"Shadowman" - читать интересную книгу автора (Klavan Andrew)PROLOGOUccidere la ragazza valeva quarantanove punti. Per molti versi, si trattava del lavoro più facile che l’uomo chiamato Ben Fry avesse mai fatto. La vittima non costituiva un problema. Poteva essere chiunque: uomo, bambino… Una giovane donna era, in qualche modo, la soluzione che gli pareva più adeguata; ed era anche facile da scegliere. Imboccò la superstrada e raggiunse il grande magazzino Pennywise. Esplorò i corridoi per qualche minuto e la individuò nel reparto frutta e verdura. Giovane, attraente, piccolina, ben fatta. Indossava un tailleur e stava facendo la spesa per una persona sola. Esattamente il bersaglio che lui aveva in mente. La seguì fino a casa. Nei tre giorni successivi ne spiò ogni movimento. La pedinò sino alla galleria d’arte dove lavorava e rimase a osservarla attraverso la vetrina. La ragazza rimaneva per la maggior parte del giorno seduta alla scrivania in fondo alla stanza, in un punto ben visibile dalla strada. A volte veniva raggiunta da un’altra donna, più anziana; in alcune occasioni si alzava per accogliere dei visitatori; di tanto in tanto scompariva nel retro. Ma la scrivania era il posto dove passava la maggior parte del suo tempo, da sola. Quando la galleria chiudeva, alle sei, lei azionava il sistema d’allarme, abbassava la saracinesca e si recava in Market Street a prendere il tram che l’avrebbe portata a casa. La sera guardava la televisione e parlava molto al telefono, accoccolata vicino alla finestra. Non sembrava che uscisse spesso. Un pomeriggio, mentre lei era al lavoro, l’uomo chiamato Ben Fry s’intrufolò nel suo appartamento. Esaminò i suoi abiti, i documenti, i file sul computer e tutto il resto. Scoprì che si chiamava Penny Morgan, che aveva ventitré anni e che era fidanzata con un giovane di nome David Embry, studente di dottorato all’Università della California a Los Angeles. I genitori vivevano a San Mateo con la sorella minore. Penny scriveva loro molte e-mail, così come a David e a un discreto numero di amiche. L’uomo chiamato Ben Fry trovò questi messaggi molto affettuosi e pieni di calore. L’idea che si fece di Penny fu di una persona entusiasta e allegra: nelle foto presenti nell’appartamento appariva sempre sorridente, con gli occhi pieni di luce e soddisfazione. Pensò che gli ci sarebbero volute ancora due o tre settimane prima di essere pronto a ucciderla. Così, mentre Penny Morgan andava al lavoro alla galleria d’arte, scriveva e-mail agli amici, trascorreva lunghe ore in amorevole conversazione telefonica con il fidanzato, l’uomo chiamato Ben Fry si preparava ad assassinarla. E lo faceva, come sua abitudine, con cura meticolosa. Si recò in aereo in cinque città diverse con cinque identità differenti. Si procurò parte del materiale in un posto, e il rimanente in altri luoghi. Usava sempre e solo i telefoni pubblici, raramente si serviva dei computer, e raramente si recava due volte dallo stesso fornitore. Non lasciava mai tracce. L’anonimato era la sua religione. Nessun essere vivente conosceva il suo vero nome. Un uomo qualunque, così normale da sembrare invisibile. Trentacinque anni, più o meno. Alto quasi un metro e ottanta. Comuni capelli castani, occhi castani, lineamenti poco marcati e poco interessanti; un corpo tozzo, un po’ curvo. Non appariva forte, ma aveva un torace ampio e braccia muscolose, ed era più veloce di un serpente a sonagli, quando voleva. Non sembrava neanche intelligente, ma lo era; era di una scaltrezza e di una capacità analitica quasi maniacali. Si dilettava a esaminare le situazioni nei minimi dettagli, calcolandone tutti gli imprevisti, valutandone le molteplici possibilità… gli sembrava che questo esercizio lo mantenesse sano di mente. Quando ebbe raccolto tutto il materiale necessario, tornò in città. Non aveva una casa, ma aveva affittato un monolocale