveva qualcosa di ostile ed era di gran lunga troppo intricato. Che significato poteva avere? Quella cultura era forse bizantina? O ero io a soffrire di paranoia? Mi alzai e mi misi a fare degli esercizi di yoga. Il mio ospite mi guardò, sgranando gli occhi. Mi interruppi. — Non è niente di dannoso o maligno — dissi in tono cordiale. — Lo faccio per impedire che mi faccia male la schiena e per mantenere la mente abbastanza serena. Continuai i miei esercizi. Il mio ospite stava a guardare. La pioggia diminuì. Ormai non era che una pioggerellina. — Scusatemi. — Presi il mio zaino e andai alla latrina. Puzzava come sempre. Entrai e mi sedetti, poi tirai fuori la mia radio e chiamai la nave. — Sì? — fece la radio. La voce era profonda e un po’ arrochita. Stavo parlando con il dottor Edward Antoine Turbine di Vento, autore di opere quali — Sono Lixia — gli dissi. — Chiamo da un gabinetto esterno, così sarò sbrigativa. Eddie rise. — Mi serviva un posto riservato. — Okay — disse Eddie. Appoggiai la radio sulle ginocchia, poi tolsi il medaglione dalla catena e lo infilai in una fessura nella radio. Il piccolo computer posto nel medaglione comunicò con il computer appena poco più grande posto nella radio, e questo a sua volta comunicò con un computer a bordo della nave. Ci volle soltanto un minuto. La radio emise un bip e io tirai fuori il medaglione. Tutto quello che il medaglione aveva registrato, tutto quello cioè che mi era successo negli ultimi due giorni, adesso si trovava nel sistema informativo sulla nave. Directory: Prima spedizione interstellare Subdirectory: Sigma Draconis II Sub-subdirectory: Rapporti da luogo operazioni — Scienze sociali Nome file: Li Lixia La radio chiese: — C’è dell’altro? — No. — Okay. Altri tre si sono messi in contatto. Nessun problema finora. Ma sii prudente e chiama il più presto possibile. Dovrei avere qualche informazione effettiva fra un paio di giorni. Spensi la radio, la rimisi nello zaino e uscii. Aveva ripreso a piovere forte e dovetti correre fino alla casa. L’indomani il tempo era sereno. Io e Yohai ci recammo nell’orto. Il terreno era ancora bagnato. Gocce d’acqua luccicavano sulle foglie. Yohai mi insegnò a strappare le erbacce. Lavorammo per tutta la mattinata. A mezzogiorno ci riposammo sotto l’albero. Negli altri orti, le persone si muovevano qua e là, parlando fra di loro, ma nessuno venne a farci visita. Interessante. Avevo di nuovo la sensazione che venisse compiuto un atto doveroso e che Yohai non desiderasse compierlo. Addentai un ortaggio giallo; era succoso e dal gusto dolceamaro. Alla sera sedetti insieme a Nahusai. Yohai andò fuori, ma non seppi dove. Imparai altri verbi e parecchie preposizioni: il tormento di ogni lingua, ma tenevano insieme e rendevano coerenti tutte le informazioni. A. Da. In. Di. Fra. Il giorno seguente era il quinto che trascorrevo su quel pianeta. Il cielo era di nuovo limpido. Lavorai con Yohai nell’orto e imparai i nomi di diverse piante. Yohai mi spiegò che era una donna; non una madre, però. E mentre me lo diceva, sembrava infelice. — Nahusai? — chiesi. Lei fece il gesto che significava "sì". — Madre — disse, poi si mise la mano sul petto. — Madre me. Ah, bene. Un rapporto di parentela. Il primo che mi capitava. Incominciai a pensare che stavo arrivando a qualcosa. L’indomani Yohai mi portò al fiume, che scorreva fra gli orti e la foresta. In quel periodo dell’anno, la piena estate, l’acqua era bassa e scorreva attorno a pietre gialle. Yohai entrò e rivoltò un sasso, poi afferrò qualcosa. — Mi porse quella cosa. Era lunga forse dieci centimetri, verde e dura, con otto zampe. La tenni con circospezione. Le zampe si muovevano. A una estremità c’erano due lunghi peduncoli. Erano occhi? Oppure antenne? Guizzavano avanti e indietro. — Noi mangiamo — disse Yohai. — Oh, davvero? — Feci il gesto che significava incertezza o confusione. — Tu vedi. — Yohai afferrò la creatura e la gettò in una pentola. — Tu qui. — Mi fece cenno di raggiungerla. Mi tolsi gli stivali, mi arrotolai i pantaloni ed entrai nell’acqua. Lei aveva preso un’altra creatura e anche questa finì nella pentola. — Tu. Infilai le mani nell’acqua e rigirai un sasso. Qualcosa mi scivolò fra le dita. Cercai di afferrarlo, ma me lo lasciai sfuggire. — Dannazione. — Trovai un altro sasso e provai di nuovo. Passammo tutta la mattina nel fiume. Yohai prese una ventina di quegli animali, io solo due. Alla fine lei uscì dal fiume e restò a fissarmi con aria perplessa. — In che cosa sono brava? — dissi in inglese. — Domanda interessante. Sono Yohai raccolse la pentola. Quelle cose verdi erano ancora vive. Strisciavano l’una sull’altra, cercando di uscire. — Vieni. — Mi fece cenno di seguirla. Raccattai i miei stivali. Procedemmo per un po’ seguendo la corrente del fiume. Dopo alcuni minuti gli orti erano spariti e tutt’attorno a noi c’erano alberi. L’aria odorava di chissà cosa: la fragranza della foresta, penetrante e caratteristica, per la quale non avevo un nome. C’erano rapide nel fiume. Niente di eccezionale. L’acqua scrosciava superando una serie di piccoli salti. Qua e là vidi un po’ di schiuma. In fondo all’ultima cascatella c’era un laghetto. Qui l’acqua era calma, verde e profonda. La mia compagna mise giù la pentola che aveva in mano. Si tolse con un calcio i sandali e si sfilò la tunica dalla testa. Il suo corpo era grazioso, scuro e lucente. Mi ricordava le lontre e gli orsi e anche la mia stessa specie. Era sorprendentemente umanoide. La sola differenza notevole era la pelliccia. Certo, anche gli occhi erano un po’ insoliti. Le pupille erano fessure verticali. L’iride, che era di un giallo chiaro, riempiva l’occhio e non riuscivo a vedere assolutamente il bianco. Le mani avevano tre dita e un pollice. I piedi avevano quattro dita. Se si escludeva questo e il torace piatto, somigliava al nostro primo pilota, Ivanova. Lei puntò il dito verso di me. — Tu. Li-sha. Mi svestii. — Rimasi immobile. Lei mi girò intorno e si fermò alle mie