"Sigma Draconis" - читать интересную книгу автора (Arnason Eleanor)

Anasu

Sua madre era stata una lavoratrice del ferro, una seguace della Signora della Fucina. Ma era morta giovane, una primavera durante la stagione degli accoppiamenti. Succedeva, a volte. Una donna lasciava il villaggio e non vi faceva più ritorno.

Le vecchie dicevano: "L’ha uccisa un balordo. Ah! È ben difficile il destino delle donne!".

In ogni caso, Nia e suo fratello erano rimasti soli. Fu Suhai, una delle sorelle di sua madre, a prenderli con sé. Era un donnone burbero con un pelame così scuro che pareva più nero che bruno.

Insieme a loro, si prese anche le cose di sua madre: la tenda, il carro, i sei castrati di cornacurve e tutti gli utensili di ferro, bronzo e pietra.

— Un giusto compenso — disse loro Suhai. — Mi costerete parecchio negli inverni a venire. Ho anche delle figlie mie a cui pensare.

Suo fratello Anasu, che a quel tempo aveva otto anni, disse: — Sei sempre stata un’arraffona.

Suhai gli rivolse un’occhiata torva. — Vattene fuori. Non voglio averti sotto gli occhi.

Anasu fece il cenno dell’assenso, quindi si alzò. Il lembo della tenda era sollevato e Nia riusciva a vedere chiaramente il fratello. Aveva una figura slanciata e armoniosa. La sua pelliccia era di un bruno rossiccio e splendeva come rame alla luce del sole. In seguito le sembrava di ricordare che quel giorno lui portasse un gonnellino di tessuto blu scuro, alti stivali e una cintura dalla fibbia d’argento.

Anasu se ne andò. Nia guardò Suhai, seduta curva presso il fuoco, che era spento.

— Grazie alla Madre delle Madri, non ho figli maschi. Bene, intendo fare quel che è giusto. Lo crescerò, anche se non mi aspetto che sia piacevole neppure per un momento. Tu, Nia, mi darai meno disturbo, ne sono certa. Le donne della nostra famiglia sono sempre state di carattere tranquillo.

Nia non rispose.

Le cose andarono proprio come aveva previsto Suhai. Crescere Anasu non le procurò mai alcuna gioia, nonostante lui fosse intelligente e abile. Nessun ragazzo della sua età sapeva ricamare meglio. Era abile con l’arco ed era anche di carattere amabile, fuorché nelle vicinanze di Suhai. Loro due non facevano che bisticciare.

Nia si teneva fuori dagli alterchi. Scoprì di essere una persona timorosa. Quasi buona a niente, diceva a se stessa. Non era in grado di aiutare Anasu, sebbene si sentisse più vicina a lui che a chiunque altro; e non era capace di tenere testa a Suhai. Faceva sempre e soltanto quello che voleva sua zia.

Come tutti gli individui del mondo, la sua gente seguiva le mandrie. In primavera si spostavano a nord verso la Terra dell’Estate: una vasta e piatta pianura. C’erano parecchi laghetti e fiumi poco profondi. Nei giorni in cui Suhai le permetteva di andarsene libera, lei e Anasu fabbricavano trappole per i pesci con i rami di un arbusto che cresceva presso le rive dei fiumi. I rami erano sottili e flessibili e si potevano intrecciare fra loro e poi legare con pezzi di corteccia fibrosa.

Mettevano le trappole in un fiume, poi sedevano sulla riva e se ne stavano a chiacchierare finché non capivano, dal dibattersi nell’acqua, di aver preso un pesce.

Quando era assorto nelle sue fantasticherie, Anasu parlava di volare. Le grandi nuvole dell’estate gli sembravano abitabili.

— Non le nubi temporalesche, naturalmente, ma le altre. Non credo che sarebbero adatte per accudire il bestiame. Hanno troppe colline. Ma potrei portare lassù il mio arco. Sappiamo che c’è l’acqua. Può darsi che ci siano anche i pesci.

Lei ascoltava senza parlare molto. Anasu era più vecchio di lei di due anni. Aveva sempre più cose da dire.

In autunno, il villaggio si trasferiva a sud: dapprima la mandria, guidata dagli uomini adulti. Poi venivano i carri, le donne e i bambini, e infine gli uomini molto vecchi. Hisu, il maestro degli archi, era uno di costoro.

La Terra dell’Inverno era una pianura ondulata e costellata di alberi. A sud c’erano le colline sassose e, al di là delle colline, c’era un’enorme massa d’acqua.

— Il nostro sale viene da lì — le spiegò Anasu. — Alcuni degli uomini, quelli veramente audaci, restano qui da soli durante l’estate. Me l’ha raccontato Hisu. Lui lo faceva quando era giovane. Aspettava finché la mandria non se n’era andata, poi attraversava le colline. Sull’altro lato ci sono delle colline più piccole, fatte di sabbia, e poi l’acqua. Si estende fino all’orizzonte, ha detto Hisu, come la pianura nella Terra dell’Estate; e ha un gusto salato. In ogni modo, lui fabbricava delle bacinelle con il legno. Non c’è legno nelle vicinanze, ha detto. Doveva portarlo dalle colline di pietra. Ah! Quanto lavoro! Comunque, riempiva di acqua le bacinelle. Quando l’acqua si prosciugava, nelle bacinelle restava il sale. — La osservò, elettrizzato da quell’informazione e col desiderio che anche lei si emozionasse

Nia fece il gesto che significava che sentiva e capiva.

Anasu fece il gesto che significava "se è così che la pensi". Poi disse: — Credo che raccoglierò sale quando sarò un uomo.

Lei si sentì qualcosa di duro in gola. Non le piaceva mai pensare di crescere.

Passarono gli anni. Quando Nia ebbe dieci anni, Suhai incominciò a insegnarle a lavorare il ferro. Questo la rendeva felice, raccontò ad Anasu.

— Avresti dovuto incominciare un anno fa o forse due anni prima. Suhai è sempre riluttante e indolente.

— Ciò nonostante, sono contenta — replicò Nia. — Suhai è brava in quello che fa.

— Nella fucina, può darsi. Altrove, no.

Anasu si faceva alto. Il suo corpo incominciava a ingrossarsi. Adesso Suhai lo odiava davvero.

— Non mi sono mai piaciuti gli uomini. Perfino quando ero pervasa dalla smania primaverile, pensavo sempre che fossero orribili. Sono stanca di tornare a casa e di trovarti nella mia tenda.

Anasu, che a quel tempo aveva quattordici anni, fece il cenno dell’assenso. Radunò le sue cose, i gonnellini, gli stivali, l’unico mantello lungo per l’inverno, e se ne andò. Su una spalla teneva l’arco dentro la sua custodia, e il coltello gli pendeva dalla cintura.

Nia sia alzò, tremante. — Ora basta, vecchia. Non intendo sopportarti più. Me ne vado anch’io.

— Benissimo. — Suhai si sedette accanto al fuoco. Il pranzo stava cuocendo in un grosso paiolo. Lei tirò fuori un pezzo di carne e se lo mangiò.

Nia incominciò a fare i bagagli.

Uscì dalla tenda, provando un senso di orgoglio. Per la prima volta da quando riusciva a ricordare, aveva fatto qualcosa di importante tutta da sola. E adesso che sarebbe successo? Non lo sapeva. Si fermò e si guardò attorno. Era estate inoltrata. La giornata era torrida e senza un alito di vento. Il fumo saliva diritto dai fuochi per cucinare del villaggio. In lontananza, la gialla pianura baluginava. Non aveva assolutamente idea di che cosa fare.

— Nia?

Era Ti-antai, sua cugina: una donna grassoccia dal pelame bruno scuro.

— Anasu mi ha riferito di aver lasciato mia madre.

Nia fece il gesto dell’affermazione. — Anch’io.

— Quella donna terribile! Finirà con l’allontanare tutti. Mia nonna me l’ha detto una volta, Suhai avrebbe dovuto nascere uomo. È troppo litigiosa per essere una donna. Vieni a stare con me, almeno per il momento.

Nia fece il gesto dell’assenso.

Restò con Ti-antai durante il viaggio verso sud. Poi, quando arrivarono nella Terra dell’Inverno, andò a vivere con Hua, una vecchia le cui figlie erano tutte morte. La sua tenda era vuota e lei aveva bisogno di aiuto alla sua fucina.

