"Maestro di morte" - читать интересную книгу автора (Billingham Mark)

CAPITOLO 2

Thorne perse la scommessa con Phil Hendricks.

Rispose al telefono, più o meno quattro ore dopo il ritrovamento del cadavere, e immediatamente lanciò il sandwich mangiato a metà in direzione del cestino, mancandolo di mezzo metro. Ingoiò in fretta il boccone che stava masticando, sapendo che di lì a poco gli sarebbe passato l’appetito.

Hendricks chiamava dall’obitorio di Westminster. «Piuttosto veloce» disse, in tono ciarliero. «Devi ammettere che…»

«Perché riesci sempre a chiamarmi quando sto mangiando? Non potevi aspettare ancora un po’?»

«Niente da fare, soprattutto quando c’è di mezzo una scommessa. Sei pronto? Secondo me è morto verso le due e mezzo del mattino.»

«Balle.» Thorne guardò fuori dalla finestra una fila di bassi edifici grigi dall’altro lato dell’M1. Non capiva bene se era il vetro a essere sporco, o se Hendon fosse proprio così. «Sarà meglio che la notizia valga il mio biglietto da dieci sterline. Prosegui.»

«Cosa preferisci? Gergo medico, linguaggio per non iniziati, o patologia semplificata per poliziotti scemi?»

«Quello che hai appena detto ti costerà metà della scommessa. Forza, sputa il rospo.»

Hendricks parlava di morti e dintorni con molta meno passione di quella che dimostrava per la squadra dell’Arsenal. Essere di Manchester e non fare il tifo per il Manchester United non era certo l’unica sua sfida alle convenzioni. C’erano i vestiti, in varie gradazioni di nero, la testa rasata, l’assurda quantità di orecchini. E i misteriosi piercing, uno per ogni nuovo ragazzo…

Hendricks parlava in modo spassionato, pratico, ma Thorne sapeva quanto gli importavano i morti. Con quanta attenzione ascoltava ciò che avevano da dirgli i cadaveri.

«Asfissia dovuta a strangolamento per mezzo di un cappio» disse Hendricks. «Inoltre, penso che sia stato ucciso sul pavimento. La moquette gli ha lasciato dei segni sulle ginocchia. L’assassino deve averlo messo in posa sul letto soltanto dopo.»

«Ah.»

«Purtroppo, non sono in grado di dirti se lo abbia strangolato prima, dopo o durante l’atto di sodomia.»

«Mi stai dicendo che neppure tu sei perfetto?»

«So una cosa: chiunque sia stato, ha un radioso futuro nella pornografia gay. Il nostro assassino è davvero ben dotato. Ha provocato un bel po’ di danni, laggiù…»

Thorne capì di aver fatto bene a gettare via il sandwich. Aveva perso il conto delle conversazioni di quel genere avute con Hendricks, negli anni. La sua mente ci si era abituata, ma lo stomaco le trovava ancora vomitevoli. Thorne le definiva “la dieta H”.

«Ci sono secrezioni?»

«Mi dispiace, ci ha fregati. L’unica cosa che ho trovato sono state tracce del lubrificante spermicida che rivestiva il preservativo. Un tipo prudente, in tutti i sensi…»

Thorne sospirò. «Dov’è Holland? È ancora lì insieme a te?»

«Scherzi? Ha tagliato la corda quasi subito. Perché hai mandato lui, a proposito? Mi ha rattristato molto che tu non sia venuto di persona a vedermi lavorare…»

Le loro conversazioni, dopo il ritrovamento di un cadavere, finivano sempre con una nota leggera. Calcio, prese in giro reciproche, qualunque cosa.

«L’agente speciale Holland non ti ha ancora visto lavorare sul serio, Phil» disse Thorne. «Gli fai venire i brividi e io ho voluto dargli la possibilità di abituarsi un po’ alla cosa.»

Hendricks rise. «Certo…»

“Certo” pensò Thorne. Sapeva benissimo che a bisturi e tavoli operatori non ci si abituava mai. Si poteva solo fingere.


