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Christopher Paolini ELDEST - L'EREDITÀ (2005)

Libro Secondo

Traduzione di Maria Concetta Scotto di Santillo

FABBRI

EDITORI

© 2005 Christopher Paolini per il testo © 2005 John Jude Palencar per l'illustrazione di copertina © 2002 Christopher Paolini per l'illustrazione dei risguardi

Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2005

da Alfred A. Knopf, un marchio di Random House Children's Books,

una divisione di Random House, Inc., New York,

e simultaneamente in Canada da Random House of Canada Limited, Toronto.

© RCS Libri S.p.A., Milano I edizione Narrativa Fabbri Editori ottobre 2005

ISBN 88-41-1356-6

Ancora una volta, dedico questo libro alla mia famiglia.

E ai miei incredibili fan.

Siete stati voi a rendere possibile questa avventura. Sé onr svedar sitja hvass!

Sinossi di Eragon Libro Primo dell'Eredità

Eragon, un ragazzo di quindici anni, resta di stucco quando vede comparire davanti a sé una pietra blu, liscia e rotonda, durante una battuta di caccia sull'impervia catena montuosa conosciuta come Grande Dorsale. Eragon prende la pietra e la porta con sé alla fattoria dove vive con suo zio Garrow e suo cugino Roran. Sono stati Garrow e la sua defunta moglie, Marian, ad allevare Eragon fin da piccolo; non si è mai saputo nulla dell'identità di suo padre, mentre la madre, Selena, sorella di Garrow, ha fatto perdere le sue tracce subito dopo aver dato alla luce Eragon.

In seguito, la pietra si frantuma e dal suo interno emerge un cucciolo di drago. È una femmina, e non appena Eragon la tocca, sul palmo della sua mano compare un luccicante marchio d'argento: fra i due si crea un inscindibile legame mentale che fa di Eragon uno dei leggendari Cavalieri dei Draghi.

L'ordine dei Cavalieri dei Draghi era stato fondato migliaia di anni prima al termine della grande guerra degli elfi contro i draghi, allo scopo di impedire ulteriori ostilità fra le due razze. I Cavalieri erano diventati garanti di pace e di giustizia, saggi maestri, guaritori, filosofi e potenti stregoni - era lo stesso vincolo con il drago che conferiva alla persona straordinarie capacità magiche. Sotto la loro egida, il paese aveva vissuto un'epoca d'oro.

Quando anche gli umani erano approdati in Alagaèsia, alcuni di loro erano stati accolti nell'ordine. Dopo molti anni di pace e prosperità, i mostruosi e bellicosi Urgali uccisero il drago di un giovane Cavaliere umano di nome Galbatorix. Reso folle dallo strazio della perdita e dal rifiuto degli anziani di concedergli un altro drago, Galbatorix elaborò un piano per distruggere i Cavalieri.

Rapì un altro drago - che chiamò Shruikan e rese proprio servitore usando oscuri sortilegi - e radunò intorno a sé un gruppo di tredici traditori: i Rinnegati. Con l'aiuto dei suoi crudeli discepoli, Galbatorix uccise tutti i Cavalieri, compreso il loro capo, Vrael, e si autoproclamò re di Alagaésia. Il suo successo tuttavia fu parziale, in quanto gli elfi e i nani riuscirono a restare autonomi rifugiandosi nei loro nascondigli segreti, mentre alcuni umani fondarono una nazione indipendente nel sud del paese, il Surda. Dopo ottant'anni di conflitti, scaturiti dalla caduta dei Cavalieri, si era creata una situazione di stallo tra le diverse fazioni che durava ormai da una ventina di anni.

In questa fragile situazione politica Eragon capisce di essere in pericolo mortale: tutti sanno, infatti, che Galbatorix non ha esitato a uccidere qualunque Cavaliere si fosse rifiutato di giurargli fedeltà. Decide così di non rivelare alla propria famiglia l'esistenza della dragonessa, che battezza Saphira dopo aver ascoltato il cantastorie del villaggio, Brom, che narrava di un drago con quel nome. Nel frattempo, Roran lascia la fattoria per accettare una proposta di lavoro che gli consentirà di guadagnare abbastanza denaro da chiedere la mano di Katrina, la figlia del macellaio. Saphira cresce, ed è già diventata ben più alta di Eragon, quando nel villaggio di Carvahall giungono due stranieri dall'aria minacciosa e il corpo deforme. Sono i Ra'zac, e vanno in cerca della pietra blu, ossia l'uovo di Saphira. Spaventata, la dragonessa rapisce Eragon e si rifugia in volo sulla Grande Dorsale. Eragon la persuade a tornare alla fattoria, ma solo per scoprire che la sua casa è stata distrutta dai Ra'zac: fra le macerie, Eragon trova Garrow ridotto in fin di vita per le torture subite.

Garrow muore nel giro di pochi giorni, ed Eragon giura solennemente di rintracciare i Ra'zac per ucciderli. Il giovane viene avvicinato da Brom, che sa tutto di Saphira e gli chiede se può accompagnarlo nel suo viaggio, senza però rivelare quale sia la ragione che lo spinge a partire con lui. Quando Eragon acconsente, Brom gli fa dono della spada chiamata Zar'roc, un tempo appartenuta a un Cavaliere, ma si rifiuta di dirgli dove l'ha presa.

Durante i lunghi spostamenti, Eragon impara da Brom molte cose, fra cui l'arte della scherma e l'uso della magia. Quando perdono le tracce dei Ra'zac, Brom suggerisce di recarsi a Teirm, una città dove vive un suo vecchio amico, Jeod, che potrebbe aiutarli a localizzare il loro covo.

A Teirm, l'eccentrica erborista Angela predice a Eragon il futuro: potenti forze si scontreranno per controllare il suo destino; avrà una storia d'amore con una donna di nobile stirpe; un giorno lascerà Alagaésia per non farvi mai più ritorno; e sarà tradito da un membro della sua stessa famiglia. Anche Solembum, il gatto mannaro che si accompagna all'erborista, pronuncia fatidiche parole di ammonimento. Infine, Eragon, Brom e Saphira partono alla volta di Dras-Leona, dove sperano di trovare i Ra'zac.

Brom rivela di essere un agente dei Varden - un gruppo di ribelli che lottano per la destituzione di Galbatorix - e di essersi nascosto nel villaggio di Eragon in attesa della comparsa di un nuovo Cavaliere dei Draghi. Brom spiega anche che, vent'anni prima, lui e Jeod avevano rubato a Galbatorix l'uovo di Saphira. In quel frangente, Brom aveva ucciso Morzan, il primo e l'ultimo dei Rinnegati. Restano soltanto due uova di drago, entrambe ancora nelle mani di Galbatorix. Nei pressi di Dras-Leona, i Ra'zac tendono loro un agguato, e Brom resta mortalmente ferito nel tentativo di proteggere Eragon. I Ra'zac vengono messi in fuga da un giovane misterioso di nome Murtagh, che sostiene di essere a sua volta sulle tracce di quelle creature. Brom muore durante la notte. Prima di esalare l'ultimo respiro, confessa di essere stato a suo tempo un Cavaliere, e che la sua dragonessa uccisa si chiamava Saphira. Eragon seppellisce Brom in una tomba di pietra arenaria, che Saphira trasforma in un sepolcro di diamante.

Senza più la guida e la compagnia di Brom, Eragon e Saphira decidono di unirsi ai Varden. Per un colpo di sfortuna, Eragon viene catturato nella città di Gil'ead, e portato al cospetto dello Spettro Durza, il braccio destro di Galbatorix. Con l'aiuto di Murtagh, Eragon scappa dalla cella in cui era stato rinchiuso, e nella fuga porta con sé il corpo privo di sensi dell'elfa Arya, anch'essa prigioniera.

Eragon e Murtagh diventano grandi amici.

L'elfa entra in contatto mentale con Eragon e gli racconta che da anni trasportava l'uovo di Saphira avanti e indietro fra gli elfi e i Varden, nella speranza che l'uovo si schiudesse davanti a uno dei loro fanciulli. Tuttavia, durante il suo ultimo viaggio, era caduta in un'imboscata di Durza e aveva fatto ricorso alla magia per inviare l'uovo da qualche altra parte. Ed era così giunto a lui, Eragon. Arya è gravemente ferita e ha bisogno delle cure mediche dei Varden. Usando immagini mentali, indica a Eragon la via per trovare i ribelli. La loro è un'epica fuga. Eragon e i suoi amici coprono all'incirca quattrocento miglia in otto giorni, inseguiti da un contingente di Urgali che li chiudono in trappola ai piedi dei torreggiatiti Monti Beor. Murtagh, che aveva già manifestato la sua riluttanza a raggiungere i Varden, si vede costretto a confessare a Eragon di essere il figlio di Morzan.

A dire il vero, Murtagh deplora i misfatti del padre e racconta di essere sfuggito al patrocinio di Galbatorix per seguire il proprio destino.

Mostra a Eragon una lunga cicatrice che gli deturpa la schiena, affermando che gli era stata inflitta dallo stesso Morzan, che gli aveva scagliato contro la propria spada, Zar'roc. Eragon viene così a sapere che la sua spada un tempo apparteneva al padre di Murtagh, che aveva tradito i Cavalieri per consegnarli nelle mani di Galbatorix, e che aveva ucciso tanti dei suoi excompagni.

Proprio mentre stanno per essere sopraffatti dagli Urgali, Eragon e i suoi amici vengono salvati dai Varden, che sembrano materializzarsi dalla roccia stessa. I ribelli si nascondono nel Farthen Dùr, una montagna cava alta dieci miglia, e altrettanto larga, dove si trova la capitale dei nani, Tronjheim. Una volta all'interno, Eragon viene condotto al cospetto di Ajihad, il capo dei Varden, mentre Murtagh viene imprigionato a causa dei suoi natali. Ajihad spiega molte cose a Eragon, e gli rivela che Varden, elfi e nani hanno stretto un accordo secondo cui, alla comparsa di un nuovo Cavaliere, il giovane o la giovane sarebbe stato istruito all'inizio da Brom, per poi essere mandato dagli elfi a completare l'addestramento. Eragon deve quindi scegliere se aderire all'accordo.

Eragon conosce il re dei nani, Rothgar, e la figlia di Ajihad, Nasuada; viene messo alla prova dai Gemelli, due perfidi stregoni calvi al servizio di Ajihad; si esercita nella scherma con Arya, dopo che l'elfa si è ripresa; e incontra di nuovo Angela e Solembum, che si sono uniti ai Varden. Eragon e Saphira impartiscono anche una benedizione a una piccola orfana dei Varden.

All'improvviso giunge la notizia che un esercito di Urgali si sta avvicinando attraverso le gallerie scavate nei monti dai nani. Nella battaglia che segue, Eragon viene separato da Saphira e si trova ad affrontare Durza da solo. Molto più forte di qualsiasi essere umano, in pochi istanti lo Spettro ha la meglio su Eragon, infliggendogli una profonda ferita che gli solca la schiena dalla spalla fino al fianco. Ma in quel momento, Saphira e Arya irrompono nella sala dall'alto mandando in frantumi il grande Zaffiro Stellato che copriva la volta - ed Eragon approfitta dell'attimo di distrazione di Durza per colpirlo dritto al cuore. Privati dei sortilegi dello Spettro, gli Urgali si disperdono e vengono ricacciati nei tunnel.

Nello stato d'incoscienza in cui versa dopo la battaglia, Eragon viene contattato per via telepatica da Togira Ikonoka, lo Storpio Che è Sano, che si offre di dare una risposta a tutte le sue domande. Eragon dovrà cercarlo a Ellesméra, dove vivono gli elfi.

Quando Eragon riprende i sensi, scopre che, malgrado tutti gli sforzi e le cure di Angela, gli è rimasta una terribile cicatrice, analoga a quella di

Murtagh. Sgomento, si rende conto di aver sconfitto Durza soltanto per un colpo di fortuna, e di avere un assoluto bisogno di approfondire il proprio addestramento.

Alla fine del Libro Primo, Eragon decide di partire per andare in cerca di Togira Ikonoka e completare la sua istruzione. Poiché il fosco Destino ha accelerato il passo, le prime note di guerra riecheggiano in Alagaésia, e si avvicina in fretta il momento in cui Eragon dovrà affrontare il suo unico, vero nemico: il re Galbatorix.

Una duplice sventura

Il canto dei morti è il pianto dei vivi. Questo pensò Eragon nello scavalcare il cadavere mutilato di un Urgali, mentre si levavano le lamentazioni funebri delle donne che portavano via le salme dei loro cari dalla piana intrisa di sangue del Farthen Dùr. Alle sue spalle, Saphira aggirò la carcassa ondeggiando sinuosa; le sue squame blu zaffiro erano l'unica nota di colore nell'oscurità che dominava la montagna cava.

Erano passati tre giorni da quando i Varden e i nani si erano battuti contro gli Urgali per difendere Tronjheim, la città-montagna alta un miglio nel cuore del Farthen Dùr, ma il campo di battaglia era ancora disseminato di cadaveri. L'enorme numero di caduti aveva rallentato le operazioni di sepoltura. In lontananza, una pira imponente rosseggiava ai piedi di un costone del Farthen Dùr: erano le carcasse degli Urgali che bruciavano. Nessun funerale e nessuna degna sepoltura per loro.

Da quando si era svegliato e aveva scoperto che Angela gli aveva guarito la ferita, per ben tre volte Eragon aveva tentato di dare il proprio contributo alla ricostruzione, ma era stato trafitto da dolori indicibili alla spina dorsale. I guaritori gli avevano somministrato varie pozioni da bere. Arya e Angela sostenevano che era perfettamente guarito. Eppure il dolore continuava a tormentarlo. Nemmeno Saphira era in grado di aiutarlo, se non condividendo la sofferenza trasfusa dal loro legame mentale.

Eragon si passò una mano sul viso e alzò lo sguardo alle stelle che si affacciavano dalla sommità aperta del Farthen Dùr, offuscate dal denso fumo nero della pira. Tre giorni. Erano trascorsi tre giorni da quando aveva ucciso Durza; tre giorni da quando la gente aveva preso a chiamarlo Ammazzaspettri; tre giorni da quando i residui di coscienza dello stregone gli avevano devastato la mente, ed era stato salvato dal misterioso Togira Ikonoka, lo Storpio Che è Sano. Non aveva fatto parola con nessuno della sua visione, tranne che con Saphira. La lotta contro Durza e gli spiriti oscuri che lo controllavano lo aveva trasformato; se in meglio o in peggio, era ancora presto per dirlo. Eragon si sentiva fragile, come se un colpo improvviso potesse mandargli in frantumi il corpo e la mente che ancora dovevano ristabilirsi. E adesso era tornato sul campo di battaglia, spinto dal desiderio morboso di vedere le conseguenze dei combattimenti. Non trovò altro che l'inquietante presenza della morte e della decomposizione; nessuna traccia della gloria di cui narravano le antiche ballate eroiche.

Prima che suo zio Garrow venisse ucciso dai crudeli Ra'zac, mesi addietro, la brutalità a cui Eragon aveva assistito fra umani, nani e Urgali lo avrebbe annientato. Ora lo rendeva quasi insensibile. Si era reso conto, con l'aiuto di Saphira, che l'unico modo per conservare la propria razionalità davanti a quel dolore straziante era fare qualcosa. Inoltre non credeva più che la vita avesse un significato intrinseco, non dopo aver visto uomini fatti a pezzi dai Kull, una tribù di Urgali giganteschi, e il terreno disseminato di membra mozzate, così zuppo di sangue da trasformarsi in un orrido pantano che gli risucchiava le suole degli stivali. Se mai esisteva un qualche tipo di onore in guerra, aveva concluso, era soltanto questo: combattere per difendere gli inermi.

Si chinò a raccogliere un molare da terra. Facendosi rimbalzare il dente sul palmo della mano, continuò a percorrere lentamente con Saphira il perimetro della piana devastata. A un tratto si fermarono nel vedere Jòrmundur, il vicecomandante di Ajihad, che usciva da Tronjheim di gran carriera, diretto verso di loro. Quando fu a breve distanza, s'inchinò: un gesto che, Eragon lo sapeva, non avrebbe mai compiuto fino a qualche giorno prima. «Sono lieto di averti trovato in tempo, Eragon.» Nel pugno stringeva un rotolo di pergamena. «Ajihad sta tornando, e vuole che tu sia presente al suo arrivo. Gli altri lo stanno già aspettando davanti al cancello ovest di Tronjheim. Dobbiamo affrettarci, se vogliamo arrivare in tempo.»

Eragon annuì e si diresse verso il cancello, con una mano appoggiata sul fianco di Saphira. Ajihad mancava ormai da tre giorni, impegnato a inseguire gli Urgali che erano riusciti a fuggire nel labirinto di tunnel scavati dai nani nella roccia dei Monti Beor. L'unica volta che Eragon lo aveva scorto, fra una spedizione e l'altra, Ajihad era in preda a un attacco di collera per aver scoperto che sua figlia Nasuada gli aveva disobbedito: non aveva abbandonato la città insieme alle altre donne e ai bambini, come le era stato ordinato, ma aveva combattuto in segreto fra le schiere di arcieri Varden. Murtagh e i Gemelli avevano accompagnato Ajihad. I Gemelli perché era una missione pericolosa, e il capo dei Varden aveva bisogno di essere protetto dalle loro arti magiche, e Murtagh perché voleva continuare a dimostrare ai Varden che potevano fidarsi di lui. Eragon era rimasto sorpreso nel vedere quanto era cambiato l'atteggiamento del popolo nei riguardi di Murtagh, pur sapendo che suo padre, Morzan, era stato il Cavaliere dei Draghi che aveva tradito i suoi compagni per consegnarli a Galbatorix. Anche se Murtagh aveva dichiarato di odiare il padre e di essere leale a Eragon, i Varden non gli avevano creduto. Ma nessuno aveva voglia di sprecare energie per covare un antico rancore, quando c'era ancora tanto lavoro da fare. Eragon sentiva la mancanza delle loro chiacchierate, e non vedeva l'ora che tornasse per discutere con lui degli eventi appena accaduti.