di poche pretese nel Mission District. Lì, un sabato sera, sedette nudo sul bordo della branda. Sul tavolo al suo fianco aveva disposto diverse vaschette da laboratorio in acciaio. Contenevano aghi e siringhe immersi nel disinfettante. Il pavimento e i mobili erano ricoperti di plastica, per evitare macchie di sangue. Indossò un paio di guanti chirurgici e prese una siringa da una delle vaschette; conteneva una dose di lidocaina. Infilò l’ago sottilissimo sotto la pelle rasata dell’interno coscia, in un punto morbido appena sotto i testicoli. Premette lo stantuffo lentamente, estraendo con cura l’ago in modo che l’anestetico penetrasse in tutti gli strati dell’epidermide. Ripeté l’operazione altre tre volte. Quando tutta la parte fu insensibile, prese da una vaschetta un altro strumento: un bisturi. L’uomo esitò per un istante, con la lama tra le dita. Chiuse gli occhi; immaginò una torre. Era un esercizio che praticava da anni. Tutte le volte che si sentiva stanco e i suoi pensieri lo distraevano dal lavoro e dai percorsi analitici, quando un’emozione lo turbava, immaginava la torre e vi saliva. Dall’alto, oltre il parapetto, lo sguardo spaziava su una pianura: là c’era il rosso tumulto della vita. Nudità violacee e lacrime d’argento, grida d’agonia e risate impietose. Ma lassù lui rimaneva impassibile, immune, lontano da tutto. Sulla torre, ritornava a essere se stesso. Era una buona tecnica. Aveva sempre funzionato. Sempre, tranne una volta. Salì quindi sulla torre e inspirò una boccata d’aria. Aprì gli occhi e premette il bisturi sulla pelle anestetizzata della coscia, lacerandola. Si lasciò sfuggire un verso gutturale. L’incisione non era più lunga di tre centimetri, ma nonostante la lidocaina il dolore era insopportabile, i nervi erano in fiamme. Estrasse la lama. Passò qualche istante, poi il sangue iniziò a uscire a fiotti, colando lungo l’interno della coscia. Con gli occhi fissi sulla ferita, il respiro accelerato, l’uomo chiamato Ben Fry lasciò cadere il bisturi dalle dita tremanti e ne sentì il tonfo sordo sul telo di plastica. All’esterno echeggiò un clacson. La pioggia notturna picchiava sui vetri. Respirando affannosamente, l’uomo chiamato Ben Fry proseguì l’operazione. Da un’altra vaschetta prese una capsula poco più grande della nocca del suo pollice, di un materiale morbido e gelatinoso, simile a quello delle lenti a contatto. Ma in questo caso era rigido e spigoloso alle estremità, come se avessero scordato di smussare una parte in eccesso. Metà della capsula conteneva una sostanza rossa, l’altra metà una sostanza azzurra. L’aveva fatta preparare in una città e aveva acquistato il contenuto in altre due. L’inserimento della capsula nel corpo fu anche più doloroso dell’incisione. A un certo punto, mentre la premeva a fondo nel tessuto adiposo, l’agonia sembrò avere il sopravvento. Gli occhi si velarono, e quasi perse i sensi. Emise un altro gemito sordo, pensò alla torre, vide il dolore scarlatto dalla torre fredda, azzurra, lontana. L’operazione era conclusa. Avvertì una sorta di risucchio mentre estraeva il dito dalla ferita umida. La capsula era inserita. Prima di ricucirsi, fu costretto ad attendere che le mani smettessero di tremare. Quando ebbe finito afferrò, con una velocità quasi frenetica, l’ultima siringa, quella con la morfina. Qualche istante dopo era sdraiato su un fianco, accoccolato come un bambino, le mani sotto la guancia. Dormì a lungo. Tutti i suoi sogni furono incubi. Trascorsa una settimana, tolse i punti; la cicatrice era pulita e i peli iniziavano a ricrescere. Passò un’altra settimana, ma la cicatrice era ancora troppo rossa ed evidente. Aspettò una settimana ancora, prendendo gli antibiotici per evitare un’infezione. Marzo finì, aprile iniziò, e l’uomo chiamato Ben Fry tornò all’appartamento di Penny Morgan. Vi giunse la sera di un lunedì, poco dopo le sei. Sapeva