"Il biglietto vincente" - читать интересную книгу автора (Baldacci David)

7

Erano le otto del mattino del giorno zero quando LuAnn, con Lisa nel seggiolino, scese dall’autobus. Non era la sua solita fermata, e si trovava a una mezzoretta di cammino dalla Airstream. La pioggia era cessata. La tempesta aveva lasciato dietro di sé un cielo blu cobalto a sovrastare vasti paesaggi color verde cupo.

In qualsiasi direzione si guardasse, erba novella e germogli cominciavano ad apparire dalla terra scura. Un altro, lento inverno era finito. Stormi di uccelli volavano cinguettanti sui campi, festeggiando il cambiamento di stagione. Questo era il momento della giornata che LuAnn preferiva. Calmo, rilassante.

Sembrava alimentare la speranza.

LuAnn osservò le ampie ondulazioni erbose davanti a sé. Superò un portale ad arco, oltre una lastra di marmo con una scritta scolpita a lettere dai contorni ben definiti:


HEAVENLY MEADOWS CEMETERY

Camposanto dei Pascoli del Cielo. Come per volontà propria, i suoi piedi affusolati la guidarono verso il Campo 14, Sezione 21, Area 6. La tomba si trovava sulla sommità di una delle collinette, al cospetto di un’antica quercia sulla quale sarebbero presto tornate le foglie, portatrici di una fresca, grande ombra.

LuAnn posò il seggiolino su una panchina di pietra e prese Lisa in braccio. S’inginocchiò sull’erba piena di rugiada e tolse dalla lapide alcune foglie, umide di pioggia. La vita di Joy Tyler era stata breve, meno di trentasette anni, ma era stata anche un’eternità di sofferenza. Gli anni passati al fianco di Benny Tyler avevano accelerato l’uscita di Joy da questo mondo. LuAnn ne era assolutamente certa.

— Ti ricordi, Lisa? — LuAnn puntò il piccolo indice della bambina verso la lapide. — È qui che dorme la tua nonna. Non siamo venute a trovarla per un po’ perché c’è stato il tempo cattivo. Ma adesso che c’è la primavera, veniamo da lei di nuovo. E quando veniamo, anche se dorme, è come se lei si alza. E se tu apri bene le tue orecchiette, se tu chiudi gli occhi stretti stretti come quelli di un uccellino, se tu ascolti bene, ma proprio bene, allora senti che la nonna ci parla. Senti che ci dice come la pensa sulle cose.

LuAnn andò a sedersi sulla panchina di pietra, con Lisa sulle ginocchia, proteggendola dall’aria fredda del primo mattino. Lisa era ancora insonnolita. Le ci voleva sempre un po’ per svegliarsi, dopodiché non avrebbe più cessato di muoversi e di parlare per parecchie ore. Intorno a loro, il Camposanto dei Pascoli del Cielo era deserto. Un’unica solitaria figura, un giardiniere in sella a una motofalciatrice, era visibile a distanza. Lo scoppiettare del motore lontano si perdeva nel vento. Sulla collinetta regnava la pace. Così anche LuAnn chiuse gli occhi stretti stretti, come quelli di un uccellino.

E si mise in ascolto…

Avrebbe fatto quella telefonata.

Aveva pensato di chiamare non appena finito di lavorare alla tavola calda. Jackson aveva detto in qualsiasi momento. Probabilmente era rimasto in attesa, pronto a rispondere al primissimo squillo. L’ora non aveva alcuna importanza. Chiamare Jackson, certo.

Dirgli che accettava il contratto.

