"Shadowman" - читать интересную книгу автора (Klavan Andrew)

PARTE PRIMA IL CASO DELLA VERGINE SPAGNOLA

1

Il giorno in cui Jim Bishop e la sua moto fecero il loro rombante ingresso nelle terre del Nord, c’erano più di 40 gradi. Era mezzogiorno e il sole picchiava senza pietà. Le sagome marrone delle montagne brulle si stagliavano su entrambi i lati della superstrada, il cui asfalto, all’orizzonte, pareva liquefatto dal calore.

Bishop diede gas, e l’Harley Road King toccò i centoventi all’ora, vibrando sotto di lui. Era un mezzo elegante, pensato per viaggi lunghi e confortevoli, ma Bishop era ormai distrutto. Sotto la giacca di pelle, la T-shirt grigia era nera di sudore; sotto il casco, i capelli erano fradici; gli occhiali, come il parabrezza, erano ricoperti di quelli che i motociclisti chiamano «proteina spray»: insetti spiaccicati.

Bishop lasciò la superstrada al termine della lunga vallata. Uscita per Driscoll, California, 67.000 abitanti, l’ultimo grande avamposto prima delle montagne e dei boschi.

L’Harley sembrò lamentarsi con il pilota che aveva ridotto l’andatura. Bishop procedette a settanta all’ora su una strada a quattro corsie, interamente occupate da un torrente di auto. Ai lati, una sequenza di stazioni di servizio e centri commerciali color sabbia, poi altri benzinai e motel, ancora motel e fast-food — Taco Bell, Burger King, McDonald’s —, quindi ancora stazioni di servizio, e centri commerciali dai mille negozi, con insegne dalle grandi lettere che ne urlavano i nomi. L’Harley deviò su un’altra strada, fece una svolta e poi un’altra, ma lo scenario non cambiò. Stazioni di servizio, hotel, ristoranti e centri commerciali. Dietro le lenti da aviatore, gli occhi chiari di Bishop cercavano il centro città. Poi capì: quello era il centro, non c’era altro. Driscoll non era altro che una cicatrice di cemento che si irradiava alla base delle montagne. Un punto di sosta per i turisti che stavano per inoltrarsi nella natura selvaggia.

La moto scoppiettò mentre passava su un ponte bianco, anch’esso intasato di vetture. Sotto, il fiume Sacramento rifletteva stancamente i raggi del sole. Più avanti, dopo una curva, il traffico diminuì. Bishop accelerò e cambiò corsia passando fra due macchine che tentavano di stringerlo; poi girò in Main Street che, anche se il suo nome significava «via principale», in realtà era semideserta. I centri commerciali e i grandi magazzini ne avevano risucchiato la vita. Rimanevano solo un buco con pretese di teatro, uno squallido locale chiamato Clover Leaf e un hotel del quale sarebbe stato difficile stabilire se fosse aperto o chiuso. Un uomo con un braccio solo e un cappello militare barcollava ubriaco sul marciapiede; un altro, con la barba ispida, era piantato su un angolo, con il cartello REDUCE. SENZA TETTO. AIUTATEMI. Bishop passò oltre con la sua potente motocicletta.

Si diresse verso la periferia. Nelle vie laterali, case di legno o lamiera, dai tetti spioventi, erano stipate su esigue chiazze verdi, dove donne grasse, in camicetta senza maniche, annaffiavano giardini stentati al suono delle risate dei loro figli, impegnati a giocare sotto i getti d’acqua.

Le risate si dissolsero in lontananza, insieme alla città. Ancora poche desolate abitazioni e poi i campi aperti, bruciati dalla calura, lucenti e distesi fino ai piedi delle alture. Lontano, quasi in una vagheggiata dimensione di sogno, le bianche pareti di dimore estive abbagliavano Driscoll dall’alto della loro posizione sopraelevata. Bishop aveva raggiunto il limitare della città, il confine con le foreste del Nord.

Svoltò in un viottolo sterrato e percorse l’ultimo mezzo chilometro che lo separava dal campo di aviazione.


Nell’hangar vi erano due uomini, entrambi in tuta. Nel vecchio, calvo e rugoso, si riconosceva una vecchia volpe; nel giovane, il sorriso ebete tradiva la scarsa intelligenza. Stavano parlando, appoggiati all’ala di un Piper Tomahawk. Chiacchieravano, ridacchiavano. Fu il più anziano dei due, mentre si puliva le mani con uno straccio, a vedere per primo l’uomo che avanzava verso la porta dell’hangar.

Bishop aveva lasciato il casco appeso al manubrio della Harley e si era tolto la giacca di pelle, gettandola sulla spalla. Attraversava l’area di parcheggio con studiata lentezza, e altrettanto lentamente esaminava il campo con gli occhi chiari, dietro le lenti da aviatore. All’epoca doveva avere trent’anni, mi pare. Non era molto alto — poco più di un metro e settanta — ma largo di spalle e muscoloso, come si vedeva dai bicipiti e dai pettorali scolpiti sotto la T-shirt intrisa di sudore. Dall’andatura sicura e tesa si intuivano la velocità e la potenza del suo fisico. Il viso era ovale, con lineamenti fini e capelli castano chiaro. E anche se aveva un’aria ironica, come se stesse ridendo di nascosto di una barzelletta che gli altri erano troppo stupidi per comprendere, non ingannò il vecchio, che era in giro da un pezzo e ne aveva incontrati altri, di tipi come lui. Sentì come un pugno nello stomaco e la saliva azzerarsi, quando lo vide avvicinarsi.

Bishop passò dal sole caldo dell’esterno all’ombra fresca dell’hangar. Giunto all’altezza del timone dell’aereo, si fermò.

«Chi di voi è Ray?» chiese.

«Sono io», rispose il vecchio. «Sono io Ray. Ray Gambling.»

«E io sono Frank Kennedy», ribatté Jim Bishop senza scomporsi. «Il vostro nuovo pilota.»