— Uno scambio conveniente. Tu mi aiuterai. Mi terrai compagnia. Io ti insegnerò ì segreti dell’oro e dell’argento. Io li conosco, lo sai. C’era un tempo in cui ero la migliore del villaggio alla fucina. Non sono tanto male neppure di questi tempi. Certo, le mie mani si sono fatte un po’ rigide e i miei occhi non sono più quelli di un tempo. Ma che importa, dopo tutto? A ogni modo, ti insegnerò come inserire l’argento nel ferro. E anche l’oro. Trasferisciti qui quando vuoi.

Anasu barattò il suo miglior ricamo con due pezze di cuoio e con queste si fece una tenda, piccola. Viveva da solo ai margini del villaggio. Quell’inverno Nia lo vide assai di rado.

In primavera, durante il viaggio verso nord, lui cavalcò accanto al carro di Hua e diede una mano con i cornacurve. Uno di questi era un giovane maschio, forte ma recalcitrante a tirare.

A quel tempo Anasu era ormai cresciuto. Era più tranquillo che in passato, seppure sempre di carattere gioviale.

Una mattina, all’incirca a metà del viaggio, Nia si svegliò un po’ più presto del solito. Si alzò e uscì. Erano accampati in prossimità di un fiume. La bruma si ammassava sull’acqua. Il sole incominciava appena a mostrarsi sopra una catena di colline verso oriente. Nia si diresse verso il carro. Il pannello posteriore era fissato con cerniere e catene. Poteva essere abbassato in modo da facilitare le operazioni di carico e scarico, e poteva venire fissato a metà, formando uno spazio piatto. Anasu dormiva lì sopra. Durante la notte aveva gettato via il mantello e ora giaceva sulla schiena, un braccio sul viso per ripararsi gli occhi. Tutt’a un tratto Nia vide chiaramente il fratello. Era grande e robusto. Aveva un aspetto arruffato, rozzo, un po’ insolito. Si stava avvicinando il tempo del cambiamento. Nia provò un dolore terribile.

Lui si destò e si stiracchiò. — Uh! Sono tutto irrigidito!

A lei venne voglia di abbracciarlo, ma decise di no. Avrebbe dovuto spiegare perché lo faceva. Invece se ne andò ad accendere il fuoco e a preparare la colazione.

Quell’estate Nia cercò di trascorrere più tempo con Anasu, ma lui era irrequieto, taciturno. Gli piaceva cacciare e pescare da solo. Quando si trovava al villaggio, lavorava a fabbricare frecce o a finire un grosso ricamo. Questo raffigurava un uomo con grandi corna ricurve: il Signore delle Mandrie. Su entrami i lati c’erano femmine di cornacurve. Sopra di lui il sole e un paio di uccelli.

— Non infastidirlo — le disse Ti-antai. — Si sta preparando per il cambiamento. Se vuoi fare qualcosa per lui, lavora ai suoi doni di addio.

Nia fece il gesto dell’assenso.

L’estate fu piovosa ed eccezionalmente breve. Il sole era ancora molto lontano dal nord quando gli uccelli incominciarono a partire.

— Un brutto inverno — commentò Hua. — Chiederò alla conciapelli che cosa vuole in cambio di un buon mantello di pelliccia. Ora, faremmo meglio a cominciare a preparare i bagagli.

Poco prima che lasciassero la Terra dell’Estate, il cielo si fece terso. Per due giorni il tempo fu caldo e luminoso. Anasu venne alla sua tenda. — Andiamo a catturare pesci.

Fabbricarono le trappole e le sistemarono nel fiume. Poi sedettero sulla riva. Le foglie sugli arbusti incominciavano già a ingiallire. Il sole scottava. Su una roccia, a poca distanza, c’era una lucertola di fiume. Con il capo sollevato, li scrutava guardinga. Sotto il mento aveva una vescica di pelle color arancione. Una o due volte la gonfiò e gracidò.

Anasu raccolse un ramoscello e lo spezzò in piccoli pezzi. — Sto diventando sempre più irritabile. Ci sono giorni, Nia, in cui riesco a stento a sopportare la gente. Penso… il primo che mi viene vicino lo pesto.

Il cambiamento, pensò Nia.

— Ho deciso di dirtelo. Voglio che tu sappia che, se all’improvviso me ne vado o divento violento, è perché non riesco più a mantenere il controllo.

— Tutti noi lo sappiamo.

D’un tratto, con violenza, lui fece il gesto del dissenso. — Tu non puoi sapere. Ho le ossa in fiamme. È come un fuoco in una torbiera che non si esaurisce mai. Non mi sono mai sentito peggio di così, neppure quando è morta nostra madre. — Si alzò. — Non intendo restare qui, Nia. Addio.

Si allontanò. Nia restò seduta per un po’ a guardare il fiume. Un pesce si dibatteva nell’acqua dove avevano collocato una delle loro trappole. Lei fece qualche passo nell’acqua bassa per andare a prenderlo.

Durante il viaggio verso il sud lo vide appena. Una volta o due scorse di sfuggita, attraverso la polvere, un giovane che cavalcava. Era possibile che fosse lui. Una sera Anasu venne nella loro tenda. Aveva la pelliccia irsuta e opaca e le sue vesti erano sporche. Si sedette sul lato opposto a dove si trovavano loro e si servì della cena. La vecchia Hua, che di solito era loquace, non disse nulla.

Alla fine fu Nia a parlare. — Come stai?

Lui le rivolse un’occhiata assente e Nia notò che i suoi occhi non erano di un giallo puro. C’era dell’arancione attorno alle pupille. Non se lo ricordava.

Anasu fece il gesto che significava né bene né male. Poi riprese a mangiare. Non appena ebbe finito, se ne andò.

— Completa i tuoi doni — disse la vecchia Hua.

Lei lo fece. L’ultimo era una fibbia fatta in ferro ricoperto di argento. Raffigurava un cornacurve che lottava con un assassino-delle-montagne.

— Non male — fu il commento di Hua. — Un giorno o l’altro mi renderai orgogliosa.

Nia fece il gesto che significava un cortese o schivo diniego.

— Hai troppo poco amor proprio — osservò Hua.

Il viaggio si concluse. La gente innalzò le proprie tende in prossimità del Fiume Marrone. Più a nord c’era un crinale roccioso dalle basse pendici ricoperte di foreste. A sud, sull’altra sponda del fiume, si estendeva la pianura: ondulata, costellata di alberi, del giallo della tarda estate. Lì fu condotta a pascolare la mandria.

Non c’era traccia di Anasu. Nia si sentì inquieta.

— Verrà — le disse Ti-antai. — Nessun uomo se ne va senza i suoi doni di addio; a meno che, naturalmente, il cambiamento non lo faccia impazzire. Ma questo accade di rado.

— Non sei sempre una consolazione, cugina.

All’inizio il tempo si mantenne asciutto. Poi incominciò a piovere. Ogni giorno cadeva almeno qualche goccia; la maggior parte dei giorni, però, pioveva o piovigginava per ore. L’aria era fredda. Hua si lamentava che le dolevano le ossa. Ciò nonostante, si manteneva operosa.

Un pomeriggio se ne stavano entrambe alla fucina. Nia azionava il mantice per Hua, che stava fabbricando un lungo coltello: un dono di addio per Gersu, il figlio della conciapelli, che era di poco più giovane di Anasu.

Quando il lavoro di martellinatura fu completato e la lama immersa nell’acqua fredda, Nia mise giù il mantice. Si massaggiò il collo.

— Nia. — Era Anasu. C’era una nota esitante nella sua voce.

Nia si guardò attorno. Lui era fermo lì vicino e teneva le redini del cornacurve. Non aveva mai avuto un aspetto peggiore: arruffato, sporco di fango, smarrito.

— Anasu?

— Io… — S’interruppe per un attimo. — Sono venuto per i doni. Sto per andare al di là del fiume.

Lei fece il gesto che significava che capiva, poi quello del rincrescimento.

— Tu resta qui — disse Hua. — Nessuno ti darà noia. Impacchetteremo ogni cosa.

Andarono dentro la tenda. Hua aggiunse legna al fuoco, poi mise una bacinella di latte a scaldare.

Nia tirò fuori le bisacce da sella nuove che aveva fatto la conciapelli, poi il panno che si era procurata da Angai la Cieca, la tessitrice, in cambio di un nuovo paiolo. La maggior parte dei rimanenti oggetti li avevano fatti lei stessa, Hua o Ti-antai. Li sistemò uno a uno: il coltello nuovo, la marmitta, gli aghi di ottone, il punteruolo e il pettine dal manico lungo del genere che gli uomini usavano per pettinarsi il pelo sulla schiena.