In piedi nella sala di pronto intervento, mentre si preparava a parlare alla squadra, Thorne, come accadeva spesso in quelle occasioni, si sentiva un insegnante temuto, ma non amato. Il tipico professore di educazione fisica leggermente psicotico. Quelle trenta persone davanti a lui, detective, agenti in uniforme, civili e personale ausiliario, erano diverse tra loro proprio come gli scolari di una qualunque classe.

C’erano quelli che sembravano ascoltare attentamente, ma che più tardi avrebbero dovuto chiedere ai colleghi di spiegare loro ciò che dovevano fare, e c’erano quelli che annuivano vigorosamente e ponevano domande pertinenti, ma covavano il segreto intento di fare il meno possibile una volta arrivato il momento di agire. C’erano i bulli e le vittime, i secchioni e gli idioti.

Il Servizio di Polizia Metropolitana. Con l’enfasi sul termine “servizio”, per comunicare un’idea di efficienza e attenzione verso il cittadino. Thorne sapeva bene che quasi tutte le persone in quella stanza, a cominciare da lui, si erano sentite molto più a loro agio all’epoca in cui venivano chiamate semplicemente Forza di Polizia.

Una forza con cui fare i conti.

Erano passati quattro giorni dalla sua conversazione telefonica con Hendricks e, se il patologo era stato rapido, la squadra di medicina legale aveva battuto ogni record di velocità. Settantadue ore per i risultati dell’esame del DNA erano davvero un record, specialmente perché la scena del delitto era un vero incubo desossiribonucleico. Erano stati trovati capelli, peli e campioni di pelle di oltre una dozzina di individui, maschi e femmine. Più cani, gatti e almeno altri due animali non ancora identificati.

Eppure, incredibilmente, erano riusciti a far combaciare i dati.

Questo non significava affatto che fossero più vicini a prendere l’assassino, naturalmente, ma adesso almeno conoscevano l’identità della vittima. Il DNA del morto era già schedato, e per ottime ragioni.

Thorne si schiarì la voce e ottenne un po’ di silenzio. «Douglas Andrew Remfry, di anni trentasei, è uscito dalla prigione di Derby dieci giorni fa, dopo aver scontato sette dei dodici anni a cui era stato condannato per violenza sessuale ai danni di tre giovani donne. Stiamo ricostruendo accuratamente tutti i suoi movimenti da allora, ma sembra che non abbia fatto altro che spostarsi tra il pub, il botteghino delle scommesse e la casa di New Cross dove viveva con la madre e il di lei…» Thorne lanciò un’occhiata a Russell Brigstocke, il quale alzò tre dita «…terzo marito. Oggi stesso forse sapremo qualcosa di più sui movimenti di Remfry. Gli agenti Holland e Stone sono sul posto con un mandato di perquisizione. La signora Remfry non si è mostrata troppo disposta a collaborare…»

Un allievo poliziotto in prima fila scosse la testa, con una smorfia di disgusto per una persona che non conosceva neppure. Thorne gli rivolse un’occhiata dura. «Quella donna ha appena perso un figlio» disse e lasciò che le sue parole indugiassero nell’aria per qualche secondo, prima di proseguire. «Se dobbiamo credere alla proprietaria dell’hotel, Remfry ha affittato la stanza di persona. Non ha sentito il bisogno di lasciare un nome, ma ha pagato in contanti senza discutere. Noi dobbiamo scoprire perché. Perché era tanto ansioso di andare in quell’hotel? Chi doveva incontrare?»

Thorne non poté evitare di sorridere, ricordando il colloquio con l’ineffabile proprietaria dell’hotel, una bionda dai capelli tinti con la faccia da pugile e una voce da sessanta sigarette al giorno.

«E chi paga per il cambio delle lenzuola?» aveva chiesto. «E per rimpiazzare i cuscini e il copriletto che quel pazzo si è portato via? Tutto cotone al cento per cento, mica roba da quattro soldi…» Thorne aveva annuito, fingendo di prendere nota. «E le macchie sul materasso? Dove prendo i soldi per far ripulire tutto?»

«Vedrò di trovarle un modulo di reclamo da riempire» aveva detto Thorne, pensando: “Col cazzo che te lo trovo, vecchia vacca…”.