La cosa più semplice di tutte. E la più intelligente. Era il suo turno. Dopo vent’anni passati negli abissi della delusione, della sofferenza e del dolore, finalmente la fortuna le stava sorridendo. Fra miliardi di nomi era proprio uscito il suo: LuAnn Tyler. Un’occasione da cogliere al volo. Ed era questa la prima certezza: una simile occasione non si sarebbe ripresentata mai più. Seconda certezza: anche gli altri vincitori, dei quali LuAnn aveva letto nei microfilm, avevano fatto quella telefonata. Terza e ultima certezza: per quella gente lei non aveva trovato traccia di guai successivi. E quello era proprio il genere di notizia che avrebbe avuto una vasta risonanza specialmente in un’area depressa come Rikersville, dove tutti giocavano alla lotteria in modo quasi ossessivo, nel tentativo di evadere dalla prigione senza sbarre della povertà.

Ma quando LuAnn Tyler credeva di avere già preso la propria decisione, qualcosa dentro di sé le aveva impedito di correre al più vicino telefono nel tragitto fra la tavola calda e la fermata dell’autobus. Invece, LuAnn aveva scelto di ascoltare la voce di qualcun altro. Spesso era venuta su questa collinetta, per parlare con sua madre, per deporre fiori sulla sua lapide, per tenere pulito il luogo del suo infinito riposo, arrivando alla convinzione di essere effettivamente in grado di comunicare con Joy. Non si trattava di voci. Erano impressioni, sensazioni, percezioni. A volte, qui sulla collinetta, LuAnn sentiva una grande euforia, oppure una grande tristezza. Alla fine, aveva accettato che quel qualcosa, qualsiasi cosa fosse, continuasse a esistere. Sia per lei, sia per la sua bambina. I dottori, quasi certamente, avrebbero definito quel qualcosa una forma di pazzia, LuAnn lo sapeva. Ma per lei non faceva la minima differenza.

E ora, al mattino del giorno zero, LuAnn sperava che il qualcosa sulla collinetta le parlasse, le dicesse che cosa fare. Sua madre le aveva insegnato molto chiaramente la differenza tra giusto e sbagliato. LuAnn non aveva raccontato menzogne fino a quando non aveva cominciato a vivere con Duane. Da allora in poi le bugie, le mistificazioni e le distorsioni si erano come generate a getto continuo, condizione irrinunciabile della sua sopravvivenza. Tuttavia, in vita sua LuAnn Tyler non aveva mai rubato, né aveva mai fatto alcunché di realmente malvagio. Ed era così che aveva potuto conservare la dignità e il rispetto di sé, traendone sostegno per affrontare un futuro in cui la speranza di un cambiamento andava facendosi di giorno in giorno più flebile.

Ma oggi, giorno zero, quel qualcosa sulla collinetta taceva.

La motofalciatrice si era avvicinata, e il martellare del motore cominciava a filtrare nel vento, disturbandola. LuAnn riaprì gli occhi, con un gran sospiro. Niente da fare. Sua madre sembrava non essere sempre disponibile. Quanto meno, non lo era affatto oggi, giorno zero. LuAnn si alzò e si preparò ad andarsene.

Fu a questo punto che ebbe una percezione.

Non le era mai successo niente del genere, prima d’ora. Il suo sguardo si spostò verso una diversa sezione del cimitero, lontana circa cinquecento metri. Come se un altro qualcosa la stesse richiamando da quella parte. E LuAnn Tyler sapeva perfettamente di che cosa si trattava. Si mosse a passi incerti lungo uno degli stretti sentieri lastricati che serpeggiavano tra le tombe, oltre il crinale della collinetta, mentre il rumore della motofalciatrice veniva nuovamente inghiottito dalla distanza. Tenne Lisa stretta al petto, quasi che quella forza invisibile potesse strappargliela via. LuAnn continuò a camminare sotto un cielo che di colpo pareva diventare color dell’inchiostro, nel vento improvvisamente gelido che soffiava fra le pietre tombali.