Mentre Eragon e Saphira giravano intorno a Tronjheim, videro un gruppetto sparuto di persone nel cono di luce gettato dalle lanterne nei pressi del cancello di legno. Fra loro c'erano Orik e Arya. Il nano si dondolava impaziente da una tozza gamba all'altra; la benda bianca avvolta intorno al braccio dell'elfa spandeva deboli riflessi sui suoi capelli corvini. Eragon si sentì pervadere dallo strano brivido che provava ogni volta che vedeva l'elfa. Arya guardò lui e Saphira con un fugace scintillio negli occhi verdi, che subito tornò a rivolgere nella direzione da cui doveva arrivare Ajihad.

Grazie all'intervento di Arya, che aveva infranto Isidar

Mithrim - l'immenso Zaffiro Stellato largo venti iarde, tagliato a forma di rosa -, Eragon aveva potuto uccidere Durza e vincere così la battaglia; ma i nani erano furiosi con l'elfa perché aveva distrutto il loro tesoro più prezioso. Si erano rifiutati di rimuovere i frammenti sparpagliati dello zaffiro, lasciandoli in un ampio circolo all'interno della camera centrale di Tronjheim. Eragon aveva camminato fra le schegge scintillanti e condiviso il dolore dei nani per la loro bellezza perduta.

Lui e Saphira si fermarono accanto a Orik, lasciando vagare lo sguardo sulla piana deserta che circondava Tronjheim e si estendeva per un raggio di cinque miglia fino alla base del Farthen Dùr. «Da che parte arriverà Ajihad?» domandò Eragon.

Orik indicò un grappolo di lanterne che illuminavano l'imboccatura di un tunnel, a due miglia di distanza. «Dovrebbe essere qui a momenti.»

Eragon aspettava paziente insieme agli altri, rispondendo con garbo alle domande che gli venivano rivolte, ma rifugiandosi spesso nella quiete della mente per conversare con Saphira. Nel suo attuale stato d'animo, il silenzio che regnava nel Farthen Dùr gli era più congeniale.

Dopo mezz'ora, scorsero del movimento nel tunnel. Un gruppo di dieci umani uscì allo scoperto, poi si volsero per aiutare altrettanti nani a emergere dal sottosuolo. Uno degli uomini - Ajihad, con tutta probabilità - alzò una mano, e i guerrieri si disposero alle sue spalle in due colonne compatte. A un suo segnale, la formazione cominciò a marciare fiera e decisa verso Tronjheim.

Non avevano percorso più di cinque iarde, però, che il tunnel dietro di loro si animò di attività frenetica, mentre altre figure sciamavano all'esterno. Eragon strizzò gli occhi, incapace di distinguere bene da quella distanza. Sono Urgali! esclamò Saphira, il corpo teso come la corda di un arco.

Eragon non ne dubitò nemmeno per un istante. «Urgali!» gridò, e balzò in groppa a Saphira, rimproverandosi di aver lasciato Zar'roc, la sua spada, in camera. Nessuno si era aspettato un nuovo attacco, ora che l'esercito degli Urgali era stato respinto.

Saphira levò le ali azzurre e le riabbassò con forza per levarsi in volo; il contraccolpo provocò a Eragon una nuova fitta di dolore lungo la schiena. Mentre la dragonessa acquistava quota e velocità, sempre di più a ogni battito d'ali, sotto di loro Arya sfrecciava verso il tunnel, riuscendo quasi a tenere il passo con Saphira. Orik arrancava dietro di lei insieme a un folto drappello di uomini, mentre Jòrmundur tornava di corsa alle caserme.

Eragon fu costretto ad assistere impotente all'aggressione degli Urgali alla retroguardia di Ajihad; non era in grado di esercitare la magia da quella distanza. I mostri sfruttarono il vantaggio della sorpresa per abbattere subito quattro uomini, costringendo il resto dei soldati, umani e nani insieme, a radunarsi intorno ad Ajihad nel tentativo di proteggerlo. Le due compagini entrarono in contatto, facendo risuonare il metallo delle spade e delle asce. Uno dei Gemelli scagliò un lampo di luce, e un Urgali cadde, stringendosi il moncherino di un braccio reciso. Per un minuto parve che gli assaliti ce la facessero a resistere agli Urgali, ma poi la scena cambiò all'improvviso, trasformandosi in un turbinio confuso, come se i combattenti fossero stati avvolti da una leggera coltre di nebbia. Quando si diradò, non restavano in piedi che quattro guerrieri: Ajihad, i Gemelli e Murtagh. Gli Urgali si avventarono su di loro, ostacolando la visuale di Eragon che osservava la scena con orrore crescente.

No! No! No!

Prima che Saphira fosse in grado di raggiungere il luogo dello scontro, il manipolo di Urgali sciamò di nuovo verso il tunnel e scomparve sottoterra, lasciandosi alle spalle soltanto figure inerti.

Non appena Saphira toccò terra, Eragon si slanciò dalla sella, poi esitò, sopraffatto dal dolore e dalla rabbia. Non posso. La sua mente evocò le immagini di quando era tornato alla fattoria e aveva trovato lo zio Garrow moribondo. Con un immane sforzo di volontà, ricacciò indietro la paura e cominciò a cercare i superstiti.

La scena era fin troppo simile al campo di battaglia che aveva ispezionato poco prima: ma in questo caso il sangue era fresco.

Al centro del massacro giaceva Ajihad, con il pettorale di metallo squarciato in più punti, circondato da cinque Urgali che lui stesso aveva ucciso. Il respiro gli usciva in rantoli spezzati. Eragon s'inginocchiò al suo fianco e abbassò il capo perché le lacrime non cadessero sul torace martoriato del capo dei Varden. Nessuno era in grado di guarire quelle ferite. Arrivò anche Arya, che si fermò di colpo con il viso trasfigurato dall'angoscia nel constatare che Ajihad non poteva essere salvato.

«Eragon.» Il nome esalò dalle labbra di Ajihad come il più lieve dei sussurri.

«Sì, sono qui.»

«Ascoltami, Eragon... Questa è la mia ultima volontà.» Eragon si protese su di lui per cogliere le parole dell'uomo morente. «Devi promettermi una cosa: promettimi che non... lascerai che i Varden precipitino nel caos. Loro rappresentano l'unica speranza di combattere l'Impero... Devono restare uniti. Promettimelo.»

«Lo prometto.»

«Che la pace sia con te, Eragon Ammazzaspettri...» E dopo un ultimo sospiro, Ajihad chiuse gli occhi, distese i nobili lineamenti e spirò.

Eragon chinò il capo. Si sentiva la gola stretta in una dolorosa morsa che lo faceva respirare a fatica. Arya benedisse Ajihad con un delicato mormorio nell'antica lingua, poi aggiunse con la sua voce melodiosa: «Ahimè, la sua morte scatenerà aspri conflitti. Ajihad ha ragione: tu dovrai fare di tutto per evitare una lotta per il potere. Io ti assisterò, dove possibile.»

Senza dire una parola, Eragon scrutò il resto dei cadaveri. Avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi da un'altra parte. Saphira annusò uno degli Urgali e disse: Non sarebbe dovuto accadere. È una sciagura terrìbile, ancora più nefasta perché è capitata quando avremmo dovuto sentirci sicuri e vittoriosi. Esaminò un altro corpo, poi volse la testa da un lato e dall'altro. Che fine hanno fatto Murtagh e i Gemelli? Fra i morti non ci sono.

Eragon passò in rassegna i cadaveri. Hai ragione! Pervaso da un'improvvisa euforia, corse verso l'imboccatura del tunnel. Negli avvallamenti consumati dei gradini di marmo rilucevano, simili a tanti specchi neri, pozze di sangue denso, come se qualcuno avesse trascinato dei corpi feriti sulle scale. Devono averli presi gli Urgali! Ma perché? Di solito non fanno prigionieri né ostaggi. Eragon ripiombò nella più cupa disperazione. Non importa. Non possiamo inseguirli senza rinforzi, e comunque tu non riusciresti mai a passare per quel varco.

Potrebbero essere ancora vivi. Hai intenzione di abbandonarli?

Cosa ti aspetti che faccia? I tunnel dei nani sono un labirinto sconfinato! Di sicuro mi perderei. E non posso inseguire gli Urgali a piedi, anche se forse Arya ne sarebbe capace.

Allora chiedilo a lei.

Arya! Eragon esitò, combattuto fra il desiderio di agire e il rifiuto di metterla in pericolo. Eppure se c'era una persona fra i Varden che potesse affrontare gli Urgali, quella era lei. Con un sospiro afflitto, le spiegò che cosa avevano scoperto. Arya corrugò le sopracciglia oblique. «Non ha senso.»

«Vorresti inseguirli?»

Lei lo guardò per un lunghissimo istante. «Wiol ono.» Per te. Poi si slanciò verso il tunnel; e la lama della sua spada brillò un'ultima volta prima di venire inghiottita nelle viscere della terra.

Fremente d'inutile rabbia, Eragon si sedette a gambe incrociate accanto ad Ajihad per vegliare il cadavere. Non riusciva ancora ad accettare il fatto che Ajihad fosse morto e Murtagh scomparso. Murtagh. Figlio di uno dei Rinnegati - i tredici Cavalieri che avevano aiutato Galbatorix a distruggere l'ordine e ad autoproclamarsi re di Alagaésia e amico di Eragon. Più di una volta Eragon aveva desiderato che Murtagh se ne andasse, ma adesso che non c'era, la sua assenza gli lasciava un vuoto inatteso. Continuò a restare seduto, mentre Orik arrivava con gli uomini.

Non appena vide Ajihad, Orik pestò i piedi con foga e imprecò nella lingua dei nani, roteando l'ascia per poi abbatterla sulla carcassa di un Urgali. Gli uomini rimasero impietriti. Torcendosi le mani callose e sporche di terra, il nano borbottò: «Ah, vedrai adesso che vespaio si solleverà. Non ci sarà pace fra i Varden dopo questa sciagura. Barzuln, qui le cose si complicano. Hai fatto in tempo ad ascoltare le sue ultime parole?»

Eragon scoccò un'occhiata a Saphira. «Aspetterò di trovarmi di fronte alla persona giusta prima di ripeterle.» «Capisco. Dov'è Arya?»

Eragon indicò il tunnel.

Orik imprecò di nuovo, poi scrollò la testa e si accovacciò.

Jòrmundur arrivò poco dopo con dodici plotoni da sei uomini ciascuno. Indicò loro di attendere fuori dal cerchio di cadaveri e proseguì da solo. Toccò la spalla di Ajihad. «Mio buon amico, come ha potuto il destino essere tanto crudele? Sarei arrivato prima, se non fosse stato per la vastità di questa maledetta montagna, e forse ti saresti salvato. La sventura ci ha colpiti al culmine del nostro trionfo.»

Eragon gli accennò sottovoce di Arya e della scomparsa dei Gemelli e di Murtagh.

«Non avrebbe dovuto allontanarsi» replicò Jòrmundur, rialzandosi in piedi, «ma al momento non possiamo fare nulla. Metteremo delle sentinelle sul posto, ma ci vorrà almeno un'ora prima di poter convocare le guide dei nani per un'altra spedizione nei tunnel.»

«Sarò lieto di guidarla» si offrì Orik.

Jòrmundur rivolse uno sguardo mesto verso Tronjheim. «No, Rothgar avrà bisogno di te. Andrà qualcun altro. Mi rincresce, Eragon, ma tutte le persone più influenti dovranno attendere qui finché non sarà nominato il successore di Ajihad. Arya dovrà cavarsela da sola... E comunque non saremmo mai in grado di raggiungerla.» Eragon annuì, accettando l'inevitabile.

Jòrmundur lasciò vagare lo sguardo prima di dire ad alta voce, perché tutti potessero udirlo: «Ajihad è morto da vero guerriero! Guardate, ha ucciso cinque Urgali, quando ne sarebbe bastato uno soltanto a sopraffare un uomo qualsiasi. Lo seppelliremo con tutti gli onori, e che gli dei accolgano con benevolenza il suo spirito. Sollevate lui e i nostri compagni sui vostri scudi e riportateli a Tronjheim... e non abbiate pudore di mostrare le vostre lacrime, poiché questo è un giorno di grande lutto che tutti ricorderanno. Io prego perché presto possiamo avere il privilegio di affondare le nostre lame nei mostri che hanno ucciso il nostro condottiero!»

I soldati s'inginocchiarono come un sol uomo, scoprendosi la testa in segno di rispetto. Poi si alzarono, e con deferenza sollevarono Ajihad sugli scudi che si appoggiarono in spalla. Molti dei Varden erano scossi dai singhiozzi, le folte barbe inzuppate di lacrime, ma nessuno venne meno al suo dovere e lasciò che Ajihad scivolasse. Marciando solenni, tornarono a Tronjheim, con Eragon e Saphira al centro del corteo.

Il Consiglio degli Anziani

Eragon si destò e si voltò verso il bordo del letto, scrutando la stanza immersa nella luce soffusa che proveniva da una lanterna schermata. Si alzò a sedere e guardò Saphira che dormiva. I suoi fianchi possenti si espandevano e si contraevano, al ritmo degli enormi mantici dei polmoni che soffiavano l'aria attraverso le narici squamose. Eragon pensò all'inferno ruggente che ormai la dragonessa era capace di sprigionare a comando dalle fauci. Era uno spettacolo mozzafiato, quando fiamme in grado di sciogliere il metallo le guizzavano fra le zanne d'avorio e la lingua senza intaccarle. Dalla prima volta in cui aveva sputato fuoco, durante il duello di Eragon con Durza, gettandosi in picchiata su di loro dalla sommità di Tronjheim, Saphira approfittava di ogni occasione per sfoggiare il suo nuovo talento. Soffiava continuamente minuscole vampe di fuoco per incenerire piccoli oggetti.

Poiché Isidar Mithrim era andata distrutta, non erano più potuti alloggiare nella roccaforte dei draghi situata sopra di essa. I nani avevano offerto loro un vecchio corpo di guardia al pianterreno di Tronjheim. Era un'ampia camerata, ma aveva il soffitto basso e le pareti scure.

L'angoscia tornò a impadronirsi di Eragon quando ripensò agli eventi del giorno prima. Gli occhi gli si riempirono di lacrime; una gli cadde nel palmo della mano. Non avevano avuto notizie di Arya fino a tarda notte, quando era riemersa dal tunnel, esausta e con i piedi sanguinanti. Malgrado i suoi sforzi - e la sua magia - gli Urgali le erano sfuggiti. "Ho trovato questi" aveva detto. E mostrò uno dei mantelli viola dei Gemelli, strappato e macchiato di sangue; la tunica di Murtagh; ed entrambi i suoi guanti di pelle. "Erano sul ciglio di un nero abisso, dove non arriva nessun tunnel. Gli Urgali devono averli spogliati di corazze e armi, e aver gettato i corpi nella voragine. Ho provato a divinare sia Murtagh che i Gemelli, ma non ho visto altro che le tenebre dell'abisso." I suoi occhi avevano incontrato quelli di Eragon. "Mi dispiace. Sono morti."

Soltanto adesso Eragon si concesse l'amaro lusso di piangere Murtagh. Il suo cuore era oppresso da una strisciante e spaventosa sensazione di perdita, resa ancor più dolorosa dal fatto che, nel corso degli ultimi mesi, gli era diventata sempre più familiare.

Mentre contemplava la lacrima sulla mano - una piccola goccia lucente - decise di ricorrere alla cristallomanzia per divinare i tre uomini. Sapeva che era un tentativo futile e disperato, ma doveva provare ugualmente per convincersi che Murtagh era davvero morto. Tuttavia non era del tutto sicuro di voler riuscire laddove Arya aveva fallito; quale consolazione avrebbe tratto dal vedere Murtagh sfracellato sul fondo di un abisso sotto il Farthen Dùr? Mormorò: «Draumr kópa.» Le tenebre pervasero la goccia, trasformandola in una minuscola cupola nera nel suo palmo d'argento; balenò un guizzo fulmineo, come un improvviso frullo d'ali davanti a una luna offuscata... poi più nulla. Un'altra lacrima raggiunse la prima.

Eragon trasse un profondo respiro, raddrizzò la schiena e tentò di rilassarsi. Da quando si era ripreso dalla ferita di Durza, aveva capìto, per quanto fosse umiliante, di aver vinto per un semplice colpo di fortuna. Se mai dovessi affrontare un altro Spettro, o i Ra'zac, o Galbatorix, dovrò essere più forte per assicurarmi la vittoria. Brom avrebbe potuto insegnarmi di più, lo so. Ma senza di lui, non ho che un'unica scelta: gli elfi.

Il respiro di Saphira accelerò, e la dragonessa aprì gli occhi con un immane sbadiglio. Buongiorno, piccolo mio. È buono davvero? Eragon abbassò lo sguardo e strinse con forza il bordo del materasso. È terribile... Murtagh e Ajihad... Perché le sentinelle nei tunnel non ci hanno avvertiti degli altri Urgali? Quei mostri non possono aver seguito il gruppo di Ajihad senza farsi notare... Arya aveva ragione, non ha senso.

Potremmo non conoscere mai la verità, disse Saphira in tono sommesso. Si alzò, e le ali sfiorarono il soffitto. Devi mangiare qualcosa, poi andremo a scoprire cos'hanno in mente i Varden. Non c'è tempo da perdere. Potrebbero scegliere un nuovo capo nel giro di poche ore.

Eragon assentì, ripensando alla scena che aveva lasciato la sera prima: Orik che correva da re Rothgar per annunciargli la triste novella, Jòrmundur che scortava il corpo di Ajihad dove avrebbe riposato fino alle esequie, e Arya che restava da sola a osservare quanto le accadeva intorno.

Eragon si alzò e prese sia Zar'roc che l'arco, poi si chinò a raccogliere la sella di Saphira. Una fitta lancinante gli percorse la spina dorsale; crollò a terra in preda alle convulsioni, con le braccia che annaspavano cercando di toccare la schiena. Era come se lo stessero segando in due. Saphira ringhiò quando fu raggiunta dalla sensazione straziante. Cercò di alleviare il dolore del giovane con la propria mente, ma senza esito. L'istinto la portò a sollevare di scatto la coda, come pronta a combattere.

