"Maestro di morte" - читать интересную книгу автора (Billingham Mark)

CAPITOLO 1

Il suo look era rovinato dalle scarpe da jogging.

L’uomo con i capelli tagliati a spazzola e il labbro superiore imperlato di sudore indossava un elegante abito blu, senza dubbio acquistato per l’occasione, ma ne aveva guastato l’effetto con quelle Nike Air, che stridevano sul pavimento della palestra ogni volta che lui spostava nervosamente i piedi sotto il tavolo.

«Mi dispiace» disse. «Mi dispiace tanto, davvero.»

Di fronte a lui erano seduti due anziani coniugi. L’uomo aveva la schiena dritta come un palo e gli occhi chiari dallo sguardo fisso. La donna che gli stava accanto gli teneva la mano. I suoi occhi, a differenza di quelli del marito, guardavano dappertutto, tranne che verso l’uomo con l’abito blu. L’ultima volta che lei lo aveva visto così da vicino era stata quando lui li aveva legati entrambi, dopo essersi introdotto in casa loro.

Il mento accuratamente rasato di Darren Ellis iniziò a tremare. La sua voce si fece incerta. «Se c’è una cosa qualunque che posso fare per farmi perdonare, la farò» disse.

«Non c’è» ribatté il vecchio.

«Non posso tornare indietro nel tempo, ma mi rendo conto di aver commesso un’azione orribile. So quello che avete passato.»

La donna cominciò a piangere.

«Come puoi saperlo?» disse il vecchio.

Darren Ellis cominciò a piangere a sua volta.

Nell’ultima fila, dove le sedie erano addossate alle spalliere della palestra, sedeva un uomo dall’aspetto robusto, che indossava una giacca di pelle nera. Aveva una quarantina d’anni, gli occhi scuri e i capelli più grigi su un lato della testa che sull’altro. Sembrava a disagio e un po’ confuso. Si voltò verso l’uomo seduto accanto a lui.

«Tutte balle» disse Thorne.

L’ispettore capo Russell Brigstocke lo fissò, severo. Un poliziotto rosso di capelli, seduto un paio di file più avanti, li zittì. Un sostenitore di Ellis, evidentemente.

«Balle» ripeté Thorne.

Di solito, a quell’ora del lunedì mattina, la palestra del Peel Centre era piena di allievi poliziotti scalpitanti. Tuttavia, poiché era l’unico spazio abbastanza grande in cui tenere quell’“Incontro per una giustizia riparatrice”, i giovani aspiranti agenti erano andati a fare le loro flessioni da un’altra parte. Il pavimento della palestra era coperto da un telo verde plastificato e da una cinquantina di sedie, su cui erano seduti i sostenitori sia del criminale, sia delle vittime. C’erano anche alcuni funzionari, invitati perché potessero aggiornarsi su quell’ultima iniziativa.

Becke House, l’edificio in cui Thorne e Brigstocke avevano i loro uffici, faceva parte dello stesso complesso. Mezz’ora prima, mentre percorrevano il breve tratto che li separava dalla palestra, Thorne non aveva fatto altro che lamentarsi.

«Se si tratta solo di un invito, perché non posso declinarlo?»

«Piantala» l’aveva zittito Brigstocke. Erano in ritardo e lui camminava in fretta, cercando di non versare il caffè bollente dal bicchiere di plastica che aveva in mano.

Thorne lo seguiva a un passo o due di distanza. «Oh, accidenti, ho dimenticato il biglietto d’invito. Forse non mi lasceranno entrare.»

Brigstocke era rimasto indifferente alla battuta.

«E se non sono abbastanza elegante? Forse è obbligatorio l’abito scuro…»

«Non ti sto ascoltando, Tom…»

Thorne aveva scosso la testa, sferrando un calcio a un ciottolo, come un ragazzino imbronciato. «Sto solo cercando di capire. Quello schifoso animale lega un’anziana coppia con un filo elettrico, dà un paio di calci al vecchio rompendogli… quante costole?»