spalle. — Uh! — Sentii il tocco della sua mano, molto leggero, su una scapola. Rabbrividii. Poi venne a fermarsi di fronte a me e fissò il mio torace. Per una donna umana, ero abbastanza piatta. Tuttavia, i miei seni erano di gran lunga più evidenti dei suoi. — Madre? Tu? — domandò. — No. Mi guardò dritto negli occhi, aggrottando la fronte. — Tu cosa? Le risposi in inglese. — Non riesco a spiegarlo, Yohai. Non ancora. Non so come voi dite "mondo", o "stella", o "amico". Ma non c’è niente di sbagliato in me. Non sono pericolosa. Non ho cattive intenzioni. Yohai mi fissò ancora per un minuto, poi si voltò e si tuffò nel laghetto. Era un’eccellente nuotatrice. La vidi scivolare nell’acqua verde con l’eleganza di una foca. Mi tuffai a mia volta, ma scivolai col piede sull’argine e il mio tuffo si trasformò in una tremenda panciata. Tornai a galla, tossendo e sentendomi imbarazzata. Yohai emise un suono scoppiettante. Una risata? Nuotai verso il centro del fiume, mi girai sulla schiena e mi lasciai galleggiare. L’acqua era fresca e non c’era quasi corrente. Alto nel cielo sopra di me si librava un uccello. Ah! Dopo un po’ di tempo nuotai verso riva. Mi inerpicai sulla sponda e lavai i miei vestiti, usando un paio di pietre, una tecnica che avevo appreso dagli aborigeni della California. Poi li appesi ad asciugare su un cespuglio. Yohai mi raggiunse, strofinandosi via l’acqua dalla pelliccia. Sedemmo insieme sulla riva del fiume. Teneva gli occhi semichiusi e il suo pelame luccicava alla luce del sole. Aveva un’aria così serena! Perché io non riuscivo a rilassarmi così? Forse avrei dovuto seguire un altro corso di yoga. Yohai si scosse dal torpore e mi disse il nome degli animaletti nella pentola. Quella sera imparai a uccidere e a sgusciare quegli animali. Non lo trovavo divertente, ma lo feci. Yohai bollì quel che ne restava. Il risultato era delizioso. Mangiai troppo. Poi mi sedetti sulla soglia. Nella strada c’erano bambini intenti ai loro giochi. Sembrava che giocassero a rincorrersi. Li osservavo, sentendomi più o meno appagata, anche se avrei bevuto volentieri qualcosa per completare la cena. Qualcosa di leggero e secco. Magari del vino bianco. La mattina seguente feci un’altra lunga visita alla latrina. Chiamai la nave e trovai di nuovo Eddie. — Ho delle notizie per te — disse. — Ma prima trasmettimi le tue informazioni. Infilai il medaglione nella radio e attesi. C’era una mezza dozzina di insetti nella latrina; due mi ronzavano attorno alla testa. Li scacciai con la mano. La radio emise un bip. Tirai fuori il medaglione. — C’è dell’altro? — Sì. Abito da due persone. Nahusai e Yohai. Nessuno viene a far loro visita. Quando io e Yohai lavoriamo nell’orto, nessuno ci rivolge la parola. Credo di essere io il problema. Ci fu una pausa. — Credi che la situazione sia pericolosa? Vuoi venir via? — No. Non ancora. Un’altra pausa. — Di solito il tuo intuito è eccellente. Okay. Ma voglio che chiami più spesso. — Cercherò, ma non sarà facile. Non c’è molta intimità qui. — Fa’ quello che puoi. Ora, per tua conoscenza, Harrison Yee è stato scacciato dal suo villaggio. Sono stati cortesi, ma categorici. È successo dopo che ha fatto un bagno. Pensiamo che abbia violato un qualche tabù sulla nudità o uno contro il lavarsi nell’acqua corrente o magari solo in quel particolare fiume. Cerca di scoprire come si lava la tua popolazione, prima di fare un bagno. — Ne ho già fatto uno, Eddie. — Davvero? Dove? — Nel fiume più vicino. — Da sola? — Insieme a Yohai. La figlia della mia ospite. È sembrata un po’ sorpresa quando mi ha vista nuda. A quanto pare, non si era resa conto che non avevo peli su ogni parte del corpo. Be’, quasi niente peli. A ogni modo, non è successo niente. — È interessante. Naturalmente, Harrison non si trovava dalle tue parti. Tuttavia, la lingua che stai imparando è simile a quella che stava imparando lui, prima che facesse quel bagno. — Lui si trova all’altra estremità del continente. — Già. E la tua lingua è quasi identica a quella che sta imparando Derek. Lui sta sulla costa, più a sud di dove ti trovi tu. Un insetto mi si posò sulla faccia. Cercai di colpirlo e lo mancai. La radio prese a scivolarmi dalle ginocchia. — Dannazione! — L’afferrai prima che potesse finire nel buco sottostante. — Lixia? — Niente. Che cosa significa tutto questo? — Non lo sappiamo, ma ci sono delle teorie. Può darsi che stiate imparando un linguaggio commerciale, qualcosa di simile all’inglese delle colonie. O forse tutti i popoli contattati finora sono strettamente imparentati e fanno parte di una recente migrazione. — Quante probabilità ci sono? — Non molte. Il linguaggio commerciale è una buona possibilità, o almeno così pensiamo al momento. Chiusi il collegamento e uscii dalla latrina. Fuori, a un paio di metri di distanza, c’era una persona in attesa. Portava una lunga veste e un alto cappello. La veste era coperta di ricami e il cappello ornato di conchiglie. Dopo un attimo riconobbi l’inividuo, era lo stesso che aveva interrotto la festa di Nahusai. — Sì? — feci nella lingua del posto. L’individuo fece un gesto, un fendente verticale, poi si girò e si allontanò. Tornai verso la casa in preda a un certo nervosismo. Quella persona emanava ostilità. Chi era? Non potevo domandarlo. Non conoscevo le parole giuste. Durante i sei giorni che seguirono il cielo si mantenne sereno. Il tempo era molto caldo. Io e Yohai lavoravamo nell’orto. Per lo più, portavamo acqua dal fiume: un pesante recipiente dopo l’altro. Versavamo l’acqua sul terreno arido, poi tornavamo al fiume. Riempivamo di nuovo i nostri recipienti e tornavamo nell’orto. Mi dolevano le braccia. Mi dolevano le spalle. Avevo un terribile male alle reni. Cercai di ripensare al perché mi ero cacciata in quella situazione. Aveva qualcosa a che vedere con l’avventura romanzesca del viaggio interstellare. O era la ricerca della conoscenza? Nel pomeriggio tornavamo a casa a riposarci. Alla sera Yohai usciva: tornava nell’orto o forse andava da