Che altro? Faceva fatica a pensare.

— La cintura nuova, sciocchina! — Hua stava impacchettando il cibo: carne essicata, bacche essicate, pane.

Finalmente ebbero finito. Hua versò il latte in una tazza. Portarono ad Anasu le bisacce da sella. Era cominciato a piovere un poco. Lui se ne stava fermo lì dove lo avevano lasciato e aveva un’aria inquieta. Il cornacurve, che avvertiva il suo nervosismo, continuava a muoversi, ruotando il capo, scuotendo le orecchie, dando strattoni alle redini.

Proprio quando raggiunsero Anasu, lui tirò con violenza le redini e gridò: — Sta’ fermo, tu!

Il cornacurve muggì e s’impennò. Anasu lo tirò giù. Strappò le bisacce da sella dalle mani di Nia e un istante dopo era a cavalcioni del cornacurve. Si piegò a dare una pacca sulla spalla dell’animale. Il cornacurve incominciò a correre.

— Anasu! — gridò Nia.

Se n’era andato.

— Gli uomini! — fu il commento di Hua. — Danno sempre spettacolo! Ed eccomi qui con questa tazza di latte. Intendevo darla a lui. Be’, farà altrettanto bene a me. — Ne bevve una sorsata.

Nia emise una specie di mugolio, poi serrò la mano e cominciò a battersi una coscia.

— È giusto. Da’ sfogo al dolore.

Nia continuò a battersi la coscia.

Come aveva predetto Hua, fu un inverno cattivo. Faceva freddo e c’era parecchia neve. Nia si chiedeva come se la stesse cavando Anasu. Pregò il Signore delle Mandrie, chiedendogli di proteggere suo fratello.

All’epoca del solstizio, Gersu impazzì e lo si dovette scacciare dal villaggio. In seguito, sua madre portò i doni al di là del fiume. Li appese ai rami di un grosso albero. Forse lui li avrebbe trovati e li avrebbe presi. Più probabilmente, no.

— I suoi occhi hanno sempre avuto uno sguardo cattivo — fu il commento di Hua.

Nia fece il gesto dell’assenso.

La primavera arrivò presto. La pianura divenne di un azzurro chiaro. Gli arbusti lungo il fiume misero dei fiori gialli. Nia si sentiva quasi felice.

— Vedi — disse Hua. — Superiamo sempre qualunque cosa.

— No. Questo non lo credo.

— Vedrai.

Giunse la stagione degli accoppiamenti. Ti-antai, che aveva appena finito di svezzare il suo ultimo bambino, sentì la smania primaverile e partì. Nia si trasferì nella sua tenda e si prese cura dei bambini.

Dieci giorni più tardi, Ti-antai fece ritorno. Appariva scompigliata e rilassata. — Bene, è finito. — Si stiracchiò e sbadigliò.

— Hai visto Anasu?

— Naturalmente no. Nia, che cosa c’è che non va? Lui deve trovarsi molto a sud con gli altri giovani. Non sono arrivata fin laggiù. — Ti-antai arrotolò una coperta fino a farne un guanciale, poi si coricò. Sbadigliò di nuovo. — Mi sono presa un tipo grande e grosso, a mezza giornata di viaggio da qui. Fa dei bei lavori di intaglio. Mi ha dato un corno per il sale pieno di sale. Mmm! Ho bisogno di dormire!

Nessuna delle donne aveva incontrato Anasu, ma nessuna di loro si era spinta molto a sud. Si erano accoppiate tutte con uomini più vecchi, che avevano il proprio territorio in prossimità del villaggio.

— Non preoccuparti — le disse Hua. — Fra un anno, due o tre qualcuno lo incontrerà e te lo riferirà.

Nia fece il gesto che significava che aveva capito. Mentre faceva il gesto, pensò che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di sbagliato. Perché così spesso la gente si sentiva sola?

Andarono a nord nella Terra dell’Estate. Una volta che si furono sistemati, Nia si guardò attorno in cerca di nuovi amici. Aveva passato troppo tempo con Anasu e aveva fatto troppo affidamento su di lui.

Scelse come amica la più giovane Angai. Angai era la figlia della sciamana, una ragazza esile, sveglia, spesso sarcastica. Ma sapeva parecchie cose interessanti: i diversi modi di impiegare le piante, il significato dei voli degli uccelli. Al pari di Nia, era sola.

— Ho molte capacità — spiegò a Nia. — Ma non quella di fare amicizia. È terribile!

Nia la osservò. Stava facendo dell’ironia? Sì. Un angolo della sua bocca era piegato all’ingiù, segno che non pensava davvero ciò che aveva detto.

Durante i festeggiamenti della mezza estate, si ubriacarono insieme e si addormentarono fra le braccia l’una dell’altra.

Sul finire dell’estate, Nia fece una collana per Angai. Ogni maglia era un uccello fatto in argento.

— È meravigliosa! — esclamò Angai. Abbracciò Nia, poi si mise la collana. — Tutte le donne del villaggio mi invidieranno!

— Pensi troppo all’opinione degli altri. Angai parve irritata, poi disse: — Può darsi.

Dopo di che Angai si comportò freddamente per un giorno o due. Poi arrivò alla fucina di Hua e portò un dono. Era un unguento che toglieva il dolore di qualunque scottatura.

— È una ricetta di mia madre. L’ho fatto io questa volta. Mia madre dice che è buono.

Nia prese il vasetto. — Grazie.

— Adesso possiamo smettere di litigare?

Nia rise. — Sì.

L’autunno fu asciutto e il viaggio verso sud agevole, quasi piacevole. Nia e Angai erano sempre insieme. Qualche volta Angai viaggiava sul carro di Hua. A volte Nia cavalcava accanto al carro della sciamana. Naturalmente, non vi salì mai. Era pieno di oggetti magici.

Un giorno si allontanarono dalla carovana. Lasciarono correre i loro cornacurve e, quando gli animali incominciarono a essere stanchi, si fermarono. Il territorio era piatto e deserto. Non videro nulla all’infuori della gialla pianura e del cielo verdeazzurro. Da qualche parte lì vicino un uccello terrestre cantava: un fischio, uno schiocco, un fischio.

— Mmm! — esclamò Nia, massaggiando il collo del cornacurve.

— Ci sono momenti — disse Angai — in cui mi stanco della gente. Penso che vorrei essere un uomo e vivere per mio conto.

— Tu hai molte idee strane.

Angai fece il gesto dell’assenso. — Mi viene dal vivere con mia madre. Passiamo la notte qui fuori, lontano da tutti.

— Perché?

Angai fece il gesto che esprimeva incertezza.

— Questa non è una vera ragione — disse Nia. — E io non desidero fare le cose che fanno gli uomini.

Nel tardo pomeriggio fecero ritorno alla carovana. Era ancora in movimento. I carri e gli animali sollevavano nubi di polvere. Mentre si avvicinavano, Nia udì il suono delle voci: donne e bambini che sbraitavano. Per un attimo il baccano la irritò. Voleva tornare indietro, verso il silenzio della pianura.

Non lo fece. Invece proseguì, cercando il carro di Hua.

Quando arrivarono nella Terra dell’Inverno, Ti-antai si ammalò. Cominciò a perdere sangue e abortì. La sciamana tenne una cerimonia di purificazione e un’altra per allontanare altri eventi sfortunati. Dopo di che Ti-antai cominciò a stare meglio, ma molto lentamente. Stette male fino a inverno inoltrato.

Non successe nient’altro di importante, a parte il fatto che Nia scoprì di poter andare d’accordo con Suhai. Cominciarono a scambiarsi visite; non spesso, ma una volta ogni tanto. Suhai stava diventando vecchia. C’erano peli grigi nella sua pelliccia. Le sue ampie spalle si erano afflosciate. Si lamentava del freddo dell’inverno e dell’ingratitudine delle proprie figlie.

— Non vengono mai a farmi visita. Dopo tutti gli anni di cure, mi lasciano sola. Tutto questo è corretto? È normale e giusto?

Nia non disse nulla.

— Ebbene? — domandò Suhai.

— Non intendo criticare il loro comportamento. Il proverbio dice di non parlare male di parenti o di qualsiasi altro con cui viaggi. Il proverbio dice anche di non interferire nei bisticci degli altri.

— Uh! Ho tirato su una donna saggia, vero?

Nia non rispose.