«Tre…»

«Tre, grazie. Piscia sulla moquette, si frega tutti i loro risparmi, e ora noi corriamo a vedere quanto gli è dispiaciuto d’averlo fatto?»

«Hanno usato questo sistema in Australia e i risultati sono stati ottimi. Il tasso di recidività è sceso parecchio.»

«In pratica, si tratta di una bella riunione prima della sentenza e, se tutti sono d’accordo che il criminale è davvero pentito, la condanna sarà più mite. Giusto?»

Brigstocke aveva bevuto un ultimo sorso di caffè bollente e aveva gettato il bicchiere ancora mezzo pieno in un bidone. «Non è così semplice.»

Giugno era iniziato da più di una settimana, ma l’aria non aveva ancora avuto il tempo di riscaldarsi.

Thorne aveva affondato le mani nelle tasche della giacca di pelle. «No, ma è semplicistica la mente di chi ha avuto questa bella pensata.»

Nella palestra, il pubblico vide Darren Ellis abbassare le mani strette a pugno con cui si era coperto il volto, rivelando occhi rossi e umidi. Thorne osservò i presenti in sala. Alcuni scuotevano la testa con aria triste. Altri prendevano appunti. In prima fila, gli avvocati di Ellis si passavano fogli di carta.

«Se dicessi che anch’io mi sono sentito una vittima, ridereste di me?» chiese Darren.

Il vecchio lo fissò con calma prima di rispondere. «No, ma ti spaccherei volentieri i denti.»

«Le cose non sono sempre così chiare» disse Darren.

Il vecchio si piegò verso di lui attraverso il tavolo. «Ti dirò io che cosa è chiaro.» Gettò una rapida occhiata alla moglie. «Lei non dorme più dalla notte in cui sei entrato in casa nostra. Bagna il letto…» La sua voce divenne un sussurro «…ed è diventata così magra…»

Qualcosa a metà tra un singhiozzo e un sospiro echeggiò nella palestra, quando Darren si prese di nuovo il viso tra le mani e diede libero sfogo alle emozioni. Un avvocato si alzò in piedi. Un ispettore anziano si avvicinò al tavolo.

Thorne si chinò verso Brigstocke e disse, a voce non troppo bassa: «È bravissimo. Dove ha studiato, all’Accademia di arte drammatica?». Stavolta, tra le facce che si girarono a fissarlo con disapprovazione, c’erano quelle di molti superiori.


Dieci minuti dopo, erano tutti nell’atrio, fuori dalla palestra. Acqua minerale, biscotti e molte chiacchiere a bassa voce.

«Mi tocca anche scrivere un rapporto su questo evento» mugugnò Brigstocke.

Thorne rivolse un cenno di saluto a due membri della Squadra 6. «Meglio che sia toccato a te, piuttosto che a me.»

«Sto cercando il termine giusto per descrivere l’atteggiamento di alcuni membri del mio gruppo. Non collaborativo? Insolente? Hai qualche idea?»

«Questa è una delle messinscene più stupide cui abbia mai assistito. Non riesco a credere che tutta questa gente l’abbia presa sul serio e non me ne frega niente dei risultati ottenuti in Australia. Anzi, no, “stupido” non è l’aggettivo giusto. È stata una cosa oscena. Tutti quei deficienti intenti a studiare le espressioni sulla faccia di un bastardo. Quante lacrime? Quanto erano grosse? Quanta vergogna ha mostrato?» Thorne bevve un sorso d’acqua, lo tenne in bocca per qualche secondo, poi lo inghiottì. «Hai visto la faccia di quella donna, eh? L’hai vista?»

Il telefono cellulare di Brigstocke squillò. Lui si affrettò a rispondere, ma Thorne non smise di parlare. «Giustizia riparatrice! Per chi? Per quel vecchio e per quello scheletro ambulante di sua moglie?»