La lapide di bronzo era identica a quella di sua madre. Anche parte del nome era lo stesso:


BENJAMIN HERBERT TYLER

LuAnn osservò le lettere incise, dalle quali le intemperie avevano fatto colare frastagliate tracce di corrosione. Dal giorno della sua morte, era questa la prima volta che LuAnn visitava la tomba di suo padre. Al funerale aveva tenuto stretta la mano di sua madre, e tutt’e due avevano esibito la giusta faccia di circostanza per i congiunti e gli amici. Tutt’e due in realtà non provavano la minima tristezza, la minima sofferenza. Per lo strano modo in cui a volte gira il mondo, Benny Tyler era stato enormemente popolare fra la gente di Rickersville per la sua gentilezza e per la sua generosità. Con tutti tranne che con sua moglie e sua figlia. Con loro non era mai stato né gentile né generoso.

LuAnn trattenne il respiro. Quel nome per esteso, inciso nel bronzo… La lapide le sembrò sul punto di spalancarsi per inghiottirla nella tomba. LuAnn cominciò ad arretrare, ad allontanarsi da quel luogo saturo di ombre.

Quell’altro qualcosa…

Oggi, giorno zero, il qualcosa proveniva da questa tomba, non dalla tomba di sua madre. Più forte, più imperioso di quanto lei lo avesse mai percepito. Forme evanescenti prive di dimensioni, prive di profondità parevano danzare nel vento al di sopra della tomba, simili ai tentacoli di una medusa degli abissi.

LuAnn Tyler, con la figlia stretta ancora di più al petto, girò di scatto su se stessa, agguantò il seggiolino e prese a correre disperatamente attraverso il Camposanto dei Pascoli del Cielo. Giù per la collinetta, fuori dal portale.

Prendi quei fottuti soldi, ragazzina!

Andarsene da là dentro. Qualsiasi posto sarebbe andato bene, purché non fosse là dentro.

Papà ti dice di prenderli! All’inferno tutti e tutto! Dammi retta! Usa quel cervello di gallina che hai. Usalo, cazzo!

Non era stato necessario che LuAnn ascoltasse con attenzione.

Quando sei qui sotto, non ti resta niente! NIENTE! Ti ho forse mai mentito, piccolina? L’ho forse mai fatto? Dai retta a papà. Perché papà ti vuole bene. Tu lo sai…

Non era stato necessario che LuAnn tenesse gli occhi chiusi stretti stretti, come quelli di un uccellino.

Prendi quei soldi del cazzo, stupida puttanella! PRENDILI!

I rumori della realtà, il motore agricolo e il traffico sulla strada, erano ricomparsi. L’uomo sulla motofalciatrice la osservò correre via sotto quel cielo di un blu da cartolina. Poi guardò la tomba dalla quale LuAnn era scappata. C’era gente a cui i cimiteri facevano paura perfino in pieno sole.

L’uomo tornò a guardare verso il portale dei Pascoli del Cielo. LuAnn Tyler era scomparsa.

Come se non fosse mai stata là.


Il vento freddo le inseguiva ancora mentre scendevano per la lunga strada sterrata.

Il volto di LuAnn era madido di sudore. La luce del sole, raggi accecanti che penetravano fra gli squarci nelle chiome degli alberi, fiammeggiava nei suoi occhi. LuAnn, con Lisa sempre stretta a sé, continuava a correre con un ritmo da maratoneta: una falcata che aveva la regolarità di un meccanismo ad alta precisione e la grazia di un felino predatore. Negli anni dell’adolescenza non c’era un solo corridore nell’intera contea a cui LuAnn Tyler non fosse stata in grado di far mangiare la polvere, inclusi gli attaccanti delle squadre di football del liceo. Un talento atletico da campione mondiale, così le aveva detto il suo insegnante di ginnastica, una velocità che era come un dono degli dèi. Ma con quel dono, nessuno le aveva mai detto che cosa fare. Aveva soltanto permesso a quella ragazzina di quattordici anni con un corpo da donna di scappare dal giovane idiota che allungava le mani, quando non poteva gonfiargli la faccia.