Suhai si alzò, muovendosi in modo rigido. — Non ho intenzione di stare ad ascoltare una bambina che sputa saggezza come il pesce dell’antica leggenda che sputa pezzi d’oro. È innaturale. Addio.

— Addio, matrigna. Ti verrò a trovare fra un giorno o due.

Arrivò la primavera. Era di nuovo precoce. Nia incominciò a sentirsi nervosa. Di notte era disturbata da sogni. Spesso, nei sogni, vedeva il fratello o altri giovani, perfino il folle Gersu.

Quando si alzava, di solito era stanca e trovava difficile concentrarsi su qualsiasi cosa. Incominciò a fare errori alla fucina.

— Non riesci a fare niente nel modo giusto? — le domandò Hua.

Nia la fissò, sbigottita.

— Be’, è comunque una risposta, ma non è una buona risposta — osservò Hua.

Da ultimo raccolse la lama di un coltello che era ancora rovente e si bruciò seriamente la mano. Hua si prese cura della bruciatura, poi disse: — Adesso basta. Vattene. Non tornare finché non sarai in grado di lavorare.

Angai le diede una pozione che le calmò il dolore. Dormì parecchio. I suoi sogni erano frammentari, oscuri, e la turbavano. Le pareva che in essi ci fosse sempre Anasu.

Finalmente la mano smise di farle male. Ma ora le sembrava che tutto il suo corpo fosse pieno di strane sensazioni: pizzicori e formicolii. Spesso provava un gran calore, sebbene si fosse ancora all’inizio della primavera. Il tempo non era particolarmente caldo.

Andò a trovare Ti-antai.

— La smania primaverile — sentenziò la cugina. — La scorgo sul tuo viso. Bene, sei abbastanza grande. Adesso prepara i tuoi bagagli. Cibo e un dono per l’uomo. Qualcosa di utile. Della stoffa o un coltello. Sarai pronta a partire fra un giorno o due.

Lei preparò i bagagli. Quella notte non dormì affatto. Il suo corpo era in fermento e scottava. Al mattino uscì. La carezza del vento la fece rabbrividire. È ora di andare, pensò. Prese il suo cornacurve preferito e lo sellò, poi andò a prendere le sue bisacce da sella.

— Sii prudente — le disse Hua.

Per un attimo non si rese conto di chi fosse l’anziana donna; poi se ne ricordò. — Sì. — Uscì, montò in sella e partì al galoppo.

Passò a guado il fiume. L’acqua era poco profonda e c’era un po’ di foschia. Sul lato opposto c’era un albero e dai suoi rami penzolavano un paio di stracci. C’era un coltello conficcato nel legno, la lama e l’impugnatura arrugginiti. Nia osservò di sfuggita tutto ciò, poi se ne scordò e procedette sulla pianura.

A metà pomeriggio arrivò ai margini di una mandria. Il primo animale che vide era un grosso maschio. Un corno era spezzato e il pelo lungo e arruffato che gli copriva il collo e il busto era di un bruno argenteo. L’animale mugghiò, poi abbassò il capo come se stesse per caricare. Quindi sollevò il capo e lo scosse. Un istante dopo si allontanava al trotto.

Bene, pensò Nia. Non era dell’umore giusto per un confronto.

Proseguì. Ben presto si imbatté in altri animali: bestie di un anno o due. Erano troppo grandi per le cure materne e troppo giovani per tenere testa ai grossi maschi, i guardiani della mandria. In quel periodo dell’anno si tenevano ai margini della mandria, ben lontani dalle femmine e dai loro nuovi piccoli. Non gradivano di dover stare lì ai margini e spesso gli animali di un anno cercavano di entrare per trovare la madre, ma i grossi maschi li allontanavano.

Nia si fermò all’imbrunire. Trovò un albero e vi legò il suo cornacurve. Poi accese un fuoco. La notte era fredda e si era dimenticata il mantello. Restò alzata e mantenne vivo il fuoco.

La mattina seguente, al levar del sole, comparve un uomo. Dall’aspetto doveva avere trenta o trentacinque anni, era pesante e con le spalle ampie. La sua pelliccia era color bruno scuro. Indossava una tunica gialla, alti stivali, una collana d’argento e bronzo.

Tenne a freno il suo cornacurve e la osservò per un momento. Il suo sguardo era fermo e calcolatore. Poi smontò. Nia indietreggiò; all’improvviso si sentiva a disagio.

— Dall’aspetto mi eri sembrata abbastanza giovane — fece lui. — Mi causerà un sacco di problemi?

— Non lo so.

La sua pelliccia era folta e lucente. Aveva un’interessante cicatrice: una striscia bianca che gli scendeva lungo il braccio destro dalla spalla fino all’interno del gomito.

— Chi sei? — s’informò Nia.

Lui sembrò irritato. — Inani. Ti dispiace se non parliamo? Parlare mi rende nervoso.

Lei fece il gesto dell’assenso. Lui le si avvicinò, poi tese le braccia e la toccò. Nia rabbrividì. Dolcemente, lui la cinse con un braccio. Ciò che accadde in seguito non le fu del tutto chiaro.

Quando ebbero finito, Nia si alzò e riaccese il fuoco. Scaldò del latte. Inani sonnecchiava con la schiena appoggiata all’albero. Ogni tanto si destava di soprassalto. Si guardava attorno, poi si rilassava e si appisolava di nuovo. Alla fine si svegliò del tutto. Nia gli offrì una tazza. Sedettero uno di fronte all’altra attorno al fuoco e bevvero.

Inani disse: — Chi sei?

— Nia. La figliastra di Suhai. Hai incontrato mio fratello Anasu?

— No. Conosco gli uomini che hanno il proprio territorio accanto al mio. Mi tengo lontano da loro il più possibile, ma durante le migrazioni tutto si confonde. Gli individui stanno troppo vicini. A volte penso che sarebbe meglio andarsene via del tutto.

— Chi è tua madre?

— La fabbricante di tende. Enwa. È viva?

— Sì.

— Bene. — Inani si alzò. — Ti va di restare qui? — Montò in sella al suo cornacurve. — Causi meno problemi di quanto mi aspettassi. Tornerò questa sera.

Si allontanò al galoppo. Nia dormì per buona parte della giornata. Alla sera, Inani tornò. Si accoppiarono di nuovo. Lui si accampò a breve distanza. Nia osservò per un po’ il suo fuoco di bivacco, poi si addormentò.

Il giorno seguente Inani se ne andò di nuovo e tornò nel tardo pomeriggio. Si accoppiarono. Lui fece ritorno al proprio bivacco. La notte era nuvolosa e c’erano raffiche di vento gelido. Nia se ne stava raggomitolata accanto al fuoco e tremava. Dopo un po’ alzò lo sguardo e vide Inani. Era in piedi sul limitare della luce del fuoco, appena visibile.

— Sì? Che cosa c’è?

L’uomo fece qualche passo avanti e le tese qualcosa. Un mantello. Svolazzava al vento.

Nia si alzò. — Grazie.

Prese il mantello. Inani rimase dov’era. Per un istante Nia pensò che stesse per parlare. Ma lui non lo fece. Fece invece il gesto che significava "oh, bene". Si voltò e si allontanò nelle tenebre.

Che strano! Lei si avvolse nel mantello, poi si coricò.

La mattina seguente l’uomo se ne andò di nuovo. Nia restò presso l’albero. Cominciava a sentirsi irrequieta, ma non osava andare a cavalcare. Non sapeva dove terminasse il territorio di Inani. Se avesse sconfinato nel territorio di un altro uomo, costui l’avrebbe rivendicata. Inani avrebbe potuto seguirla. Poi ci sarebbe stato un diverbio. Aveva sentito parlare di cose del genere. Di solito i due uomini si minacciavano a vicenda finché uno di loro rinunciava e se ne andava. Qualche volta, però, si battevano. La vecchia Hua aveva visto morire un uomo, con una lama di coltello nel petto. Che cosa terribile! Ma anche interessante. Che effetto avrebbe fatto stare a guardare un combattimento che era veramente serio?

Inani tornò quella sera. Si accoppiarono. Questa volta, lui si trattenne alla fine. Si sedette all’altra estremità del fuoco e si mise a fare domande. Come stava Enwa? E le sue sorelle? Il vecchio Niri era ancora vivo?

— No.

Inani si grattò la testa. — Be’, era vecchio. Mi ha insegnato lui a intagliare. Posso restare qui stanotte?

Nia fece il gesto dell’assenso.

Si destò al sorgere del sole. L’aria era fredda e senza vento. Inani se n’era andato. Nia si alzò, stiracchiandosi e gemendo. Il fuoco era spento. Accanto alle ceneri c’erano due oggetti.

