"Il biglietto vincente" - читать интересную книгу автора (Baldacci David)

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Il vento freddo, ostile, prendeva d’infilata la stretta strada sterrata, facendo frusciare gli alberi scuri su entrambi i lati. Dopo aver curvato improvvisamente verso nord, la strada scendeva a est in modo altrettanto brusco. Altri alberi si addensavano sulla sommità del dosso, alcuni ridotti a sculture deformi dagli elementi e dalle malattie. Eppure, per la maggior parte si ostinavano a restare eretti come totem dalle poderose radici e dalle folte chiome. C’era una specie di radura in fondo alla discesa: un semicerchio di terreno fangoso disseminato da frastagliate zone erbose.

Poteva essere un’immagine in qualche modo arcadica, ma mucchi di spazzatura, una montagnola di lattine vuote di birra scolorite dalle intemperie, blocchi di motore arrugginiti e relitti di mobilia varia intristivano lo scenario con il più efficace degli effetti. E poi tanti altri residui, detriti e rottami irriconoscibili che d’inverno, sepolti sotto la neve, apparivano come strane gibbosità generate da chissà quale arte figurativa priva di contorni definiti. D’estate, martellati dal sole incandescente, diventavano ricettacoli per roditori, rettili e insetti.

La solitaria roulotte giaceva al centro della radura, assediata da tutti quei rifiuti. Era una vecchia Airstream d’alluminio sbiadito, fessurato. Paralizzata crisalide metallica priva di ruote, con i mozzi direttamente appoggiati su pile di mattoni di cemento in progressiva disgregazione. Uniche connessioni con il mondo esterno, il cavo elettrico e quello telefonico, diramati dal filare di pali di legno annerito che correva lungo la strada sterrata. La roulotte pareva una piaga rimasta aperta là, nel mezzo del nulla.

E i suoi occupanti sapevano tutto quello che c’era da sapere sul nulla.

All’interno della roulotte, LuAnn Tyler incontrò la propria immagine riflessa nel piccolo specchio appoggiato obliquo sul ripiano della cassettiera. Per riuscirci, era costretta a inclinare goffamente la testa perché la malconcia cassettiera era zoppa, e lo specchio incrinato. Irregolari linee di frattura ne solcavano la superficie, simili a zampe di ragno. Se in quell’avanzo di specchio LuAnn Tyler avesse guardato dritto, avrebbe visto tre immagini di sé, tutte e tre deviate e incomplete.

Non sorrise. Nemmeno riuscì a ricordare se mai fosse esistita una circostanza nella quale aveva sorriso esaminando ciò che appariva nello specchio. Eppure era l’unica risorsa su cui poteva contare, come le era stata inculcato fino dall’infanzia, per quanto indietro riuscisse ad andare con la memoria. Certo, ai suoi denti non avrebbe nociuto qualche lavoretto di restauro, ma questo era il prezzo da pagare per una certa trascuratezza e per non aver mai messo piede in uno studio dentistico.

In fondo, c’è sempre un prezzo da pagare per qualsiasi cosa.

Specialmente per la mancanza di cervello. Benjamin Benny Tyler, suo padre, aveva sempre battuto su quel chiodo. Ma era poi l’intelligenza a cui lui si riferiva, o l’assenza di opportunità in cui farne uso? LuAnn non aveva mai approfondito la questione. Non aveva importanza. Le brave bambine devono prendere per oro colato tutto quello che dice il loro paparino. Benny aveva tirato le cuoia da oltre cinque anni, per cirrosi epatica. Anche la madre di LuAnn, Joy, se ne era andata da tre anni ormai, e quel paio di annetti dopo la morte del marito erano stati i più felici della sua vita. Una realtà che doveva aver fatto rivoltare Benny Tyler nella tomba.