Brigstocke scosse la testa irritato e gli voltò le spalle.

Thorne appoggiò il bicchiere sul davanzale di una finestra. Vide un gruppo di persone emergere da una porta dall’altra parte dell’atrio e si diresse rapidamente verso di loro, facendosi strada a spintoni tra la folla.

Darren Ellis si era tolto giacca e cravatta. Era in manette, fiancheggiato da due ispettori.

«Bella esibizione, Darren» disse Thorne. Sollevò le mani e iniziò ad applaudire.

Ellis lo fissò, aprendo e chiudendo la bocca con un’espressione di disagio che, quella sì, appariva spontanea. Lanciò un’occhiata ai suoi accompagnatori, in cerca d’aiuto.

Thorne sorrise. «Non ci hai concesso il bis. Si dice che sia meglio finire sempre con una canzone…»

L’ispettore alla sinistra di Ellis, un tipo inagrissimo con il colletto della giacca bianco di forfora, fece del suo meglio per assumere un aspetto duro. «Va’ al diavolo, Thorne.»

Prima di avere la possibilità di controbattere, Thorne notò Russell Brigstocke che si dirigeva a passi lunghi verso di lui e smise di prestare attenzione ai due ispettori che, nel frattempo, stavano pilotando Ellis nella direzione opposta. L’espressione sulla faccia del suo ispettore capo gli fece venire un nodo allo stomaco.

«Se vuoi fare un po’ di giustizia riparatrice, ecco la tua occasione» disse.


Sull’insegna c’era scritto “hotel”, ma Thorne sapeva che certe definizioni, nelle zone più malfamate di Londra, non andavano prese troppo alla lettera. Se insegne del genere avessero detto il vero, molti uomini d’affari sarebbero rimasti seduti invano dentro presunte “saune”, in attesa di lavoretti di mano che nessuno avrebbe mai fatto loro.

Su quell’insegna avrebbe dovuto esserci scritto “buco merdoso”.

Era un posto che sarebbe stato lusinghiero definire spartano. La moquette marrone lisa lasciava intravedere in molti punti la sottostante base di gomma verde. Una pianta morta da tempo giaceva sul davanzale, coperta di polvere. Thorne scostò le sudicie tende arancioni e si affacciò sul traffico che dalla stazione di Paddington si spingeva lentamente verso Marylebone Road. Erano quasi le undici e sembrava ancora l’ora di punta.

Poi si girò verso la stanza. Sulla porta, l’agente speciale Dave Holland chiacchierava con un agente in uniforme, in attesa, proprio come Thorne, del segnale per entrare e cominciare a scavare nel fango.

In vari punti della stanza, tre tecnici della scientifica si muovevano carponi, raccogliendo indizi in buste di plastica e attaccando cartellini, in cerca del capello, della fibra tessile in grado di incastrare l’assassino. Una condanna a vita nascosta in un granello di polvere. La verità nella spazzatura.

Phil Hendricks, il patologo, era appoggiato al muro, intento a borbottare qualcosa nel nuovo registratore di cui era tanto orgoglioso. Alzò gli occhi a fissare Thorne, con uno sguardo che poneva le solite domande: «Siamo di nuovo in pista?». «Quando le cose diventeranno un po’ meno complicate?» «Non sarebbe meglio gettare la spugna e passare il resto della vita seduti su una panchina?». Thorne, che non aveva risposte per quei quesiti inespressi, distolse lo sguardo. Nell’angolo di fronte, un quarto tecnico della scientifica, con una testa pelata che, unita alla tuta sterile, gli conferiva l’aspetto di un gigantesco neonato, spargeva polvere per rilevare le impronte sui rubinetti del lavandino in plastica marrone.

Si trattava di un buco merdoso con qualche optional, questo sì.

In tutto c’erano sette persone in quella stanza. Otto, contando il cadavere.