che la ragazza sarebbe rientrata di lì a una mezz’ora. Seduto vicino alla finestra, l’avrebbe vista arrivare, assicurandosi così che fosse sola. Si sarebbe quindi spostato in cucina, in modo da non essere visto finché la ragazza non avesse chiuso la porta. L’uomo indossava una comoda tuta blu scuro, che gli lasciava libertà d’azione. La pistola era inserita nella cintura. Poteva estrarla in un attimo, e in un altro essere abbastanza vicino per sparare a Penny alla testa. Quando fosse caduta, le avrebbe sparato altre due volte, per sicurezza. Non aveva preso alcuna precauzione nell’acquisto dell’arma, una calibro 38 che un tizio gli aveva venduto estraendola dal bagagliaio di un’auto. Non aveva il silenziatore: la detonazione sarebbe stata fragorosa e sicuramente qualche vicino avrebbe sentito. E sicuramente, in una zona così rispettabile, avrebbe chiamato la polizia. Proprio quello che l’uomo chiamato Ben Fry voleva. Nessuna caccia, nessuna lunga e logorante indagine. L’avrebbero arrestato a un isolato o due dalla scena del delitto. Mentre aspettava l’arrivo di Penny, mise a soqquadro l’appartamento. Vuotò i cassetti, strappò la biancheria dal letto, gettò i libri degli scaffali a terra. Trovò alcuni oggetti d’oro, una collana di perle; anche del denaro, circa quaranta dollari. Inserì tutto in un sacchetto di plastica che aveva con sé, poi lo infilò nella tasca dei pantaloni. Venne così il momento di tornare alla finestra. Si sedette nelle stesso punto occupato da Penny quando telefonava al fidanzato. Le tendine lo nascondevano, ma non gli impedivano di vedere all’esterno. Scrutò i passanti, tre piani più in basso: Penny non c’era. Era ancora troppo presto. Con un sospiro si predispose all’attesa, senza staccare gli occhi dalla strada. Solo una volta il suo sguardo si spostò sulle istantanee incorniciate: Penny che rideva abbracciata a David, Penny con il golden retriever della sorella, Penny con i genitori, la sorella, il cane, sorridenti davanti all’albero di Natale. L’uomo chiamato Ben Fry distolse gli occhi, li riportò sulla strada. Automaticamente, cominciò a pensare alle fasi successive dell’operazione, una per una, per controllarle. Si tranquillizzò. E finalmente, eccola. Erano le 18.27 e Penny Morgan stava arrivando a piedi, salendo dalla fermata del tram verso casa. Aveva con sé la grande borsa che usava come portadocumenti. Il tessuto bianco delle tendine filtrava la sua immagine, rendendola sfocata, ma l’uomo chiamato Ben Fry la vedeva ugualmente e rimase lì seduto a guardare la ragazza finché lei non entrò nell’edificio. Allora si alzò e si mise ad attenderla sulla soglia della cucina, esattamente come aveva previsto. Penny Morgan si fermò nell’atrio a ritirare la posta, sfogliandola mentre saliva le scale. Era stanca e un po’ giù di morale; aveva cominciato a pensare che lavorare in una galleria d’arte non fosse così eccitante come aveva sperato. Sospirò. Nella posta, solo fatture e volantini. Li stipò nella tasca esterna della borsa e armeggiando un po’ estrasse le chiavi. Aveva raggiunto il pianerottolo del terzo piano. Percorse il corridoio fino alla sua porta e aprì le tre serrature: il chiavistello, la serratura di sicurezza e la sbarra orizzontale. Pensò che avrebbe chiamato David prima di cena e si ripromise di non lamentarsi o lasciarsi prendere dall’irritazione; aveva solo bisogno di sentire la sua voce per risollevare il morale. Non le piaceva restare sola a casa la sera; avrebbe voluto che David finisse in fretta gli studi, così avrebbero potuto sposarsi e iniziare la loro vita insieme. Aprì l’uscio con una spinta. Era quasi Pasqua, pensò. Fra poche settimane David sarebbe venuto a casa per le vacanze; sarebbero stati insieme quasi un mese intero. A quel pensiero fece un piccolo sorriso, mentre entrava nell’appartamento. |
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