Lo stesso allievo poliziotto di prima alzò un dito. Thorne annuì.

«Stiamo controllando i suoi trascorsi in prigione, signore? Forse Remfry ha preso qualcuno dal lato sbagliato, mentre era a Derby…»

«È stato lui a prenderlo dal lato sbagliato!» esclamò un agente baffuto seduto in fondo a sinistra. Era uno che Thorne non conosceva, arrivato lì da qualche altra squadra per fare numero. Il suo commento suscitò qualche risata. Thorne fece un sorriso tirato.

«Stiamo controllando anche quello. Le preferenze sessuali di Remfry erano sicuramente per le donne, prima che finisse in galera…»

«Alcuni ci prendono gusto mentre sono dentro…»

Stavolta la risata del pubblico fu un po’ forzata. Thorne aspettò che tornasse il silenzio per riprendere il controllo della situazione.

«A molti di voi toccherà il compito di rintracciare i sospetti più probabili che abbiamo al momento…»

L’allievo della prima fila annuì con aria saputa. Un secchione, convinto che quella fosse una conversazione, non un briefing. «I parenti maschi delle donne violentate da Remfry.»

«Esatto» disse Thorne. «Mariti, fidanzati, fratelli. Anche i padri, volendo. Vanno rintracciati, interrogati e scartati. Con un po’ di fortuna, potremmo eliminarli tutti eccetto uno. L’ispettrice Kitson ha stilato un elenco e si occuperà di assegnare a ciascuno di voi le mansioni che gli spettano.» Thorne appoggiò sulla sedia gli appunti e prese la giacca che aveva appeso allo schienale. Quasi finito. «Bene, questo è tutto. I reati di Remfry erano particolarmente sgradevoli. Probabilmente qualcuno ha pensato che non avesse pagato abbastanza…»

L’agente con i baffi da attore porno sorrise e disse qualcosa a un collega seduto davanti a lui. Thorne si infilò la giacca e strinse gli occhi. «Che cosa?»

All’improvviso, il suo tono era proprio quello di un insegnante che chiede a uno studente di sputare la gomma.

E l’agente la sputò. «Ho detto che secondo me chi ha ucciso Remfry ha fatto un favore alla società. Quel bastardo se lo meritava.»

Non era certo il primo commento del genere che Thorne avesse udito. Fissò l’uomo, chiedendosi se fosse il caso di fargli abbassare la cresta. Sapeva che avrebbe dovuto fare un discorsetto sul lavoro dei poliziotti, sulla necessità di essere imparziali, sul fatto che la vittima aveva già pagato il suo debito e che la vita di un uomo vale né più né meno di quella di un altro.

Ma decise di lasciar perdere.


Dave Holland preferiva sempre lavorare con un superiore, o, quando ne aveva la possibilità, con un sottoposto. Con un pari grado, le cose non erano mai molto chiare.

Era semplice. In quanto agente, lui obbediva a tutti i gradi da sergente in su, mentre pretendeva obbedienza da allievi poliziotti e sottoposti. Con un altro agente scelto come lui, tutto dipendeva dalla personalità del soggetto in questione.

Con Andy Stone, per esempio, Holland si sentiva sempre in soggezione senza sapere perché, e la cosa lo infastidiva. Finora era andato tutto bene, ma Stone gli sembrava un po’ troppo arrogante. Aveva un atteggiamento disinvolto e sfacciatamente sicuro di sé, che sfoggiava con le donne e con i superiori. Era atletico e di bell’aspetto, con i capelli neri tagliati corti e gli occhi azzurri e, secondo Holland, era perfettamente consapevole dell’effetto che produceva sulle persone. Una cosa era certa: vestiva in modo impeccabile e, vicino a lui, Holland si sentiva una specie di boy scout imbranato. Holland piaceva abbastanza alle donne, ma scatenava in loro soprattutto l’istinto materno. Di sicuro, non era lo stesso effetto che Andy Stone aveva sul gentil sesso.