qualche altra parte. Io restavo con Nahusai. Lei mi insegnava qualcosa di più della lingua. Cominciavo a capire delle frasi complete. Non mi lasciavano mai sola, a parte quando andavo alla latrina. Non ero certa del perché. Nahusai e Yohai avevano forse paura di me? O temevano che qualcuno potesse cercare di farmi del male? Non mi sentivo del tutto al sicuro, neppure nella latrina. Forse qualcuno mi osservava. Senza dubbio l’individuo col cappello l’aveva fatto. Le persone potevano notare se passavo parecchio tempo là dentro. Potevano decidere di avvicinarsi di soppiatto e ascoltare. Non avrebbero compreso la mia conversazione, ma avrebbero capito che parlavo con qualcuno che non era presente. Andò a finire che chiamai dalla casa una notte in cui le mie compagne si addormentarono presto. — Dove diavolo sei stata? — domandò Eddie. Abbassai il volume e spiegai la situazione. — Lixia, devi tenerti in contatto. Eravamo preoccupati. La Ivanova comincia a parlare di venire a cercarti. Riesci a immaginare la scena? Piomberebbe lì come il Settimo Cavalleria, e noi dovremmo trovare il modo di rimediare allo scompiglio che provocherebbe. — D’accordo — dissi e abbassai ancora di più il volume. All’altra estremità della casa, Yohai e Nahusai russavano. Sembravano quasi del tutto umane. Eddie mi riferì le notizie. Harrison Yee era tornato sulla nave e altrettanto aveva fatto Antonio Nybo. Tony era stato nell’arcipelago. Vi aveva trovato numerosi luoghi cerimoniali: massi sistemati in modo da formare dei cerchi e rocce con pittogrammi, ma nessun abitante. La sua isola era deserta. — Di interesse esclusivamente archeologico — disse Eddie. — Lo abbiamo richiamato a bordo. C’erano altre cinque persone della Terra ancora sul pianeta. Quattro di loro si trovavano in villaggi più o meno simili al mio. La quarta, Gregory, stava con un popolo delle montagne occidentali. — Allevano greggi e fanno fantastici lavori di tessitura, o così almeno mi dice Gregory. — Uhu. — Non sembra che ci siano grandi centri abitati. Non sappiamo ancora il perché. Non abbiamo neppure delle teorie in proposito. — Una situazione disperata — commentai. Eddie rise. Yohai si lamentò e si rigirò. Dissi: — Devo andare. Il quattordicesimo giorno del mio soggiorno nel villaggio decisi che dovevo chiamare di nuovo. Attesi finché non si fece buio, poi andai alla latrina. L’unica grande luna del pianeta stava sorgendo. Era sospesa sopra i tetti, di un arancione intenso, all’ultimo quarto. Lasciai aperto l’uscio della latrina. Entrando, il chiarore lunare, mi permetteva di vedere abbastanza bene per far funzionare la mia radio. Quella sera Eddie aveva una nuova e interessante notizia. — Yvonne sostiene che non ci sono uomini adulti nel suo villaggio. Ci sono alcuni vecchi. Vivono ai margini del villaggio, a quanto dice, ciascuno per proprio conto. E ci sono ragazzi, bambini di sesso maschile. Ma nessuno nell’età di mezzo. Riflettei per un momento. — Conosco la parola che significa "ragazzo" e ho visto dei ragazzini giocare nella strada. I bambini più piccoli non portano indumenti. Il sesso è evidente, e un interessante esempio di evoluzione parallela. Ma non conosco il termine per "uomo". — Mi morsicai il labbro per uno o due minuti. — Lascia che indaghi su questo fatto. — Okay — disse Eddie. Chiusi il collegamento e mi appesi la radio alla spalla, quindi uscii dalla latrina. La luna era proprio sopra di me. Era più piccola della nostra Luna, ma più prossima al suo pianeta principale, con un’albedo assai maggiore. Illuminava l’area circostante: lo spiazzo di erbacce, la latrina e una mezza dozzina di abitazioni. Mi incamminai verso la casa di Nahusai. Qualcosa si mosse nell’ombra lungo la parete. — Sì? — chiamai. — Che cosa c’è? Qualcos’altro si mosse alla mia destra, nei pressi di una delle case circostanti. Mi voltai. C’era una persona ritta nel chiarore lunare. Indossava una veste lunga. — Che cosa c’è? — domandai. — Sono Hakht — fece una voce aspra. O forse la voce disse "Akht". Non ero certa dell’aspirazione iniziale. Altre figure emersero dall’oscurità. Erano una mezza dozzina e due portavano dei bastoni. Si disposero in cerchio attorno a me, a una certa distanza. Nondimeno, mi impedivano ogni via di uscita dal cortile. — Ti abbiamo sentita. Tu vai lì… — La figura con la veste lunga additò la latrina. — Tu parli. Tu fai… — Disse qualcosa che non riuscii a capire, ma sembrava un’accusa. — Non ho fatto niente di male — dissi. L’individuo fece un gesto che significava "no" o "non sono d’accordo", ne ero abbastanza sicura. — Sei una qualcosa. Ti ordino di andartene! — Non capisco — ribattei. — Vattene! — urlò l’individuo. Mi guardai attorno. Nessuno si avvicinava. Che cosa supponevano che fossi? Uno spirito maligno? Feci un passo avanti. Le persone davanti a me si spostarono su entrambi i lati. — Grazie — dissi in inglese. Alle mie spalle l’individuo dalla veste lunga sbraitò: — Qualcosa! Vattene! Girai intorno alla casa finché non arrivai sul davanti ed entrai. Nahusai era andata a letto. Yohai sedeva accanto al fuoco. Tesseva, usando il piccolo telaio a mano. Alzò gli occhi. — Una brutta faccenda — dissi. — Una persona chiamata Hakht o Akht. — — Ero nella latrina. Sono uscita. Hakht era lì. Hakht ha detto: "Vattene". — Uh! — Yohai si precipitò dalla madre e scosse l’anziana donna per svegliarla. Parlarono sottovoce e in fretta. Mi morsi l’unghia del pollice. — Nahusai! — fece una voce alle mie spalle. Era Hakht, naturalmente. Se ne stava ritta nel vano della porta, tenendo un bastone con una mano e un sonaglio con l’altra. Il sonaglio era dipinto di bianco e dall’impugnatura penzolavano delle penne nere. — Che cos’è questa storia? — s’informò Nahusai. Lanciai un’occhiata all’anziana donna. Adesso era in piedi. Yohai reggeva una cintura fatta d’argento. La vecchia si sistemò la lunga veste, poi prese la cintura e se la mise. Dopo di che, aprì una scatola e tirò fuori una mezza dozzina di collane. Erano in argento, rame, bronzo e