L'attacco durò alcuni minuti per poi ridursi a una serie di spasmi sempre più lievi, lasciando Eragon boccheggiante. Aveva il volto madido di sudore, i capelli incollati alla testa e gli occhi che gli bruciavano. Piegò indietro il braccio e cercò a tastoni la parte superiore della cicatrice. Era bollente, infiammata e sensibile al tatto. Saphira abbassò il muso e gli sfiorò il braccio. Oh, piccolo mio...

È stata la crisi peggiore, disse lui, rialzandosi a fatica. La dragonessa lasciò che Eragon si appoggiasse a lei, mentre si asciugava il sudore con un telo per poi avviarsi barcollante alla porta.

Ti senti abbastanza in forze per andare?

Dobbiamo. È nostro obbligo, in quanto drago e Cavaliere, rendere una dichiarazione pubblica in merito alla scelta del prossimo capo dei Varden, e forse addirittura influenzarla. Non posso ignorare l'importanza della nostra posizione; ormai esercitiamo una grande autorità sui Varden. Se non altro, non ci sono i Gemelli a rivendicare la stessa posizione. È l'unica nota positiva in questa tragedia.

D'accordo, allora, ma Durza si meriterebbe mille anni di tormenti per ciò che ti ha fatto.

Eragon borbottò un assenso. Ma tu stammi vicina.

Insieme si avviarono nel dedalo di corridoi di Tronjheim, diretti alla cucina più vicina. La gente si fermava e s'inchinava al loro passaggio, mormorando "Argetlam" o "Ammazzaspettri". Perfino i nani accennavano il gesto, anche se non così spesso. Eragon rimase colpito dalle espressioni tetre e malinconiche degli umani, e dagli abiti scuri che indossavano in segno di lutto. Molte donne erano vestite di nero da capo a piedi, con veli di merletto drappeggiati sul viso. In cucina, Eragon prese un piatto di pietra colmo di cibo e si sedette a un tavolino basso. Saphira lo osservava con attenzione, nel caso gli venisse un'altra crisi. Molte persone provarono ad avvicinarsi, ma lei le tenne a distanza sollevando un labbro e ringhiando piano, chiaro monito a non fare un altro passo. Eragon fingeva di ignorare gli intrusi e piluccava il cibo. Alla fine, nel tentativo di distogliere la mente da Murtagh, chiese: Chi credi abbia i mezzi per controllare i Varden, ora che Ajihad e i Gemelli sono morti?

Saphira esitò. È possibile che sia tu, se le ultime parole di Ajihad devono essere interpretate come una benedizione a garanzia della successione. Non credo che qualcuno oserebbe opporsi. Tuttavia, non mi pare la giusta via da percorrere. Prevedo soltanto guai da quella parte.

Sono d'accordo. Tanto più che Arya non approverebbe, e potrebbe addirittura rivelarsi un pericoloso nemico. Gli elfi non possono mentire nell'antica lingua, ma non hanno scrupoli a farlo nella nostra... Arriverebbe perfino a negare che Ajihad abbia mai pronunciato quelle parole, se dovesse servire ai suoi scopi. No, non voglio quell'incarico... Che ne dici di Jormundur?

Ajihad lo chiamava il suo braccio destro. Purtroppo non sappiamo molto di lui o degli altri capi dei Varden. È passato troppo poco tempo da quando siamo arrivati qui. Dovremo esprìmere il nostro parere basandoci sulle nostre sensazioni e impressioni, senza il beneficio della storia.

Eragon spappolò tra le dita un grumo di crema di tubero. Non dimenticare Rothgar e i clan dei nani; non se ne staranno in disparte. Salvo Arya, gli elfi non potranno interferire nella successione... sarà presa una decisione prima che una sola parola di tutto questo li raggiunga. Ma non si possono ignorare i nani. Rothgar appoggia i Varden, ma se incontra l'opposizione di un numero sufficiente di clan, potrebbe essere indotto a sostenere qualcuno inadeguato al comando. E chi potrebbe essere?

Una persona facilmente manovrabile. Eragon chiuse gli occhi e appoggiò la schiena al muro. Potrebbe essere chiunque nel Farthen Dùr. Chiunque.

Per lunghi minuti rimasero in silenzio a riflettere su quanto li aspettava. Poi Saphira disse: Eragon, c'è qualcuno che vuole vederti. Non riesco a mandarlo via.

Eh? Eragon socchiuse piano gli occhi, per abituarli alla luce. Davanti al tavolo c'era un ragazzino pallido, che scrutava di continuo Saphira come se temesse di essere divorato da un momento all'altro.

«Cosa c'è?» chiese Eragon, brusco ma non scortese.

Il ragazzino trasalì, avvampò e s'inchinò con deferenza. «Sei stato convocato, Argetlam, al cospetto del Consiglio degli Anziani.»

«Chi sono?»

La domanda confuse ancor di più il ragazzo. «Il... il Consiglio è... sono... persone che noi... voglio dire i Varden... abbiamo scelto per parlare in nostra vece davanti ad Ajihad. Erano i suoi fidati consiglieri, e adesso desiderano vederti. È un grande onore!» concluse con un fugace sorriso. «Sarai tu a condurmi da loro?»

«Sì, io.»

Saphira scoccò a Eragon un'occhiata interrogativa. facendo cenno al ragazzo di mostrargli la strada. Mentre camminavano, il ragazzo s'illuminò nell'ammirare Zar'roc, poi abbassò gli occhi, intimidito.

«Come ti chiami?» gli chiese Eragon.

«Jarsha, signore.»

«È un bel nome. Sei stato bravo a riferire il messaggio; dovresti sentirti orgoglioso.» Jarsha sorrise raggiante e affrettò il passo.

Giunsero davanti a una porta convessa di pietra, che Jarsha aprì con una spinta. La sala all'interno era circolare, con un soffitto a volta color del cielo, decorato di costellazioni. Al centro c'era una tavola rotonda di marmo, intarsiata con lo stemma del Dùrgrimst Ingietum: un martello circondato da dodici stelle. Erano presenti Jòrmundur e altri due uomini, uno alto e magro, l'altro basso e tarchiato; una donna con le labbra strette, gli occhi ravvicinati, e le guance colorate da fitti disegni; e una seconda donna con una criniera di capelli grigi che incorniciavano un florido volto dall'aria materna, smentita dall'elsa di un pugnale che spuntava dalle prospere colline del corsetto.

«Puoi andare» disse Jòrmundur a Jarsha, che abbozzò un veloce inchino e si dileguò.

Consapevole di essere al centro dell'attenzione, Eragon esaminò la sala, poi prese posto in mezzo a una serie di scranni vuoti, costringendo i membri del consiglio a voltarsi per continuare a guardarlo. Saphira si accucciò alle sue spalle; Eragon ne sentiva l'alito caldo sulla testa.

Jòrmundur accennò appena ad alzarsi per abbozzare un inchino, e si risedette. «Grazie di essere venuto, Eragon, benché anche tu abbia sofferto un grave lutto. Ti presento Umérth» l'uomo alto, «Falberd» l'uomo tarchiato, «e Sabra ed Elessari» le due donne.

Eragon chinò la testa, poi domandò: «Anche i Gemelli facevano parte di questo consiglio?»

Sabra scosse il capo con foga, tamburellando sul marmo con un'unghia affilata. «Quegli individui non avevano nulla a che fare con noi. Erano vermi... vermi della peggior specie... sanguisughe che agivano soltanto per i propri interessi. Non avevano alcuna intenzione di servire i Varden, e quindi non c'era posto per loro in questo consiglio.» Pur essendoci una grande distanza fra loro, Eragon riusciva a sentire il suo profumo, pungente e viscido, come quello di un fiore in putrefazione. Represse un sorriso al pensiero.

«Basta. Non siamo qui per parlare dei Gemelli» disse Jòrmundur. «Ci troviamo ad affrontare una crisi che occorre superare in fretta, e con la massima efficienza. Se non scegliamo noi il successore di Ajihad, ci penserà qualcun altro. Rothgar ci ha già espresso le sue condoglianze, ma nonostante i suoi modi più che garbati, sono sicuro che sta già elaborando una sua strategia. Dobbiamo inoltre considerare il Du Vrangr Gata, gli stregoni del Tortuoso Cammino. La maggior parte di loro sono leali ai Varden, ma è difficile prevedere le loro mosse persino quando la situazione è tranquilla. Potrebbero decidere di opporsi alla nostra autorità al fine di perseguire i loro obiettivi. Ecco perché ci serve il tuo appoggio, Eragon: per garantire la legittimità a chiunque sia destinato a prendere il posto di Ajihad.» Falberd issò la sua mole dalla sedia, piantando le mani carnose sul marmo. «Noi cinque abbiamo già deciso chi sostenere. Fra di noi, nessuno dubita di chi sia la persona giusta. Ma» aggiunse, sollevando il grasso indice, «prima di rivelarti il suo nome, vogliamo la tua parola d'onore che non una virgola della nostra discussione uscirà da questa sala, che tu sia d'accordo con noi oppure no.»

Perché vogliono questo da me? domandò Eragon a Saphira.

Non lo so, rispose lei sbuffando. Potrebbe essere una trappola. ..È un rischio che devi correre. Ricorda, però, che a me non hanno chiesto alcun impegno. Potrò sempre riferire ad Arya quanto diranno, se necessario. Sciocco da parte loro, dimenticare che sono intelligente quanto un essere umano.

Confortato da quel pensiero, Eragon disse: «D'accordo, avete la mia parola. E dunque, chi volete che comandi i Varden?»

«Nasuada.»

Colto alla sprovvista, Eragon abbassò lo sguardo per riflettere alla svelta. Non aveva preso in considerazione Nasuada per la successione, a causa della sua giovane età: era di appena qualche anno più grande di lui. Non esisteva alcun motivo concreto, ovviamente, perché non fosse lei ad assumere l'incarico, ma quali recondite ragioni erano celate dietro la scelta del Consiglio degli Anziani? In che modo ne avrebbero tratto vantaggio? Rammentò i consigli di Brom e cercò di esaminare la situazione da ogni angolatura possibile, sapendo che doveva decidere in fretta.

Nasuada ha i nervi d'acciaio, osservò Saphira. Potrebbe essere come suo padre.

Forse, ma quali sono le ragioni dietro questa scelta?

Per guadagnare tempo, Eragon domandò: «Perché non tu, Jòrmundur? Ajihad ti considerava il suo braccio destro. Non dovresti essere tu a prendere il suo posto ora che è morto?»

Un fremito d'inquietudine pervase il consiglio: Sabra raddrizzò la schiena, le mani intrecciate avanti a sé; Umérth e Falberd si scambiarono sguardi cupi, mentre Elessari si limitò a sorridere, l'elsa del pugnale che scintillava nel solco dei seni.

«Perché» rispose Jòrmundur, scegliendo le parole con cura «Ajihad si riferiva alle questioni militari, nient'altro. Inoltre, Lui si strinse nelle spalle e lasciò il piatto pressoché intatto, sono membro di questo consiglio, che ha potere solo perché ci sosteniamo l'un l'altro. Sarebbe stupido e avventato da parte di uno qualsiasi di noi elevarsi al di sopra degli altri.» Il consiglio si acquietò al termine del breve discorso, ed Elessari battè il palmo sul braccio di Jòrmundur.

Hai esclamò Saphira. Probàbilmente avrebbe già rivendicato la posizione, se avesse trovato il modo di farsi sostenere dagli altri. Guarda come lo fissano. Sembra un lupo in mezzo a loro.

Un lupo in mezzo a un branco di sciacalli, direi.

«Nasuada possiede sufficiente esperienza?» indagò Eragon.

Elessari protese le sue forme sul tavolo. «Ero qui già da sette anni quando Ajihad si unì ai Varden. Ho visto crescere Nasuada e trasformarsi da bambina vivace nella donna che è ora. Forse un po' impulsiva in certe occasioni, ma perfetta per guidare i Varden. Il popolo l'amerà. E io» dichiarò, battendosi orgogliosamente il petto «e i miei amici saremo qui per guidarla in questi tempi difficili. Non resterà mai senza qualcuno che le indichi la via. L'inesperienza non sarà un ostacolo al ruolo che le compete!»

Eragon afferrò al volo. Vogliono una marionetta!

«Le esequie di Ajihad si terranno fra due giorni» intervenne Umérth. «Subito dopo, abbiamo in programma di designare Nasuada come nostro nuovo capo. Dobbiamo ancora chiederglielo, ma siamo sicuri che accetterà. Vogliamo che tu sia presente alla nomina, perché in tal caso nessuno, nemmeno Rothgar, potrà lamentarsi della designazione. E vogliamo un tuo giuramento di fedeltà ai Varden. Questo servirà a restituire al popolo la fiducia che ha smarrito con la morte di Ajihad, e impedirà qualsiasi tentativo di disgregare questa organizzazione.»

Fedeltà!

Saphira sfiorò la mente di Eragon. Nota bene, non vogliono che giurì fedeltà a Nasuada... solo ai Varden. Già, e vogliono essere loro a designare ufficialmente Nasuada, per ribadire la supremazia del consiglio. Avrebbero potuto chiedere ad Arya o a noi di farlo, ma questo significherebbe riconoscere la superiorità del designatore su tutti i Varden. In questo modo, invece, rafforzano la loro autorità su Nasuada e ottengono il controllo su di noi attraverso il giuramento di fedeltà, con il vantaggio supplementare di avere un Cavaliere che sostiene Nasuada in pubblico. «Che succede» domandò «se decido di non accettare la vostra proposta?»

«Proposta?» replicò Falberd, perplesso. «Be'... niente, è naturale. Solo che sarebbe una terribile negligenza se tu non presenziassi alla nomina di Nasuada. Se l'eroe del Farthen Dùr la ignorasse, cosa potrebbe pensare lei se non che un Cavaliere la disprezza e trova i Varden indegni da servire? Chi potrebbe sopportare una simile onta?» Il messaggio non avrebbe potuto essere più esplicito.

Eragon strinse il pomo di Zar'roc sotto il tavolo, reprimendo l'impulso di gridare che non era necessario che lo costringessero a sostenere i Varden, che lo avrebbe fatto in ogni caso. Tuttavia in quel momento provò il desiderio di ribellarsi, di sottrarsi al giogo che stavano cercando di imporgli. «Poiché avete una così alta considerazione dei Cavalieri, potrei decidere che i miei sforzi sarebbero meglio spesi guidando i Varden io stesso.»

L'atmosfera nella sala si fece subito tesa. «Sarebbe una mossa poco saggia» dichiarò Sabra.

Eragon si arrovellò in cerca di un modo per sfuggire alla situazione. Con la morte di Ajihad, disse Saphira, temo che sarà difficile restare indipendenti dalle diverse fazioni come lui voleva. Non possiamo rischiare di inimicarci i Varden, e se questo consiglio è destinato a controllarli attraverso Nasuada, allora dobbiamo assecondarlo. Rammenta, le loro azioni scaturiscono dallo stesso spirito di conservazione che guida noi.

Ma cosa vorranno da noi quando saremo alla loro mercé? Rispetteranno il patto con gli elfi e ci manderanno a Ellesméra per l'addestramento, o comanderanno altrimenti? Jormundur mi pare un uomo d'onore, ma il resto del consiglio? Non saprèi dire.

Saphira gli sfiorò la cima dei capelli con la mascella. Acconsenti a presenziare alla cerimonia per la nomina di Nasuada; questo credo che ci tocchi. Quanto al giuramento di fedeltà, cerca di capire se puoi evitarlo. Magari succederà qualcosa, da qui ad allora, che possa ribaltare la nostra posizione... Arya potrebbe avere una soluzione. Senza preavviso, Eragon annuì e disse: «Come desiderate. Sarò presente alla designazione di Nasuada.» Jormundur parve sollevato. «Bene, molto bene. Ci resta soltanto un'ultima questione prima che tu vada via: il consenso di Nasuada. Non c'è ragione di attardarsi, ora che siamo tutti qui. Manderò subito a chiamarla. E anche Arya... ci serve l'approvazione degli elfi prima di rendere pubblica questa decisione. Non dovrebbe essere difficile da ottenere: Arya non può mettersi contro il consiglio e contro di te, Eragon. Dovrà accettare il nostro giudizio.»

«Un momento» intervenne Elessari, con un luccichio metallico nello sguardo. «La tua parola, Cavaliere. Giurerai fedeltà durante la cerimonia?» «Certo, devi giurare» necessaria.»

Ma che abile maniera per capovolgere la situazione!

Almeno ci hai provato, commentò Saphira. Temo che a questo punto tu non abbia scelta.

Non oserebbero farci del male se rifiutassi.

No, ma potrebbero ostacolarci. Non è per me che ti dico di accettare, ma per te stesso. Esistono molti pericoli dai quali non sono in grado di proteggerti,

Eragon. Con Galbatorix contro di noi, ti servono alleati, non altri nemici. Non possiamo permetterci di combattere contro l'Impero e i Varden.

«Giurerò» proclamò Eragon alla fine. Tutto intorno al tavolo si manifestarono segni tangibili di sollievo: persino un malcelato sospiro di Umérth.

Hanno paura di noi

Com'e. giusto che sia! fu l'aspro commento di Saphira.

incalzò Falberd. «Sarebbe un disonore per i Varden non poterti fornire ogni protezione Jòrmundur chiamò Jarsha e, dopo un breve scambio di frasi, lo spedì a cercare sia Nasuada che Arya. Nel frattempo, la conversazione languì e scivolò in un imbarazzato silenzio. Eragon ignorò il consiglio per concentrarsi sul modo di sciogliere il dilemma. Non gli venne in mente niente.

Quando la porta si aprì di nuovo, tutti si volsero con ansia. Per prima entrò Nasuada, a testa alta, lo sguardo fiero. Indossava un lungo abito nero ricamato, ancor più scuro della sua pelle, interrotto soltanto da una fascia purpurea che andava dalla spalla al fianco. Alle sue spalle c'era Arya, il passo lieve e delicato come quello di una gatta, e a seguire Jarsha, in rispettoso silenzio.