Lo sguardo di Thorne si posò, riluttante, sul corpo pallido dell’uomo. Era nudo sul materasso, sul quale le macchie di sangue si confondevano con altre di origine meno evidente. Era prono, con le ginocchia sotto il petto e il sedere all’aria. Le mani erano legate da una cintura di pelle marrone e protese in avanti. La testa, coperta da un cappuccio nero, era affondata nel materasso.

Thorne osservò Phil Hendricks avvicinarsi al letto, sollevare la testa del cadavere e sfilare il cappuccio. Vide le spalle dell’amico irrigidirsi per un istante. Poi la testa del morto ricadde sul materasso. Un tecnico della scientifica si avvicinò e infilò il cappuccio in una busta di plastica.

Thorne si spostò in modo da poter vedere bene la faccia del morto.

Occhi chiusi, naso piccolo e all’insù. Sulle guance, minuscole macchie di sangue. La bocca era una maschera di sangue coagulato con le labbra a brandelli irretite da fili di saliva secca. I denti irregolari avevano profondamente inciso il labbro inferiore, nel momento in cui il cappio si era stretto intorno al collo.

Quell’uomo poteva avere sì e no quarant’anni, ma era solo una supposizione. Da qualche parte, sopra le loro teste, un boiler smise di fare rumore. Soffocando uno sbadiglio, Thorne alzò gli occhi verso le ragnatele che decoravano il soffitto. Si chiese se gli altri ospiti dell’hotel si sarebbero preoccupati ancora dell’acqua calda quando fossero venuti a sapere ciò che era accaduto nella stanza 6. Fece un passo verso il letto. Hendricks parlò senza voltarsi.

«A parte il fatto che è morto, non so un cazzo, perciò non chiedermi nulla, chiaro?»

«Oh, non c’è male, Phil, grazie per esserti informato sulla mia salute. E tu come stai?»

«Non vorrai farmi credere di essere venuto qui solo per uno scambio di convenevoli?»

«Cosa c’è di male? Sto solo cercando di rendere le cose un po’ più facili.»

Hendricks evitò di controbattere.

Thorne si chinò per grattarsi la caviglia attraverso la tuta sterile. «Phil…»

«Te l’ho detto, non so niente. Guardati intorno da solo. Il modo in cui è morto sembra ovvio, ma non lo è poi tanto. Ci sono… altre cose.»

«Va bene, vediamo.»

Hendricks indietreggiò appena e fece un cenno a un tecnico della scientifica, il quale si avvicinò con una piccola scatola in mano. Si inginocchiò davanti al letto e l’aprì, rivelando una serie di strumenti lucenti. Prese un bisturi e si chinò sul collo della vittima.

Thorne lo vide premere un dito guantato tra il cappio e il collo. La corda sembrava una di quelle che si usano per stendere il bucato, facilmente acquistabili in qualunque ferramenta. Plastica blu liscia. Era penetrata in profondità nel collo dell’uomo. Il tecnico della scientifica la tagliò con il bisturi, facendo attenzione a preservare il nodo. Era la procedura, naturalmente. Logica e terribile.

Forse avrebbero avuto bisogno di mettere quel nodo a confronto con altri.

Thorne gettò un’occhiata a Dave Holland, il quale inarcò le sopracciglia e sollevò le palme delle mani. «Cosa succede? Quanto ci vorrà?» Thorne si strinse nelle spalle. Era lì da oltre un’ora. Lui e Holland avevano controllato la stanza, prendendo appunti, raccogliendo indizi, facendosi un’idea dell’accaduto. Adesso era il turno dei tecnici e Thorne scalpitava. Se avesse potuto ammettere con franchezza che tanta impazienza era dovuta al desiderio di dare inizio al processo che avrebbe assicurato alla giustizia l’assassino di quell’uomo, si sarebbe sentito meglio. Ma, in realtà, voleva solo fare il più rapidamente possibile ciò che andava fatto e uscire da quella stanza.