conchiglie. Le indossò. Yohai le porse un bastone. Lei venne verso di noi camminando adagio, con dignità, appoggiandosi al bastone. — È notte, figlia di mia sorella — disse rivolta a Hakht. Parlava con voce lenta e chiara. Avevo l’impressione che volesse che capissi anch’io. — Che cosa ci fai qui? Hakht agitò il sonaglio nella mia direzione. Fece un suono ronzante. — Quella se ne andrà. — No — rispose Nahusai. — È una qualcosa! — dichiarò Hakht. — No. Che cosa ti ho insegnato, figlia di mia sorella? Come riconosciamo un qualcosa? — Nahusai alzò un dito. — A loro non piace mangiare. — Alzò un secondo dito. — Non dormono mai. — Alzò un terzo dito. — Non entrano in acqua. Non è così? Nahusai fece un cenno nella mia direzione. — Questa dorme. Mangia… — La mia ospite fece un ampio gesto, indicando che mangiavo in abbondanza. — Usa la latrina. È stata nell’acqua. L’ha vista Yohai. Non è una qualcosa. Dici una cosa sbagliata, figlia di mia sorella. Non è la verità. Hakht si accigliò e aprì la bocca per rispondere. Nahusai additò la porta. — Non intendo parlare di notte. Vattene! Dopo un istante, Hakht si girò e uscì lentamente, con palese riluttanza. Teneva la schiena rigida e la mano che reggeva il sonaglio si muoveva leggermente. Udii un debole ronzio discontinuo. Quando se ne fu andata, Yohai incominciò a gemere. — Mi scoprii a tremare. Mi sedetti e per poco non caddi nel piegarmi. Nahusai e Yohai si misero a parlare fra loro e c’era tensione nelle loro voci. Non riuscii a capire una parola della conversazione. Che cosa era successo, in ogni modo? Hakht mi aveva accusata di essere una qualche specie di creatura soprannaturale. Un mostro, uno spirito maligno, uno spettro. Nahusai aveva detto che non ne avevo le caratteristiche distintive, di qualunque cosa si trattasse. Aveva parlato come se fosse un dottore che discute i sintomi di una malattia. Doveva essere una maga o una sacerdotessa, e anche Hakht doveva esserlo. Una specialista rivale. In tutti i casi, Hakht si era tirata indietro, sconfitta, almeno per il momento. Ma ero abbastanza certa che la disputa non sarebbe finita lì. Dovevo chiedere a Eddie di venirmi a prelevare? Mi mordicchiai un’unghia. Non ancora. La mia ospite parlò, con voce calma e decisa. Qualunque cosa stesse dicendo, sembrava irrevocabile. Yohai fece un gesto che io non compresi del tutto, ma pensavo che significasse "così sia". Nahusai sospirò. Appoggiò di nuovo il bastone alla parete, poi si tolse i monili. Aveva un’aria sfinita. — Li-sha. — Era Yohai. — Sì? — Dormi. — Yohai indicò col dito il mio mucchio di pellicce. Ubbidii, ma non riuscii a prendere sonno per ore. All’alba Yohai mi scrollò. — Svegliati. Mangia. Mi tirai su a sedere. Il fuoco ardeva con una vivida fiamma. Sopra era appeso un paiolo, e lì accanto era seduta la mia ospite. — Vieni — fece Yohai. — Adesso. Andai per prima cosa alla latrina. Fuori faceva freddo. Il terreno era bagnato di rugiada e il cielo era del colore indefinibile dell’alba. Perché ero già in piedi a quell’ora? Altri guai, conclusi. Usai la latrina e tornai verso la casa. C’era dell’acqua in una grossa catinella accanto alla porta. Mi lavai ed entrai. La colazione consisteva nella solita poltiglia. Pareva che fosse il loro cibo preferito. Finito di mangiare, la mia ospite mi guardò. La sua espressione era grave. — Li-sha. — Fece una pausa e aggrottò la fronte. — Hakht dice cose cattive. La gente ascolta. Dicono: "Sì. Li-sha è una qualcosa. È cattiva". S’interruppe di nuovo e restò a fissare il fuoco, poi tornò a rivolgersi a me. — Io sono vecchia. Loro sanno che andrò… — Batté leggermente sul pavimento. Il gesto significava sotto terra. — Io parlo. Loro non mi ascoltano. Va’ con Yohai. — Dove? — Un buon posto. Va’. Misi le mie cose nello zaino, poi me lo caricai sulle spalle. Yohai indossò una semplice tunica marrone e una cintura di cuoio, alla quale era appeso un fodero, e nel fodero c’era un coltello. Aveva un manico fatto di ottone e corno. — Vieni — disse Yohai. Mi fermai di fronte a Nahusai. Non conoscevo la parola per dire "grazie", ma esisteva un gesto. Mi toccai il petto, poi girai la mano con il palmo rivolto verso Nahusai. Lei ricambiò il gesto. Le porsi un dono: una scatola. Era fatta con il legno proveniente da una delle Isole Deserte, intarsiato con frammenti di conchiglia. Erano di un rosa e di un verde iridescenti, più belle dell’aliotide e della madreperla. Nahusai prese la scatola. — Addio — dissi in inglese, poi seguii Yohai fuori dalla porta. Il sole stava appena facendo la sua comparsa. Guardando verso est, lo vidi: una striscia di luce arancione sopra i tetti. Il cielo era sereno. La strada deserta, fatta eccezione per un Quando il sole si fu levato del tutto, noi ci trovavamo già nella foresta. I tronchi s’innalzavano da tutti i lati come pilastri in una cattedrale dei tempi antichi. Molto più sopra di noi c’erano i rami e le loro foglie scure nascondevano il sole. Ogni tanto arrivavamo in una radura, illuminata dal sole e piena di insetti volanti. Doveva esserci una nidiata, oppure stavo assistendo a una migrazione? In ogni caso, gli insetti erano tutti della stessa specie. Il corpo era di un blu elettrico, le ali trasparenti e incolori, fatta eccezione per due grosse chiazze rosse. In una radura gli insetti erano particolarmente numerosi. Si libravano tutt’attorno a noi. Uno mi si posò sul braccio. Mi fermai, affascinata. L’insetto agitò le ali. Contai otto zampe e due antenne. — Vieni — mi sollecitò Yohai. Mi affrettai a seguirla. L’insetto volò via. A mezzogiorno giungemmo nei pressi di una costruzione che sorgeva in una radura più vasta del consueto. Tutt’attorno crescevano erbacce e sul retro scorreva un torrente. Udivo il rumore dell’acqua corrente. — È questo il posto — mi disse la mia compagna. La costruzione era piccola e vecchia. Un tronco sosteneva una parete e il tetto era di cuoio. Ero abbastanza certa che non fosse il tetto originario, ma piuttosto una riparazione di fortuna, fatta