Congedato il fanciullo, Jòrmundur invitò Nasuada ad accomodarsi. Eragon si affrettò a fare lo stesso per Arya, ma lei ignorò la sedia offerta e rimase in piedi, a una certa distanza dalla tavola rotonda. Saphira, disse lui, raccontale cosa è successo. Ho la netta sensazione che il consiglio non le dirà che mi hanno costretto a giurare fedeltà ai Varden. «Arya» la salutò Jòrmundur con un cenno del capo, poi si concentrò su Nasuada. «Nasuada, figlia di Ajihad, il Consiglio degli Anziani desidera esprimerti formalmente le sue più sentite condoglianze per la perdita che tu, più di chiunque altro, hai subito...» Poi, abbassando la voce, aggiunse: «Sappi che ti siamo vicini con tutto il nostro personale affetto. Ciascuno di noi sa bene cosa significa avere un familiare ucciso dall'Impero.»

«Vi ringrazio» mormorò Nasuada, abbassando gli occhi a mandorla. Si sedette con aria timida e malinconica; emanava un senso di vulnerabilità che suscitò in Eragon un desiderio di protezione. Il suo atteggiamento era tragicamente diverso da quello della vivace giovane donna che era andata a far visita a lui e a Saphira nella roccaforte, prima della battaglia.

«Sebbene per te questo sia il tempo del cordoglio, c'è una decisione importante che ti aspetta. Questo consiglio non può guidare i Varden. E qualcuno deve prendere il posto di tuo padre dopo il funerale. Ti chiediamo di accettare l'incarico. In qualità di sua erede, ne hai tutti i diritti... i Varden si aspettano questo da te.»

Nasuada chinò il capo, con gli occhi lucidi. La sua voce tradì una grande emozione quando disse: «Non avrei mai pensato di essere chiamata a prendere il posto di mio padre ancora così giovane. Ma... se insistete che questo è il mio dovere... accetterò l'incarico.»

Verità fra amici

Il Consiglio degli Anziani irradiava un'aura di trionfo, soddisfatto che Nasuada avesse accondisceso ai loro piani. «Insistiamo» disse Jòrmundur, «per il tuo bene e per il bene dei Varden.» Gli altri anziani aggiunsero ulteriori espressioni di sostegno, che Nasuada accettò con tristi sorrisi. Sabra scoccò un'occhiata furente a Eragon quando lui non si unì al coro.

Durante tutta la conversazione, Eragon aveva tenuto d'occhio Arya in cerca di una reazione alle notizie fornitele da Saphira o all'annuncio del consiglio, ma nulla mutò la sua imperscrutabile espressione. Tuttavia Saphira gli disse: Arya desidera parlarci più tardi.

Prima che Eragon avesse il tempo di rispondere, Falberd si rivolse ad Arya. «Gli elfi troveranno la decisione di loro gradimento?»

Arya fissò Falberd finché l'uomo non vacillò sotto il suo sguardo penetrante, poi inarcò un sopracciglio. «Non posso parlare a nome della mia regina, ma personalmente non trovo nulla da obiettare. Nasuada ha la mia benedizione.» Come avrebbe potuto reagire altrimenti, sapendo quanto le abbiamo detto? pensò Eragon con amarezza. Ci hanno messi con le spalle al muro.

Il commento di Arya venne accolto dal consiglio con palese compiacimento. Nasuada la ringraziò, e chiese a Jòrmundur: «C'è qualcos'altro di cui dobbiamo discutere? Perché sono molto stanca.»

Jòrmundur scosse la testa. «Ci occuperemo noi dei preparativi. Ti prometto che non ti disturberemo fino ai funerali.» «Vi ringrazio ancora tutti. Ma adesso, volete lasciarmi, per cortesia? Ho bisogno di tempo per decidere come meglio onorare mio padre e servire i Varden. Mi avete dato molto su cui riflettere.» Nasuada distese le dita delicate sul nero tessuto del grembo.

Umérth aprì la bocca per protestare davanti a quell'improvviso congedo, ma Falberd gli fece cenno con la mano di tacere. «Ma certo, qualsiasi cosa ti dia sollievo. Se hai bisogno di aiuto, noi siamo pronti e desiderosi di servirti.» Indicando agli altri di seguirlo, passò davanti ad Arya per imboccare la porta.

«Eragon, te ne prego, resta.»

Sconcertato, il giovane tornò a sedersi, ignorando gli sguardi allarmati dei consiglieri. Falberd indugiò sulla soglia, colto da un'improvvisa riluttanza, poi lentamente s'incamminò. Arya fu l'ultima ad andarsene. Prima di chiudersi la porta alle spalle, guardò Eragon con occhi che esprimevano tutta l'ansia e il timore che prima aveva nascosto. Nasuada era seduta con le spalle parzialmente rivolte a Eragon e Saphira. «E così ci incontriamo ancora, Cavaliere. Non mi hai salutata. Ti ho offeso in qualche modo?»

«Assolutamente no, Nasuada. Ero riluttante a parlare per timore di suonare scortese o banale. La attuali circostanze non permettono dichiarazioni affrettate.» Non riusciva a liberarsi dall'ossessione che qualcuno spiasse la loro conversazione. Superando le barriere mentali, fece ricorso alla magia e intonò: «Atra nosu waise vardo fra eld hórnya... Ecco, ora possiamo parlare senza tema di essere uditi da uomo, nano o elfo.»

L'atteggiamento di Nasuada si addolcì. «Grazie, Eragon. Non sai che regalo mi hai fatto.» La sua voce risuonò più forte e risoluta di prima.

Saphira si mosse dietro la sedia di Eragon per avvicinarsi con cautela alla tavola rotonda e prendere posto davanti a Nasuada. Abbassò la grande testa finché un occhio di zaffiro non incontrò quelli neri di Nasuada. La dragonessa la fissò per un minuto intero, prima di sbuffare dolcemente e rialzarsi. Dille, comunicò Saphira, che soffro per lei e la sua perdita. E che la sua forza dovrà diventare quella dei Varden quando indosserà il mantello di Ajihad. Hanno bisogno di una solida guida.

Eragon ripetè le parole, aggiungendo di suo: «Ajihad era un grand'uomo... il suo nome verrà ricordato per sempre. C'è una cosa che devo dirti. Prima di morire, Ajihad mi ha incaricato, mi ha ordinato di impedire ai Varden di precipitare nel caos. Sono state le sue ultime parole. Anche Arya le ha udite.

«Volevo serbarle segrete per via delle implicazioni, ma tu hai il diritto di conoscerle. Non sono sicuro di cosa intendesse dire Ajihad, né riesco a comprendere cosa volesse esattamente, ma sono certo di questo: difenderò sempre i Varden con tutti i miei poteri. Voglio che tu lo sappia, e che capisca che non ho alcuna intenzione di usurpare il comando dei Varden.»

Nasuada rise appena. «Ma quel comando non sarà davvero mio, non è così?» Bandita ogni riserva, la giovane conservava soltanto un contegno dignitoso e un'espressione ferma. «So perché sei qui davanti a me e cosa il consiglio sta cercando di fare. Credi forse che nel corso degli anni in cui ho servito mio padre non abbiamo mai pensato a questa eventualità? Io mi aspettavo dal consiglio esattamente quello che ha fatto. E adesso tutto è pronto perché io prenda il comando dei Varden.»

«Quindi non permetterai che ti controllino?» fece Eragon, stupito.

«No. Continua a tenere segrete le istruzioni di Ajihad.

Sarebbe poco saggio divulgarle poiché il popolo potrebbe considerarlo un tentativo da parte tua di prendere il suo posto; sarebbe dannoso per la mia autorità e destabilizzante per i Varden. Ha detto ciò che pensava di dover dire per proteggere i Varden. Io avrei fatto lo stesso. L'opera di mio padre...» Esitò per un istante. «L'opera di mio padre non resterà incompiuta, dovesse costarmi la vita. Ed è questo che voglio che tu capisca, come Cavaliere. Tutti i progetti di Ajihad, le sue strategie, i suoi scopi, adesso sono miei. Non lo tradirò mostrandomi debole. L'Impero sarà sconfitto, Galbatorix sarà deposto, e un giusto governo sarà insediato.»

Pronunciata che ebbe l'ultima parola, una grossa lacrima le rotolò lungo la guancia. Eragon la guardava ammirato, consapevole della difficoltà della sua posizione e testimone di uno spessore di carattere che non le aveva riconosciuto in precedenza. «Cosa ne sarà di me, Nasuada? Cosa dovrei fare tra i Varden?»

Lei lo guardò dritto negli occhi. «Puoi fare ciò che vuoi. I membri del consiglio sono degli sciocchi se pensano di poterti controllare. Tu sei un eroe per i Varden e per i nani, e perfino gli elfi acclameranno la tua vittoria su Durza, quando lo sapranno. Se tu volessi opporti a me o al consiglio, saremmo costretti ad assecondarti, poiché il popolo ti sosterrebbe in massa. In questo preciso momento, tu sei la persona più potente fra i Varden. Ma se accetterai che sia io a comandare, proseguirò il cammino tracciato da Ajihad: andrai con Arya dagli elfi, dove verrai istruito, e poi tornerai dai Varden.»

Perché è tanto sincera con noi? si domandò Eragon. Se ha ragione, avremmo potuto rifiutarci di assecondare le richieste del consiglio?

Saphira impiegò qualche istante per rispondere. In entrambi i casi, ormai è troppo tardi. Hai già acconsentito, io credo che Nasuada sia sincera perché è il tuo incantesimo che glielo consente, e perché spera di conquistarsi la nostra lealtà. Eragon fu colto da un'idea improvvisa, ma prima di esprimerla fece un'altra domanda. Possiamo fidarci di lei? Terrà fede a quanto ha detto? È molto importante.

Sì, rispose Saphira convinta. Ha parlato col cuore.

A quel punto Eragon spiegò le sue intenzioni a Saphira, che accondiscese, poi estrasse Zar'roc e si avvicinò a Nasuada. Il volto della donna fu attraversato da un lampo di timore; il suo sguardo guizzò verso la porta; la sua mano s'infilò lesta in una piega del vestito per stringere qualcosa. Eragon si fermò dinnanzi a lei e s'inginocchiò, con Zar'roc adagiata sulle mani tese.

«Nasuada, Saphira e io siamo qui da poco. Ma in questo periodo abbiamo imparato a rispettare Ajihad e, adesso, anche te. Hai combattuto nel Farthen Dùr quando altri fuggivano, comprese le due donne del consiglio, e ci hai trattati con onestà, senza ricorrere a infidi raggiri. Per questo ti offro la mia spada... e la mia fedeltà come Cavaliere.» Eragon pronunciò il suo giuramento con assoluta determinazione, sapendo che non lo avrebbe mai fatto prima della battaglia. Ma assistere alla morte di così tanti uomini intorno a sé aveva cambiato il suo modo di vedere le cose. Resistere all'Impero non era più qualcosa che faceva per se stesso, ma per i Varden e per tutti i popoli ancora schiacciati dalla tirannia di Galbatorix. Non importava quanto ci sarebbe voluto; si sarebbe dedicato con ogni fibra del suo essere a quella missione. Per il momento, la cosa migliore che poteva fare era servire la causa dei Varden. Tuttavia lui e Saphira stavano correndo un terribile rischio a impegnarsi con Nasuada. Il consiglio non avrebbe potuto obiettare, poiché Eragon aveva promesso soltanto di giurare fedeltà, ma non a chi. D'altro canto, lui e Saphira non potevano avere la certezza che Nasuada sarebbe stata un buon capo. È meglio giurare fedeltà a uno stolido onesto che a un saggio menzognero, si disse Eragon.

Nasuada non nascose la sua sorpresa. Impugnò l'elsa di Zar'roc e la sollevò, ammirandone la lama cremisi, poi ne posò la punta sulla testa di Eragon. «Accetto con onore la tua fedeltà, Cavaliere, come tu accetti tutte le responsabilità derivanti dal tuo rango. Alzati come mio vassallo, e riprendi la tua spada.»

Eragon fece come gli era stato detto. «Ora che sei la mia signora, posso rivelarti che il consiglio mi ha fatto promettere di giurare fedeltà ai Varden, una volta che tu fossi stata designata. Questo è l'unico modo in cui Saphira e io possiamo raggirarli.»

Nasuada rise di cuore. «Ah, vedo che hai già imparato a giocare il nostro gioco. Bene. Come mio nuovo e unico vassallo, acconsenti a giurarmi di nuovo la tua fedeltà... questa volta in pubblico, quando il consiglio si aspetterà il tuo impegno?»

«Ma certo.»

«Bene, così il consiglio sarà servito come merita. Adesso potete andare. Mi occorre tempo per pianificare, e devo prepararmi per i funerali... Ricorda, Eragon, il legame che abbiamo appena stretto ci vincola in pari misura: io sono responsabile delle tue azioni così come tu hai il dovere di servirmi. Non disonorarmi.»

«Così sia per entrambi.»

Nasuada fece una breve pausa, poi lo guardò negli occhi e addolcì il tono. «Ti porgo le mie condoglianze, Eragon. Mi rendo conto che altri, oltre a me, hanno motivo di cordoglio. Io ho perso mio padre, mentre tu hai perso un amico. Mi piaceva molto Murtagh, e mi rattrista il fatto che sia morto... Ora ti saluto.»

Eragon annuì, e lasciò la sala con l'amaro in bocca. Una volta uscito nell'ampio e deserto corridòio di pietra grigia, si fermò, le mani sui fianchi, gettò indietro la testa ed esalò un lungo sospiro. La giornata era appena iniziata, e già si sentiva esausto per tutte le emozioni che aveva provato.

Saphira lo spronò con il muso e gli disse: Da questa parte. Senza altre spiegazioni, la dragonessa imboccò il tunnel a destra, con le unghie lucide che ticchettavano sul duro pavimento.

Eragon aggrottò la fronte, ma la seguì. Dove stiamo andando? Nessuna risposta. Saphira, allora? Lei si limitò a un guizzo di coda. Rassegnato all'attesa, Eragon mutò registro. Le cose cambiano così in fretta per noi. Non so mai cosa aspettarmi da un giorno all'altro... tranne che dolore e spargimento di sangue.

Non va così male, ribattè lei. Possiamo vantare una grande vittoria. Dovremmo celebrarla, non rammaricarcene. Scusa, ma non mi sento di condividere la tua euforia.

La dragonessa sbuffò seccata. Una sottile lingua di fuoco le scaturì dalle narici, scottando la spalla di Eragon. Il giovane fece un salto indietro con uno strillo di sorpresa, mordendosi le labbra per non lasciarsi andare a una sfilza di imprecazioni. Oops, disse Saphira, scuotendo la testa per dissipare il fumo.

Oops? Per poco non mi mandavi arrosto!

Non volevo. Continuo a dimenticare che il fuoco esce da solo se non sto attenta. Immagina che ogni volta che alzi la mano ti parta un fulmine. Sarebbe facile fare un movimento distratto e distruggere qualcosa senza volerlo. Hai ragione... Scusa se me la sono presa.

Le sue palpebre coriacee schioccarono quando gli fece l'occhiolino. Non fa niente. Il punto dove volevo arrivare è che nemmeno Nasuada può costringerti a fare qualcosa.

Ma le ho dato la mia parola di Cavaliere!

Può darsi, ma se dovessi infrangerla per salvarti, o per fare la cosa giusta, io non esiterei. È un fardello che so di poter sopportare. Poiché sono legata a te, il mio onore è insito nel tuo giuramento, ma come individuo non sono vincolata. Se necessario, potrei rapirti. In questo modo, qualunque atto di disobbedienza non sarebbe colpa tua. Non si arriverà mai a questo. Se fossimo costretti a ricorrere a simili trucchi, vorrebbe dire che Nasuada e i Varden hanno perso la loro integrità. Saphira si fermò. Erano giunti davanti all'arco intarsiato della biblioteca di Tronjheim. L'ampia sala silenziosa sembrava deserta, ma le file di alti scaffali intervallati da colonne potevano nascondere molte persone. Le lanterne spandevano una morbida luce sulle pareti tappezzate di pergamene, illuminando le nicchie destinate alla consultazione. Facendosi strada fra gli scaffali, Saphira lo condusse a una nicchia dov'era seduta Arya. Eragon si fermò a studiarla. Sembrava più agitata di quanto l'avesse mai vista, anche se lo manifestava soltanto con una lieve tensione nei movimenti. Al contrario di poco prima, portava la spada dalla squisita impugnatura a croce, una mano appoggiata sull'elsa.

Eragon si sedette dall'altra parte del tavolo di marmo. Saphira prese posto tra di loro, dove nessuno poteva sfuggire al suo sguardo. «Cos'hai fatto?» esclamò Arya con inattesa ostilità. «Che cosa vuoi dire?» Lei sollevò il mento. «Cos'hai promesso ai Varden? Cos'hai fatto?»

L'ultima frase raggiunse Eragon anche mentalmente, chiaro indice di quanto l'elfa fosse vicina a perdere il controllo. Provò una punta di timore. «Abbiamo fatto quel che dovevamo. Non conosco le usanze degli elfi, e se le nostre azioni ti hanno arrecato offesa, chiedo scusa. Non c'è motivo di essere arrabbiata.»

«Stupido! Non sai niente di me. Ho trascorso qui sette decenni in rappresentanza della mia regina, e per quindici anni ho portato l'uovo di Saphira avanti e indietro fra i Varden e gli elfi. Per tutto questo tempo mi sono battuta per assicurare ai Varden una guida forte e saggia, in grado di resistere a Galbatorix e rispettare i nostri desideri. Brom mi ha aiutata elaborando l'accordo che riguardava il nuovo Cavaliere... te. Ajihad si impegnò affinchè tu restassi indipendente, per non alterare l'equilibrio dei poteri. E ora ti vedo schierarti, volente o nolente, con il Consiglio degli Anziani che intende controllare Nasuada! Hai distrutto una vita di lavoro! Cos'hai fatto?»

Sgomento, Eragon si affrettò a spiegarle, in modo chiaro e conciso, il motivo per cui aveva accettato le richieste del consiglio e il modo in cui lui e Saphira avevano cercato di aggirarle.