— Che cosa? — esclamò ad alta voce. Si avvicinò e li esaminò: un sacchetto pieno di sale e una scatola. Lei la rigirò, ammirandone la lavorazione. Era un abile artigiano, Inani.

Dopo un istante o due si rese conto del significato degli oggetti. Erano i doni dell’accoppiamento. Queste cose venivano date quando era terminato il periodo dell’accoppiamento. Inani l’aveva finita con lei.

Così presto? Nia si sentiva imbarazzata e insultata. Aveva forse fatto qualcosa di sbagliato? O Inani aveva trovato un’altra donna nel proprio territorio? Qualcuna che trovava più attraente.

Nia sospirò, poi mise nelle bisacce la scatola e il sacchetto di sale e dispose i suoi doni per Inani: un coltello, una cintura, una pezza di panno azzurro. Lui sarebbe tornato e li avrebbe trovati. Sellò il suo cornacurve. Si sentiva stanca e un po’ delusa, ma la smania era sparita. Questo era un bene. Montò in sella e si diresse verso casa.

Quando tutte le donne ebbero fatto ritorno al villaggio, Nia s’informò se qualcuna avesse visto Anasu. Ma nessuna l’aveva incontrato.

— Non preoccuparti — disse Hua. — Ricomparirà. Non è uno degli sfortunati.

Nia fece il gesto che indicava che aveva capito.


Il viaggio verso nord fu difficoltoso. C’era pioggia. La mandria, che procedeva davanti al villaggio, sommuoveva il terreno bagnato, trasformandolo in fango. I carri s’impantanarono infinite volte. L’umore si fece irascibile. Parecchi fra i vecchi sellarono i loro cornacurve e se ne andarono.

Hisu, il fabbricante di archi, era troppo vecchio per andare. Se ne stava seduto sul suo carro e malediceva il destino.

Nia, che gli cavalcava accanto, lo sentì borbottare: — Era meglio se morivo anni fa. — Parlava a voce alta senza rivolgersi a nessuno che lei potesse vedere. — Nel fiore degli anni, da solo. Il modo che si conviene. Ora… o Signore delle Mandrie, che fine! Vivere circondato da donne!

Aveva davvero un’aria miserevole. Se ne stava raggomitolato nel mantello, il volto riparato da un ampio cappello da pioggia di cuoio. Nia notò che il suo pelame era completamente grigio.

Gli fece un cenno con la mano. Lui imprecò. Lei proseguì.

Finalmente arrivarono nella Terra dell’Estate. La maggior parte dei vecchi tornò e si sistemò come al solito ai margini dell’accampamento. Ma due non fecero più ritorno.

— Due stupidi! — osservò Hua. — Perché se ne sono andati? Erano vecchi. Si sarebbero potuti comportare in modo ragionevole. L’hanno fatto? No. Sono corsi via come ragazzi forsennati. E adesso qualcosa li ha uccisi.

Nia non disse nulla.

La pioggia cessò. L’estate era fresca e asciutta. Ben presto ebbe la certezza di non essere gravida.

— Non preoccuparti — la rassicurò Ti-antai. — Capita spesso. Avrai un figlio il prossimo anno o l’anno successivo.

Nia fece il gesto con cui mostrava che capiva. Non si era preoccupata. Era felice così com’era. Durante il giorno lavorava alla fucina. Nel tardo pomeriggio lei e Angai andavano a cavalcare o se ne stavano sedute presso il fiume a chiacchierare. Era per lo più Angai a parlare. Aveva molto spirito di osservazione e trovava sempre qualcosa di mordace da dire sulle persone del villaggio. A causa del tempo asciutto, c’erano solo pochi insetti nell’aria. Era piacevole starsene sedute ad ascoltare mentre il cielo cambiava colore.

La sua amica era senza dubbio intelligente, pensò Nia. Quasi intelligente quanto Anasu.

Quell’estate ci fu uno scandalo al villaggio. Riguardava la lavoratrice del bronzo, Nuha, e suo figlio.

Lui aveva sedici anni e tutti potevano vedere che era passato attraverso il cambiamento. La sua pellicia era irsuta, il corpo grande e grosso. Si comportava in modo irrequieto, ma non abbandonava il villaggio. Al contrario, restava dentro la tenda di sua madre o lavorava con lei alla fucina.

Le vecchie torcevano la bocca e brontolavano. Hua disse: — È quello che capita quando una donna non ha figlie. Non riesce a lasciar andare i figli maschi. Guarda in che modo lo tratta! Non lo manda a imparare a usare l’arco o qualche altra cosa che gli tornerà utile. Lascia che lui azioni il mantice e coli perfino il bronzo. Aiya! È spaventoso.

Nia non disse nulla. Le era sempre piaciuto Enshi. Da bambino era stato affabile e loquace, sempre pronto a raccontare storielle e a fare scherzi. Perfino adesso era sempre cortese e non perdeva mai le staffe, una cosa assai insolita in un ragazzo, o in un uomo, della sua età.

Era però mediocre come tiratore d’arco. Glielo aveva detto Anasu.

"E cavalca anche male", aveva osservato suo fratello. "Non sopravviverà da solo sulla pianura."

Arrivò l’autunno. Il villaggio si preparò a muoversi. Una mattina Enshi se ne andò.

— Finalmente! — fu il commento di Hua. — Adesso potrò parlare di nuovo con sua madre.

Restò assente per cinque giorni, poi ritornò. Aveva l’aspetto stanco e sporco. Le donne del villaggio gli rivolsero occhiate ostili, ma Enshi le ignorò. Condusse la sua cavalcatura fino alla tenda della madre e smontò.

Nuha, che era piccola e grassa, si precipitò fuori e abbracciò il figlio.

— Disgustoso — dichiarò Suhai. — Che la Madre delle Madri possa insegnare la vergogna a quella donna.

— Stai maledicendo la donna? — domandò Nia. — In tal caso, farò il gesto dello scongiuro. Chi può dire quale spirito ascolterà una maledizione? O che cosa ne farà?

— Hai intenzione di diventare una sciamana, figliastra?

— No.

Suhai la fissò torva, poi fece il gesto dello scongiuro.

— Bene — disse Nia.

La mattina seguente, di buon’ora, le donne anziane si recarono dalla sciamana. Rimasero sull’entrata della sua tenda e si lamentarono. Nia udì le loro voci stridule e uscì. La giornata era luminosa. L’aria odorava di fumo di legna, di cuoio e dell’arida pianura estiva.

Nia osservò la sciamana che attraversava il villaggio. Indossava una tunica ricoperta di ricami rossi e una grossa collana fatta di bronzo. Mmm! Che donna imponente!

Le vecchiacce la seguivano zoppicando. Nia restò a guardare.

Si fermarono tutte davanti alla tenda di Nuha.

— Enshi! — gridò la sciamana.

Un minuto dopo, Enshi uscì. Nia non riusciva a vedere la sua espressione.

— Non hai la coscienza di ciò che è giusto? — domandò ad alta voce la sciamana.

Enshi abbassò gli occhi, poi li rialzò. Borbottò qualcosa che Nia non riuscì a sentire.

— È ora che tu te ne vada — disse la sciamana.

Enshi fece il gesto dell’assenso. Ora aveva le spalle curve e un’aria scoraggiata.

— Vattene oggi. E non tornare. Sei diventato una fonte di imbarazzo.

Enshi fece una seconda volta il gesto dell’assenso. Poi si voltò e rientrò nella tenda della madre.

La sciamana se ne andò, ma le vecchie si sedettero lì in attesa.

Nia andò alla fucina e lavorò da sola. Nel pomeriggio inoltrato arrivò Hua.

— Se ne è andato — dichiarò. — Gli abbiamo detto che se mai decidesse di tornare, lo malediremmo.

— Davvero? — osservò Nia. Si drizzò e si massaggiò il collo. — Come sono indolenzita oggi!

Il villaggio si spostò a sud. Il tempo si manteneva asciutto. La mandria sollevava una nube di polvere che saliva verso il cielo per gran parte del cammino. Un giorno dopo l’altro, vedevano davanti a loro la nube. Era di un colore marrone scuro. Nia pensava: Anasu è laggiù, che cavalca fra la polvere. E anche Enshi, il povero buffone.