LuAnn sentiva il cuore martellarle nel petto. Ebbe la fugace visione di sé che crollava con la faccia in avanti nella ghiaia, folgorata da un attacco cardiaco identico a quello che aveva stroncato suo padre. Poteva darsi che esistesse chissà quale misterioso difetto organico, eredità genetica della discendenza di Benny Tyler. Un subdolo killer invisibile, sempre in agguato, pronto a strappare un altro Tyler dalla faccia della Terra.

LuAnn rallentò. Lisa aveva cominciato a lamentarsi troppo e a piangere. Allentando la stretta sulla piccola, sussurrandole paroline all’orecchio per calmarla e muovendosi in grandi, lenti cerchi sotto l’ombra degli alberi, LuAnn finalmente si fermò. E anche il pianto della bambina cessò.

LuAnn camminò per il resto della strada che separava il cimitero dalla Airstream. Benny Tyler le aveva parlato, e gli ultimi dubbi si erano dissipati nel nulla. Adesso aveva la risposta.

Avrebbe messo quanto poteva in una valigia e avrebbe poi chiesto a qualcuno di andare a prelevare il resto. Per un po’ si sarebbe fatta ospitare da Beth, che insisteva da un pezzo perché andasse a stare da lei. Beth abitava in una vecchia casa colonica con un sacco di stanze, e dopo la morte di suo marito la sua unica compagnia erano un paio di gatti che, a sentire lei, la superavano quanto a pazzia. LuAnn aveva deciso: sarebbe tornata a scuola, a costo di portare Lisa con sé in aula. Non aveva importanza. Si sarebbe iscritta al college municipale e avrebbe preso il diploma. Se c’era riuscito Johnny Jarvis, perché non avrebbe potuto riuscirci anche lei?

Quanto al signor Jackson e alle sue palline magiche, avrebbe trovato qualcun altro per prendere il suo posto. Questo era un problema che non la riguardava più.

Per anni aveva cercato risposte come quelle. Ora le aveva trovate. E nel trovarle, il peso del mondo si era sollevato dalle sue spalle. Sua madre le aveva parlato. Forse lo aveva fatto in modo indiretto, ma l’incantesimo aveva comunque avuto luogo.

— Non dimenticare mai quelli che abbiamo amato e che adesso non sono più quaggiù con noi — sussurrò a Lisa. — Noi non sappiamo. Loro sanno.

LuAnn arrivò sulla sommità del dosso affiancato dai boschi scuri. Il giorno prima, Duane Harvey era pieno di soldi. Chissà quanti gliene restavano. Nel momento in cui si ritrovava qualche dollaro in tasca, Duane era sempre fin troppo svelto a offrire da bere a destra e a sinistra. Lo sapeva il cielo come poteva aver bruciato le mazzette nascoste sotto il letto. LuAnn non gli aveva neppure chiesto da dove provenivano quei soldi. Per quanto la riguardava, erano solo un’ulteriore ragione per andarsene.

Discese la strada tortuosa sull’altro lato del dosso. Uno stormo di uccelli neri si sollevò gracchiando dagli alberi, e il loro improvviso battito d’ali la fece sussultare. La Airstream era una sagoma immobile circondata dalla sua corte di relitti e di rottami. Ma adesso, c’era qualcos’altro tra relitti e rottami.

Un’auto nera. Una grossa decappottabile, la vernice troppo lucida, con troppe cromature di cattivo gusto. Sul cofano spiccava una specie di ornamento, anch’esso pesantemente cromato. Da lontano pareva avere la forma di una donna impegnata in qualche atto osceno. LuAnn continuò ad avanzare, ma molto più lentamente. Il furgone di Duane era sotto sequestro. Nessuno dei suoi amici buzzurri e ubriaconi poteva permettersi una macchina del genere.

Quell’auto nera, con quelle ruote da pappone, semplicemente non doveva esserci.