Quando ebbe finito, Arya disse: «È così?»

«È così.» Settant'anni. Pur sapendo che la vita di un elfo era straordinariamente lunga, non aveva mai sospettato che lei fosse tanto vecchia, dato che aveva l'aspetto di una ventenne. L'unico indizio che tradiva la vetustà sul suo volto privo di rughe erano gli occhi smeraldini: profondi, saggi e, molto spesso, solenni.

Arya si appoggiò allo schienale, studiandolo a fondo. «La tua posizione non è quella che desideravo, ma è meglio di quanto sperassi. Sono stata scortese; Saphira... e tu... comprendete molto più cose di quanto pensassi. Gli elfi accetteranno il tuo compromesso, ma tu non dovrai mai dimenticare di esserci debitore per Saphira. Non esisterebbero Cavalieri senza i nostri sacrifici.»

«Il debito è impresso a fuoco nel mio sangue e nel mio

palmo» disse Eragon. Nel silenzio che seguì, il giovane si affannò a cercare un altro argomento, avido di prolungare la conversazione e magari di apprendere qualcosa di più sul suo conto. «Sei stata lontana per così tanto tempo... Ti manca Ellesméra? Oppure vivi da qualche altra parte?»

«Ellesméra era e sarà sempre la mia patria» rispose lei, con lo sguardo perso oltre le spalle di lui. «Non vivo nella mia casa natale da quando sono partita per unirmi ai Varden, quando le mura e le finestre sfoggiavano i primi boccioli di primavera. Le volte che sono tornata sono state soltanto fugaci passaggi, minuscoli brandelli di memoria, secondo i nostri criteri di misura.»

Eragon notò, ancora una volta, che l'elfa odorava di aghi di pino. Era un profumo evanescente eppure acuto, che gli acuiva i sensi e gli rinfrescava la mente. «Dev'essere difficile vivere fra tutti questi umani e nani, senza nessuno della tua specie.»

Lei inclinò la testa da un lato. «Parli degli umani come se tu non ne facessi parte.»

«Forse...» esitò lui, «forse sono qualcos'altro... un misto di due razze. Saphira vive dentro di me, così come io vivo in lei. Condividiamo sentimenti, sensazioni, pensieri, a tal punto che spesso siamo una sola mente, invece che due.» Saphira abbassò la testa per manifestare il suo accordo, rischiando di ribaltare il tavolo con il muso. «È come dovrebbe essere» osservò Arya. «Un patto più antico e potente di quanto tu possa immaginare vi unisce. Non potrai comprendere appieno cosa significa essere un Cavaliere finché non avrai completato il tuo addestramento. Ma per questo occorrerà aspettare fino alle esequie. Nel frattempo, che le stelle ti proteggano.»

Arya si alzò e si allontanò inghiottita dalle ombre della biblioteca. Eragon sbattè le palpebre. Sono io, oppure oggi hanno tutti i nervi a fior di pelle? Guarda Arya... un momento prima è su tutte le furie, un momento dopo mi da la sua benedizione!

Nessuno si sentirà a proprio agio finché le cose non torneranno alla normalità.

Se riesci a spiegarmi che cosa vuol dire normalità...

RORAN

Roran arrancava su per la collina. Sostò e socchiuse gli occhi contro il riverbero del sole, sotto la frangia di capelli ispidi. Ancora cinque ore al tramonto. Non potrò restare a lungo. Con un sospiro, riprese il cammino lungo il filare di olmi, che svettavano da zolle d'erba incolta.

Era la sua prima visita alla fattoria da quando lui, Horst e altri sei uomini di Carvahall avevano raccolto le poche cose che si erano salvate dalla casa distrutta e dal fienile bruciato. Aveva lasciato passare ben cinque mesi prima di trovare la forza di tornare.

Raggiunta la cima del colle, Roran si fermò e incrociò le braccia. Davanti a lui giacevano le rovine della sua casa natale. Un angolo della casa restava in piedi, diroccato e annerito, ma il resto era disseminato sul terreno, già ricoperto da un folto tappeto di erbacce. Del fienile non restava più nulla. I pochi acri che ogni anno riuscivano a coltivare erano stati invasi da piante di tarassaco, senape selvatica e altre erbe infestanti. Qualche rapa o barbabietola era sopravvissuta, ma non altro. Poco oltre la fattoria, una folta cinta di alberi oscurava il fiume Anora.

Roran serrò i pugni, i muscoli della mascella contratti nello sforzo di reprimere il misto di rabbia e di angoscia che provava. Rimase immobile per lunghi minuti, rabbrividendo ogni volta che gli sovveniva un ricordo piacevole. Quel luogo rappresentava tutta la sua vita, e anche di più. Era il suo passato... e il suo futuro. Suo padre, Garrow, una volta gli aveva detto: "La terra è qualcosa di speciale. Abbi cura di lei, e lei si prenderà cura di te. Non ci sono molte altre cose che lo fanno." Roran aveva avuto intenzione di seguire alla lettera quel saggio consiglio, fino al momento in cui un breve messaggio di Baldor aveva sconvolto il suo mondo.

Lasciandosi sfuggire un gemito, si volse e scese lungo il pendio per tornare sulla strada maestra. L'angoscia di quel momento riecheggiava ancora dentro di lui: aver perso tutti coloro che amava era un evento sconvolgente da cui non si sarebbe mai ripreso e che aveva alterato ogni aspetto del suo comportamento e del suo modo di pensare. Si era visto costretto a riflettere molto più di quanto non fosse abituato a fare. Era come se fino ad allora avesse avuto la mente fasciata di bende; bende che gli erano state strappate via di colpo, dandogli modo di contemplare certe idee inimmaginabili solo qualche tempo prima. Come il fatto che forse non sarebbe mai diventato un agricoltore, o che la giustizia - tanto decantata nelle ballate e nelle leggende - aveva ben poco spazio nella realtà. A volte si sentiva talmente oppresso da questi pensieri da non riuscire quasi ad alzarsi dal letto la mattina, tanto erano penosi. Imboccata la strada maestra, si diresse a nord, percorrendo la Valle Palancar per tornare a Carvahall. Le montagne frastagliate che svettavano su entrambi i lati erano coperte di neve, malgrado il verde primaverile avesse già cominciato a insinuarsi nella valle durante le ultime settimane. Nel cielo, una solitària nube grigia avanzava verso i picchi. Roran si passò una mano sul mento, coperto da una barba sottile. Eragon è stato la causa di tutto questo - lui e la sua maledetta curiosità - quando ha raccolto quella pietra sulla Grande Dorsale. Gli ci erano volute settimane per arrivare a quella conclusione. Aveva ascoltato i racconti della gente.

Più e più volte aveva chiesto a Gertrude, la guaritrice del paese, di leggergli ad alta voce la lettera che Brom gli aveva lasciato. Non c'erano altre spiegazioni. Qualunque cosa fosse, dev'essere stata quella pietra ad attirare gli stranieri. Per questo riteneva Eragon responsabile della morte di Garrow, pur senza provare rancore; sapeva che Eragon non aveva agito con l'intenzione di fare del male. No, ciò che più lo faceva infuriare era il fatto che Eragon avesse lasciato Garrow senza sepoltura e che fosse fuggito dalla Valle Palancar, abbandonando le sue responsabilità per seguire un vecchio cantastorie in un viaggio assurdo. Come ha potuto avere così poco rispetto per coloro che lasciava? È fuggito perché si sentiva in colpa? Perché aveva paura? Brom lo ha convinto parlandogli di chissà quali fantastiche avventure? E perché Eragon gli ha prestato ascolto in un momento del genere?... Non sapeva nemmeno se Eragon era vivo o morto. Roran si accigliò e scrollò le spalle, cercando di schiarirsi la mente. La lettera di Brom... bah! Non aveva mai sentito una più sconclusionata sequela di insinuazioni e ammonimenti. L'unica cosa che risultava chiara era il consiglio di evitare gli stranieri, ma per quello bastava un po' di buon senso. Il vecchio era un pazzo, decise.

Con la coda dell'occhio colse un movimento, si volse e vide un branco di dodici cervi - tra cui un giovane maschio dalle corna vellutate - che trottava verso gli alberi. Annotò mentalmente il luogo per poterlo ritrovare l'indomani. Era fiero di saper cacciare abbastanza bene da contribuire al sostentamento della famiglia di Horst, di cui era ospite, anche se non era mai stato bravo quanto Eragon.

Mentre camminava, continuava a mettere ordine nei propri pensieri. Dopo la morte di Garrow, Roran aveva lasciato il suo lavoro al mulino di Dempton a Therinsford per tornare a Carvahall. Horst lo aveva accolto in casa propria e, nei mesi successivi, gli aveva procurato un lavoro nella fucina. Il dolore del lutto aveva ritardato le decisioni di Roran circa il suo futuro fino a due giorni prima, quando aveva stabilito una linea d'azione.

Voleva sposare Katrina, la figlia del macellaio. La ragione per cui all'inizio era andato a Therinsford era stata quella di guadagnare abbastanza da garantire un sereno inizio alla loro vita insieme. Ma adesso, senza più casa, senza più fattoria, e mezzi per sostenerla, Roran non poteva in tutta coscienza chiedere la mano di Katrina. Era il suo orgoglio a impedirglielo. E comunque non pensava che Sloan, il padre della ragazza, avrebbe mai accettato un pretendente dalle prospettive così misere. Anche nella più rosea delle ipotesi, Roran si era aspettato di dover faticare per convincere Sloan a concedergli Katrina: i due non erano mai stati in buoni rapporti. Ed era praticamente impossibile per Roran sposare Katrina senza il consenso del padre, se non volevano dividere la famiglia, provocare il villaggio sfidando le tradizioni e, con ogni probabilità, ingaggiare una faida sanguinosa con Sloan.

Tutto considerato, Roran riteneva che la sua unica opportunità era quella di rimettere in piedi la fattoria, avesse dovuto ricostruire la casa e il fienile lui stesso. Sarebbe stata un'impresa ardua, dovendo partire da zero, ma una volta consolidata la sua posizione, avrebbe potuto affrontare Sloan a testa alta. La prossima primavera potrò andargli a parlare, pensò Roran con un sorriso mesto.

Sapeva che Katrina avrebbe aspettato... almeno per qualche tempo.

Continuò di buon passo fino a sera, quando arrivò in vista del villaggio. Nella piccola cerchia di umili dimore, sventolavano i panni stesi ad asciugare da una finestra all'altra. Gli uomini tornavano a casa dai campi verdeggianti di grano. Sullo sfondo, le Cascate di Igualda, alte mezzo miglio, scintillavano al tramonto precipitando dalla Grande Dorsale nell'Anora. La visione confortò Roran con la sua normalità. Niente era più rassicurante di vedere che tutto era come doveva essere.

Lasciò la strada maestra e risalì il pendio in cima al quale si trovava la casa di Horst, affacciata sulla Grande Dorsale. La porta era già aperta. Roran entrò e seguì le voci che conversavano fino in cucina.

Al tavolo di legno grezzo, addossato a una parete della stanza, c'erano Horst, con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e sua moglie Elain, incinta di cinque mesi e sorridente; di fronte erano seduti Albriech e Baldor, i loro figli. Quando Roran entrò, Albriech stava dicendo: «... e non mi ero mosso dalla fucina! Thane giura di avermi visto, ma io ero dall'altra parte del villaggio.»

«Che succede?» domandò Roran, sfilandosi lo zaino dalle spalle.

Elain scambiò un'occhiata con Horst. «Ti porto qualcosa da mangiare» disse, e gli andò a prendere del pane e un piatto di manzo freddo. Poi lo guardò negli occhi, come in cerca di una particolare espressione. «Com'è andata?» Roran si strinse nelle spalle. «Tutto il legno è bruciato o marcito... non si può riutilizzare niente. Ma almeno il pozzo è rimasto intatto, qualcosa di cui dovrei rallegrarmi, suppongo. Dovrò tagliare legna per la casa il più presto possibile se voglio avere un tetto sulla testa per la stagione della semina. Ma ditemi. Cosa è successo?»

«Ha!» fece Horst. «Una disputa bell'e buona, ecco cosa. Thane dice che gli manca una falce e che pensa l'abbia presa Albriech.»

«Probabilmente l'ha lasciata nel campo e si è dimenticato dove» sbuffò Albriech.

«Già» convenne Horst sorridendo.

Roran addentò il pane. «Ma che senso ha accusarti? Se ti serviva una falce, ti bastava forgiarne una.» «Lo so» disse Albriech, appoggiandosi allo schienale, «ma invece di cercarla, ha cominciato a borbottare di aver visto qualcuno che si allontanava dal suo campo, qualcuno che mi somigliava... e siccome nessuno mi assomiglia, ha concluso che devo essere stato io.»

Era vero che nessuno gli assomigliava. Albriech aveva ereditato la corporatura massiccia del padre e i capelli biondo miele della madre, il che lo rendeva una rarità a Carvahall, dove il castano era il colore predominante. In contrasto, Baldor era più magro e aveva i capelli scuri.

«Sono sicuro che salterà fuori» disse Baldor con voce sommessa. «Nel frattempo, cerca di non prendertela troppo.» «È facile dirlo per te.»

Mentre Roran finiva il pane e attaccava il manzo, chiese a Horst: «Hai bisogno di me domani?»

«Non credo. Devo lavorare al carro di Quimby. Quel maledetto coso non ne vuol sapere di stare dritto.» Roran annuì compiaciuto. «Bene. Allora mi prendo la giornata per andare a caccia. Ho visto un piccolo branco di cervi giù nella valle, che mi sembrano abbastanza in carne. Almeno non gli si contavano le costole.»

Baldor s'illuminò di colpo. «Ti serve compagnia?»

«Certo. Partiamo all'alba.»

Terminata la cena, Roran si lavò il viso e le mani, e uscì per schiarirsi le idee. Sulla soglia si stiracchiò e poi si avviò verso il centro del paese.

A metà strada, un brusìo di voci eccitate davanti ai Sette Covoni attirò la sua attenzione. Si volse, incuriosito, e si diresse alla taverna, dove lo aspettava un insolito spettacolo. Seduto sotto il portico c'era un uomo di mezz'età che indossava un soprabito di pelli cucite. Accanto a lui c'era uno zaino festonato dalle ganasce d'acciaio delle tagliole da cacciatore. C'erano decine di persone del villaggio che ascoltavano mentre l'uomo gesticolava eccitato e diceva: «Così quando sono arrivato a Therinsford, sono andato da questo Neil, un brav'uomo. Lo aiuto nei campi in primavera e d'estate.»

Roran annuì. I cacciatori di pellicce trascorrevano l'inverno fra le montagne, tornando in primavera per vendere le pelli ai conciatori come Gedric e lavorare come braccianti per i contadini. Poiché Carvahall era il villaggio più a nord della Grande Dorsale, molti cacciatori vi passavano: una delle ragioni per cui Carvahall aveva una sua taverna, un fabbro e un conciatore.

«Dopo qualche boccale di birra - per lubrificarmi la lingua, sapete, visto che non spiccicavo parola da sei mesi, se non per mandare al diavolo il mondo e il resto dell'universo quando perdevo una preda - sono andato da Neil, con la barba ancora bagnata di schiuma, e abbiamo cominciato a scambiare quattro chiacchiere. Gli faccio qualche domanda innocente, tanto per dire, tipo che si dice dell'Impero e del re - che possa marcire - e se è nato o morto o è stato bandito qualcuno che dovrei sapere. E Neil che fa? Si sporge verso di me tutto serio e mi racconta che da Dras-Leona e da Gil'ead sono giunte voci di strani accadimenti in tutta Alagaésia. Gli Urgali sono praticamente scomparsi dai territori civilizzati, evviva, ma nessuno sa dire perché o che fine hanno fatto. I commerci dell'Impero languiscono in seguito a una serie di razzìe e attacchi, ma da quanto ho sentito non è opera di semplici briganti, perché gli attacchi sono troppo diffusi e organizzati. Non rubano niente, si limitano a bruciare e a distruggere. Ma non è tutto, oh no, non finisce qui, per i baffi di quella santa donna di vostra nonna!»

Il cacciatore scosse la testa e bevve un sorso dall'otre di vino che portava a tracolla prima di proseguire: «Si parla di uno Spettro che vaga per i territori del nord. È stato avvistato ai margini della Du Weldenvarden e nei pressi di Gil'ead. Dicono che abbia i denti aguzzi e gli occhi rossi come il vino, e i capelli cremisi come il sangue che beve. E quel che è peggio, pare che qualcosa abbia fatto infuriare quel pazzo del nostro buon monarca. Cinque giorni fa, un giocoliere proveniente dal sud ha fatto tappa a Therinsford durante il suo viaggio solitario verso Ceunon, e ha detto di aver visto che le truppe venivano radunate e spostate, anche se non sapeva perché.» Si strinse nelle spalle. «Come mi ha insegnato il mio vecchio fin da quando ero un poppante, non c'è fumo senza arrosto. Forse sono i Varden. Nel corso degli anni hanno dato non poche gatte da pelare al nostro vecchio Ossadiferro. O forse Galbatorix ha finalmente deciso che non intende più tollerare il Surda. Almeno sa dove si trova, al contrario dei ribelli. Schiaccerà il Surda come un orso schiaccia una formica, date retta a me.» Roran si accigliò, mentre intorno al dell'avvistamento di uno Spettro - suonava troppo come una panzana da boscaiolo ubriaco - ma il resto gli sembrava abbastanza brutto da essere vero. Il Surda... Ben poche informazioni su quel paese distante raggiungevano Carvahall, ma Roran se non altro sapeva che, pur essendoci una pace apparente fra il Surda e l'Impero, i surdani vivevano nella paura costante che il loro più potente vicino del nord li invadesse. Per questa ragione si diceva che Orrin, il loro re, sostenesse i Varden.

Se il cacciatore aveva ragione su Galbatorix, poteva significare soltanto una cosa: stava per scoppiare una guerra devastante, con tutte le terribili conseguenze del caso, come l'aumento delle tasse e la leva forzata. Quanto preferirei vivere in un'epoca priva di eventi importanti. Le guerre rendono le vite come la nostra, già difficili, praticamente impossibili.