Voleva togliersi quella tuta di plastica, salire in macchina e allontanarsi in fretta.

Ma, per onestà verso se stesso, doveva confessare che solo una parte di lui voleva andarsene. L’altra parte, quella che conosceva e sapeva valutare le differenze tra una scena del delitto e l’altra, era in piena attività. Thorne aveva visto vittime di amanti gelosi e di mariti andati fuori di testa. Aveva visto corpi di rivali in affari e di informatori della polizia. Ed era in grado di riconoscere quando ciò che si trovava davanti era fuori dall’ordinario.

Quella era l’opera di un assassino spinto da un movente particolare, spettacolare.

La stanza puzzava di odio e di rabbia, ma anche di orgoglio.

Hendricks, come leggendogli nel pensiero, disse, con un mezzo sorriso: «Ancora cinque minuti, va bene? Non resta molto da fare».

Thorne annuì. L’uomo sul letto, la sua posizione… Era quella di chi sta rendendo omaggio a qualcuno. Se non fosse stato per la cintura, per il livido infossato intorno al collo, per il sangue rappreso sulla parte posteriore delle cosce pallide, si sarebbe potuto dire che era in preghiera. E forse, alla fine, aveva pregato davvero.

In quella stanza faceva caldo. Thorne si sfregò un occhio e sentì una goccia di sudore scendergli lungo il petto, deviando poi all’altezza del ventre prominente.

In strada, un automobilista esasperato suonava il clacson a tutto spiano.

Thorne non si era reso conto di aver chiuso gli occhi e, quando li aprì di scatto sentendo squillare un telefono, per pochi istanti meravigliosi pensò di essersi appena svegliato da un brutto sogno.

Si voltò, un po’ disorientato, e vide Holland in piedi davanti al comodino. Il telefono bianco era un modello degli anni Settanta, con la tastiera crepata e la cornetta sbilenca sulla forcella. Thorne adesso era completamente sveglio. Quella chiamata era per loro? Era qualcuno della polizia? Oppure un addetto della reception, che non sapeva dell’accaduto e aveva passato una telefonata dall’esterno? Se fosse stato così, si sarebbe trattato di un vero colpo di fortuna.

Thorne si avvicinò al telefono. Tutti gli altri rimasero immobili a fissarlo.

I vestiti del morto (ammesso che fossero i suoi) erano sparsi sul pavimento. Pantaloni e mutande accanto alla sedia. La camicia appallottolata. Una scarpa sotto il letto, vicino alla testiera. La giacca in poliestere, appesa allo schienale di una sedia accanto al letto, non conteneva effetti personali. Niente portafoglio, biglietti dell’autobus, vecchie fotografie. Nulla che potesse aiutare a identificare la vittima.

Thorne non sapeva se dal telefono fossero già state rilevate le impronte, ma non c’era tempo per controllare. Così afferrò una busta di plastica che il tizio calvo della scientifica gli porgeva e ci infilò dentro la mano. Fece un cenno per chiedere silenzio, ma non ce n’era bisogno. Trasse un profondo respiro e sollevò la cornetta.

«Pronto?»

«Oh… salve.» Una voce di donna.

Thorne incrociò lo sguardo di Holland. «Con chi desidera parlare?» Teneva il microfono a qualche centimetro dall’orecchio, perciò non riuscì a udire bene la risposta. «Mi scusi, la linea è disturbata, potrebbe parlare più forte?»

«Va bene così?»

«Perfetto. Allora, con chi desidera parlare?» chiese Thorne di nuovo, con tono indifferente.

«Oh, ecco… non lo so, in realtà…»

Thorne fissò di nuovo Holland e scosse la testa. Merda, non sarebbe stato facile. «Con chi parlo?»

«Prego?»

«Chi è lei?»