C’era una vecchia sveglia sulla cassettiera, la sola cosa che a LuAnn rimaneva di sua madre. Era una specie di reliquia di famiglia, passata di generazione in generazione dalla nonna alla madre di LuAnn e infine a LuAnn. Quella sveglia non aveva alcun valore economico. Era qualcosa che si poteva comprare in qualsiasi banco dei pegni per meno di dieci dollari. Il suo valore era puramente sentimentale. Da bambina, LuAnn aveva ascoltato fino a notte fonda il lento e ritmico ticchettio della vecchia sveglia, come una guida che, attraverso l’enorme oceano di tenebre, fedele e rassicurante l’avrebbe salutata al suo risveglio. Crescendo, LuAnn aveva avuto in quella vecchia sveglia uno dei suoi punti di riferimento, uno dei pochi. Ma c’era un aspetto che aveva finito con il prevalere sul resto: quell’orologio costituiva l’ultimo concreto legame con la sua adorata nonna. Con il trascorrere del tempo il bilanciere e il movimento si erano erosi, cosicché la sveglia ora produceva un suono del tutto particolare. Un suono che aveva accompagnato LuAnn in molti, troppi periodi oscuri. Sul letto di morte sua madre le aveva dato la sveglia chiedendole di tenerla da conto, di non permettere che andasse perduta, quasi fosse un diadema di pietre rare da tramandare di generazione in generazione. LuAnn lo aveva fatto. E quando il momento fosse arrivato anche per lei, l’avrebbe passata a sua figlia.

LuAnn raccolse in una crocchia i capelli folti, neri come le piume di un corvo. Ma non andava. Allora li attorcigliò con destrezza in un’unica, spessa treccia. No, nemmeno quella andava. Risolse infine di raggrupparli sulla sommità del capo, fermandoli con una serie di forcine, inclinando il volto da un lato e dall’altro per verificarne l’effetto nello specchio incrinato. Dall’alto del suo metro e settantacinque di statura, fu costretta a piegarsi per potersi osservare.

Il suo sguardo continuava a spostarsi sul piccolo fagotto sistemato sulla sedia accanto. LuAnn sorrise nell’ammirare gli occhi grandi, la bocca incurvata, le gote paffute e accese, i pugnetti contratti. Lisa Marie. Sua figlia. Otto mesi di vita e in piena crescita. Lisa aveva già cominciato ad andarsene in giro gattonando, il corpo che si muoveva seguendo le dinamiche incerte e curiose della primissima infanzia. Ben presto, i primi passi le avrebbero cancellate.

Il sorriso di LuAnn scomparve nel guardarsi intorno. Lisa non avrebbe impiegato molto a esplorare ogni angolo del microcosmo fatiscente che era la Airstream. L’interno era una versione pressoché speculare dell’esterno. LuAnn aveva strenuamente tentato di evitare che accadesse, ma non ce l’aveva fatta. Contro le improvvise e brutali eruzioni dell’uomo in quel momento sbracato sul letto era stata una guerra perduta prima ancora che avesse inizio.

L’ultima sconfitta risaliva alla notte appena trascorsa. Duane Harvey che rientra barcollando alle quattro del mattino, come sempre ubriaco fradicio. Duane Harvey che in qualche modo si trascina fuori dai propri abiti intrisi di sudore etilico. Duane Harvey che crolla sul letto sfatto dopo averli sbattuti via come stracci.

LuAnn sapeva che era esistita una notte, un’unica notte, in cui Duane Harvey non era rientrato ubriaco marcio, e quell’unica notte aveva generato Lisa. Per un brevissimo momento, alcune lacrime scintillarono negli occhi blu profondo di LuAnn. Scintillarono soltanto. LuAnn Tyler aveva ormai cessato di perdere tempo con le lacrime, specialmente con le proprie. All’età di vent’anni, pensava di aver già pianto abbastanza lacrime da bastarle per il resto della vita.

Tornò a guardarsi nello specchio incrinato. Estrasse le forcine con la mano destra, una dopo l’altra, lasciando che Lisa giocasse con la sinistra. I capelli ricaddero all’indietro, e una frangia sbarazzina le scese spontaneamente sulla fronte, fino alle sopracciglia. Era il medesimo stile che l’aveva accompagnata durante gli anni delle medie, epoca nella quale lei e tanti suoi compagni di classe avevano fatto la scelta decisiva di mollare la scuola e di mettersi a lavorare. L’idea di fondo era che la paga settimanale batteva di gran lunga la scocciatura degli obblighi scolastici. Nel tempo, si era rivelata una scelta sbagliata. Ma per LuAnn, era stata l’unica comunque praticabile. Metà di quello che guadagnava era andata per mantenere i suoi genitori, cronicamente disoccupati. L’altra metà per pagare ciò che i suoi genitori non erano in grado di darle: cibo, vestiti, e altre inezie del genere.

