"Il biglietto vincente" - читать интересную книгу автора (Baldacci David)6Nei corridoi del centro commerciale di Rikersville brulicava molta più gente del giorno prima. Questo a LuAnn andava benissimo. Folla significava anonimato, mimetizzazione. E fu tra la folla che LuAnn si mescolò per tornare a dare un’occhiata all’ufficio nel quale aveva incontrato Jackson. Dall’altro lato dei cristalli affumicati, l’interno pareva immerso nell’oscurità. LuAnn non provò nemmeno a girare la maniglia: sapeva che avrebbe trovato la porta chiusa a chiave. Jackson doveva essersene andato subito dopo di lei, e lei doveva essere stata la sua unica LuAnn si era data ammalata al lavoro, passando la notte a casa di un’amica. Una notte insonne, trascorsa in parte a fissare la luna piena, ma soprattutto a studiare gli atteggiamenti delle piccole labbra di Lisa mentre la bimba dormiva profondamente. Da sola nel buio, LuAnn aveva deciso di non decidere. Perlomeno, non fino a quando non fosse riuscita a saperne di più in merito all’offerta di Jackson. In compenso, aveva risolto di non andare alla polizia. A dire cosa? Chi le avrebbe dato retta? Non c’era una misera buona ragione per farlo. Mentre c’erano cinquanta milioni di ottime ragioni per LuAnn Tyler aveva un suo codice etico, una sua precisa linea di divisione tra bene e male, tra giusto e sbagliato. Eppure la tentazione continuava ad accecarla. Al tempo stesso, l’ultima impresa di Duane rinsaldò la sua convinzione che Lisa non poteva, non — LuAnn? Lei s’immobilizzò sulla soglia della direzione del centro commerciale, un gruppo di uffici all’estremità del palazzo. Il giovanotto era in piedi dietro il bancone della reception. Indossava pantaloni scuri ben stirati, camicia bianca con maniche corte, cravatta dai colori indefinibili. Faceva scattare ritmicamente la sua penna a sfera. Forse era eccitato dal vederla. O forse era nervoso. O entrambe le cose. — Non mi aspetto che ti ricordi di me, LuAnn — e mancò poco che il giovanotto saltasse al di là del banco. — Johnny Jarvis. John, sul lavoro. Cominciò con il tenderle la mano in maniera quanto mai professionale. Ci ripensò, fece un gran sorriso e si avventurò ad abbracciarla. Poi passò almeno un minuto a fare coccole e moine a Lisa. Dalla borsa in spalla, LuAnn tolse una piccola coperta, la distese sul pavimento, mise sopra la piccola e le diede un orsetto di peluche perché ci giocasse. — Johnny… Incredibile. Non ti vedo da quando… Le medie? — Tu eri in prima e io in terza. — Ti trovo proprio bene. Da quanto tempo lavori qua? — Finite le medie, sono andato al college municipale e mi sono diplomato. — John Jarvis sorrise pieno d’orgoglio. — Sono qui al centro commerciale da due anni. Ho cominciato come operatore al computer e adesso sono una specie di vicedirettore operativo. — Grandioso. Congratulazioni, Johnny… John. — Che diavolo, LuAnn: per te sono sempre Johnny. Quasi non ci credevo quando sei entrata da quella porta. A momenti mi prendeva un colpo. Mai e poi mai avrei pensato di rivederti. Sarà andata a New York, mi ero detto, o chissà quale altra grande città… — Invece sono ancora qui. — Sono un po’, diciamo… sorpreso, ecco. Non ti avevo mai vista qui al centro commerciale. — Non vengo molto da queste parti È un bel pezzo di strada da dove sto io. — Be’, intanto mettiti a sedere e raccontami tutto di te. Non sapevo che avessi una bambina. E non sapevo nemmeno che fossi sposata. — Non sono sposata. — Ah… — Le guance di Jarvis si accesero. — Senti, che ne dici di un caffè? L’ho appena fatto. — Sono un po’ di fretta, Johnny. — Sì, capisco. Che cosa posso fare per te? — domandò il giovanotto con un’espressione di improvvisa sorpresa. — Non è che stai cercando lavoro, eh? — E se anche lo cerco? — LuAnn gli scoccò un’occhiata dura. — Qualcosa che