LuAnn si avvicinò cauta, dando uno sguardo più attento. Nulla che potesse fornire indicazioni sul guidatore. I sedili anteriori, con telefono cellulare sul ponte intermedio, erano foderati di pelle bianca con rifiniture di cuoio color porpora. L’interno dell’auto era assurdamente tirato a lustro, la plancia talmente lucida che quasi ci volevano gli occhiali scuri per guardarla. Le chiavi erano state lasciate nel quadro, con il portachiavi a forma di lattina di birra Budweiser. Forse Duane Harvey era definitivamente andato fuori di testa e aveva comprato questo cesso su ruote a raggi.

LuAnn salì i due gradini di mattoni di cemento. Rimase in ascolto fuori della porta a zanzariera. Silenzio. Decise di entrare. A Duane aveva già spaccato il grugno una volta, poteva farlo anche una seconda.

— Duane?

Sbatté violentemente la porta della Airstream.

— Che diavolo fai, Duane? È tua quella roba qua fuori?

Nessun rumore, nemmeno un respiro. LuAnn mise Lisa col seggiolino a terra e avanzò verso il fondo della roulotte.

— Duane? Mi rispondi o cosa? Non ho tempo per gli scherzi.

Si affacciò nella stanza da letto, ma Duane non c’era. Gli occhi corsero alla sveglia di sua nonna: fu la prima cosa che fece sparire nella borsa. Non l’avrebbe mai lasciata, mai. Arretrò nel corridoio, fino a Lisa. La piccola era agitata. LuAnn posò la borsa accanto al seggiolino e fece una breve sosta per calmarla. Intanto scrutò verso la parte anteriore della roulotte.

Duane Harvey era a casa. Stava seduto sullo sbrindellato divanetto del soggiorno. Sul tavolino accanto a lui c’era un secchiello di cartone del Kentucky Fried Chicken. Bisunti pezzi di pollo mangiati a metà, patatine fritte rovesciate, chiazze di ketchup sparse come sangue troppo denso, lattine di birra vuote e accartocciate. Resti della cena di ieri, oppure della colazione di oggi. La malridotta televisione era accesa. Niente suono, soltanto immagini baluginanti.

— Ehi, Duane, sei sordo?

Lui girò la testa verso di lei. Un movimento di una lentezza surreale, da ubriaco.

— Tu proprio non vuoi crescere, eh, Duane? — LuAnn era inferocita. — Dobbiamo fare un bel discorsetto, io e te. E a te non piacerà. Ma vuoi saperne una? Non me ne frega niente se non ti pia…

La mano venne fuori dal nulla, coprendole la bocca fin quasi a soffocarla. Un braccio spesso come una trave le strinse la vita, immobilizzandole le braccia lungo i fianchi. Vanamente i suoi occhi dilatati passarono da un angolo all’altro del minuscolo ambiente.

Duane Harvey non era ubriaco. Duane Harvey era morto. Il petto della sua camicia era fradicio di sangue. Sangue vero, non ketchup. Il suo corpo crollò in avanti, come un pupazzo di stracci abbattuto dal vento.

La mano passò dalla bocca di LuAnn alla gola. La morsa spinse il mento verso l’alto, la brutale pressione le fece scricchiolare le vertebre cervicali.

— Un vero peccato, mia cara…

Una voce roca, che LuAnn non riconobbe. E insieme alla voce, le arrivò un alito pesante, fetido, saturo di un tanfo misto di pollo fritto del Kentucky e birra dozzinale. Un alito rivoltante che le premeva contro il volto.

— Cara signora, sei nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

LuAnn vide l’altra mano. E vide la lama del coltello che si sollevava verso di lei. Verso la sua gola. Fu quello l’errore del suo assalitore. Nell’alzare il coltello le aveva lasciato entrambe le braccia libere. Forse aveva creduto che fosse rimasta paralizzata dal terrore. Tutt’altro. LuAnn scalciò all’indietro, colpendo con il tallone il ginocchio di lui come lo zoccolo di un mulo. Simultaneamente pestò a fondo con il gomito nel suo ventre flaccido, all’altezza del diaframma.