da qualcuno che non era un carpentiere. Su un lato, a poca distanza, c’era una seconda costruzione, una specie di capanno dal quale proveniva del fumo. Che cosa poteva essere? Ebbi la risposta un momento dopo: il suono di un martello. Una fucina. La mia compagna si diresse verso il punto da cui proveniva il suono e io la seguii. Ci fermammo davanti all’entrata del capanno e guardammo dentro. Un fuoco ardeva in una fucina di pietra e c’era una persona china sopra un’incudine di ferro. C’era del metallo sull’incudine, di un intenso giallo incandescente. La persona sollevava un martello, poi lo abbatteva, lo sollevava e lo abbatteva di nuovo. Yohai alzò una mano in un cenno di ammonimento. "Aspetta" significava quel gesto. E io aspettai. Dòpo un po’ la persona mise giù il martello, si raddrizzò, si stiracchiò, emise un mormorio e infine si girò e ci vide. — Uh! Yohai disse qualcosa che non compresi. Il fabbro, uomo o donna che fosse, fece un gesto. Yohai disse ancora qualcosa. Intanto io osservavo con attenzione il fabbro. Indossava sandali e un grembiule di cuoio; nient’altro. Lo guardai bene: ampie spalle, un grande torace, braccia possenti. Era una creatura imponente. Il pelame che la ricopriva era di un bruno rossiccio, un colore insolito. Non c’era stato qualcuno di simile alla festa la sera in cui ero arrivata? Yohai smise di parlare. Il fabbro fece un altro gesto, poi mi guardò. — Io sono Nia. Resterai qui. Feci il gesto dell’assenso. Yohai disse qualcosa rivolta a me. Era un addio? Si voltò e si allontanò, camminando in fretta. Nel giro di uno o due minuti era sparita. — Siediti — mi disse Nia. — Io… — Fece un cenno in direzione del fuoco. — Capisco. Mi sistemai in un angolo. Nia aggiunse altra carbonella al fuoco, poi cominciò ad azionare il mantice: una grossa sacca fatta di cuoio con attaccato un bastone. Nia alzava e abbassava il bastone. La sacca si riempiva e si svuotava. Il fuoco si ravvivò. Dopo qualche istante, Nia raccolse le tenaglie e depose il metallo nel fuoco. — Che cos’è quello? — domandai, indicandolo col dito. Nia mi disse la parola che significava ferro, poi riprese a lavorare. Batté il pezzo di ferro finché non fu piatto, poi lo riscaldò e lo ripiegò, quindi ricominciò a batterlo fino ad appiattirlo. L’operazione si ripeté più e più volte. Mi stancai di osservare. A un certo punto del pomeriggio Nia smise di lavorare. Tirò un sospiro e si stiracchiò. — Cibo. — Sì. — Mi alzai in piedi. Andammo nell’altra costruzione. L’interno era vuoto, a parte un mucchio di pellicce e un paio di recipienti. Nia si tolse il grembiule, poi rovistò fra le pellicce e trovò una tunica. Se la mise. — Ecco. — Tirò fuori del pane da un recipiente. L’altro era pieno di un liquido: il narcotico dal gusto acre che avevo bevuto alla festa. Ci sedemmo sulla soglia e mangiammo e bevemmo. — Da dove vieni? — s’informò Nia. Aveva la bocca piena di cibo e non riuscii a capirla, così lei dovette ripetere la domanda. — Non sono di queste parti — risposi. — Io appartengo al Popolo del Ferro — fece lei. — Si trova molto lontano. Laggiù. — Puntò il dito in direzione del sole. — Tu? Feci un cenno nella direzione opposta, verso oriente. — Già. — Bevve altro liquido. — Questa gente è difficile da capire. — Si alzò e tornò nella fucina. Io rimasi dov’ero finché non sentii il rumore del martello di Nia. Poi tirai fuori la radio e chiamai Eddie. Quando ebbe ascoltato ciò era accaduto, lui disse: — Dovrei tirarti fuori di lì. — No. — Perché no? — Non credo di correre alcun pericolo, e se così fosse… Eddie, sapevamo tutti quanto potesse essere pericoloso. Avremmo potuto mandar giù dei robot. Abbiamo mandato delle persone perché volevamo quello che solo le persone possono apportare a una situazione. La prospettiva umana. Abbiamo deciso con una votazione di correre il rischio e c’è stata una netta maggioranza a favore. Eddie restò in silenzio. — Io voglio restare. È la Ci fu ancora silenzio, poi un sospiro. — Mi sono opposto all’impiego di robot perché ero convinto che sarebbero stati più dirompenti delle persone. D’accordo. Rimani. Ma credo che tu abbia torto. — Riguardo a che cosa? La situazione? — No. La tecnologia. È un tipico preconcetto occidentale. Tu credi che un utensile sia più importante di un sogno perché un utensile può essere misurato e un sogno no. Feci un suono evasivo. — La colpa è dei greci — disse Eddie. — Che cosa? — Sono stati loro a sentenziare che la realtà era matematica. Un’idea folle! Un valore etico non è come un triangolo. Un concetto religioso non si può ridurre a una formula. E tuttavia sono entrambi reali. Sono entrambi importanti. — Non avrai modo di litigare con me. Non ne so abbastanza della filosofia occidentale per difenderla. E devo chiudere la trasmissione. — Chiamami domani. — D’accordo. Nia tornò al crepuscolo. Divise in due il suo mucchio di pellicce. — Tu dormi lì. — Indicò uno dei mucchi. Mi svegliai al levar di sole. Nia era già in piedi e si stava mettendo il grembiule. — Yohai dice che puoi imparare. Vieni. Andammo nella fucina. Nia accese il fuoco, poi mi insegnò ad azionare il mantice. Quella mattina fece la lama per una zappa. Era appuntita e aveva due barbigli sulla parte posteriore: per sarchiare, decisi, anche se dava l’impressione di poter essere usata come arma. Non avevo visto nessuna autentica arma. Nessuna spada. Nessuna picca. Non una scure né una mazza da combattimento. Niente che fosse palesemente concepito per fare del male a un’altra persona. Era una cosa interessante. Forse gli uomini, ovunque si trovassero, avevano gli strumenti per uccidere. A mezzogiorno ci interrompemmo per mangiare. Domandai a Nia il nome di parecchi oggetti: la lama della zappa, il martello, e così via. Lei aggrottava la fronte e me lo diceva. Avevo la sensazione che non sarebbe stata un’insegnante molto brava. Sembrava laconica per natura. Tornammo al lavoro. Presto cominciarono a dolermi le braccia, poi la schiena e infine le gambe. Il fumo mi irritava gli occhi