non va nel cercare lavoro? — Ma no, certo che no. Volevo solo dire, sai com’è, non mi aspettavo che saresti rimasta a Rikersville. — Le sorrise. — Tutto qui. — Johnny, un lavoro è un lavoro. Tu lavori qui, giusto? E già che ci siamo, cos’è che esattamente potevo fare della mia vita a New York o in chissà quale altra grande città? Il sorriso di John Jarvis si dissolse. Il giovanotto si passò le palme delle mani lungo i pantaloni, con fare ancora più nervoso di prima. — Non intendevo dire niente di strano, LuAnn. Ti ho sempre vista come una donna che dovrebbe vivere in un castello, con belle macchine, bei gioielli, bei vestiti. Mi dispiace… — Va bene così, Johnny. Non ci pensare. Anche l’ostilità di LuAnn si dissolse. Quel castello, con in più le macchine, i gioielli e i vestiti, era forse molto più a portata di mano di quanto John Jarvis, o perfino lei stessa, avrebbe mai potuto immaginare. — È stata una lunga settimana — riprese LuAnn. — E comunque non sto cercando un lavoro. Quello che cerco è un po’ d’informazioni su uno che ha preso in affitto un ufficio qua al centro commerciale. Jarvis si diede una rapida occhiata alle spalle. Dagli uffici interni della direzione, proveniva un insieme di suoni: telefoni che squillavano e dita che battevano su tastiere di computer, il tutto inframmezzato da rapidi sussulti di conversazioni. Tornò a girarsi verso di lei. — Hai detto… — Già. Ero qui ieri mattina. Per un appuntamento. — Con chi? — È proprio questo che voglio sapere da te. Era nell’ufficio subito a destra appena entrati dalla fermata dell’autobus. Non ha nessuna insegna né niente. Quello vicino alla gelateria… — Pensavo che quello spazio fosse sfitto. — Jarvis era perplesso. — Ne abbiamo tanti di sfitti. Rikersville non è esattamente il paese della cuccagna. — Be’, ieri non era sfitto. Jarvis si spostò al computer sul bancone e cominciò a lavorare sulla tastiera. — Un appuntamento per cosa? — Oh, qualcosa da venditori porta a porta — rispose LuAnn sbrigativamente. — Abbiamo avuto gente che affitta per brevi locazioni, per esempio per avere una sala da colloqui per assunzioni. Se abbiamo lo spazio, e lo abbiamo quasi sempre, affittiamo anche solo per un giorno. Specie se è già allestito, cioè con dentro qualche arredo da ufficio. Jarvis studiò la schermata. Dagli uffici continuavano ad arrivare voci. Il giovanotto si alzò per chiudere la porta. Nel rivolgersi nuovamente a LuAnn, palesò una certa apprensione: — E allora, cosa vuoi sapere? Lei colse il suo disagio. — Dimmi una cosa, Johnny — domandò lanciando una rapida occhiata alla porta chiusa — non è che poi ti ritrovi nei guai, vero? — Ma certo che no — fece lui con un gesto rilassato della mano. — Sono o non sono il vicedirettore? — aggiunse con aria d’importanza. — Be’, senti, dimmi quello che puoi. Chi è la gente che ha preso quell’ufficio. Che affari fanno. Magari se hanno un indirizzo. Cose così. — Ma come — fece Jarvis, confuso — al colloquio non te le hanno date tutte queste informazioni? — Me ne hanno dette un po’ — rispose LuAnn. — E prima di accettare voglio solo sapere se è tutto legale, giusto? Devo comprare dei vestiti più belli di questi e magari anche una macchina. E non voglio spendere tutti quei soldi per niente. — Hai ragione — grugnì Jarvis. — Cioè, noi affittiamo loro gli spazi, e va bene. Ma in effetti questo non vuol dire che siano regolari. — Divenne nuovamente apprensivo. — Non è che hanno voluto che tu gli dessi dei soldi, eh? — No. Anzi, parlavano di darmi uno stipendio pazzesco. — Mi sembra troppo bello per essere vero. — Anche a me — aggiunse con ammirazione LuAnn osservando le dita di Jarvis volare sulla tastiera. — Dov’è che hai imparato ad andare così in fretta? — Vuoi dire con questi tasti? Al college municipale. Hanno corsi che ti insegnano a fare un sacco di cose. I computer sono una vera figata. — Non mi dispiacerebbe tornare a scuola anch’io, un giorno. — Tu andavi benissimo a scuola, LuAnn. Scommetto che potresti riprendere alla grande. — Vedremo — disse lei facendogli gli occhi dolci. — Adesso che cos’hai per me? — Il nome della società è “Associates, Inc.”