Stone, inoltre, tendeva a mostrarsi sfrontato nei confronti dei superiori, un giochetto che poteva diventare rischioso quando c’era di mezzo Tom Thorne. Holland conosceva bene i difetti dell’ispettore. Si era trovato spesso a fare le spese del suo brutto carattere e in più di un’occasione era finito nei pasticci insieme a lui.

Eppure, nonostante tutto, ricevere l’approvazione di Thorne era il massimo della gratificazione per lui.

Era nella squadra da più tempo di Andy Stone e pensava che questo avrebbe dovuto contare qualcosa. Ma, a quanto pareva, non era così. Fu Stone a guidare l’operazione, quando si presentarono, quella mattina presto, alla porta di Mary Remfry, con un mandato di perquisizione in mano.

«Buongiorno, signora Remfry.» La voce di Stone suonava curiosamente lieve per un uomo così imponente. «Abbiamo un mandato e…»

Lei voltò loro le spalle senza dire una parola e si allontanò lungo il corridoio, lasciando aperta la porta. Da qualche parte, nell’appartamento, c’era un cane che latrava.

Stone e Holland entrarono e si fermarono ai piedi delle scale, dividendosi le stanze da perquisire. Stone si diresse verso il soggiorno, dove, attraverso la porta semiaperta, si vedeva un uomo dai capelli grigi, seduto in poltrona a guardare Kilroy. Prima di entrare Stone sussurrò a Holland, accennando con il capo verso la cucina dove era sparita la signora Remfry: «Credi che sia andata a prepararci il tè?».

No, di sicuro.

Holland trovava strano che ci fosse bisogno di un mandato per perquisire la casa della vittima di un omicidio. Ma, come aveva detto Stone, Remfry era pur sempre un ex carcerato e l’atteggiamento della madre non aveva lasciato loro altra scelta. Non si trattava solo del dolore per la morte del figlio. La donna era furiosa per le implicazioni della linea d’indagine che era stato necessario seguire, considerate le modalità e le circostanze della morte di suo figlio, ma che lei non aveva voluto assolutamente accettare.

«Dougie è sempre stato un donnaiolo» aveva dichiarato. «Un vero donnaiolo.»

Un concetto sul quale tornò anche ora, apparendo all’improvviso sulla porta della stanza da letto del figlio che Holland stava perquisendo metodicamente. Mary Remfry, cinquantacinque anni circa, in camicia da notte e cardigan, osservava il lavoro dell’agente, ma senza troppa attenzione. La sua mente era concentrata su ciò che desiderava mettere in chiaro.

«Dougie amava le donne e loro amavano lui. Questa è la pura realtà.»

Holland procedeva con discrezione, cosa che avrebbe fatto anche se la donna non fosse stata lì a guardarlo. In quella circostanza, comunque, si sforzò di essere ancora più attento, mentre frugava con la mano guantata nei cassetti della biancheria intima, nelle federe dei cuscini e nella trapunta. A quanto pareva, nel breve periodo trascorso fuori dalla prigione Remfry non aveva comprato molta roba nuova, visto che la stanza era piena di vestiti risalenti a prima della condanna e perfino ai tempi della scuola…

«Non è mai stato a corto di ragazze» continuò la madre. «Appena è tornato a casa, loro hanno cominciato a ronzargli intorno, a telefonargli. Mi ascolta?»

Holland si voltò a metà, mentre tirava fuori da sotto il letto una pila di riviste pornografiche.

«Vede?» disse Mary Remfry, indicandole. «Niente uomini, in quelle riviste.» Aveva un tono orgoglioso, come se stesse mostrando un diploma di laurea o l’attestato di conferimento del premio Nobel.

Holland si sentì avvampare, mentre sfogliava vari numeri di «Fiesta», «Escort» e «Razzie», e voltò le spalle alla donna.

Le riviste risalivano tutte agli anni Ottanta, prima che Dougie venisse rinchiuso per anni in un carcere di Sua Maestà, con altri seicentocinquanta uomini.

Holland le spinse di nuovo sotto il letto, da dove poi estrasse una borsa di plastica marrone, ripiegata più volte.

L’aprì e un pacco di buste legate con un elastico cadde sulla moquette.