e non ero troppo entusiasta delle nuvole di vapore prodotte quando Nia immergeva la lama incandescente in un secchio d’acqua. Lo fece due volte. Alla fine portò fuori la lama. La esaminò alla luce del sole, poi fece il gesto che significava "sì". — Va bene? — domandai. — Sì. Ne farò un’altra. Maledizione a lei. La fece. Quando ebbe finito, io ero ormai esausta. Andai fuori e mi sdraiai per terra mentre lei riduceva il fuoco e metteva via gli utensili. Era ordinata fin quasi alla pignoleria nel lavoro. La casa, al contrario, era in un totale disordine. Per la prima volta notai che la giornata era fresca e luminosa. Una bella giornata, quasi finita ormai. Decisi di non chiamare Eddie. Era uno sforzo troppo grande. Invece me ne andai a letto. Il giorno seguente Nia fabbricò del filo metallico. Io lavorai al mantice e imparai una nuova frase: "Aziona in modo costante, idiota!". Quella sera restammo sedute nella casa di Nia a bere il liquido acre. Alla fine eravamo entrambe un po’ ubriache. Nia incominciò a cantilenare fra sé e sé, battendo una mano sulla coscia per tenere il tempo. Aveva gli occhi socchiusi e un’aria trasognata. Io ero appoggiata alla parete e osservavo il fumo che saliva dal fuoco. Era un cambiamento in meglio, decisi. Nia era taciturna e irascibile, ma non era malinconica. Nahusai era solita passare parecchio tempo seduta a rimuginare e Yohai era quasi sempre indaffarata. L’avevo trovato irritante. Nia smise di cantilenare. La guardai. Adesso era coricata e un minuto dopo incominciò a russare. Una compagna distensiva, mi dissi. Durante i dieci giorni che seguirono non accadde niente di rilevante. Aiutavo Nia nella fucina e la sera parlavo con Eddie. — Non ci sono dubbi sulla tua lingua — mi disse una sera. — È una lingua franca, il che spiega perché è così facile da imparare. Anche il continente grande ha un linguaggio commerciale, uno diverso, che non è assolutamente collegato con il tuo. Yvonne e Santha lo stanno imparando. Meiling impara qualcos’altro, un linguaggio locale, terrificante nella sua complessità. — E Gregory? — m’informai. — Un altro linguaggio locale, ma meno difficile. Oh, a proposito, a Gregory è successa una cosa interessante… Attesi con impazienza. Avevo imparato che Eddie tendeva a serbare le informazioni veramente importanti per la fine di una conversazione. — Gli individui fra cui si trova hanno scoperto che è un maschio. Gli hanno detto di andarsene. Lui ha chiesto il perché. Pare che la domanda li abbia lasciati interdetti. Non riuscivano a credere che l’avesse fatta. Alla fine, però, glielo hanno spiegato. Nella loro società gli uomini vivono per proprio conto, su fra le alte montagne. Badano alle greggi e non si recano mai nelle case dove abitano le donne. L’idea stessa è ignobile. Gregory dice di non essere riuscito a pensare a un modo garbato per informarsi sulla procreazione. — L’hanno cacciato via? — No. Ha detto loro che non sapeva come restare vivo da solo fra le montagne. Hanno discusso a lungo, poi hanno deciso di lasciarlo restare in una delle costruzioni esterne, una specie di granaio. Ed è rimasto lì. — Gli uomini vivono totalmente da soli? — Secondo Gregory, sì. Le donne sostengono che gli uomini hanno un brutto carattere. Non amano la compagnia. — Ah, sì? Questo spiega ciò che è successo a Harrison. — Uhu. Ho avvertito Derek e Santha. Yvonne parlerà con la sua ospite; è l’informatrice ideale, una cronachista tribale che non smette mai di parlare. Feci il gesto dell’intesa, poi sorrisi e dissi: — Sì. — Tu parlane con Nia. Chiedile informazioni sugli uomini della sua società. Promisi che l’avrei fatto, ma non lo feci. Non era mai facile parlare con Nia. Spesso si interrompeva nel bel mezzo di una frase e restava a fissare il vuoto oppure cambiava argomento. Avevo l’impressione che vivesse da sola da troppo tempo. Aveva dimenticato come si teneva una conversazione. Mi concentrai sul compito di carpirle informazioni sulla grammatica. Le domande sulle tradizioni popolari potevano aspettare ancora un po’. Una mattina Nia rovistò fra le travi della sua casa e tirò giù due asce. — Vieni — mi disse. — Andiamo a far legna. Trascorremmo tutta la mattina nella foresta. Nia abbatté un albero che era alto forse dieci metri. Il tronco era diritto, i rami spogli, a parte alcune foglie appassite. L’albero era evidentemente morto, e da un po’ di tempo. Quando l’albero fu a terra, Nia disse: — Fallo a pezzi. — Farò del mio meglio. Cominciai a spaccarlo. Nia si allontanò. Quando mi interruppi per fregarmi le mani, sentii la sua ascia a breve distanza. Stava abbattendo un altro albero. A mezzogiorno ci prendemmo un po’ di riposo. — A che cosa serve? — le domandai — Carbonella. — Masticò un pezzo di pane. — Questo legno è già secco. Domani lo mettiamo sotto terra. Brucerà per nove, dieci giorni, adagio, sotto terra. Allora diventerà carbonella. Si alzò, si stiracchiò e fregò le palme delle mani sulle cosce. — È ora di tornare a lavorare. Emisi un gemito e presi la mia ascia. Dopo qualche minuto la vescica che avevo sulla mano destra si ruppe. Misi giù l’ascia e mi guardai la vescica. C’era del sangue. Avrei dovuto medicarla. Tornai verso la casa di Nia e aprii il mio zaino. Era meglio lavare la ferita? Decisi di non farlo. Appariva pulita e non sapevo che genere di microbi vivessero nei corsi d’acqua, soprattutto quelli in prossimità di un villaggio. In teoria, niente su quel pianeta poteva nutrirsi di me. La nostra materia genetica era troppo diversa e nessun virusoide locale avrebbe potuto usare il mio Dna per riprodursi. Nessun batterioide locale avrebbe potuto usare le mie cellule per alimentarsi. Tuttavia… Tirai fuori il barattolo del bendaggio e mi spruzzai una piccola e sottile fasciatura. Bruciava. Sarebbe servita da disinfettante. Mi sedetti e aspettai che la fasciatura si asciugasse. Era lucida e color bruno scuro: color carne, stando all’etichetta sul barattolo, e prodotto nella Confederazione Sudafricana. — Nia! — gridò una