. — Jarvis riportò la sua attenzione sul monitor. — O, perlomeno, questo è quello che hanno scritto sul contratto. Hanno preso lo spazio in affitto per una settimana, a partire per l’appunto da ieri. Pagamento in contanti. Nessun altro indirizzo. E quando pagano in contanti… — A voi non frega più di tanto. Jarvis evitò lo sguardo di lei. — Adesso comunque loro non ci sono più, nell’ufficio — aggiunse LuAnn. — Un tale di nome Jackson ha firmato il contratto — disse Jarvis. — Alto come me, capelli scuri, un po’ grasso? — Esatto. Adesso me lo ricordo. Mi è parso un tipo molto professionale. LuAnn, non è che ti è successo qualcosa di strano quando lo hai incontrato? — Dipende da quello che vuoi dire con Jarvis fissò nuovamente lo schermo, alla ricerca di qualche nuova informazione con la quale fare colpo su di lei. Non la trovò. Alla fine la sua espressione si chiuse nel disappunto. — Mi dispiace, LuAnn. Temo che non ci sia altro. LuAnn prese in braccio Lisa. Nel farlo, il suo sguardo cadde su una pila di blocchi per appunti e una tazza piena di penne. — Johnny, ti spiace se prendo uno di quelli? Ti posso dare qualcosa… — Vuoi scherzare? Prendi pure tutto quello che vuoi. — Solo un blocco e una penna — precisò lei nel metterli nella borsa. — Figurati. Ne abbiamo a tonnellate. — Bene, Johnny. E grazie per quello che mi hai detto. Sul serio. Mi ha fatto piacere rivederti. — Il piacere lo hai fatto tu a me quando sei entrata da quella porta. — Jarvis diede un’occhiata all’orologio e uscì dal bancone. — Senti, ho l’intervallo del pranzo tra una decina di minuti e c’è questo ristorante cinese niente male qui dabbasso. Sei mia ospite. Facciamo altre due chiacchiere, parliamo dei tempi della scuola. Che ne dici? — Magari un’altra volta, Johnny. Come ti ho detto, oggi vado di fretta. LuAnn si sentì un poco in colpa nel vedergli la delusione sul viso. Posò Lisa sul bancone e lo abbracciò. Sorrise nel percepire il respiro di lui nei propri capelli lavati di fresco. Jarvis la strinse intorno alla vita, i seni di lei che premevano contro il suo torace. Bastò e avanzò per rimettere il signor Johnny Jarvis di ottimo umore. — Sono davvero contenta di vederti sistemato così bene, Johnny — disse LuAnn sciogliendo l’abbraccio. — Ma lo sapevo. Sei uno in gamba. E se le loro strade si fossero incrociate in un tempo diverso, in un modo diverso, forse anche tutto il resto sarebbe stato diverso. Ma questo LuAnn lo tenne per sé. — Davvero lo pensi? — Jarvis continuava a fluttuare sulle nuvole. — E io che credevo che nemmeno ti ricordassi di me. — Invece io sono così: tutta una sorpresa! — LuAnn riprese Lisa, che strofinò l’orsetto di peluche sulla guancia della madre. — Stammi bene, Johnny. Ci vediamo, okay? LuAnn si diresse alla porta, con Lisa che dal suo seggiolino trillava tutta la sua felicità per essersi rimessa in movimento. — Ehi, LuAnn? Lei si girò a metà. — Lo accetterai quel lavoro del colloquio con Jackson? — Ancora non lo so — rispose LuAnn dopo averci pensato un attimo. — Ma se lo accetto, credo che ne sentirai parlare. A Rikersville c’era una biblioteca pubblica. LuAnn la frequentava spesso ai tempi della scuola, ma erano trascorsi parecchi anni dall’ultima volta che c’era stata. La bibliotecaria, una donna affabile, le fece i complimenti per la bambina. Lisa si teneva stretta alla mamma, i grandi occhi attratti dai colori dei volumi sugli scaffali. — A Lisa piacciono i libri — disse LuAnn facendo una lieve carezza