LuAnn si tolse l’accappatoio sdrucito scoprendo il proprio corpo, sempre tenendo d’occhio la forma immobile di Duane. Ci mancava anche che si svegliasse e che gli venissero certe idee. Rapidamente infilò le mutandine. Negli anni dell’adolescenza, per i ragazzi del posto la sua figura prorompente era stata una sollecitazione irresistibile. Qualcosa che aveva prodotto testosterone ben prima che l’ordine naturale delle cose consentisse il loro ingresso ufficiale nel mondo della virilità. LuAnn Tyler: apprendista stellina del cinema.

Molti degli abitanti di Rikersville, Georgia, avevano considerato a lungo il brillante futuro che la aspettava. Benedetta ragazza. Non era fatta per languire lì, in quel buco dimenticato da tutti e da tutto, bastava un’occhiata per capirlo. Questo avevano sentenziato le rugose e sformate donne di Rikersville, sedute sotto i loro porticati in rovina. Quella sua bellezza naturale e radiosa sarebbe approdata ben lontano da Rikersville. New York, dicevano le donne sformate. O addirittura Los Angeles. Anzi, Hollywood. Ma certo. Qualcuno, chiunque fosse mai quel qualcuno, avrebbe sicuramente finito con l’accorgersi della loro LuAnn. Era solamente una questione di tempo. Ma quel tempo non era mai arrivato.

LuAnn Tyler non era mai andata né a New York, né a Los Angeles, né da nessun’altra parte. Era ancora a Rikersville, il medesimo buco nel quale era nata e nel quale aveva trascorso tutta la sua esistenza. Non aveva mai avuto la possibilità di fare ciò che avrebbe voluto. Così, visto che nessuno era apparso a reclamarla per altri orizzonti, lei ora sentiva di essere stata una specie di sotterranea delusione per le donne sformate. E anche per tutti gli altri. Ma né le donne sformate né tutti gli altri sapevano che lei non era mai stata interessata a giacere nuda accanto all’ultimissimo supermacho tutto muscoli e ormoni appena sfornato da Hollywood. E neppure era mai stata interessata a sculettare sulla passerella di una sfilata di alta moda. Di tutto ciò non le era mai importato niente. LuAnn infilò il reggiseno, continuando a studiare la propria immagine nello specchio incrinato. Diecimila o ventimila dollari al giorno solamente per indossare roba simile e farsi vedere sotto i riflettori. In effetti, come opportunità non era male.

Il suo volto. E il suo corpo. Qualcosa su cui Benny Tyler aveva spesso fatto commenti. Sensuale, diceva, dalle forme piene. E ne parlava come se fossero aspetti completamente avulsi da lei: un’oca con un corpo da favola. Grazie al cielo, le attenzioni di paparino non si erano mai spinte al di là di quelle considerazioni verbali. Parecchie volte, con gli occhi spalancati nel cuore della notte, a LuAnn era capitato di domandarsi perché Benny Tyler non ci avesse mai provato. Forse per mancanza di coraggio? Oppure gli era mancata l’occasione giusta? LuAnn non aveva trovato una risposta. Eppure quella domanda maledetta continuava a contorcersi dentro di lei, simile a un uncino intento a scavare nelle regioni più profonde e più oscure del suo subconscio. Ma Benny Tyler era morto e sepolto. A che scopo fare un processo alle intenzioni di un morto?