Arrivarono nella Terra dell’Inverno. Di solito si accampavano a nord della mandria, ma quell’anno si diressero a sud e a est fino al Grande Lago dei Giunchi. Ora si trovavano ai margini orientali del loro pascolo. Sull’altra sponda del lago c’era la terra del Popolo dell’Ambra. Piantarono le loro tende e la sciamana si recò a far visita al Popolo dell’Ambra. Angai andò con lei, a anche altre nove donne. Conducevano tutte animali da soma carichi di doni.

Rimasero assenti per trenta giorni. Il tempo si manteneva asciutto, sebbene Hua continuasse a dire che stava arrivando la pioggia. Se la sentiva nelle ossa.

Quando tornarono, portarono con loro i doni del Popolo dell’Ambra: ambra, naturalmente, conchiglie colorate e rame.

— Uh! Che esperienza — dichiarò Angai. — Abbiamo dovuto girare attorno al lago. Sull’altra riva ci sono acquitrini e, al di là degli acquitrini, un fiume. È ampio e profondo. L’abbiamo dovuto attraversare ed è stato pericoloso. Ci vivono degli animali. Sono simili alle lucertole di fiume, ma più grandi. Molto più grandi. Mangiano qualunque cosa, dice mia madre.

— Uh! — esclamò Nia. — Raccontami di più.

— Abbiamo fabbricato delle zattere. È così che abbiamo attraversato il fiume. Non ho visto nessuno di quegli animali. Sono chiamati tuffatori o assassini-dell’acqua-profonda.

— Aiya! - fece Nia.

— Sull’altra sponda del fiume c’è la terra del Popolo dell’Ambra. — Angai fece una pausa e aggrottò la fronte. — Sono alte quanto noi, ma più corpulente; e parecchie di loro sono grasse. Hanno la pelliccia scura. La loro sciamana è enorme. Porta un cappello fatto di penne. Riuscivo a stento a capirle. Parlano in un modo così strano. Però sono molto ospitali. E bevono una specie di birra che non ho mai assaggiato prima. Nia, ho sentito una storia laggiù da non credere. Ma loro giurano che è vera.

Angai s’interruppe per bere un po’ di latte. Nia restò in attesa.

— Sostengono che più a oriente di dove stanno loro c’è un popolo che rimane in un unico posto. Non si sposta mai.

Nia fece il gesto dello stupore.

— Vivono in case fatte di legno. Le case non possono essere ripiegate o smontate. Sono solide come scatole.

"A quanto sostiene il Popolo dell’Ambra, vivono nei pressi di una foresta e i loro uomini vivono nella foresta. Non conducono in branco gli animali come dovrebbero fare gli uomini. Invece cacciano e pescano pesci. Le donne non hanno una grande opinione di loro. Dicono che tutti gli uomini sono selvaggi e cattivi."

— È il Popolo dell’Ambra che lo dice?

— No! No! È il popolo che non si sposta mai. In realtà, secondo il Popolo dell’Ambra, alcune fra le donne rifiutano di accoppiarsi con gli uomini.

Nia si grattò il capo. — Com’è possibile?

— Quando arriva la smania primaverile, si allontanano a coppie, due donne insieme. Si accoppiano fra di loro.

Per un attimo Nia restò seduta in silenzio a fissare il fuoco. — Come fanno a generare figli?

— Nel solito modo. Il Popolo dell’Ambra sostiene che pochissime fra le donne si accoppiano soltanto con altre donne. La maggior parte di loro vuole avere figli, così si accoppiano con gli uomini finché non hanno tutti i figli che vogliono.

Nia si grattò di nuovo la testa. — È una storia molto strana.

— Sì. Mi piacerebbe andare a visitare quel popolo.

— Sono delle pervertite! — saltò su Hua. — E le donne del Popolo dell’Ambra sono una massa di bugiarde. Non esiste un popolo simile. Case di legno! Che idea balorda!

Angai aveva l’aria infuriata.

— Non voglio parlare più di questo — disse Nia. — Questa storia mi mette a disagio.

L’inverno fu freddo. Di notte, nel cielo a settentrione, brillavano luci. Erano verdi, bianche e gialle.

— Il fuoco dell’inverno — spiegò Hua. — Lassù a nord riempie il cielo. Noi non lo vediamo spesso quaggiù.

— Porta sventura — sentenziò Ti-antai.

Cadde la neve. Al villaggio ci fu un’epidemia di tosse e molte persone morirono. Erano per lo più donne anziane e bambini molto piccoli.

Suhai si prese la malattia. Per qualche tempo, nel periodo buio dopo il solstizio, tutti pensarono che sarebbe morta. Ma alla fine si ristabilì, seppure lentamente. Per tutto il resto dell’inverno rimase nella sua tenda, accudita da Nia e da Ti-antai. Era duro per Nia andare a trovarla e vederla rannicchiata lì accanto al fuoco. La sua pelliccia era più grigia che bruna e aveva un aspetto ossuto e infelice.

Nia si domandava perché mai le si contraesse la gola alla vista della vecchia. La matrigna non le piaceva neppure.

Finalmente giunse la primavera, una primavera fredda e piovosa. Le mani di Hua divennero così rigide che non era in grado di lavorare alla fucina. — Questo posto è pervaso dalla malasorte — si lamentò.

— Credo che tu abbia ragione — convenne Nia.

Gli alberi misero foglie di un colore azzurro chiaro e fra le canne rinsecchite nel lago sbocciavano fiori. Erano gialli e arancione. Altri fiori, bianchi e minuscoli, comparvero ai margini della pianura. Nia incominciò a sentirsi irrequieta. La smania primaverile, pensò. Iniziò così a radunare provviste.

— Perché io non provo la smania? — domandò Angai.

— Tu sei più giovane di me. — Nia si chinò e osservò gli oggetti che aveva preparato durante l’inverno: lunghi coltelli e aghi, fermagli, lime e punteruoli. Qual era il dono adatto?

— Sono più giovane solo di mezzo anno — disse Angai. — Non è molto.

— Perché lo chiedi a me? Che cosa ne so? Domandalo a tua madre.

Angai se ne andò. Nia comprese che era in collera. Peccato. Allungò la mano e raccolse un coltello. Aveva una buona lama, fatta di ferro che era stato piegato e ripiegato. Questo sarebbe andato bene, pensò. E anche aghi e un fermaglio, e magari del cuoio della conciapelli.

Si alzò in piedi. E ora, del cibo per il viaggio.

Quella notte sognò di Anasu e di cavalcare per la pianura. Si svegliò, sentendosi più smaniosa di prima. Sollevò il lembo della tenda e lo fissò, lasciando entrare la luce del sole. L’aria era tranquilla e mite e odorava della vegetazione nuova. Pensò: partirò oggi, prima che la smania diventi ancora più forte. Cavalcherò finché non dimenticherò questo inverno terribile. Si voltò a guardare Hua.

— Lo so — disse la vecchia. — Qualche volta vorrei provare ancora la smania. Allora penso: devo essere davvero pazza per desiderare una cosa del genere. In ogni caso, va’.

Nia riempì le bisacce da sella e andò in cerca del suo cornacurve preferito. A mezzogiorno era già in viaggio. Il cornacurve era irrequieto e voleva correre e Nia glielo permise. Dopo un po’, l’animale rallentò, poi si fermò. Nia si guardò attorno. Era sola. Da ogni parte, la pianura si estendeva ondulata fino all’orizzonte. Trasse un respiro profondo, poi espirò. Il cornacurve agitò le orecchie.

Dove voleva andare? Non a ovest, decise. Là c’erano la mandria e gli uomini maturi. No. Sarebbe andata a sud, verso le colline dove stavano i giovani. Lanciò uno sguardo al sole e poi alla propria ombra, quindi diresse il cornacurve verso sud.

Viaggiò per tre giorni. Il tempo si mantenne sereno. Non incontrò neppure una persona, nulla all’infuori degli uccelli e dei piccoli animali che vivevano sulla pianura. Pian piano la smania andava facendosi più forte. Era una sensazione quasi piacevole. Cominciò a chiedersi che genere di uomo avrebbe incontrato quell’anno.

Il quarto giorno il cielo si annuvolò e si levò il vento. A mezzogiorno Nia arrivò alle colline meridionali. Erano basse, con parecchi affioramenti di roccia. C’erano alberi sulle colline. Una specie era in fiore. Qui e là, sui pendii azzurrognoli, c’erano chiazze di giallo. Nia trovò impronte di animali che costeggiavano un corso d’acqua. Conducevano a est, fra le colline. Seguì quella pista, sentendosi un po’ inquieta. Non era abituata ai luoghi dove il cielo era limitato.