alla piccola. — Tutti i giorni gliene leggo un po’. — Ha i tuoi occhi, lo sai? Lo sguardo della bibliotecaria continuava a spostarsi dalla madre alla figlia, alla ricerca di altre rassomiglianze. Incontrò la mano sinistra di LuAnn e notò l’anulare privo di fede matrimoniale. Il suo sorriso svanì. — Questa piccolina è la cosa più bella che ho mai fatto — disse prontamente LuAnn notando l’espressione tesa della donna. — Non ho granché al mondo, ma se c’è una cosa che a Lisa non mancherà mai, è l’amore della sua mamma. — Anche mia figlia ha un bambino — accennò la bibliotecaria sorridendo in modo incerto. — Cerco di aiutarla come posso, ma è sempre tutto così difficile… Con i soldi che non bastano mai. — Eh, a chi lo dici. — LuAnn tolse dalla borsa il biberon e una bottiglia d’acqua. Sciolse un po’ di liofilizzati che le aveva dato l’amica dalla quale aveva passato la notte e aiutò Lisa a tenere il biberon. — La settimana che riuscirò a finire con più soldi di quando l’ho iniziata, nevicherà rosso a Rikersville. La bibliotecaria scosse il capo in segno di approvazione. — Dicono che i soldi sono la causa di tutti i mali. Ma certe volte penso che sarebbe proprio bello non doversi sempre preoccupare di come fare a pagare i conti. Io non riesco nemmeno a immaginare come ci si possa sentire. Tu ci riesci? — Altroché. Ci si deve sentire proprio bene. La bibliotecaria rise. — Che cosa posso fare per te, LuAnn? — Ce le hai le copie dei giornali vecchi su quelle specie di pellicole, giusto? — Pellicole… Vuoi dire microfilm? — Ecco, giusto: microfilm. La bibliotecaria fece un cenno. — La stanza in fondo. LuAnn ebbe un’esitazione. — Hai mai usato un visore? — domandò la bibliotecaria aggirando il banco. — Te lo mostro io. Non è difficile. L’archivio dei microfilm era vuoto e immerso nell’oscurità. La bibliotecaria accese la luce, fece accomodare LuAnn di fronte a una postazione e prelevò un rullo di pellicola da un cassetto. Le bastò un momento per collocarlo sul perno e per attivare lo schermo luminoso. LuAnn la osservò con attenzione mentre faceva scorrere il testo usando la manopola su un lato della macchina. — Ecco fatto — disse infine la bibliotecaria rimuovendo il rullo. — Prova tu adesso. LuAnn non commise errori. — Molto bene — commentò la bibliotecaria. — Vedo che impari in fretta. Al principio, tanta gente fa una gran confusione. — So come cavarmela quando c’è da usare le mani. — Le pubblicazioni archiviate sono catalogate con chiarezza. Abbiamo il giornale locale, è ovvio, più alcuni giornali nazionali. Le date sono stampate sul davanti dei cassetti. — Grazie tante. LuAnn attese che la donna fosse uscita. Poi prese in braccio Lisa, sempre attaccata al suo biberon, e andò a scorrere le targhette sui cassetti. Mise la bambina a terra e ne aprì uno. Osservò con divertimento la piccola che lasciava cadere il biberon, afferrandosi poi a una delle maniglie metalliche nel cercare di mettersi in piedi. LuAnn individuò l’archivio di un giornale nazionale e selezionò i rulli degli ultimi sei mesi. Cambiò Lisa, le fece fare il ruttino, se la sistemò su un ginocchio e finalmente inserì il primo rullo nel visore. Non impiegò molto tempo per trovare il titolo a caratteri cubitali, risalente a sei mesi prima. LOTTERIA NAZIONALE DA FAVOLA VINCITA DA 45 MILIONI DI DOLLARI Una luce livida, accecante, avvampò dalle finestre alla sua destra, sbiadendo lo schermo. Seguì un boato terribile, e l’intera struttura della biblioteca parve scossa dalle fondamenta. L’immagine sul monitor vacillò, tremò, tornò a stabilizzarsi. La dura pioggia di un improvviso temporale di primavera prese a martellare i vetri. LuAnn lanciò uno sguardo preoccupato a Lisa. Nessun problema, la piccola stava tranquillamente ignorando luci e suoni. LuAnn prese dalla borsa la