LuAnn esaminò il contenuto del piccolo armadio della Airstream. Possedeva un unico vestito in qualche modo adatto all’occasione di quel giorno. Blu scuro a manica corta, con il collo bordato di bianco. LuAnn ricordava ancora il giorno in cui lo aveva comprato. Era stato due anni prima. Tutto il suo stipendio della settimana andato in fumo: sessantacinque dollari. Non aveva mai più ripetuto quella follia, anzi quello era stato l’ultimo vestito che si era comprata. Con il tempo la stoffa si era consumata sui bordi, cosi LuAnn, armata di ago e filo, aveva compiuto ottimi lavori di restauro. E così aveva fatto con il suo unico paio di scarpe con il tacco alto. Era rimasta alzata fino a tardi, a scurire con la matita copiativa i punti nei quali il cuoio si era spellato. Tra l’altro erano scarpe marroni, che con il vestito blu non c’entravano niente, ma non aveva scelta. A meno che non avesse ripiegato su ciabatte di gomma o scarpe di tela. E per l’occasione di oggi, ne le une né le altre potevano andar bene. LuAnn avrebbe messo sì le scarpe di tela, ma solo per farsi a piedi i due chilometri di strada sterrata fino alla fermata dell’autobus sulla statale.

Un singolo filo di perle, ovviamente finte, regalo di compleanno da parte di un vecchio ammiratore, venne allacciato a circondare il collo scultoreo. Eorse c’era una possibilità che quell’appuntamento rappresentasse una svolta. Impossibile esserne certi. Ma la speranza che in qualche modo lei e Lisa potessero lasciarsi alle spalle i troppi Duane del mondo pulsava senza sosta nella sua mente.

LuAnn trasse un respiro profondo. Aprì la cerniera lampo di una delle tasche della borsetta, ne estrasse un foglietto di carta piegato.

Jackson.

Solamente Jackson. Più un orario e l’indirizzo di un ufficio al centro commerciale di Rikersville.

La telefonata del signor Jackson era arrivata alla mattina presto. LuAnn era appena rientrata dal micidiale turno da mezzanotte alle sette alla Number One Truck Stop, la tavola calda per camionisti presso la stazione di servizio dell’interstatale. Quando il telefono aveva squillato, lei per poco non aveva rinunciato a tirare su il ricevitore. Era seduta sul pavimento della cucina della Airstream, le palpebre serrate, le piccole labbra di Lisa premute su uno dei suoi capezzoli. E non solo le labbra. Lisa stava cominciando a mettere i primi dentini e a LuAnn pareva che non potesse esistere tortura peggiore. Nessuna scelta nemmeno qui: il latte in polvere era troppo costoso, e nella roulotte non c’era altro latte.

Il telefono squillava, ma LuAnn non aveva questa grande voglia di rispondere. Si sentiva a pezzi. Facendo la cameriera al Number One, non si fermava mai un momento. Lisa, nel suo seggiolino imbottito, veniva sistemata sotto il bancone, e quando non dormiva giocava con una bottiglia di plastica. Tutto questo era possibile perché fortunatamente LuAnn era simpatica al direttore, che le permetteva di portarsi dietro la bambina senza crearle noie.

Erano in pochi a telefonare alla roulotte, e quasi sempre si trattava dei buzzurri amici di Duane, i quali proponevano prima una bella bevuta e poi una spedizione sull’interstatale per fregare sedili e pneumatici dalle macchine finite in panne. Ma non poteva essere nessuno di quegli stronzi, troppo presto. Alle sette del mattino stavano ancora smaltendo il pieno di alcol della notte prima.

Dopo il terzo squillo LuAnn si era decisa a rispondere. La voce dell’uomo all’altro capo era asciutta, molto professionale. A causa dell’intontimento dovuto alla stanchezza e alla mancanza di sonno, LuAnn aveva avuto l’impressione che quell’uomo stesse leggendo un testo prestampato, cercando di venderle qualcosa. Che beffa fenomenale. Proprio a lei che non possedeva un conto in banca, non possedeva carte di credito, non possedeva niente a parte una manciata di banconote in una busta di plastica nascosta nel contenitore in cui buttava i pannolini sporchi di Lisa. Era l’unico posto nel quale Duane non avrebbe mai frugato.