Appena vide l’indirizzo, scritto a macchina sulla prima, Holland provò un piccolo brivido di eccitazione. Forse quelle lettere non significavano nulla, ma erano certamente più interessanti dei mucchi di vecchi calzini e di riviste porno che aveva trovato finora.

«Andy!»

Mary Remfry si strinse nel cardigan e si avvicinò all’agente. «Che cos’ha trovato?»

Holland udì i passi di Stone sulle scale. Sfilò l’elastico che teneva fermo il pacco, aprì la prima busta e tirò fuori la lettera.


«Allora possiamo eliminare definitivamente l’eventualità di un’asfissia autoerotica?» L’ispettore capo Russell Brigstocke, un po’ imbarazzato, abbracciò con un’occhiata circolare Thorne, Phil Hendricks e l’ispettore Yvonne Kitson.

«Ecco, io non sono sicuro di poter eliminare alcunché» disse Thorne. «Ma direi che il prefisso “auto” indica qualcosa che uno fa da solo.»

«Sai che cosa intendevo dire, saputello…»

«In quella stanza non è accaduto nulla di erotico» intervenne Hendricks.

Brigstocke annuì. «Nessuna possibilità che si sia trattato di un gioco perverso finito male?» Thorne represse un sorriso e Brigstocke se ne accorse. «Che c’è?» Thorne non disse nulla. «Ascolta, sto solo facendo le domande…»

«…che Jesmond ti ha detto di fare» finì Thorne, il quale non faceva nulla per mascherare la sua opinione sul loro sovrintendente. Secondo lui, Jesmond era uscito direttamente da uno di quei corsi che sfornavano automi dotati di astuzia politica, capacità organizzativa, faccia fotogenica, propensione alle domande stupide, buona comprensione delle realtà economiche e, in quel caso specifico, avversione verso chiunque si chiamasse Thorne.

«Sono domande a cui è necessario rispondere» ribatté Brigstocke. «Allora, può essersi trattato di un gioco sessuale, sì o no?»

Thorne trovava difficile credere che persone come Trevor Jesmond avessero mai fatto le cose che lui, Brigstocke o qualunque altro poliziotto avevano fatto almeno una volta nella vita. Non riusciva a immaginarselo mentre sedava una rissa, gonfiava un rimborso spese o si frapponeva tra un coltello e il corpo al quale era destinato.

Non se lo immaginava neppure nell’atto di dire a una madre che il suo unico figlio era stato sodomizzato e strangolato in una sudicia stanza d’hotel.

«Non si è trattato di un gioco» disse Thorne.

Brigstocke guardò Hendricks e Kitson, poi sospirò. «Presumo che le vostre espressioni di malcelato disprezzo significhino che siete d’accordo con l’ispettore Thorne. Dico bene?» Si aggiustò gli occhiali sul naso e si passò una mano tra i folti capelli neri che costituivano il suo più grande motivo di orgoglio. Il ciuffo era meno definito del solito e presentava qualche spruzzata di grigio. Nonostante il suo aspetto vagamente ridicolo, in realtà Brigstocke era uno degli uomini più duri con cui Thorne avesse mai lavorato.

Thorne, Brigstocke, Kitson, e il civile Hendricks. Loro quattro, più Holland e Stone, erano il nucleo della Squadra 3 dell’Unità per i Reati Gravi, divisione Ovest. Quello era il gruppo che prendeva le decisioni, definiva le linee d’azione e conduceva le indagini, con l’approvazione dei superiori e, a volte, anche senza.

La Squadra 3 era attiva da molto tempo e si occupava dei casi ordinari, ma soprattutto di quelli che non avevano nulla di ordinario e che costituivano la sua vera specialità.

«Allora» disse Brigstocke. «I nostri uomini sono tutti in giro a caccia di parenti maschi delle vittime di Remfry. Questa è ancora la pista preferita da tutti?»

Cenno d’assenso dei presenti.

«Comunque non significa che sia quella giusta» osservò Thorne. C’erano molte cose che non quadravano con l’idea della vendetta. Non riusciva a immaginarsi una rabbia covata per tanti anni, fino a diventare la furia letale che si era scatenata in quella stanza d’hotel. C’era qualcosa di teatrale in ciò che lui aveva visto su quel materasso. «L’assassino deve averlo messo in posa» aveva detto Hendricks.