copertina, la stese per terra e vi depose Lisa, mettendole accanto alcuni giochi. Tornò a concentrarsi sul monitor e lesse l’articolo. L’estrazione della Lotteria Nazionale aveva luogo il quindici di ogni mese. Le date che LuAnn cercava erano quelle comprese tra il sedici e il venti. Tirò fuori il notes e la penna che aveva recuperato da Johnny Jarvis e cominciò a prendere appunti. Due ore più tardi aveva completato la sua analisi sugli ultimi sei vincitori. Riavvolse il rullo del microfilm e andò a riporlo nel cassetto dell’archivio. Tornò a sedersi e osservò le annotazioni. La testa le pulsava, gli occhi le bruciavano. Aveva una gran voglia di un caffè. Fuori, la pioggia continuava a cadere. Prese in braccio Lisa e rientrò nell’ambiente principale della biblioteca. Scelse alcuni libri per l’infanzia, li sfogliò soffermandosi sulle figure e infine le lesse una favola. Ben presto la piccola si addormentò. LuAnn mise Lisa nel seggiolino portatile e lo sistemò sul tavolo accanto a sé. La biblioteca continuava a essere quieta e calda. LuAnn stessa sentì le dita del torpore scivolare su di lei. Stese un braccio verso Lisa, tenendole protettivamente la mano sul ginocchio. Avrebbe atteso l’esaurirsi della pioggia, poi se ne sarebbe andata. — Stiamo per chiudere. LuAnn si svegliò con un sussulto. La bibliotecaria la stava osservando, con aria gentile. — Santo cielo… Ma che ora è? — Da poco passate le sei, cara. LuAnn raccolse in fretta le sue cose. — Scusa se mi sono addormentata così. — A me non davi nessun fastidio. Eravate così in pace, tu e tua figlia. Mi dispiace solo di dovervi far uscire. — Di nuovo grazie tante per tutto il tuo aiuto. — LuAnn alzò lo sguardo al soffitto, udendo ancora lo scroscio della pioggia. — Vorrei poterti offrire un passaggio a casa — disse la bibliotecaria. — Ma sono in autobus. — Non ci pensare. Io e l’autobus siamo amici. LuAnn riparò Lisa sotto la propria giacca e partì di corsa verso la fermata. Vi rimase mezz’ora, protetta dalla tettoia, finché un fruscio di pneumatici sull’asfalto bagnato e uno stridio di freni accompagnarono l’arrivo dell’autobus. A LuAnn mancavano dieci centesimi. L’autista, un nero ben piazzato che la conosceva di vista, li aggiunse di tasca propria e le fece cenno di salire. — Se non ci aiutiamo un po’ tra di noi… — aggiunse solidale. LuAnn lo ringraziò con un sorriso. Venti minuti dopo, con parecchie ore d’anticipo sull’inizio del suo turno, faceva ingresso al Number One Truck Stop. — Che ci fai da queste parti così presto? Beth, sulla cinquantina, matronale, stava pulendo il bancone di formica con uno straccio bagnato. Un camionista seduto a qualche sgabello di distanza, un bestione da centocinquanta chili, diede a LuAnn una bella lumata scrutandola da sopra l’orlo di una tazza di caffè. La vide fradicia da capo a piedi e ansimante per la corsa sotto la pioggia. Ma quello che vide gli piacque lo stesso. — È arrivata presto per non perdersi il vecchio Frankie — commentò con un ghigno sterminato. — Sapeva che ho cambiato turno di lavoro, e non poteva sopportare l’idea di non vedermi più. — Quanto hai ragione, buon vecchio Frankie — lo imbeccò Beth lavorandosi i molari con uno stuzzicadenti. — A LuAnn si spezzerebbe proprio il cuore a non vedere più il tuo panzone. — Come ti butta, Frankie? — lo salutò LuAnn. — Proprio bene… — Il suo ghigno sembrava cristallizzato. — — Beth, mi guardi Lisa un attimo? — domandò LuAnn mentre si passava un tovagliolo asciutto sulla faccia e sulle braccia. — Solo il tempo di mettere l’uniforme. Verificò che Lisa fosse asciutta, scoprendo che era anche affamata. — Le preparo un biberon in un momento. Si è fatta un bel pisolino, ma mi sembra pronta lo stesso per andare a nanna. — Guardarla? — Beth sollevò Lisa e se la tenne contro il petto. — Ma