Forza, genio delle sette del mattino, fa’ vedere quello che sai fare. Bibbie? Aspirapolvere? Enciclopedie? Imitazioni di Rolex? E che carta preferisci che usi? Visa? MasterCard? American Express? Le ho tutte, ma proprio tutte. Le vedo fluttuare nei miei sogni come veli di seta nella calda brezza dei tropici. Lascia che ti…

Sono interessato a una sua collaborazione professionale, signorina Tyler.

Non voleva venderle niente. Quello che voleva era offrirle un lavoro. Non aveva senso.

Chi le ha dato il mio numero?

Il suo numero è sull’elenco, signorina Tyler.

Davvero? LuAnn non se ne ricordava. Solo che quell’uomo aveva risposto con una tale prontezza e con una tale determinazione da rendere pressoché impossibile dubitare delle sue parole.

Ce l’ho già un lavoro.

Con quale salario?

LuAnn aveva aperto gli occhi cercando di schiarirsi la mente, Lisa sempre attaccata al seno. Che accidenti voleva sapere, questo tizio?

Signorina Tyler?

Eccolo ancora.

Vuole che le ripeta la domanda, signorina Tyler?

Calmo, distaccato, pratico.

Ventiquattro dollari alla giornata.

LuAnn non sapeva perché avesse risposto.

Mance escluse?

Con le mance.

Successivamente, avrebbe considerato quella sua risposta come una premonizione di qualcosa in arrivo.

Signorina Tyler, la mia offerta è cento dollari al giorno, massimo quattro ore quotidiane di lavoro. Due settimane come minimo garantito.

LuAnn ci aveva messo un attimo a fare i conti. Mille dollari secchi. Inoltre, l’offerta di quell’uomo non avrebbe intralciato in alcun modo la sua situazione al Number One. E mille dollari in due settimane, lavorando la metà del tempo, erano venticinquemila dollari l’anno. La somma reale era cinquantamila dollari l’anno. Non aveva mai conosciuto nessuno che si mettesse in tasca una tale somma. Medici, avvocati e attori, loro sì che guadagnavano tutti quei soldi. Non certo una ragazzina di vent’anni che nemmeno aveva finito le medie, attanagliata dalla povertà più bieca, con sulle spalle una figlia illegittima. E con nel letto di una roulotte fetida un soggetto di nome Duane Harvey.

— Dove diavolo vai?…

Duane si agitò tra le lenzuola sporche, quasi rispondendo a un richiamo silenzioso, strizzando gli occhi iniettati di sangue. La sua voce, satura dello strascicato accento del Sud, era impastata dall’alcol. A LuAnn parve di non aver mai udito altro in tutta la sua vita. Quella parlata gorgogliante, quelle parole vuote, vomitate da una serie senza fine di uomini altrettanto vuoti.

LuAnn prese una lattina abbandonata sopra la cassettiera, la sollevò come se fosse un giocattolo erotico.

— Che ne dici di un’altra birretta, tesoooo-ro?

Nel contempo inarcò le sopracciglia, offrendogli un sorriso obliquo. Le labbra piene arrotondate su ogni sillaba, su ogni sottintesa inflessione. Le labbra di un’incantatrice. La proposta scaturita da quella bocca sortì l’effetto desiderato. Duane emise un mugolio alla vista della sua divinità, il Signore onnipotente fatto di malto e di alluminio, poi crollò di nuovo fra le lenzuola. Duane Harvey era convinto di essere un poderoso maratoneta delle bevute. In realtà, quanto a reggere l’alcol, era peggio di un vecchietto arteriosclerotico. Altri trenta secondi, ed era nuovamente scivolato nel nulla etilico.

Anche il sorriso obliquo di LuAnn era scivolato nel nulla. I suoi occhi si spostarono sull’appunto dell’incontro al quale si stava preparando.

Il lavoro, signorina Tyler, consiste nel testare alcuni prodotti, ascoltare degli spot e fornire la sua opinione.

Cioè, tipo una ricerca…

Una ricerca di mercato, signorina Tyler.

Sì, appunto.

Ma credo sia più appropriato definirla un’analisi demografica.