«Per di più, si parla di...» E qui il cacciatore fece una pausa e, con un'espressione sapiente, si batte il naso con la punta dell'indice. «Di un nuovo Cavaliere in Alagaésia.» E scoppiò in una fragorosa risata, tenendosi la pancia mentre si dondolava sul gradino del portico.

Anche Roran si mise a ridere. Ad anni alterni circolavano storie che parlavano dei Cavalieri. Le prime due o tre volte si era lasciato convincere, ma poi aveva imparato a non fidarsi di questi racconti, che non approdavano mai a nulla di concreto. Quelle storie non erano altro che l'espressione di un desiderio da parte di coloro che anelavano a un futuro migliore.

Stava per girare i tacchi quando notò Katrina in piedi all'angolo della taverna, vestita con una lunga tunica rossiccia ornata da un nastro verde. La ragazza ricambiò il suo sguardo con la stessa intensità. Roran si avvicinò, le sfiorò una spalla, e insieme si allontanarono dalla folla.

Camminarono fino ai margini di Carvahall, dove si fermarono a contemplare le stelle. Il cielo era terso quella sera, scintillante di una miriade di fuochi celesti, solcato da nord a sud dalla gloriosa fascia lattiginosa simile a polvere di diamanti.

Senza guardarlo, Katrina gli posò la testa su una spalla e gli chiese: «Com'è andata la giornata?» «Sono tornato a casa.» La sentì irrigidirsi contro il suo corpo.

«Come ti sei sentito?»

«Malissimo.» La sua voce s'incrinò e rimase in silenzio, abbracciandola stretta. La fragranza dei suoi capelli ramati sulla guancia era come un elisir distillato da vino, spezie ed essenze profumate. Gli penetrò nelle ossa, riempiendolo di un calore confortante. «La casa, il fienile, tutto distrutto... Non li avrei mai trovati, se non avessi saputo dove cercare.» Finalmente lei si volse a guardarlo, le stelle che si riflettevano nei suoi occhi, il volto adombrato dal dolore. «Oh, Roran.» Lo baciò, sfiorandogli le labbra per un breve istante. «Hai sopportato così tante pene, eppure la tua forza non ti ha mai abbandonato. Tornerai alla fattoria adesso?»

cacciatore esplodeva una babele di domande. Era propenso a dubitare «Sì. È tutto quello che ho.» «E che ne sarà di me?»

Lui esitò. Dal momento in cui aveva cominciato a corteggiarla, fra di loro si era stabilito il tacito accordo che si sarebbero sposati. Non c'era stato bisogno di dar voce alle proprie intenzioni; erano chiare come il sole, e perciò la domanda di lei lo turbò. Non gli sembrava opportuno introdurre l'argomento in maniera così schietta, quando non era ancora pronto a fare la proposta. La prima mossa spettava a lui - con una dichiarazione prima a Sloan e poi a Katrina - e non a lei. Ma adesso che la ragazza aveva espresso la sua apprensione, Roran si vide costretto a discuterne. «Katrina... non posso affrontare tuo padre come avevo progettato. Mi riderebbe in faccia, e non avrebbe tutti i torti. Dobbiamo pazientare. Soltanto quando avrò una casa dove poter vivere insieme e la terra mi avrà fruttato il primo raccolto, allora mi ascolterà.» Lei rivolse ancora lo sguardo al cielo, e mormorò qualcosa a voce talmente bassa che lui non riuscì a capire. «Cosa?»

«Ho detto, hai paura di lui?»

«Certo che no! Io...»

«Allora devi ottenere il suo consenso, domani, e annunciare il fidanzamento. Devi fargli capire che anche se adesso non hai niente, riuscirai a darmi una casa e sarai un genero di cui andare orgoglioso. Non c'è ragione di sprecare i nostri anni vivendo lontani, quando proviamo questi sentimenti.»

«Non posso» insistette lui, con una nota di disperazione, perché lei capisse. «Non posso provvedere a te, non...» «Ma non capisci?» esclamò lei angosciata, allontanandosi di qualche passo. «Io ti amo, Roran, e voglio sposarti, ma mio padre ha altri progetti per me. Ci sono altri uomini, di gran lunga preferibili dal suo punto di vista, e più a lungo tu aspetti, più lui mi sprona ad accettare un marito di suo gradimento. Teme che diventi una vecchia zitella, e anch'io ho paura. Non ho molto tempo, né scelta, qui a Carvahall... Se dovrò sposare un altro, lo farò.» Le lacrime scintillarono nei suoi occhi mentre lo scrutava ansiosa, in attesa di una risposta; poi raccolse l'orlo della veste e scappò verso casa. Roran rimase immobile, impietrito dal terrore. La sua assenza era dolorosa quando la perdita della fattoria: il mondo si era trasformato all'improvviso in una landa gelida e inospitale. Era come se gli avessero strappato un brano di carne. Trascorse lunghe ore a vagare smarrito prima di tornare a casa di Horst e infilarsi nel letto.

I CACCIATORI BRACCATI

Il terriccio scricchiolava sotto gli stivali di Roran mentre scendeva lungo la valle, fredda e grigia nelle prime ore del mattino. Baldor lo seguiva; entrambi avevano gli archi incordati. Nessuno dei due parlava mentre studiavano l'ambiente in cerca di tracce di cervi.

«Laggiù» sussurrò Baldor, indicando una serie di impronte che si dirigevano verso un cespuglio di rovi sulla sponda dell'Anora.

Roran annuì e cominciò a seguire la pista. Dato che gli sembrava vecchia di un giorno, si arrischiò a parlare. «Posso chiederti un consiglio, Baldor? Mi sembri uno che capisce le persone.»

«Naturale. Di che si tratta?»

Per diverso tempo, l'unico suono fu il rumore dei loro passi. «Sloan vuole maritare sua figlia Katrina, ma non con me. Ogni giorno che passa, aumentano le probabilità che combini un matrimonio di suo gradimento.» «Katrina cosa ne pensa?»

Roran scrollò le spalle. «Lui è suo padre. Non può continuare a sfidare la sua volontà quando la persona che lei desidera non si è ancora fatta avanti per chiederla in sposa.»

«Vale a dire tu.»

«Già.»

«Ecco perché ti sei alzato così presto.» Non era una domanda.

A dire il vero, Roran era stato così angosciato da non dormire affatto. Aveva trascorso la notte a pensare a Katrina, nel tentativo di trovare una soluzione allo spinoso problema. «Non posso tollerare di perderla. Ma non credo che Sloan ci darà la sua benedizione, vista la mia posizione e il resto.»

«No, non lo credo nemmeno io» disse Baldor, rivolgendo a Roran un fugace sguardo con la coda dell'occhio. «Ma a che proposito vuoi il mio consiglio?»

Roran si lasciò sfuggire una risatina amara. «Come faccio a convincere Sloan? Come posso risolvere la questione senza scatenare una faida sanguinosa?» Alzò le braccia al cielo. «Cosa devo fare?»

«Non hai nessunissima idea?»

«Una ce l'avrei, ma non mi piace molto. Ho pensato che Katrina e io potremmo annunciare il nostro fidanzamento... non che sia vero... e aspettare le conseguenze. Questo costringerebbe Sloan ad accettare la nostra promessa di matrimonio.» La fronte di Baldor si corrugò. «Forse» commentò pensoso, «ma potrebbe anche suscitare malanimo in tutta Carvahall. Pochi approverebbero il vostro gesto. E non sarebbe giusto costringere Katrina a scegliere fra te e la sua famiglia. Potrebbe rinfacciartelo per anni.»

«Lo so, ma che alternative mi restano?»

«Prima di compiere un passo così drastico, fossi in te cercherei di guadagnarmi la stima di Sloan. In fin dei conti, potresti riuscirci, specie se gli fai capire che nessuno vorrebbe sposare una Katrina infuriata. Tantopiù se tu le restassi attorno, ridicolizzando il marito.» Roran fece una smorfia e abbassò lo sguardo a terra. Baldor ridacchiò. «Se fallisci, be', allora potrai procedere tranquillo, sapendo che hai già battuto tutte le altre strade. E la gente sarà meno propensa a darvi addosso per aver infranto le tradizioni, e diranno che è stato Sloan con la sua testardaggine ad attirarsi la sventura.»

«Non è facile.»

«Lo sapevi fin dal principio.» Baldor tornò serio. «Senza dubbio voleranno parole grosse se sfiderai Sloan, ma alla fine le cose si sistemeranno... se non in maniera perfetta, almeno tollerabile. A parte Sloan, le uniche persone che avranno da ridire saranno i bacchettoni come Quimby, anche se proprio non riesco a capire come Quimby possa distillare una birra tanto buona, quando lui è così acido e amaro.»

Roran annuì. I rancori potevano covare per anni a Carvahall. «Sono contento che abbiamo parlato. È stato...» S'interruppe, ripensando alle conversazioni che lui ed Eragon avevano un tempo. Erano stati, come aveva detto Eragon una volta, fratelli in tutto, tranne che nel sangue. Era stato confortante sapere che esisteva qualcuno disposto ad ascoltarlo, a prescindere dal tempo e dalle circostanze. E sapere che quella persona lo avrebbe sempre aiutato, a tutti i costi.

La mancanza di quel legame aveva lasciato un gran vuoto in Roran.

Baldor non lo incitò a terminare la frase, ma si fermò a bere dal suo otre di pelle. Roran continuò per qualche passo, poi si fermò fiutando un odore che s'insinuò nei suoi pensieri.

Era l'aroma pungente di carne arrostita e rami di pino bruciati. Chi c'è qui oltre a noi? Annusando l'aria, girò in circolo per stabilire la provenienza dell'odore. Un debole refolo di vento risalì dalla strada sottostante, carico di un odore caldo e fumoso. L'aroma del cibo era così forte da fargli venire l'acquolina in bocca.

Fece cenno a Baldor di avvicinarsi. «Lo senti?»

Baldor rispose di sì con un cenno della testa. Insieme tornarono sulla strada e si diressero a sud. A un centinaio di piedi di distanza, la strada spariva dietro una curva orlata da un boschetto di pioppi. Si avvicinarono cauti e sentirono delle voci che giungevano attenuate dalla densa cappa di nebbia mattutina sulla valle.

Ai margini del boschetto, Roran rallentò e si fermò. Era sciocco cogliere di sorpresa un gruppo di persone che con ogni probabilità erano a caccia come loro, ma c'era qualcosa che non gli tornava. Forse era il numero di voci: il gruppo sembrava più grande di qualsiasi famiglia della valle. Senza riflettere troppo, abbandonò la strada e scivolò dietro i cespugli che delimitavano il boschetto.

«Che fai?» mormorò Baldor.

Roran si portò l'indice alle labbra, poi strisciò parallelo alla strada, attento a fare meno rumore possibile. Nell'aggirare la curva, si sentì ghiacciare il sangue nelle vene.

Sul prato che costeggiava la strada erano accampati dei soldati. Trenta elmi scintillavano sotto i raggi del primo mattino, mentre i loro proprietari divoravano pollame e cacciagione arrostiti su diversi falò sparsi. Gli uomini erano sporchi di fango e fradici di sudore, ma l'emblema di Galbatorix era ancora ben visibile sulle tuniche rosse, una fiamma guizzante bordata d'oro. Sotto le tuniche, indossavano brigantine - casacche di pelle rinforzate da lamelle di acciaio -, cotte di maglia e giubbe imbottite. La maggior parte dei soldati erano armati di spadoni, anche se una mezza dozzina erano arcieri e un'altra mezza dozzina portavano alabarde dall'aria minacciosa.

Accovacciate nel mezzo c'erano due nere figure gibbose che Roran riconobbe dalle numerose descrizioni che i paesani gli avevano fornito al suo ritorno da Therinsford: gli stranieri che avevano distrutto la sua fattoria. Si sentì mancare il fiato. Sono servi dell'Impero! Si preparò ad attaccare, le dita già strette intorno a una freccia, quando Baldor lo afferrò per la giacchetta e lo tirò indietro.

«Fermo. Così ci fai ammazzare.»

Roran gli rivolse uno sguardo furente, poi ringhiò: «Sono... sono quei bastardi...» S'interruppe, notando quanto gli tremavano le mani. «Sono tornati!»

«Roran» sussurrò Baldor, risoluto, «non puoi fare niente. Guarda, sono al servizio del re. Anche se riuscissi a fuggire, diventeresti un fuorilegge e attireresti la sventura su Carvahall.»

«Ma cosa vogliono? Cosa possono volere?» Il re. Come ha potuto Galbatorix permettere che torturassero mio padre? «Se non hanno ottenuto quel che volevano da Garrow, ed Eragon è fuggito con Brom, allora sono tornati per te.» Baldor fece una pausa, per consentire alle sue parole di colpire nel segno. «Dobbiamo tornare indietro e avvertire tutti. Poi ti dovrai nascondere. Gli stranieri hanno

i cavalli.

Ma possiamo arrivare per primi, se ci mettiamo a correre.»

Attraverso il fogliame del sottobosco, Roran osservò i soldati

ignari. Il suo cuore cominciò a battere selvaggiamente, assetato di vendetta, bramoso di attaccare e combattere, di vedere quei due portatori di morte trafitti dalle sue frecce e ripagati con la loro stessa moneta. Non gl'importava di morire, purché il suo dolore venisse cancellato in un unico istante di cieca ferocia. Non doveva far altro che uscire allo scoperto. Il resto sarebbe venuto da sé.

Ancora un piccolo passo.

Con un singhiozzo strozzato, serrò i pugni e abbassò lo sguardo. Non posso abbandonare Katrina. Rimase immobile, gli occhi chiusi con forza, poi indietreggiò lentamente. «A casa, dunque.»

Senza aspettare la reazione di Baldor, Roran tornò lesto fra gli alberi, attento a non fare rumore, e quando l'accampamento fu abbastanza lontano, uscì sulla strada e cominciò a correre a perdifiato, riversando nelle gambe ogni oncia della sua frustrazione, della sua rabbia e della sua paura.

Baldor lo imitò, guadagnando terreno sul rettilineo. Roran rallentò per farsi raggiungere, e disse: «Tu avverti gli altri. Io vado a parlare con Horst.» Baldor annuì e ripresero a correre.

Dopo due miglia, si fermarono a dissetarsi e a riprendere fiato. Quando ebbero smesso di ansimare, proseguirono per le basse colline che precedevano Carvahall. Persero tempo con tutte quelle salite e discese, ma finalmente giunsero in vista del villaggio.

Roran prese la via della fucina, mentre Baldor si diresse al centro del paese. Correndo davanti alle case, Roran cercava di escogitare un metodo per evitare gli stranieri o per ucciderli senza incorrere nelle ire dell'Impero. Piombò nella fucina mentre Horst stava conficcando una zeppa nel fianco del carro di Quimby, cantando: ... ehi ho!

Ringhia e freme irritato come un gatto il vecchio ferro! Il buon vecchio ferro. Batti e ribatti sgobbando come un matto, ho conquistato il buon vecchio ferro!

Horst si fermò con il maglio a mezz'aria nel vedere Roran. «Cosa succede? Baldor è ferito?»

Roran scosse la testa, piegato in due per riprendere fiato. Con brevi frasi smozzicate, riferì tutto quello che avevano visto e le possibili implicazioni, dato che con ogni evidenza gli stranieri erano agenti dell'Impero. Horst si accarezzò la barba. «Devi lasciare Carvahall. Torna a casa a fare provviste e prenditi la mia giumenta, Ivor la sta usando per dissodare il campo. Poi nasconditi sulle colline. Non appena sapremo cosa vogliono i soldati, ti manderò notizie tramite Albriech o Baldor.»

«Cosa direte se chiedono di me?»

«Che sei andato a caccia e che non sappiamo quando tornerai. In fin dei conti, non è troppo lontano dalla verità, e dubito che si arrischieranno a brancolare nei boschi per timore di perderti. Sempre ammesso che stiano cercando te.» Roran annuì, poi girò sui tacchi e corse a casa di Horst. Staccò i finimenti e le bisacce della giumenta da una parete, avvolse in una coperta alcune rape, barbabietole, carne essiccata e una pagnotta, afferrò una padella di stagno e schizzò via, fermandosi giusto il tempo di dare qualche spiegazione a Elain.

Le provviste gli davano impaccio mentre si allontanava da Carvahall verso est, dove si trovava la fattoria di Ivor. Il contadino era alle spalle della casa colonica; spronava con una fronda di salice la cavalla che si affannava per strappare le radici di un olmo dal terreno.

«Forza!» gridò il contadino. «Tira!» La cavalla rabbrividì per lo sforzo, schiumando intorno al morso, poi con un strattone finale capovolse il ceppo, che rimase con le radici puntate al cielo come una mano dalle dita adunche. Ivor la fermò con uno schiocco di redini e le batte la mano su un fianco ansimante. «Brava...

Ce l'hai fatta.»

Roran lo salutò da lontano, poi si avvicinò indicando la bestia. «Devo prenderla» disse, spiegando i motivi. Ivor imprecò e cominciò a staccare le briglie, borbottando: «Sempre la stessa storia: inizi un lavoro, e subito qualcuno arriva a interroperti. Mai che accada prima che incominci.» Incrociò le braccia e guardò accigliato Roran che sellava la giumenta.

Quando fu pronto, Roran montò in groppa alla cavalla, arco in pugno. «Mi rincresce per il disturbo, ma non c'era altro modo.»

«Be', non preoccuparti. Fai solo in modo di non farti catturare.»

«Te lo prometto.»