io te la prendo tutta in braccio questa bella signorina… Lisa emise ogni sorta di gridolini, prese la penna sistemata dietro l’orecchio di Beth e la buttò chissà dove. — Allora, LuAnn, com’è che arrivi in trincea con ore di anticipo? — Mi sono infradiciata tutta, e l’uniforme è la sola cosa asciutta che ho. E poi non mi va di aver perduto la notte scorsa. Ehi, c’è rimasto niente dal pranzo? Mi sa che mi sono scordata di mangiare. Beth le scoccò un’occhiata colma di disapprovazione e si piantò una mano sul fianco abbondante, con aria da zia super-protettiva. — Se solo prendessi per te la metà delle attenzioni che dedichi a questa creatura… Ma pensa te: sono quasi le otto di sera. A digiuno! — E dai, Beth. Te l’ho detto che mi sono dimenticata, no? — Duane, giusto? Lo scemo si è di nuovo bevuto in birra i soldi della paga. O no? — Tu quel figlio di puttana lo dovresti buttare dentro il cesso con l’acqua tirata, LuAnn — brontolò Erankie. — Ma prima lascia che gliela dia io una bella battuta con i controcazzi. Tu meriti di meglio. Il sopracciglio di Beth che s’inarcava evidenziò quanto lei fosse d’accordo con Erankie. — E tante grazie per volermi dire com’è che devo vivere la mia vita — disse LuAnn folgorandoli entrambi, e si accinse ad andare a cambiarsi. — E ora, con il Più tardi, seduta a un tavolo in un angolo, LuAnn spinse da parte il piatto con il poco che restava di quanto Beth le aveva messo insieme; rimase immobile a sorseggiare il caffè appena fatto. Fuori, la pioggia continuava a cadere sul paesaggio verde scuro della Georgia. Il suo tamburellare contro la copertura di alluminio del locale aveva un che di rassicurante. LuAnn si strinse nel golf leggero che teneva intorno alle spalle e lanciò uno sguardo all’orologio a muro dietro il bancone. Ancora due ore prima di montare. Di solito, quando arrivava al Number One in anticipo, l’idea era di raggranellare un po’ di straordinari. Ma adesso il direttore non ci stava più. Non era servito. Perlomeno, continuava a permetterle di tenere Lisa con sé. In caso contrario, LuAnn non avrebbe avuto nemmeno quell’infimo impiego. L’altro aspetto positivo era che veniva pagata in nero. E niente busta paga, niente tasse. Ci mancavano solo quelle… Tra l’altro, LuAnn Tyler non aveva mai presentato una denuncia dei redditi. Con l’intera vita trascorsa al di sotto della soglia della povertà, si riteneva pienamente in diritto di non dover pagare le tasse. LuAnn allungò una mano e rimboccò la coperta di lana intorno a Lisa, addormentata accanto a lei nel suo seggiolino. Le aveva dato un po’ del suo cibo. Lisa cominciava a tollerare davvero bene il nutrimento solido. Forse, però, non stava riposando nel modo giusto. Forse, il tenerla infilata sotto il bancone di quella tavola calda rumorosa, fumosa e puzzolente, le stava procurando chissà quali danni a venire. Forse la sua personalità ne avrebbe risentito. LuAnn era certa di aver letto qualcosa del genere su una rivista, o magari di averlo visto in TV. Era un’idea che le dava gli incubi. Ma c’era di più. Quando avrebbe dovuto nutrire Lisa con cibo solido con ritmi da adulto, ce ne sarebbe stato abbastanza? Sarebbe davvero riuscita a dare da mangiare a sua figlia? Senza macchina, sempre su e giù da quei dannati autobus, che cosa sarebbe accaduto se sua figlia si fosse ammalata? O se lei stessa si fosse ammalata? E se avesse perduto il lavoro? Che ne sarebbe stato di Lisa? LuAnn Tyler non aveva alcun tipo di sussidio di disoccupazione, né di assicurazione sanitaria. Per le visite e le vaccinazioni portava Lisa all’ospedale della contea. Per contro, lei non vedeva un medico da oltre dieci anni. D’accordo, era giovane e di buona salute, ma tutto poteva andare in pezzi nel tempo di uno schioccare di dita. Non si poteva mai sapere. Naturalmente