E Thorne non riusciva ancora a spiegarsi bene quella telefonata alle tre del mattino. Non riusciva a credere che il messaggio sulla segreteria telefonica fosse una svista dell’assassino, perciò l’unica conclusione possibile era che lui voleva che la polizia sentisse la sua voce. Era come se si fosse presentato…

«Vale la pena verificare la fondatezza dell’ipotesi emersa durante il briefing, e cioè che Remfry fosse diventato frocio in prigione?» chiese Yvonne Kitson.

Thorne lanciò una rapida occhiata a Hendricks. Il patologo gay aveva deciso di ignorare il termine usato da Kitson, oppure non gliene fregava davvero nulla.

«Sì» rispose Thorne. «Qualunque cosa possa essergli successa mentre era dentro, prima era sicuramente eterosessuale. Non dimentichiamo che ha stuprato tre donne.»

«Lo stupro è una questione non di sesso, ma di esibizione di potere» puntualizzò Yvonne Kitson.

Yvonne Kitson, insieme con Andy Stone, era entrata in squadra per sostituire un collega che Thorne aveva perso in circostanze che cercava ogni giorno di dimenticare. Lo consolava soltanto il pensiero che il responsabile di quella morte stava scontando tre ergastoli nel carcere di Belmarsh.

Thorne fissò Hendricks. «Lasciando perdere Remfry, siamo sicuri che l’assassino sia gay?»

Hendricks non ebbe un attimo di esitazione. «Assolutamente no. Come ha detto Yvonne, lo stupro non ha nulla a che fare con il sesso. Forse lui vuole farci credere di essere gay. O forse lo è davvero. Ma noi dobbiamo comunque considerare altre possibilità.»

«Gay o non gay,» disse Yvonne Kitson «Remfry potrebbe essere stato messo in trappola da qualche ex compagno di galera, qualcuno animato da un forte rancore nei suoi confronti…»

Brigstocke si schiarì la voce. L’imbarazzo che gli provocava quella discussione era palpabile. «Ma l’inculata…»

«Inculata?» ripeté Hendricks, abbandonando l’accento di Manchester per assumere un tono da gentleman oltraggiato. «L’inculata!?»

Brigstocke arrossì. «La sodomia, allora. O il rapporto anale, se preferite. Com’è possibile fare una cosa del genere, se non si è omosessuali?»

Hendricks si strinse nelle spalle. «Chiudi gli occhi e pensi a Claudia Schiffer…»

«Io penserei a Kylie» disse Thorne.

Yvonne Kitson scosse la testa sorridendo. «Vecchio sporcaccione.»

Brigstocke non era convinto. Rivolse a Thorne uno sguardo duro. «Sii serio, Tom. Questo potrebbe essere importante. Tu, per esempio, ce la faresti davvero?»

«Dipenderebbe molto dalla mia determinazione a uccidere.»

Il silenzio scese nella stanza. Thorne decise di romperlo prima che diventasse troppo pesante. «Remfry è andato in quell’hotel di sua spontanea volontà. Ha prenotato la stanza di persona. Quindi sapeva, o pensava di sapere, in quale situazione si stava mettendo.»

«E qualunque cosa fosse,» aggiunse Hendricks «sembra che sia durata un bel po’.»

«Già» convenne Kitson. Sfogliò le fotocopie del referto dell’autopsia stilato da Hendricks. «Nessuna ferita da difesa, nessuna traccia di tessuti sotto le unghie…»

Il telefono sulla scrivania squillò. Thorne era il più vicino.

«Ispettore Thorne. Sì, Dave…»

Gli altri rimasero in attesa mentre Thorne ascoltava la voce all’altro capo del filo. Brigstocke sussurrò a Yvonne Kitson: «Perché cazzo Remfry sarà andato in quell’hotel?».

Thorne annuì. Grugnì, tolse con i denti il cappuccio a una penna, poi lo rimise a posto. Sorrise, disse a Holland di muovere il culo e chiuse la comunicazione.