voce. Alzai lo sguardo. Yohai usciva dalla foresta, camminando in fretta. — Dov’è Nia? — Laggiù. — Glielo indicai col dito. — Puoi sentire il rumore dell’ascia. — Cattive notizie! Devo informarla. — Corse via. Pensai di seguirla, ma poi decisi di no, misi via il barattolo del bendaggio e feci un po’ di lavori di casa. Quel disordine incominciava a farmi impazzire. Appesi gli indumenti di Nia e sistemai le pellicce su cui dormivamo in due mucchi ordinati. Quando ebbi finito, uscii. Non riuscivo a sentire i colpi dell’accetta né alcun altro suono all’infuori dello stormire delle foglie. Il sole splendeva nel cielo, quasi radioso come il nostro Sole, e l’aria era torrida. Mi sedetti all’ombra di una parete e attesi. Dopo mezz’ora, arrivarono Nia e Yohai. — È ora che ti dica che cosa sta succedendo — fece Nia. — Mi farebbe piacere. Si accosciarono entrambe. Nia depose per terra le sue due accette, poi si grattò il naso. — Nahusai si trova a letto. Non riesce ad alzarsi. Non riesce a mangiare. Hakht dice che sei stata tu a far questo. Hakht dice che devi essere cacciata. Altrimenti Nahusai morirà e altra gente dopo di lei. Tu fai delle canzoni. Le canzoni fanno del male. Rubano il respiro dalla bocca. Fanno diventare duro come pietra il sangue dentro la pancia. — Nia rivolse un’occhiata a Yohai. — È questo che hai detto. Yohai fece il gesto dell’approvazione. — Credo che sia stata Hakht a comporre le canzoni. È lei quella che sta facendo del male. Mia madre è vecchia. Non può difendersi. Io non ho il potere. Le persone che non sono più qui non parlano con me. Non posso difendere mia madre. Bene, la cosa era abbastanza chiara. Nahusai era ammalata. Hakht mi stava accusando di aver gettato un incantesimo sull’anziana donna. Ero una strega, secondo Hakht, in ogni caso. — Perché Hakht sta facendo questo? Fu Nia a rispondermi. — Non sa aspettare. Vuole essere la donna più importante del villaggio. E lo sarà, quando Nahusai andrà… — S’interruppe, poi batté con la mano sul terreno. — Le ha insegnato Nahusai. Nahusai ha detto: "Questa sarà quella che verrà dopo di me". Ma lei non sa aspettare. — Nia aggrottò la fronte. Dopo un momento, aggiunse: — Ci sono persone così. Feci il gesto dell’approvazione. — Lei cerca di immischiarsi in ogni cosa. Se Nahusai dice "sì" a qualche cosa, quella donna dice "no". Nahusai ti ha accolta. Per questo Hakht dice che sei un demonio. — È la verità — disse Yohai. — Che cosa facciamo? — domandai. — Riesco a pensare a una cosa soltanto — disse Nia. — Dobbiamo aspettare. Se Nahusai starà meglio, farà tacere Hakht. Se non… — Nia fece un gesto che non riconobbi. — Che cosa significa? — Chi può dirlo? Stavo per ripetere la mia domanda quando mi resi conto che Nia aveva già risposto. Il gesto, la mano tesa, poi inclinata di qua e di là, significava "chi può dirlo?". Nia si alzò in piedi. — Yohai, tu torna a casa. Io e Li-sa saremo prudenti. Grazie per l’avvertimento. Yohai fece il gesto dell’intesa, quindi se ne andò. Attesi finché non fu partita, poi guardai Nia. — Credi che abbia ragione? — In che senso? — È stata Hakht a provocare tutto questo? Ha fatto del male a Nahusai? Nia aggrottò la fronte. — Io non so se le canzoni facciano qualcosa. O se le persone che non sono più qui ascoltino qualcuno. Ma una donna come Hakht conosce cose da mettere nel cibo. È una brutta situazione. — Serrò il pugno e colpì la parete sopra di me. — Odio questo posto! Sono stanca degli alberi scuri. Sono stanca delle persone. Stanno sempre a raccontarsi storie sull’una o sull’altra. Stanno sempre a progettare come farsi del male a vicenda. — Si chinò e afferrò un’ascia, poi se ne andò. Un po’ più tardi sentii il rumore di un’accetta. Nia stava abbattendo un altro albero. Pensai di chiamare Eddie, ma poi decisi di no. Dieci a uno che avrebbe voluto farmi tornare sulla nave. Non pensavo che la situazione fosse pericolosa e volevo sapere che cosa sarebbe successo in seguito. Me ne andai sulla riva del fiume e feci i miei esercizi di yoga. Quindi meditai, osservando l’acqua corrente. Al crepuscolo comparvero degli insetti: erano piccoli, simili a zanzare. Non morsicavano, ma mi s’infilavano nel naso e negli occhi. Mi alzai e tornai verso casa, sentendomi rilassata. La mia mente, solitamente attiva e un po’ ansiosa, ora sembrava sgombra e serena come il cielo sopra di me. Mi fermai e guardai in su. C’era una luna sopra la foresta, una sottile falce, meno di un quarto. Era di un giallo tenue e brillava della luce di un sole sparito. Tutt’a un tratto mi sentii colma di una gioia intensa. Da un momento all’altro le cose avrebbero cominciato ad avere senso, avrei visto il disegno nei fenomeni rilevabili, o al di là di questi, avrei capito il mistero della vita, il segreto dell’universo. Poi la sensazione sparì. La luna era solo una luna. Scrollai le spalle. Una volta ancora non ero arrivata fino in fondo. A che cosa, in ogni caso? Non ero davvero sicura che questi momenti di quasi rivelazione significassero qualcosa. Entrai e trovai Nia che preparava la cena: una pappa d’aveva brodosa con mescolate dentro delle bacche. I suoi movimenti erano bruschi e il suo corpo pareva teso. Era ancora infuriata. Decisi di restare in silenzio. Mangiammo e andammo a dormire. Mi svegliai, sentendo un rumore: un sommesso Chiamai: — Nia? Lei uscì carponi dal letto. Un istante dopo era sulla porta e l’apriva. Entrò una luce grigia. Nia se ne stava ritta nel vano della porta. Era nuda e teneva in mano un’ascia. Mi alzai e mi avvicinai alle sue spalle. Mancava poco al sorgere del sole e c’era luce a oriente. Nella radura di fronte alla casa ardevano cinque torce. Avevano un che di suggestivo mentre ondeggiavano al vento, ma servivano ben poco a illuminare. Vidi delle figure scure e compresi che doveva trattarsi di persone. Ma non sapevo chi fossero e neppure quante ce ne fossero. Venticinque? Trenta? Forse di più. Nia brontolò qualcosa e uscì dalla porta. Io la seguii. Una persona venne verso di noi. Teneva in mano un