Mentre piantava i talloni nei fianchi della cavalla, Roran sentì Ivor che esclamava: «E non metterti nei guai!» Roran sorrise e scrollò la testa, chinandosi sul collo della giumenta. Ben presto raggiunse le colline ai piedi della Grande Dorsale e cominciò a risalire verso le montagne che delimitavano l'estremità settentrionale della Valle Palancar. Raggiunto un luogo da cui poteva osservare Carvahall senza essere visto, legò la cavalla e si preparò all'attesa. Roran rabbrividì, adocchiando i pini scuri. Non gli piaceva l'idea di essere così vicino alla Dorsale. Quasi nessun abitante di Carvahall osava avventurarsi su quella catena montuosa, e quelli che lo facevano, spesso non tornavano. Poco dopo vide i soldati marciare lungo la strada in doppia colonna, con le due tetre figure in testa al drappello. Alle porte di Carvahall vennero fermati da uno sparuto gruppo di uomini, alcuni con i forconi in mano. Le due parti parlottarono fra di loro, poi si fissarono in cagnesco, come bestie ringhianti che aspettano di vedere chi attaccherà per primo. Dopo un lungo momento, gli uomini di Carvahall si scansarono e fecero passare gli intrusi. E adesso? si domandò Roran, dondolandosi sui calcagni.

Al calar della sera, i soldati si acquartierarono in un prato ai margini del villaggio. Le loro tende formavano una cupa massa grigia, tremolante di ombre, mentre le sentinelle pattugliavano il perimetro. Al centro del campo, un grande falò spandeva volute di fumo nell'aria.

Anche Roran si era accampato, e adesso non poteva far altro che osservare e pensare. Aveva sempre dato per scontato che gli stranieri avessero ottenuto quel che volevano quando avevano dist la sua casa, ossia la pietra che Eragon aveva riportato dalla Grande Dorsale. Vuoi dire che non l'hanno trovata, concluse. Forse Eragon è riuscito a fuggire con la pietra. Forse ha capìto di dover scappare per proteggerla. Aggrottò la fronte. Questo avrebbe spiegato la fuga improvvisa di Eragon, eppure Roran non ne era ancora del tutto convinto. Quali che siano stati i motivi, quella pietra deve rappresentare un tesoro inestimabile se il re ha mandato così tanti uomini a recuperarla, anche se non capisco cosa la renda così preziosa. Forse è magica.

Inspirò a fondo l'aria fresca della notte, ascoltando il lugubre lamento di una civetta. Un movimento catturò la sua attenzione. Scoccando un'occhiata in basso, vide un uomo risalire dalla foresta. Roran si nascose dietro un masso, con l'arco pronto. Attese finché non ebbe la certezza che si trattava di Albriech, poi emise un fischio sommesso. Albriech raggiunse il masso. In spalla portava uno zaino stracolmo che posò sul terreno con un gemito. «Mi ero quasi convinto che non ti avrei

mai trovato.»

«Mi sorprende che tu ce l'abbia fatta.»

«Non posso certo dire di essermi divertito a vagare per la foresta dopo il tramonto... Mi aspettavo d'imbattermi da un momento all'altro in un orso, o peggio. Credi a me, la Dorsale non è posto adatto agli uomini.»

Roran fece un cenno con la testa in direzione di Carvahall. «Allora, perché sono venuti?»

«Per prenderti in custodia. Hanno detto che aspetteranno finché non tornerai dalla caccia.»

Roran si sedette di schianto, le viscere strette in una morsa di gelida apprensione. «Vi hanno detto perché? Hanno parlato della pietra?»

Albriech fece di no con il capo. «Hanno detto soltanto che è una questione che riguarda il re. Per tutto il giorno non hanno fatto che chiedere di te e di Eragon... soltanto questo interessa loro.» Esitò. «Resterei qui, ma domani si accorgerebbero che non ci sono. Ho portato viveri e coperte, e qualche unguento di Gertrude, nel caso ti ferissi. Dovresti stare bene, nascosto quassù.»

Facendo appello a tutte le sue energie, Roran abbozzò un sorriso. «Grazie dell'aiuto.»

«Chiunque lo farebbe» disse Albriech, scrollando le spalle imbarazzato. Si volse per andarsene, poi aggiunse da sopra una spalla: «Per inciso, i due stranieri... si chiamano Ra'zac.»

La promessa di Saphira

Il mattino dopo aver incontrato il Consiglio degli Anziani, Eragon stava lucidando e ingrassando la sella di Saphira, attento a non stancarsi troppo, quando ricevette una visita di Orik. Il nano attese che finisse con una cinghia, poi gli domandò: «Va meglio, oggi?»

«Un po'.»

«Bene, poiché tutti dobbiamo essere in forze. Sono venuto a informarmi sulla tua salute, ma anche perché Rothgar desidera parlare con te, se hai tempo.»

Eragon sorrise debolmente. «Ho sempre tempo per lui. Dovrebbe saperlo.»

Orik scoppiò a ridere. «Già, ma è buona educazione chiedere.» Mentre Eragon posava la sella, Saphira si alzò dal suo comodo pagliericcio e salutò Orik con un ringhio amichevole. «Buongiorno anche a te» disse il nano con un inchino. Orik li condusse lungo uno dei quattro corridoi principali di Tronjheim, verso la camera centrale e i due scaloni speculari che scendevano a spirale nel sottosuolo, dove si trovava la sala del trono del re dei nani. Prima di raggiungere la stanza, però, il nano imboccò una piccola rampa di scale. A Eragon ci volle qualche momento per capire che Orik aveva imboccato un passaggio secondario per evitare di vedere le rovine di Isidar Mithrim. Si fermarono davanti alle porte di granito incise con una corona a sette punte. Sette nani armati su ciascun lato dell'ingresso batterono all'unisono sul pavimento con i manici dei loro picconi. Con il tonfo echeggiante del legno sulla pietra, i battenti si aprirono verso l'interno.

Eragon fece un cenno a Orik, poi entrarono nella sala scarsamente illuminata insieme a Saphira. Avanzarono verso il trono distante, oltrepassando le rigide statue, le hirna, dei defunti re dei nani. Al cospetto del massiccio trono nero, Eragon s'inchinò. Il re dei nani ricambiò il saluto con un cenno del capo canuto; i rubini incastonati nell'elmo d'oro rilucevano nella penombra come scintille di ferro incandescente. Volund, la mazza da guerra, giaceva di traverso sulle gambe fasciate di maglia d'acciaio.

Rothgar parlò. «Ammazzaspettri, benvenuto nella mia dimora. Molte gesta hai compiuto dal nostro ultimo incontro. A quanto pare, mi sbagliavo sul conto di Zar'roc. La spada di Morzan sarà ben accetta a Tronjheim, finché sarai tu a impugnarla.»

«Ti ringrazio» disse Eragon, rialzandosi. «Inoltre» proseguì il nano con voce tonante «vorremmo che tenessi l'armatura che hai indossato durante la battaglia del Farthen Dùr. In questo preciso momento, i nostri migliori fabbri la stanno riparando. Lo stesso trattamento viene riservato all'armatura del drago, e quando sarà pronta, Saphira potrà indossarla finché vorrà, o almeno finché non le andrà troppo stretta. Questo è quanto possiamo fare per mostrarvi la nostra gratitudine. Se non fosse stato per la guerra contro Galbatorix, avremmo organizzato banchetti e festeggiamenti per celebrare il tuo nome... ma dovremo attendere tempi migliori.»

Dando voce sia ai propri sentimenti che a quelli di Saphira, Eragon disse: «La tua generosità ci commuove. Accettiamo con gioia i tuoi nobili doni.»

Per quanto compiaciuto, Rothgar si incupì, contraendo le sopracciglia cespugliose. «Non possiamo indugiare in simili convenevoli. Sono assediato dai clan che pretendono che faccia una cosa o l'altra in merito al successore di Ajihad. Quando ieri il Consiglio degli Anziani ha proclamato di sostenere Nasuada, si è scatenato un putiferio quale non ho mai visto da quando sono salito al trono. I capi hanno dovuto decidere se accettare Nasuada o cercare un altro candidato. La maggior parte ha concluso che Nasuada potrà guidare i Varden, ma io vorrei conoscere il tuo parere, Eragon, prima di sostenere l'una o l'altra fazione. La cosa peggiore che un re possa fare è comportarsi da sciocco.» Quanto possiamo raccontargli? Eragon chiese a Saphira, riflettendo in fretta.

Rothgar ci ha sempre trattati con correttezza, ma non possiamo sapere cosa ha promesso ad altri. Sarà meglio mantenere un atteggiamento cauto finché Nasuada non assumerà il potere.

D'accordo.

«Saphira e io abbiamo acconsentito ad aiutarla. Non ci opporremo alla sua designazione. E...» Eragon si chiese se non stesse parlando troppo, «... ti prego di fare altrettanto. I Varden non possono permettersi una lotta intestina. Hanno bisogno di unità.»

«Oei» disse Rothgar, appoggiandosi al duro schienale, «tu parli con nuova autorità. Il tuo suggerimento è saggio, ma comporta una domanda: pensi che Nasuada sarà una buona guida, o ci sono altri motivi dietro questa scelta?» È una prova, intervenne Saphira. Vuole sapere perché l'appoggiamo.

Eragon si sentì affiorare un sorriso sulle labbra. «Credo che sia molto saggia e perspicace per la sua età. Sì, sarà una buona guida per i Varden.»

«Ed è questo il motivo per cui la sostieni?»

«Sì.»

Rothgar annuì, facendo ondeggiare la lunga barba bianca. «Questo mi solleva. Troppa poca attenzione è stata dedicata di recente a cosa è buono e giusto, e troppa al potere individuale. È difficile assistere a tanta idiozia e non sentirsi adirati.»

Un silenzio inquietante scese fra di loro, aleggiando nella lunga sala del trono. Per spezzarlo, Eragon disse: «Cosa ne sarà della roccaforte dei draghi? Verrà costruito un nuovo pavimento?»

Per la prima volta, gli occhi del sovrano si adombrarono, rendendo più profonde le rughe che li circondavano come raggi di una ruota. Fu la cosa più simile al pianto che Eragon avesse mai visto in un nano. «Si dovrà discutere molto prima di intraprendere qualsiasi passo. È stato terribile, ciò che Saphira e Arya hanno fatto. Necessario, forse, ma terribile. Ah, chissà, forse avrei preferito che gli Urgali ci sconfiggessero, prima di vedere Isidar Mithrim distrutta. Il cuore stesso di Tronjheim è stato spezzato, e con lui il nostro.» Rothgar si posò il pugno chiuso sul petto, poi lentamente lo aprì, e con la mano strinse il manico di Volund fasciato di pelle.

Saphira toccò la mente di Eragon. Il giovane percepì nella dragonessa una varietà di emozioni, ma ciò che più lo sorprese fu il rimorso e il senso di colpa. Saphira rimpiangeva con tutto il cuore di aver distrutto lo Zaffiro Stellato, malgrado fosse stato un gesto necessario. Piccolo mio, disse lei, aiutami. Devo parlare con Rothgar. Chiedigli se i nani sono capaci di ricostruire Isidar Mithrim con i suoi frammenti.

Mentre Eragon ripeteva ad alta voce la domanda, Rothgar borbottò qualcosa nella propria lingua, poi disse: «Possediamo le capacità tecniche, ma a cosa servirebbe? L'impresa richiederebbe mesi, se non anni, e il risultato finale sarebbe una pallida e grottesca imitazione della bellezza che un tempo coronava Tronjheim. Non permetterei mai un simile abominio!»

Saphira continuava a fissare imperturbabile il re. Ora digli che se riuscissero a ricostruire Isidar Mithrim, senza tralasciare nemmeno il più piccolo frammento, sono sicura di poterlo far tornare integro come prima. Eragon spalancò la bocca, così sbalordito da dimenticarsi di Rothgar. Saphira! Pensa a quanta energia ci vorrebbe! Tu stessa mi hai detto di non saper usare la magia a comando, perciò come fai a essere tanto sicura? Posso farlo, in caso di estrema necessità. Sarà il mio dono per i nani. Rammenta il sepolcro di Brom per fugare ogni dubbio. E adesso chiudi la bocca... è indecoroso, e il re ti sta osservando.

Quando Eragon ebbe riferito le parole di Saphira, Rothgar si lasciò sfuggire un'esclamazione. «È mai possibile? Nemmeno gli elfi oserebbero compiere una simile impresa.»

«Lei ha fiducia nelle proprie capacità.»

«Allora ricostruiremo Isidar Mithrim, ci volessero cent'anni. Costruiremo un'intelaiatura per la gemma e collocheremo ogni frammento al suo posto. Non verrà tralasciata la minima scheggia. Anche se dovremo infrangere i pezzi più grossi per spostarli, useremo tutta la nostra maestria come tagliatori di pietre, per non perdere polvere o frammenti. Quando avremo finito, tornerete, e sanerete lo Zaffiro Stellato.»

«Verremo» promise Eragon con un inchino.

Rothgar sorrise, e fu come se una crepa si aprisse in un muro di granito. «Mi hai dato una gioia immensa, Saphira. Ho ritrovato un motivo per vivere e governare. Se riuscirai, i nani di ogni dove onoreranno il tuo nome per generazioni. Ora andate con la mia benedizione, mentre annuncio la lieta novella ai clan. E non sentitevi in obbligo di attendere il mio annuncio, poiché nessun nano deve restarne all'oscuro. Ditelo a chiunque incontrerete. Che le nostre mura possano riecheggiare del giubilo della nostra razza.»

Con un ultimo inchino, Eragon e Saphira si congedarono, lasciando il re dei nani ancora sorridente sul suo trono. Una volta usciti dalla sala, Eragon raccontò a Orik la novità. Il nano cadde in ginocchio e baciò il pavimento davanti a Saphira. Poi si alzò raggiante e strinse il braccio di Eragon, dicendo: «Un prodigio. Ci avete dato la speranza che ci serviva per sopportare i recenti avvenimenti. Scorreranno fiumi di birra stanotte, ve l'assicuro!»

«Ma domani ci saranno i funerali.»

Orik tornò serio per un momento. «Domani sì. Ma fino ad allora, che nessun pensiero funesto offuschi la nostra gioia! Venite!»

Preso Eragon per mano, il nano lo condusse attraverso Tronjheim verso una grande sala da banchetti dove c'erano molti nani seduti davanti ai tavoli di pietra. Orik balzò in piedi su un tavolo, facendo volare via i piatti, e con voce roboante annunciò la novità su Isidar Mithrim. Eragon rimase quasi assordato dalle grida di esultanza che seguirono. Ogni nano insistette per avvicinarsi a Saphira e baciare il pavimento come aveva fatto Orik. Quando ebbero finito, abbandonarono il cibo e riempirono i boccali di pietra con birra e idromele.

Eragon si unì ai brindisi con un abbandono che lo sorprese. Lo aiutava ad alleviare la malinconia che gli opprimeva il cuore. Tuttavia cercò di non lasciarsi andare del tutto, poiché era consapevole dei dovéri che lo attendevano il giorno dopo, e voleva conservare un minimo di lucidità.

Persino Saphira bevve un sorso di idromele, e quando scoprirono che le piaceva, i nani le portarono un intero barile. Abbassando con delicatezza le fauci possenti nel barile aperto, lo prosciugò con tre lunghi sorsi, poi levò la testa al soffitto e ruttò una gigantesca lingua di fuoco. Eragon impiegò parecchi minuti per convincere i nani che non avevano nulla da temere ad avvicinarsi di nuovo, ma a quel punto portarono un altro barile - nonostante le proteste del cuoco e osservarono compiaciuti la dragonessa che lo svuotava come il primo.

A mano a mano che Saphira si ubriacava, le sue emozioni e i suoi pensieri pervasero Eragon con intensità maggiore. Gli risultava sempre più difficile affidarsi ai propri sensi: la vista di lei prese il sopravvento sulla sua, confondendo i movimenti e cambiando i colori. Perfino gli odori divennero più forti e pungenti.

I nani cominciarono a cantare in coro. Dondolandosi sul posto, Saphira gorgheggiava insieme a loro, sottolineando ogni strofa con un ruggito. Anche Eragon aprì la bocca per cantare, ma rimase di stucco quando, invece delle parole, gli uscì il rantolo ringhiante tipico di un drago. Qui, pensò, scuotendo la testa, si esagera... O sono soltanto ubriaco? Poi decise che non gl'importava e riprese a cantare noncurante, voce di drago oppure nò.

I nani continuavano a riversarsi nella sala via via che si diffondeva la notizia su Isidar Mithrim. A centinaia si affollarono ai tavoli, formando un cerchio intorno a Eragon e Saphira. Orik chiamò i musicisti, che presero posto in un angolo e tolsero le coperture di velluto verde dai loro strumenti. Ben presto arpe, liuti e flauti d'argento emisero le loro note melodiose, superando il chiasso.

Ci vollero parecchie ore perché il clamore e l'eccitazione si placassero. A quel punto Orik salì di nuovo sul tavolo, e con le tozze gambe divaricate per non perdere l'equilibrio, il boccale in mano e l'elmo di ferro di sghimbescio, gridò: «Udite, udite! Finalmente abbiamo festeggiato come si conviene. Gli Urgali sono fuggiti, lo Spettro è morto, e noi abbiamo vinto!» I nani pestarono i pugni sui tavoli per manifestare la loro approvazione. Era un bel discorso conciso che andava dritto al punto. Ma Orik non aveva concluso. «A Eragon e Saphira!» ruggì, levando il bicchiere. Anche quest'ultima frase fu accolta da un'ovazione.

Eragon si alzò e si inchinò, suscitando altri applausi. Accanto a lui, Saphira s'impennò e si portò una zampa al petto, nel tentativo di imitare il suo gesto. Barcollò, e i nani, consci del pericolo, si affrettarono ad allontanarsi. Appena in tempo. Con un tonfo assordante, la dragonessa cadde all'indietro, schiantandosi su un tavolo di pietra. Eragon si sentì trafiggere la schiena da un lampo di dolore e crollò svenuto accanto alla sua coda. Requiem

"Svegliati, Knurlhiem! Non puoi dormire adesso. Ci aspettano al cancello... non cominceranno senza di noi.» Eragon si costrinse ad aprire gli occhi. Aveva un atroce mal di testa e il corpo dolorante. Era disteso su un freddo tavolo di pietra. «Come?» Fece una smorfia nel sentire un sapore nauseabondo sulla lingua.

Orik si tirò la barba scura. «Il corteo funebre di Ajihad. Dobbiamo andare!»