— Oh Madre delle Madri, abbi cura di me — bisbigliò.

Più in alto, i rami si muovevano. Le foglie stormivano, un rumore forte, diverso dal sommesso fruscio della vegetazione che si muoveva sulla pianura.

Nia pregò la Signora della Fucina. — Riportami a casa sana e salva, o santa.

Nel tardo pomeriggio incontrò un uomo. Era in cima a una collinetta, seduto su una roccia. Non c’erano alberi nelle vicinanze, solo arbusti dalle piccole foglie verdeazzurre. Il suo cornacurve stava brucando un arbusto.

Nia trattenne l’animale. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata.

— Mi sembrava di aver visto una donna. Che sorpresa! Nia, sei tu?

Lei lo guardò. Era bruno scuro e i suoi occhi erano grigi. Un colore molto insolito. — Enshi? — Notò che la sua tunica era sbrindellata. Appariva magro.

— Come sta mia madre? E tu che ci fai qui? Le donne non si spingono mai così a sud.

Lei aprì la bocca per rispondere. Enshi si alzò, poi saltò giù dalla roccia. — Parliamo più tardi. C’è un odore che emana da te, Nia. Non so dirti l’effetto che mi fa. — Tese una mano. — Andiamo.

La sua pelliccia scura scintillava al sole. Tutt’a un tratto Nia si rese conto di quanto fosse bello. Smontò e legò il suo cornacurve, poi prese il mantello.

Andarono fra i cespugli e si accoppiarono lì. Il terreno era sassoso. Le foglie avevano un fresco profumo primaverile. Quanto a Enshi, era un po’ impacciato, ma perfettamente all’altezza.

Quando ebbero finito, lui si rigirò sulla schiena. — È tutto qui, allora? Mi aspettavo di più. Tuttavia… — La guardò, gli occhi grigi semichiusi. Allungò una mano e la toccò con dolcezza. — Che pelliccia morbida! — Fece un sommesso suono di gola, una specie di ruh, poi chiuse del tutto gli occhi e si addormentò.

Nia tirò su il mantello in modo da coprirli entrambi. Osservò i cornacurve, poi il cielo. Il sole era sparito ma le nuvole avevano ancora una radiosità bianca e di un oro tenue. Si sentiva assonnata e felice.

Enshi il Buffone! Non aveva mai neppure immaginato di accoppiarsi con lui. Anzitutto, pensava che lui fosse morto. Chi avrebbe creduto che sarebbe riuscito a sopravvivere al terribile inverno?

Enshi si svegliò al crepuscolo. Le lanciò un’occhiata. — Non è stato un sogno. Se gli spiriti sono responsabili di questo, li ringrazio. — L’afferrò e si accoppiarono di nuovo. Dopo di che scesero nella valle più vicina e si accamparono. La notte era fredda e ventosa. Brandelli di nuvole riempivano il cielo. Il fuoco tremolava. Enshi incominciò a parlare.

— Che cosa ci fai tanto a sud? Come mai non non ti ha presa uno degli uomini grandi prima che tu arrivassi da Enshi?

Lei rifletté per un momento. — Volevo venire quaggiù. Volevo trovare mio fratello Anasu. — S’interruppe, provando un certo stupore. Era quella la verità? Era venuta in cerca di Anasu?

— Davvero? — Enshi la fissava. — Perché?

Nia si grattò la testa. — Non lo so. Sai dove sia?

Enshi fece il gesto dell’affermazione. — Prendo da lui il mio sale. Ero solito farlo, in ogni modo. L’inverno è stato duro e non credo che mi sia rimasto qualcosa da dargli in cambio.

Nia aprì la bocca.

Enshi la guardò. I suoi occhi erano socchiusi. Aveva un’aria pensierosa, quasi astuta. — Tu vuoi che ti dica dove si trova. Non lo farò. Se sei venuta fin qui per vedere lui, allora è probabile che tu prosegua e mi lasci qui da solo, con la sensazione di essere uno stupido. Non ho intenzione di lasciarti andare, Nia. Non prima che sia finito il tempo dell’accoppiamento.

— Non si può dire che tu non sia loquace — osservò Nia.

Enshi fece il gesto dell’assenso. — Ricordati, non ho avuto nessuno con cui parlare per tutto l’inverno.

— Mi dirai dove si trova Anasu quando sarà finito il tempo dell’accoppiamento?

— Sì.

Nia fece il gesto che significava "così sia".

— Allora — cominciò Enshi — parlami di mia madre. Sta bene? Si affligge ancora per me?

Nia tracorse otto giorni insieme a Enshi. Il tempo si mantenne freddo e ventoso. Ogni tanto cadeva la pioggia, ma non era violenta. Gli alberi sopra il loro accampamento li riparavano; inoltre, mantenevano acceso un bel fuoco. Si accoppiarono spesso.

Ogni mattina Enshi andava a caccia. Al pomeriggio tornava con foglie, radici e i teneri germogli delle piante primaverili. Due volte riportò della selvaggina: un uccello terrestre, smagrito dall’inverno, e un costruttore-di-monticelli. Quest’ultimo era piccolo, ma grasso. O almeno non era magro.

— Se l’è cavata meglio di me quest’inverno — osservò Enshi.

Nia scuoiò l’animale, lo sviscerò e lo infilzò sullo spiedo. Poi si sedettero fianco a fianco a osservarlo mentre cuoceva.

— Mmm! Che profumo! Ero solito sognare il profumo della carne che cuoceva. Mi svegliavo e non trovavo nient’altro che neve. Che delusione! C’erano periodi in cui il tempo era brutto e non potevo viaggiare. Incominciavo a guardare il mio cornacurve e a pensare a lui come a un arrosto. Ma poi pensavo: no, Enshi. Morirai senza un animale da cavalcare. Poi pregavo gli spiriti; e il tempo cambiava. Andavo giù fino ai margini della mandria in cerca di un cornacurve che fosse troppo vecchio per scappare e lo uccidevo. La carne era sempre fibrosa, senza nemmeno un po’ di grasso. Bene, quei giorni sono finiti. Perché pensarci?

Nia rigirò lo spiedo. Mentre l’altro lato dell’animale cuoceva, si accoppiarono.

Il giorno seguente Nia preparò una trappola per i pesci e la sistemò nel corso d’acqua sul fondo della valle. Quella sera mangiarono pesce farcito di erbe aromatiche.

— Che brava cuoca sei — disse Enshi. — Quasi brava quanto mia madre.

Nia si sentì irritata. Sembrava che Enshi non facesse altro che parlare di sua madre. Non era giusto. Un ragazzo allevato nel modo appropriato parlava di sé o degli anziani che gli avevano insegnato a essere uomo. Non andava avanti per ore a parlare della propria madre.

— Com’è Anasu di questi tempi? — gli chiese.

Enshi fece il gesto che significava "chi può dirlo?". — L’ho incontrato due volte. La prima volta ho cercato di parlargli ma lui ha detto: "Non voglio fare conversazione, Enshi. Che cos’hai che sei disposto a darmi?". Non ha voluto aggiungere altro. Io ho tirato fuori una delle tazze di bronzo di mia madre e l’ho deposta per terra. Lui ha tirato fuori un sacchetto di sale, poi mi ha fatto cenno di indietreggiare. Quando sono stato abbastanza lontano, è venuto a prendere la tazza, poi ha messo giù il suo sacchetto. Tutto qui. Se ne è andato e io ho raccolto il sale. La seconda volta che l’ho incontrato, non ha neppure aperto bocca. — Enshi esitò per un momento, poi proseguì. — È più amichevole degli altri uomini. Non fa mai boccacce e non agita le armi contro di me.

Non sembrava promettere bene. Anasu sarebbe stato disposto a parlare con lei? Nia non lo sapeva.

Il periodo dell’accoppiamento terminò. Nia diede a Enshi i suoi doni. Lui pareva a disagio. — L’inverno è stato duro. Ho perso la maggior parte dei miei doni di addio. Prima un assassino-delle-foreste ha trovato il mio nascondiglio e l’ha distrutto, poi ho perso gran parte di quel che restava questa primavera mentre attraversavo un fiume. Ma compongo poesie. Posso offrirtele?

— Sì.

Ne recitò nove o dieci. In seguito Nia se ne ricordò solo una. Parlava di un albero che lui aveva visto qualche giorno prima.