Ci fu una breve pausa prima della risposta. La voce si era fatta appena più tesa. Tranquilla, comunque, e ricercata. «Ascolti, non vorrei sembrarle scortese, ma qualcuno da lì mi ha chiamato. E io non ho particolarmente voglia di lasciare il mio…»

«Sono l’ispettore Thorne, dell’Unità per i Reati Gravi…»

Un’altra pausa. Poi: «Credevo di aver chiamato un hotel…».

«Infatti, è così. Ora può dirmi il suo nome?» Thorne guardò di nuovo Holland, che aspettava con il taccuino aperto e la penna in mano, e mimò uno sbuffo.

«Lei potrebbe essere chiunque» obiettò la donna.

«Ascolti, se questo può servire a tranquillizzarla, la richiamo. Anzi, le darò un numero che lei potrà chiamare per controllare. Chieda dell’ispettore capo Russell Brigstocke. E le darò anche il mio cellulare…»

«A cosa mi serve il suo cellulare, se ha detto che mi richiamerà lei?»

Quella conversazione cominciava a diventare grottesca. A Thorne sembrò di cogliere una nota divertita, forse anche un po’ seduttiva, nella voce della donna. Il che non sarebbe stato affatto sgradevole, in una mattina del genere, ma non era dell’umore giusto.

«Signora, il telefono da cui le parlo si trova in una stanza d’hotel in cui è avvenuto un delitto e io devo sapere il motivo della sua chiamata.»

Sembrò che la donna avesse afferrato il messaggio. Con voce un po’ spaventata, rispose alla richiesta.

«Stamattina, appena arrivata al lavoro, ho controllato i messaggi sulla segreteria. Questo era il primo. L’uomo che ha chiamato ha lasciato il nome dell’hotel e il numero della stanza per la consegna…»

“L’uomo che ha chiamato”: si trattava del morto?

«Che cosa diceva il messaggio?»

«Era un’ordinazione. Ma a un’ora un po’ assurda. Per questo prima ero diffidente. Pensavo che potesse trattarsi dello stupido scherzo di qualche ragazzino.»

«Quell’uomo le ha lasciato il suo nome?»

«No, e questo è uno dei motivi per cui ho telefonato. Volevo un nominativo e un numero di carta di credito. Non faccio consegne in contrassegno.»

«Cosa intende dire quando parla di “un’ora un po’ assurda”?»

«L’ordinazione è stata fatta alle tre e dieci del mattino. La mia è una di quelle segreterie telefoniche che registrano l’ora precisa di ogni messaggio.»

Thorne abbassò la cornetta, premendosela contro il petto, e guardò Hendricks. «Conosco l’ora della morte. Scommetto dieci sterline che è stato al massimo mezz’ora prima o dopo…»

«Pronto?»

Thorne si portò di nuovo il ricevitore all’orecchio. «Mi scusi, stavo parlando con un collega. Le chiedo di mettere da parte la cassetta della sua segreteria telefonica, signora…»

«Eve Bloom.»

«Ha parlato di un’ordinazione, giusto?»

«Ah, non gliel’ho detto? Sono una fioraia. E lui ha ordinato dei fiori. Ecco perché ero un po’ spaventata…»

«Non capisco. Spaventata perché?»

«Ecco, un’ordinazione del genere in piena notte…»

«Può dirmi esattamente cosa diceva il messaggio?»

«Attenda in linea…»

«No, aspetti…»

Ma la donna si era già allontanata. Pochi secondi dopo, Thorne udì il clic di un bottone e il rumore del nastro che si riavvolgeva. Una pausa, poi il tonfo della cornetta appoggiata accanto alla segreteria. «Eccolo» gridò la donna.

Un sibilo e il messaggio partì. Nessun accento identificabile, nessuna emozione. A Thorne sembrava che l’uomo ce la mettesse tutta per sembrare impassibile, lasciando tuttavia trapelare una nota divertita nella voce. La voce dell’uomo che, con ogni probabilità, era responsabile di quel cadavere legato e insanguinato che giaceva sul letto.