L’uomo sussultò, la lama che s’impennava tagliandole il mento in diagonale. Un fiotto rosso si disperse nell’aria ferma della Airstream. LuAnn sentì in bocca il gusto del sangue, il proprio sangue. L’uomo cadde in ginocchio sul pavimento, sputando e gorgogliando. Il grosso coltello da caccia cadde sulla moquette, intrisa di altro sangue, quello di Duane Harvey.

LuAnn partì in fuga verso la porta della roulotte, ma la mano sinistra del killer si chiuse in una morsa intorno alla caviglia di lei, trascinandola a terra. LuAnn rotolò sulla schiena, riuscendo ad assestargli un calcio in piena faccia. Per la prima volta riusciva a vederla: carnagione bianchiccia scottata dal sole, sopracciglia cespugliose unite al centro, capelli zeppi di brillantina da quattro soldi, labbra ora distorte in una smorfia di dolore grottesca. LuAnn non poté vedere i suoi occhi, semichiusi mentre incassava la pedata. Era invece del tutto evidente che si trattava di un gorilla grosso almeno il doppio di lei. Dalla stretta che lui continuava a esercitare sulla sua caviglia, ebbe la conferma che sul piano della forza fisica non ci poteva essere confronto. Ma LuAnn non avrebbe lasciato sua figlia a portata di quell’energumeno. A nessun costo!

Invece di seguitare a resistere passivamente, gli si scaraventò addosso urlando a squarciagola. E questo lo disorientò. Di colpo sbilanciato, l’uomo abbandonò la presa alla caviglia. In quel frangente LuAnn scorse i suoi occhi: due biglie marrone scuro, il colore delle vecchie monete da un centesimo. Quegli occhi non le piacevano. E con uno scatto felino gli piantò indice e medio della mano destra direttamente dentro i bulbi. L’uomo urlò come un maiale sgozzato. Sotto la scossa nervosa del lancinante dolore, schizzò all’indietro, picchiò la schiena contro la parete e le ritornò addosso alla cieca.

Rotolarono entrambi sul divano, in un sussultante groviglio di gambe e di braccia. Nella caduta, la mano di LuAnn agguantò un oggetto, impossibile capire cosa. Le parve qualcosa di ragionevolmente pesante. E di molto duro. Senza pensarci due volte pestò l’oggetto sul cranio del killer, sfiorando nel movimento il cadavere di Duane mentre per inerzia andava a sbattere a sua volta contro la parete.

Nel centrare la tempia dell’assalitore, il telefono si disintegrò in mille pezzi. L’uomo crollò di nuovo. Le sue gambe ebbero un sussulto spastico. Sangue scintillante gorgogliò tra i capelli zeppi di brillantina e colò sul pavimento, mescolandosi al ketchup. E all’altro sangue, quello di Duane Harvey.

LuAnn rimase immobile a terra per un attimo, poi in qualche modo riuscì a mettersi a sedere. Tutta la schiena le doleva. Aveva un braccio indolenzito nel punto in cui, cadendo, aveva urtato contro il tavolino, e ben presto le si intorpidì fino a diventare insensibile, inutile. Un Boeing 747 continuava a decollarle dentro il cranio.

— Cristiddio…

Lottò per sollevarsi e per mantenere l’equilibrio. Doveva andarsene da lì. Prendere Lisa e correre finché le sue gambe l’avessero sostenuta. Le ombre apparvero ai margini del suo campo visivo, simili alle ali di quegli uccelli neri che aveva visto prendere il volo dagli alberi intorno alla radura.

— Gesù…

Le ombre invasero l’intero universo. LuAnn Tyler crollò su se stessa come un castello di carte.