sonaglio e lo muoveva in continuazione. Faceva un rumore simile a un serpente a sonagli impazzito. — Finiscila con quel baccano — disse Nia. La sua voce aveva un suono rabbioso. — Benissimo. — Il rumore cessò. — Siamo venute per il demonio. — Riconobbi la voce. Forte, stridula e arrogante, apparteneva a Hakht. Nia si lanciò un’occhiata attorno. — Che significa tutto ciò? Nahusai è morta? — È morta la notte scorsa. Ero nella mia casa e componevo una canzone per allontanare la malasorte. Ho sentito gridare Yohai. Ho capito che la vecchia se n’era andata. — E Yohai? — domandò Nia. — Yohai è qui? Il cielo si andava schiarendo e vidi il gesto che fece la fattucchiera. Significava "no". — Ci sono cerimonie che vanno celebrate. Lei le ha cominciate. — Hakht alzò la voce. Aveva un tono di trionfo. — Lei non vi aiuterà. Le ho detto che è stata lei a causare la malasorte. Ha suscitato la collera delle persone che non sono più qui. Le ho detto che tutto questo deve finire. Mi ha dato ascolto, o Donna del Popolo del Ferro. Farà quello che dico io. E adesso — Hakht sollevò la mano e la puntò — il demonio. Consegnamelo. — No. Hakht fece un passo avanti. Nia sollevò l’accetta. — Ascoltami, fattucchiera. Io non ho alcun rispetto per te. Non temo il tuo potere. — Fece una pausa. Di solito le sue spalle erano arrotondate, ma adesso si teneva eretta. — Tutte voi, ascoltate! Ho fatto qualcosa che pochissime donne hanno mai fatto. Ho ucciso una persona. Ci fu del movimento fra le abitanti del villaggio. Nessuna parlò. — A ovest di qui, sulla pianura, ci sono le ossa di un individuo che mi aveva fatta arrabbiare. Non l’ho neppure seppellito. — Si guardò attorno. — Sono disposta a farlo di nuovo. Hakht aprì la bocca. — Sta’ zitta! Lasciami finire! Hakht richiuse la bocca. Era accigliata. Nia proseguì. — Non voglio restare più qui. Sono stanca dell’oscurità sotto gli alberi. Voglio vedere di nuovo il cielo. Me ne andrò e porterò con me il demonio. Non resterà nessuno a tenerti testa, Hakht. Allora potrai essere contenta. — Il disprezzo nella sua voce era palese. — Dammi solo un giorno, o fattucchiera. Vattene e ritorna domani mattina. Io me ne sarò andata con il demonio e nessuno si sarà fatto male. Ci fu un lungo silenzio. Nia mantenne il suo atteggiamento, tenendosi molto eretta, l’ascia sollevata. Hakht la fissò e aggrottò la fronte. Infine disse: — Benissimo. Torneremo domani. — Si voltò e si allontanò. Il resto del villaggio la seguì. Nel giro di uno o due minuti se ne erano andate, sparite nella foresta. Nia sospirò. Le sue spalle si afflosciarono. Fece un passo indietro e si appoggiò alla parete della casa. — Hai ucciso davvero una persona? Nia fece il gesto dell’affermazione. — Ero molto arrabbiata. — Guardò in direzione della foresta. — Vorrei uccidere Hakht, ma non sono abbastanza arrabbiata. — Lasciò cadere l’accetta. — Va’ dentro. Preparati a partire. Io verrò non appena avrò smesso di tremare. Entrai e preparai i bagagli. Dopo un po’ arrivò Nia. Riscaldò gli avanzi della cena e mangiammo. — Forse questo è un bene — disse. — Forse sarei rimasta qui finché un giorno mi sarei ritrovata vecchia. Ora vedrò di nuovo la pianura. — Si alzò e tirò giù una sacca dalle travi. — Dovrò lasciare qui la mia incudine e la maggior parte dei miei utensili. Si diresse verso la fucina. Io mi recai al torrente a lavarmi. Quando tornai, si stava vestendo. La sacca era posata ai suoi piedi. Era mezza piena e bozzoluta. — Che cosa ci hai messo dentro? — Il meno possibile. E niente di veramente voluminoso. I tipi di utensili che uso non sono leggeri. Quando l’avrò portata da un po’, la sacca incomincerà a sembrare molto pesante. — S’interruppe e fece il gesto che significava "così sia". — Non sono disposta a lasciarmi tutto alle spalle. Finì di vestirsi e ripiegò un mantello fatto di pelle. Anche questo entrò nella sacca, seguito da tutto il pane che c’era in casa. Dieci pezzi. — Andiamo. Hakht potrebbe cambiare idea. — Mi porse una delle accette, poi raccolse l’altra e si caricò la sacca sulla spalla. Io indossai il mio zaino. Ce ne andammo dalla casa. Il sole era sorto. Il cielo era sereno e soffiava un vento freddo. — Una buona giornata — osservò Nia. — Che cosa accadrà a Yohai? — domandai. — Darà ascolto a Hakht. Per un po’ sarà dura per lei, ma poi ci si abituerà. E Hakht diventerà amichevole quando vedrà che Yohai non fa nulla contro i suoi desideri. Alla fine andranno d’accordo. Lo scontro non è mai stato fra loro due. Era fra Hakht e Nahusai. O comunque è così che la penso. Prendemmo il sentiero che conduceva al villaggio, camminando in fretta, e arrivammo al fiume prima di mezzogiorno. Mi guardai attorno. Sull’altra riva del fiume c’era uno steccato, basso e fatto di legno. Al di là c’era un orto. Foglie azzurre luccicavano alla luce del sole. Non vidi nessuno lavorare nell’orto e questo era abbastanza strano. Sembrava che le abitanti del villaggio passassero ogni giorno buona parte della mattina nei loro orti. In lontananza ci fu un suono che ricordava una tromba. Uno strumento musicale, forse un corno. Udii delle voci che si lamentavano e strillavano. — Le cerimonie — disse Nia. — Stanno girando attorno ai margini del villaggio, facendo baccano per scacciare Nahusai, nella terra lontana. — Nia si accigliò. — La mia gente non è così. Noi non abbiamo paura dei morti, solo della morte, che è un evento infausto. Naturalmente, devono esserci delle cerimonie… Il corno risuonò di nuovo. Pareva più vicino. Nia s’interruppe e restò in ascolto, poi continuò. — Le cerimonie scacciano la malasorte. Purificano il villaggio. Ma noi non abbiamo paura dei nostri amici e parenti solo perché questa brutta cosa è capitata a loro. Loro sono… devono essere… le stesse persone che erano prima. — Tornò a sistemarsi la sacca sulla spalla, poi si mise in cammino. Pensai di chiederle altre informazioni sulle cerimonie funebri, ma lei camminava veloce. Dovetti affrettarmi per raggiungerla, e non avevo fiato da sprecare. |
||
|