Quindi rispose alla domanda di Brigstocke.


4 dicembre 1975


Erano seduti nella Maxi, davanti a casa. Lei aveva tenuto duro per tutta la mattina, durante i momenti peggiori: le domande personali, l’intrusione… Voi, quando il peggio sembrava essere passato, aveva iniziato a piangere, passando attraverso le porte che lui le teneva aperte, fuori dal commissariato di polizia, sugli scalini che portavano in strada erano risuonati i suoi passi e i suoi singhiozzi incontrollabili.

In macchina, il pianto si era a poco a poco trasformato in una furia cieca, che esplodeva in attacchi di violenza. Lui aveva tenuto le mani strette sul volante, mentre lei lo colpiva sulle spalle e sulle braccia. I suoi occhi non avevano mai lasciato l’asfalto, mentre lei gli urlava contro parole che lui credeva non conoscesse neppure. Aveva guidato con prudenza, come sempre, nel traffico della pausa pranzo lungo le strade gelate, assorbendo dalla moglie tutto il dolore e la rabbia che riusciva a sopportare.

Adesso erano seduti in macchina, entrambi troppo scossi per scendere. Guardavano fisso davanti a sé, senza osare lanciare neppure un’occhiata verso la casa. La casa. Il posto in cui, la sera prima, lei gli aveva raccontato ogni cosa. Le stanze in cui avevano pianto e gridato. Il luogo in cui tutto era cambiato.

La casa in cui non si sarebbero mai più sentiti a casa.

Senza girare la testa, lei parlò con rabbia. «Perché non mi hai portato alla polizia ieri sera? Perché mi hai fatto aspettare fino a ora?»

Il motore era spento, l’auto era ferma, ma le sue mani non lasciavano il volante. E, mentre lo stringeva ancora più forte, i guanti di pelle scricchiolavano. «Non volevi ascoltare! Non volevi ascoltare nulla!»

«E cosa ti aspettavi? Cristo, non sapevo neppure come mi chiamavo. Non sapevo cosa facevo. Non mi sarei nemmeno mai fatta la doccia…»

Il giorno prima lei era troppo sconvolta per pensare con chiarezza, ovviamente. Lui aveva cercato di spiegarlo alla poliziotta, al commissariato, ma lei aveva scrollato le spalle e aveva lanciato un’occhiata alla collega, continuando a prendere i vestiti, a mano a mano che la moglie se li toglieva, e a infilarli in una borsa di plastica.

«Non avresti dovuto farti la doccia, ragazza mia» aveva detto la poliziotta. «Saresti dovuta venire subito qui, dopo il fatto…»

Il motore era spento da meno di un minuto, ma in macchina già si gelava. Lui sentiva il calore delle lacrime che gli scendevano sul viso, fino ai baffi. «Hai detto che volevi lavarti, toglierti di dosso ciò che ti aveva fatto. Io ho detto che lo capivo, ma che non era una buona idea. Tu non mi ascoltavi neppure…»

Era rimasto paralizzato, in piedi nel soggiorno, dopo che lei glielo aveva detto. Poi erano seguiti minuti e ore terribili. Lei non voleva lasciarsi abbracciare, non voleva che lui telefonasse a nessuno. Non voleva che andasse a casa di quel bastardo per prenderlo a calci in mezzo alle gambe.

Lui guardò l’orologio. Si chiese se la polizia avrebbe prelevato Franklin al lavoro, o avrebbe aspettato che tornasse a casa.

Doveva telefonare in ufficio, per avvisare che quel giorno non si sarebbe presentato. Doveva chiamare la scuola, per controllare che fosse tutto a posto, che le spiegazioni della sera prima sul motivo per cui la mamma era tanto agitata fossero state credute…

«Cosa voleva dire quella donna?» disse lei, all’improvviso. «La poliziotta. Quando ha chiesto se mi mettevo sempre vestiti così carini per andare al lavoro?» Iniziò a dondolare piano avanti e indietro sul sedile, con le mani tra le gambe.

La neve cadeva a fiocchi pesanti, coprendo rapidamente il cofano e il parabrezza. A lui non venne neppure in mente di azionare il tergicristalli.