Il messaggio iniziava in modo molto semplice: «Vorrei ordinare una corona funebre…».


3 dicembre 1975


Avanzò lentamente fin quasi a toccare con il paraurti la porta del garage. Poi tirò il freno a mano e spense il motore. Afferrò la valigetta appoggiata sul sedile del passeggero, scese dall’auto e chiuse la portiera con un colpo d’anca.

Non erano ancora le sei ed era già buio. E freddo. Avrebbe dovuto cominciare a mettersi il cappotto, la mattina.

Mentre camminava verso la porta di casa iniziò a fischiettare di nuovo quella canzonetta che non riusciva a togliersi dalla testa. La trasmettevano alla radio ogni cinque minuti, tutti i giorni. E poi, che cavolo era un “silhouetto”? E che c’entrava il fandango? E per di più era lunghissima. Le canzonette non avrebbero dovuto essere brevi?

Si chiuse la porta alle spalle e si fermò un attimo, aspettandosi di sentire l’odore della cena. Gli piaceva quel momento della giornata, quando poteva far finta di essere un personaggio di un programma televisivo. In piedi sulla soglia, immaginava di essere da qualche parte in America e non in quel merdoso quartiere di periferia. Immaginava di essere un manager atletico, con una moglie perfetta che lo aspettava con l’arrosto nel forno e un drink già pronto per lui. Un Martini, o qualcosa del genere.

Era un divertimento non solo suo, ma di entrambi. Uno sciocco rituale. Lui la chiamava dall’ingresso e lei rispondeva. Poi si sedevano e mangiavano pancake surgelati, o uno di quei piatti al curry precotti con dentro troppa uva passa.

«Cara, sono a casa…»

Nessuna risposta. E nessun odore di cibo.

Lasciò la ventiquattrore accanto al tavolino del corridoio e si diresse nel soggiorno. Probabilmente lei non aveva avuto il tempo di cucinare. Doveva essere uscita dal lavoro alle tre passate, con ancora la spesa da fare. Mancavano tre settimane a Natale e c’era un sacco di regali da comprare…

L’espressione nei suoi occhi lo fece fermare di botto.

Era seduta sul divano, con una vestaglia blu. Aveva le gambe piegate sotto di sé e i capelli bagnati.

«Stai bene, amore?»

La moglie non rispose. Mentre lui si avvicinava, gli si impigliò la scarpa in qualcosa. Abbassò lo sguardo e vide il vestito.

«Ma cosa ci fa questo…?»

Lo raccolse e rise, in attesa di una reazione. Voi, tenendolo davanti a sé, vide lo strappo e ci infilò dentro le dita.

«Cristo, ma cosa gli hai fatto? Era un vestito da quindici sterline…»

Lei alzò gli occhi all’improvviso, fissandolo come se fosse impazzito. Cercando di non farsi scoprire, lui ispezionò la stanza con lo sguardo, alla ricerca di una bottiglia vuota, sforzandosi di mantenere il sorriso sul volto.

«Sei andata al lavoro, oggi, cara?»

Lei emise un gemito sommesso.

«E sei passata dalla scuola a prendere…?»

Lei annuì con forza e i capelli bagnati le ricaddero sul viso. Lui udì un rumore dal piano di sopra, lo schianto di un’auto giocattolo o di una pila di mattoncini da costruzione, e annuì a propria volta, sollevato.

«Senti, è meglio che…»

S’interruppe di colpo e fece un passo indietro quando lei si alzò all’improvviso, con gli occhi umidi e spalancati, e si piegò come se gli stesse facendo l’inchino.

Lui pronunciò il suo nome.

La moglie afferrò l’orlo della vestaglia blu e se la tirò sopra la vita, mostrandogli i segni rossi e i lividi blu tra le gambe…