c’era Duane Harvey. Il grande, generoso Duane Harvey che si prendeva cura della lista senza fine delle necessità quotidiane di Lisa. Certo! Alla sola remota prospettiva di cambiare un pannolino, quel povero idiota fradicio di birra sarebbe scappato urlando nei boschi. Le venne quasi da ridere. Ma non era proprio il caso. LuAnn studiò il ritmo del respiro di Lisa, che dormiva con la boccuccia semiaperta. Sentì come una mano di ghiaccio stringerle lo stomaco. Sua figlia dipendeva da lei per tutto. Letteralmente tutto. Ma la realtà era che LuAnn non aveva nulla. La realtà era che lei, giorno dopo giorno, si avvicinava sempre più al confine del nulla. E per il collasso finale era solo questione di tempo. Un Prima sua madre. Poi lei, LuAnn. Perfino Duane Harvey cominciava ad assomigliare a Benny Tyler, in Scosse il capo, come a voler scuotere via anche il carico di quei pensieri. Vedere le cose a quel modo, qui e ora, non le sarebbe stato di nessun aiuto. Frugò nella borsa e tirò fuori il notes con gli appunti ricavati dai microfilm. Appunti che davano molto da pensare. Sei vincitori della Lotteria Nazionale. LuAnn era partita da quelli dell’autunno scorso per risalire fino al presente. Aveva trascritto i loro nomi e le loro storie personali. Gli articoli sul giornale erano corredati delle loro foto scattate al momento della vincita. Sorrisi che sembravano brillare di luce propria. Judith Davis, trentasette anni, madre di tre figli ancora piccoli, sopravvivenza affidata agli assegni familiari. Herman Rudy, cinquantotto anni, ex camionista infortunatosi sul lavoro e strangolato da colossali spese mediche. Wanda Tripp, trentasei anni, vedova, disoccupata, esistenza grama appesa a quattrocento dollari al mese di sussidio di disoccupazione. Randy Stith, trentuno anni, vedovo da poco, padre di un bimbo in tenera età, operaio appena licenziato da una fabbrica. Bobbie Jo Reynolds, trentatré anni, cameriera a New York; dopo la vincita da Raymond Powell, l’ultimo vincitore in ordine di tempo, quarantaquattro anni, costretto da una bancarotta a vivere in un ospizio per senzatetto. LuAnn si rilassò contro lo schienale, come se fosse di colpo priva di forze. Perfetta, assolutamente perfetta per completare, o forse per continuare, quella pattuglia di gente disperata. Le sue ricerche erano arrivate solamente a sei mesi prima. Quanti altri ne esistevano? Come colpi giornalistici, erano formidabili: tutta gente alla canna del gas, che di colpo si ritrovava al settimo cielo. Vecchi proiettati in una nuova ricchezza. Bambini piccoli improvvisamente al cospetto di un radioso futuro. Sogni, tanti sogni, di colpo divenuti realtà. La faccia di Jackson, cosi calma, così controllata. La voce di Jackson. Così perfetta, così seducente. LuAnn aveva l’impressione di scivolare sempre più rapidamente giù da una diga senza fine. E acque profondissime, insondabili. Il fascino dell’ignoto. Qualcosa che nel contempo la spaventava e la attraeva. Guardò di nuovo Lisa. E di nuovo fu preda di un incubo ricorrente: una bambina che diventa donna, in una roulotte assediata da giovani lupi famelici. — Che succede, tesoro? Beth la stava osservando con materna simpatia, eseguendo un formidabile numero di equilibrismo con troppi piatti in bilico per due sole braccia. — Non molto. Davo solo un’occhiata alle mie fortune. Beth sogghignò lanciando uno sguardo al blocco per appunti. LuAnn si affrettò a richiuderlo. — E allora lascia che ti dica una cosa, signorina LuAnn Tyler. Quando alla fortuna grossa ci arriverai, non dimenticarti dei tuoi primi e soli amici di Rikersville, Georgia — e si rimise in movimento con le portate per i vari tavoli. — Puoi starne certa — disse LuAnn rivolgendole un sorriso incerto. — Te lo giuro. |
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