Analisi demo… LuAnn aveva serrato le labbra. Non aveva la benché minima idea di che cosa significasse.

Ne conduciamo spesso, signorina Tyler. Ci sono utili per valutare costi pubblicitari, indici di ascolto televisivi. Cose del genere.

E lei vuole proprio la mia di opinione?

Esatto, signorina Tyler. E per assicurarci la sua collaborazione, la compenseremo con cento dollari al giorno.

Da non credere. Lei, la sua opinione, la distribuiva pressoché ogni momento. Solo che lo faceva gratis.

Un momento, un momento: era troppo bello per essere vero. Il dubbio continuava a roderle la mente. Da qualche parte doveva esserci un trucco, e lei non era poi così tonta come suo padre la dipingeva. Dietro quella disarmante avvenenza, ribollivano un’intelligenza e un senso pratico molto più acuti di quanto Benny Tyler avesse mai voluto credere. Una combinazione che le aveva consentito di navigare da sola attraverso anni di tempeste. Il problema era che nessuno era sembrato accorgersene. E non le restava che continuare a sognare un’esistenza in cui le sue tette, i suoi fianchi e le sue gambe non fossero le uniche cose che di lei la gente continuava a notare.

Lisa si era svegliata, e i suoi occhi frugavano la stanza. Si illuminarono quando si posarono sul viso di sua madre. LuAnn le sorrise. Se in quella telefonata ci fosse anche stato un trucco, poteva davvero essere peggiore della fogna nella quale lei e sua figlia stavano vivendo? LuAnn riusciva a mantenere un lavoro per un paio di mesi. Anche sei mesi, se era fortunata. Ma quella era una zona depressa, e alla fine il lavoro si esauriva. Le restava la vaga promessa di essere assunta di nuovo quando le cose avrebbero ripreso a funzionare, cosa che succedeva di rado.

Essendo priva del diploma di scuola media, LuAnn veniva invariabilmente etichettata come stupida. E nel suo ostinarsi a convivere con Duane, lei stessa aveva deciso che quell’etichetta non era poi così sballata. Ma Duane, sebbene rifiutasse di sposarla, rimaneva pur sempre il padre di sua figlia. Non che LuAnn fosse poi così impaziente di prendere il suo cognome, tantomeno di fare da balia per il resto dei suoi giorni a quell’idiota che rifiutava di crescere e di maturare. LuAnn stessa era cresciuta in una famiglia tutt’altro che solida, e per questo riteneva che un nucleo familiare integro fosse il presupposto irrinunciabile per il benessere di un figlio. Su quell’argomento aveva letto un sacco di articoli e aveva seguito ancor più trasmissioni televisive. A Rikersville, LuAnn era sempre la prima in fila all’ufficio di collocamento, ma non bastava: perfino per il più fetente dei lavori c’erano sempre non meno di venti candidati. Lisa avrebbe sicuramente avuto una vita molto migliore della sua. Era questa la missione che LuAnn si era scelta E i mille dollari di quel lavoro, o che accidenti fosse, potevano essere un buon punto di partenza. Abbastanza per comprare un biglietto d’autobus per un posto al di là dell’orizzonte. Abbastanza per mantenersi fino a quando non fosse riuscita a trovare un vero lavoro. Abbastanza da permettersi, per la prima volta in tanti anni, di fermarsi a tirare il fiato.

Rikersville stava morendo. E quella maledetta roulotte in rovina, circondata da altre rovine, era la tomba ancora scoperchiata di Duane Harvey. Lui non se ne sarebbe mai tirato fuori. Anzi, ci sarebbe ancor più sprofondato.

Può diventare anche la tua tomba, LuAnn Tyler.

No, non sarebbe accaduto. Non dopo quell’appuntamento. LuAnn ripiegò il fogliettino e lo mise nella borsetta. Da una piccola scatola in un cassetto prelevò gli spiccioli necessari per l’autobus. Finì di sistemarsi i capelli e di aggiustarsi il vestito. Infine prese Lisa e uscì piano piano dalla Airstream.

Si lasciò dietro la radura disseminata di rottami.

E Duane Harvey.