— Tutti i rami erano spogli e la corteccia si stava staccando. Ciò nonostante, c’erano virgulti tutt’attorno all’albero, che crescevano dalla sua base. Erano lunghi come il mio braccio. Avevano foglie e fiori. Ho pensato che questo doveva avere un senso. E ho composto una poesia. Fa così:


"Se tu non ti arrendi

vecchio albero…


Non lo farò

nemmeno io."


— Quella mi piace — disse Nia.

Lui la recitò di nuovo. — È sufficiente? Abbiamo fatto uno scambio equo?

— Dov’è Anasu?

— Oh, sì. Segui la pista finché non si biforca. Allora va’ a sud. Arriverai presso una grossa pietra con sopra dei segni. La pietra è magica e nessuno pretende mai che si trovi nel suo territorio. Le persone vanno lì a scambiare doni. Aspetta presso la pietra. Se Anasu è da qualche parte lì attorno, verrà.

— Grazie. Abbiamo fatto uno scambio equo.

Si dissero addio. Nia sellò il suo cornacurve, poi montò in sella e si allontanò. Era una giornata soleggiata e soffiava una lieve brezza. Gli uccelli zufolavano. Si sentiva appagata.

Al crepuscolo giunse presso la pietra. Era alta e stretta, con incise delle linee. Riusciva a mala pena a scorgerle e non sapeva che significato avessero. Erano state delle persone a farle? Nessuno che lei conoscesse incideva linee nella pietra.

Legò il suo cornacurve e accese un fuoco. La notte era serena. Nia si coricò sulla schiena. Su nel cielo, sorse la Grande Luna. Era all’ultimo quarto. Restò a osservarla per un po’ di tempo, poi si addormentò.

La mattina seguente osservò la pietra. Le linee raffiguravano degli animali, per lo più cornacurve. Ma c’era un altro animale che non riconosceva. Aveva un corpo grosso e corte corna. Che cos’era? Nia si grattò la testa. C’erano cacciatori sulla pietra: uomini con archi. Formavano un circolo attorno agli animali. Su un lato, a una certa distanza, c’era un uomo da solo. Era più grande degli altri, e aveva delle corna. Erano corte, come quelle dell’animale sconosciuto. Chi era? Una qualche specie di spirito, a quanto pareva. Ma nessuno spirito che lei conoscesse. Il Signore delle Mandrie aveva lunghe corna ricurve. Lo Spirito del Cielo era privo di corna. Si grattò di nuovo la testa. Poi si preparò la colazione.

A mezzogiorno comparve Anasu. Arrivò cavalcando lungo la pista che portava alla radura in cui c’era la pietra. Trattenne il suo cornacurve.

Nia si alzò in piedi. — Fratello.

Lui era più grande di come se lo ricordava e aveva un torace molto ampio. La sua pelliccia era ruvida e scura. Indossava un gonnellino rosso, un’alta cintura, alti stivali, un coltello dall’impugnatura d’argento. — Nia? — disse dopo un momento. Restò a fissarla. — Hai superato la smania. — La sua voce aveva un suono aspro e deluso. — Ti ha presa qualcun altro.

— È una cosa da dire questa? Gli uomini non sanno pensare ad altro che al sesso?

Lui scoppiò in una risata. Non era un suono del tutto affabile. — In questo periodo dell’anno non penso quasi a nient’altro. Mi dico che, se fossi coraggioso, andrei a nord. Poi penso: non sono abbastanza maturo per affrontare quegli uomini. E tu che cosa ci fai qui?

Lei fece il gesto del dubbio.

— Non hai mai avuto le idee chiare. — Smontò di sella. — Vuoi del sale? Ne ho.

— No. Voglio parlare. Come stai? — Fece un passo verso il fratello.

Lui alzò una mano. — Resta dove sei. Non sono abituato alla gente.

Nia si fermò.

Dopo un po’, Anasu disse: — Sto bene. Non c’è niente che tu voglia darmi in cambio del sale?

Lei si tolse la cintura. — Vuoi questa? Ho fatto io la fibbia. È oro misto ad argento.

Lui esitò. — D’accordo. — Si voltò verso le bisacce da sella.

— Non voglio sale. Voglio fare conversazione.

Anasu si girò di nuovo verso di lei e la fissò. — Perché?

— Fratello, quando penso a te, mi sento sola.

Anasu si grattò la nuca. Poi fece il gesto che significava "così sia" oppure "sono cose che capitano".

— Non c’è modo di parlare?

Lui restò in silenzio per un lungo momento. Nia aspettava. Infine Anasu disse: — Non credo che ciò che tu vuoi siano parole. Potrei offrirti parole, anche se non sarebbe facile. Non sono più abituato a parlare molto o a dire quello che mi passa per la mente. Ma credo che tu voglia qualcos’altro. Credo che tu sia come la donna dell’antica leggenda, i cui figli si trasformarono in uccelli. Lei lasciò la propria tenda e vagabondò per la pianura nel tentativo di trovarli. Ma non ci riuscì mai, e alla fine morì e diventò uno spirito, uno spirito malvagio, uno spirito famelico. — Esitò e aggrottò la fronte.

Nia aprì la bocca per parlare, ma lui alzò la mano. — No. Aspetta. Voglio seguire il corso dei miei pensieri. — Lei attese. Alla fine lui disse: — Credo che tu voglia qualcosa che non esiste più.

— No.

— Ti conosco, sorella. Sono convinto di avere ragione. In ogni caso, non voglio più parlare. — Montò in sella al suo cornacurve. — Qualsiasi cosa tu stia cercando di fare, non voglio entrarci. — Fece il gesto dell’addio, poi girò l’animale e se ne andò.

Nia serrò il pugno e colpì la pietra magica. Aiya! Che male! Emise un gemito, aprì la mano e la palpò. Per quanto era in grado di capire, non c’erano ossa rotte, ma la pelle era graffiata sul lato della mano privo di pelliccia. Si leccò la sbucciatura, poi si sedette e restò lì a dondolarsi e a gemere. Non serviva a niente. La mano continuava a farle male e il dolore dentro di lei persisteva, solido come una pietra.

Verso sera si alzò e accese un fuoco. Per tutta la notte se ne stette seduta a guardare le fiamme e a pensare alla propria infanzia.

La mattina dopo spense il fuoco e sellò il suo cornacurve. Era inutile restare. Anasu non sarebbe tornato. Era sempre stato testardo. Si diresse a nord. Il cielo era nuvoloso e soffiava un vento freddo. Petali di fiori cadevano svolazzando sulla pista. Erano gialli o di un bianco verdognolo.

Nel pomeriggio incominciò a piovere. Nia si fermò e si accampò sotto una sporgenza rocciosa. Si addormentò presto. Qualcosa durante la notte la svegliò

Il fuoco ardeva ancora. Sul lato opposto c’era Enshi. Stava spennando un uccello.

Nia sollevò il capo. Lui fece il cenno del saluto, poi sollevò l’uccello. Era grande e grasso.

— L’ho trovato su un nido. Ho le uova, se non si sono rotte. Come stava Anasu?

— Non ha voluto parlarmi. E tu che cosa ci fai qui?

— Sei nel mio territorio, e ho pensato che forse avresti avuto fame. Ho pensato anche che mi sarebbe piaciuto parlare ancora un po’.

— Perché sei così diverso dagli altri uomini?

— Non lo so. — Per un attimo parve imbarazzato. Poi riprese a spennare l’uccello.

Nia si addormentò.

Al mattino cucinarono l’uccello farcito con le sue uova. Mangiarono, poi Nia si preparò ad andarsene.

— Posso venire con te? — le chiese Enshi.

— Che intenzioni hai?

— Voglio far visita a mia madre. Pensavo che tu potessi mostrarmi la via per il villaggio.

— Ma le vecchie ti malediranno.

— No, se mi dirai dove si trova la tenda di mia madre e io sgattaiolerò dentro di notte. Le vecchie non lo sapranno mai.

— È sbagliato.

— Può darsi. Ma ho perso tutti i miei doni di addio. Non sopravviverò a un altro inverno con quello che ho. Io voglio vivere, se mi sarà possibile. E non mi importa se farò delle cose che sono vergognose. Chissà che cosa provano gli spiriti dei morti? Preferisco essere vivo e un po’ imbarazzato.

Nia lo osservò per un attimo. Non c’era dubbio che fosse magro, e la sua tunica era proprio a brandelli. Si fregò la mano, che le faceva ancora male, poi sospirò. — D’accordo. Ti aiuterò, anche se prevedo che me ne pentirò.

Enshi sellò il suo cornacurve. Partirono insieme per il nord.