«No, come mi hai chiamato?» Si trovavano ancora nella sala dei banchetti, ma non c'era più nessuno, tranne lui, Orik e Saphira, riversa sul fianco fra due tavoli. Si mosse e alzò la testa, guardandosi intorno con gli occhi annebbiati. «Testadipietra! Ti ho chiamato Testadipietra perché ti sto chiamando da quasi un'ora.»

Eragon si alzò a sedere e scese dal tavolo sulle gambe malferme. Brevi immagini di quanto era accaduto la notte prima gli attraversarono la mente. Saphira, come ti senti? domandò, inciampando su di lei.

La dragonessa annuì lentamente, passandosi la lingua rossa sulle zanne, come un gatto che ha mangiato qualcosa di disgustoso. Tutta intera... mi fare. Mi sento l'ala sinistra un po' strana; credo sia quella su cui sono caduta. E ho la testa come trafitta da mille frecce incandescenti.

«Si è fatto male qualcuno quando è caduta?» chiese Eragon, preoccupato.

Una risata esplosiva scosse il torace del nano. «Solo quelli che sono caduti dalle sedie per il troppo ridere. Un drago che si ubriaca e stramazza! Sono sicuro che ci comporranno qualche ballata che sarà cantata per decenni.» Saphira smosse le ali e distolse lo sguardo altezzosa. «Abbiamo pensato che fosse meglio lasciarti qui, dato che non potevamo muoverti, Saphira. Il cuoco è andato su tutte le furie... temeva che avresti prosciugato tutta la sua migliore riserva, oltre i quattro barili che ti eri già scolata.»

E tu una volta hai rimproverato me per aver bevuto! Se mi fossi scolato quattro barili, sarei morto! Questo perché non sei un drago.

Orik spinse un fagotto d'indumenti fra le braccia di Eragon. «Tieni, mettiti questi. Sono più appropriati per un funerale che non quelli che indossi. Ma sbrigati, non ci resta molto tempo.» Eragon si affannò a vestirsi: indossò un'ampia blusa bianca stretta ai polsi, pantaloni scuri, una tunica rossa con fitti ricami d'oro, un paio di lucidi stivali neri e un mantello svolazzante che si allacciò alla gola con una spilla borchiata. Zar'roc era legata a una cintura decorata invece che alla solita striscia di pelle.

Eragon si spruzzò acqua sul viso e cercò di ravviarsi i capelli. Orik spinse lui e Saphira fuori dalla sala dei banchetti, verso il cancello sud di Tronjheim. «Dobbiamo partire da lì» spiegò, muovendosi con sorprendente rapidità sulle gambette tozze, «perché è dove il corteo con il corpo di Ajihad si è fermato tre giorni fa. Il suo viaggio verso la tomba non può essere interrotto, altrimenti il suo spirito non troverà riposo.»

Che strana usanza, commentò Saphira.

Eragon annuì, notando una lieve incertezza nella sua andatura. A Carvahall di solito le persone venivano seppellite nelle proprie fattorie, oppure, se vivevano al villaggio, in un piccolo cimitero. Gli unici rituali che accompagnavano la cerimonia erano la recitazione di alcune strofe

tratte da famose ballate e, più tardi, un banchetto funebre per i parenti e gli amici. Ce la farai a resistere per tutto il funerale? chiese Eragon, quando Saphira vacillò di nuovo.

La dragonessa diede in un ghigno sommesso. Sì, e anche per la nomina di Nasuada, ma poi avrò bisogno di dormire. Dannato idromele!

Tornando alla conversazione con Orik, Eragon gli chiese: «Dove sarà sepolto Ajihad?»

Orik rallentò e scoccò a Eragon un'occhiata inquieta. «Questo è stato oggetto di discussione fra i clan. Quando muore un nano, noi crediamo che debba essere sigillato nella pietra, altrimenti non raggiungerà mai i suoi antenati. È qualcosa di complesso e non posso spiegare altro a un estraneo... ma facciamo di tutto per assicurarci una simile tumulazione. Il disonore colpisce la famiglia o il clan che lasciano giacere uno di loro in un elemento meno nobile. «Sotto il Farthen Dùr c'è una camera, dimora di tutti i knurlan, tutti i nani, che sono morti qui. È lì che sarà portato Ajihad. Non potrà essere tumulato insieme a noi, poiché è un umano, ma è stata predisposta una speciale nicchia per lui. Così i Varden potranno fargli visita senza disturbare le nostre sacre grotte, e Ajihad riceverà il rispetto che merita.» «Il vostro re ha fatto molto per i Varden» disse Eragon.

«Alcuni sostengono che abbia fatto anche troppo.»

Davanti al massiccio cancello, sollevato sulle catene nascoste per rivelare la fievole luce del giorno che pioveva dalla sommità del Farthen Dùr, trovarono un corteo organizzato con cura meticolosa. Davanti a tutti c'era Ajihad, freddo e pallido, adagiato su un feretro di marmo portato da sei uomini in armatura nera. In testa aveva un elmo tempestato di pietre preziose; all'altezza dello sterno le mani erano intrecciate sull'impugnatura d'avorio della spada snudata, posta sotto lo scudo che gli copriva il petto e le gambe. Una fitta rete di maglie d'argento, simili a tanti cerchietti di luce lunare, gli ricopriva le membra e ricadeva sul feretro.

Subito dietro la salma c'era Nasuada, alta e fiera sotto il mantello di zibellino, con le lacrime come unico ornamento. Al suo fianco c'era Rothgar, vestito di scuro; poi Arya; il Consiglio degli Anziani, tutti con l'espressione contrita di circostanza; e infine una moltitudine in lutto che si allungava per un miglio da Tronjheim.

Ogni porta e ogni arcata del corridòio alto quattro piani che conduceva alla camera centrale di Tronjheim, lontana mezzo miglio, erano stati aperti alla folla di umani e nani. Fra i volti mesti, i lunghi stendardi ondeggiavano per le centinaia di sospiri e sussurri che si levarono quando comparvero Saphira ed Eragon. Jòrmundur fece loro cenno di avvicinarsi. Cercando di non disturbare la formazione, Eragon e Saphira percorsero la colonna fino allo spazio riservato al suo fianco, guadagnandosi un'occhiata di riprovazione da parte di Sabra. Orik prese posto alle spalle di Rothgar. Si disposero tutti all'attesa, anche se Eragon non sapeva di che cosa.

Gli schermi delle lanterne furono abbassati a metà, diffondendo una fredda penombra che conferiva un'aura mistica all'evento. Nessuno sembrava muoversi o respirare: per un breve istante Eragon ebbe l'impressione che fossero tutti statue impietrite per l'eternità. Una voluta solitària d'incenso si levò dal feretro verso la volta nebbiosa, spandendo un aroma di cedro e ginepro. Era l'unica cosa che si muoveva nel corridòio: una spirale grigiastra che ondeggiava sinuosa da parte a parte.

Nelle viscere di Tronjheim rimbombò un tamburo. Boom.

La nota bassa riverberò nelle loro ossa, scuotendo la pietra della città-montagna che vibrò come un'enorme campana. Mossero il primo passo.

Boom. Alla seconda nota si unì quella di un altro tamburo più basso; ogni colpo rimbombava inesorabile nel corridòio, sospingendo il corteo a un ritmo maestoso. La forza del suono conferiva a ogni passo il significato, lo scopo e la solennità adeguati all'occasione. Il lento rullio dei tamburi non permetteva a nessuno di formulare un pensiero, ma soltanto di provare emozioni, abilmente evocate, che si esprimevano con lacrime di cordoglio e gioia acre al tempo stesso.

Boom.

Quando il tunnel finì, i necrofori di Ajihad si fermarono fra i pilastri di onice, prima di procedere lenti nella camera centrale. Qui Eragon vide le espressioni dei nani farsi ancora più solenni nello scorgere le rovine di Isidar Mithrim. Boom.

Attraversarono un cimitero di cristallo. Un cerchio di schegge torreggianti giaceva al centro della grande camera, circondando il martello e i pentacoli incisi. Molti frammenti erano più grandi di Saphira. I colori dello Zaffiro Stellato ancora baluginavano nei frammenti, e su alcuni erano visibili i petali della rosa intagliata.

Boom.

I necrofori continuarono ad avanzare fra innumerevoli bordi affilati come rasoi. Poi il corteo deviò per scendere lungo un ampio scalone verso i tunnel sottostanti. Marciarono attraverso molte cavèrne, superando rifugi di pietra dove nani bambino si tenevano avvinghiati alle sottane delle madri e osservavano con occhi spalancati.

Boom.

. E con un crescendo finale, si fermarono sotto una volta di stalattiti nervate che copriva una grande catacomba fiancheggiata da nicchie. In ciascuna nicchia c'era una tomba con sopra inciso un nome e l'emblema di un clan. Migliaia

- centinaia di migliaia - di morti erano sepolti lì. L'unica fonte di illuminazione erano alcune lanterne rosse che brillavano fioche nell'oscurità.

Dopo una pausa, i necrofori entrarono in una piccola stanza annessa alla sala principale. Al centro, su una piattaforma rialzata, c'era un grande sepolcro aperto, come un nero abisso in attesa. Sulla lapide era inciso in rune: Che tutti, Knurlan, Umani ed Elfi,

Ricordino

Quest'Uomo.

Poiché era Nobile, Forte e Saggio.

Gùntera Arùna

Quando si furono tutti radunati in circolo, Ajihad venne calato nel sepolcro, e coloro che lo avevano conosciuto personalmente ebbero il permesso di avvicinarsi. Eragon e Saphira erano i quinti in coda, dietro Arya. Mentre salivano i gradini di marmo per rendere omaggio al defunto, Eragon fu sopraffatto da un dolore straziante, aggravato dal fatto che considerava il funerale di Ajihad anche quello di Murtagh.

Fermandosi davanti alla tomba, abbassò lo sguardo su Ajihad. Appariva molto più sereno e tranquillo di quanto non fosse mai stato in vita, come se la morte avesse riconosciuto la sua grandezza e lo onorasse cancellando ogni traccia di affanno terreno dal suo volto. Eragon aveva conosciuto Ajihad soltanto per un breve periodo, ma in quel tempo aveva imparato a rispettarlo sia come persona che per ciò che rappresentava: la libertà dalla tirannia. Inoltre Ajihad era stato il primo a concedere asilo a Eragon e Saphira da quando avevano lasciato la Valle Palancar.

Afflitto, Eragon cercò di pensare al più grande tributo da offrirgli. Alla fine inghiottì il nodo alla gola e sussurrò: «Sarai ricordato, Ajihad. Lo giuro. Riposa in pace sapendo che Nasuada continuerà la tua opera e che l'Impero sarà distrutto grazie a quanto tu hai compiuto.» Consapevole del contatto di Saphira con il suo braccio, Eragon scese dalla piattaforma insieme a lei, e lasciò il posto a Jòrmundur.

Quando anche l'ultimo ebbe onorato la salma, Nasuada si chinò su Ajihad e toccò la mano del padre, stringendola con gentile premura. Con un gemito sofferto, cominciò a cantare in una strana lingua dolente, riempiendo la caverna con i suoi lamenti.

Poi arrivarono dodici nani che fecero scivolare un lastrone di marmo sul volto di Ajihad. Ed egli più non fu. Giuramento di fedeltà

Eragon sbadigliò, coprendosi la bocca, mentre la folla si disponeva nell'anfiteatro sotterraneo. La grande arena riecheggiava di voci che discutevano del funerale appena concluso.

Eragon prese posto nell'ordine più basso, al livello del podio. Con lui c'erano Orik, Arya, Rothgar, Nasuada e il Consiglio degli Anziani. Saphira si accomodò sulla rampa di scale che tagliava le gradinate. Orik si protese verso il giovane e disse: «Fin dai tempi di Korgan, tutti i nostri re sono stati eletti in questo luogo. È giusto che i Varden facciano altrettanto.»

Resta da vedere, pensò Eragon, se questo trasferimento di poteri sarà pacifico. Si strofinò un occhio per asciugare le ultime lacrime; la cerimonia lo aveva profondamente scosso.

Sulle ceneri del suo cordoglio cominciò a ribollire l'ansia: lo impensieriva il proprio ruolo negli eventi imminenti. Se anche tutto fosse filato liscio, lui e Saphira stavano per farsi dei nemici potenti. La sua mano si spostò su Zar'roc, stringendone il pomo.

Ci vollero parecchi minuti perché l'anfiteatro si riempisse. Poi Jòrmundur salì sul podio. «Popolo dei Varden. Quindici anni or sono ci siamo qui riuniti alla morte di Deynor. Il suo successore, Ajihad, ha fatto molto per opporsi all'Impero e a Galbatorix, più di chiunque prima di lui. Ha vinto innumerevoli battaglie contro forze superiori. Ha quasi ucciso Durza, imprimendo una scalfittura sulla lama dello Spettro. E ha accolto il Cavaliere Eragon e Saphira a Tronjheim. Tuttavia è il momento di scegliere un nuovo capo, che ci assicuri la gloria finale.»

Qualcuno dalle gradinate più in alto gridò: «L'Ammazzaspettri!»

Eragon cercò di non reagire, e fu lieto di notare che Jòrmundur non battè ciglio nel replicare: «Forse negli anni a venire, ma per il momento egli è chiamato ad altri dovéri e responsabilità. No, il Consiglio degli Anziani ha riflettuto a lungo. Ci occorre qualcuno che comprenda i nostri bisogni e i nostri desideri, qualcuno che ha vissuto e sofferto insieme a noi. Qualcuno che si è rifiutato di fuggire, anche quando la battaglia era imminente.»

In quel momento Eragon sentì che il pubblico aveva capìto. Il nome si diffuse come un sussurro esalato da mille gole e fu pronunciato da Jòrmundur stesso: «Nasuada.» Con un inchino, Jòrmundur si fece da parte.

Fu il turno di Arya. L'elfa scrutò il pubblico in attesa, poi disse: «Gli elfi onorano Ajihad questa notte... E in nome della regina Islanzadi, riconosco l'ascesa di Nasuada e le offro il medesimo sostegno e la medesima amicizia che tributavamo a suo padre. Che le stelle la proteggano.»

Rothgar salì sul podio e dichiarò asciutto: «Anch'io sostengo Nasuada, come i nostri clan.» E si allontanò subito. Toccava a Eragon. Eretto davanti alla folla, con tutti gli sguardi puntati su lui e Saphira, annunciò: «Anche noi sosteniamo Nasuada.

» Saphira ringhiò la sua approvazione.

Pronunciate le dichiarazioni, i membri del Consiglio si disposero sui lati del podio, Jòrmundur davanti a tutti. Con fiero contegno, Nasuada si avvicinò e s'inginocchiò umilmente davanti a lui, l'abito disposto in pieghe corvine. Alzando la voce, Jòrmundur disse: «Per diritto di eredita

e successione, abbiamo scelto Nasuada. Per i ineriti di suo padre e la benedizione dei suoi pari, abbiamo scelto Nasuada. Ora vi chiedo: abbiamo scelto bene?»

Il ruggito di acclamazione fu unanime. «Sì!»

Jòrmundur annuì. «E dunque, per i poteri conferiti a questo consiglio, passiamo i privilegi e le responsabilità accordati ad Ajihad alla sua unica discendente, Nasuada.» E depose un cerchietto Prendendola per mano, la fece alzare e annunciò: «Ecco la nostra nuova guida!» Per dieci minuti i Varden e i nani esultarono, gridando la loro approvazione finché l'arena non riverberò tutta del loro clamore. Una volta placati gli animi, Sabra fece cenno a Eragon, mormorando: «È tempo di mantenere la tua promessa.» In quel momento, per Eragon cessò ogni rumore. Anche il suo nervosismo scomparve, inghiottito dall'importanza del momento. Facendosi forza, con un profondo respiro, lui e Saphira si avvicinarono a Jòrmundur e Nasuada, ogni passo lungo un'eternità. Mentre camminavano, Eragon guardò Sabra, Elessari, Umérth e Falberd, notando i loro mezzi sorrisi, il loro compiacimento e, da parte di Sabra, un evidente disdegno. Alle spalle dei membri del consiglio c'era Arya, che annuì in suo sostegno.

Stiamo per cambiare la storia, disse Saphira.

Ci stiamo gettando da una rupe senza sapere quanto è profonda l'acqua di sotto.

Già, ma che volo magnifico!

Con un'occhiata fugace al volto sereno di Nasuada, Eragon s'inchinò e s'inginocchiò. Estrasse Zar'roc dal fodero, la prese di piatto con entrambe le mani e la levò, come per offrirla a Jòrmundur. Per un istante, la lama rimase fra Jòrmundur e Nasuada, in bilico fra due differenti destini. Eragon trattenne il fiato: quale semplice scelta su cui basare una vita. Più di una vita: un drago, un re, un Impero!

Poi il fiato tornò a riempirgli i polmoni, il tempo riprese a scorrere, e lui si volse verso Nasuada. «In nome del più profondo rispetto e apprezzamento per le difficoltà che incontrerai, io, Eragon, primo Cavaliere dei Varden, Ammazzaspettri e Argetlam, ti faccio dono della mia spada e della mia fedeltà, Nasuada.»

d'argento sulla fronte di Nasuada. I Varden e i nani ammutolirono, esterrefatti. Nel medesimo istante, il Consiglio degli Anziani passò dal trionfo alla rabbia impotente. I loro sguardi ardevano con la forza e il veleno di chi si sente tradito. Persino Elessari lasciò che la collera le cancellasse il suo cortese contegno. Soltanto Jòrmundur - dopo un breve sussulto di sorpresa - sembrò accettare l'annuncio con equanimità.

Nasuada sorrise e prese Zar'roc, posando la punta della spada sulla fronte di Eragon, come aveva già fatto. «Sono onorata che tu abbia scelto di servirmi, Cavaliere Eragon. Accetto, come tu accetti, tutte le responsabilità derivanti da questa posizione. Levati come mio vassallo e riprendi la tua spada.»

Eragon obbedì, poi indietreggiò insieme a Saphira. La folla balzò in piedi fra grida di esultanza; i nani pestavano gli stivali chiodati al ritmo dei guerrieri umani che battevano le spade sugli scudi.

Voltandosi sul podio, Nasuada afferrò la balaustra con le mani e guardò la folla dell'anfiteatro. Il suo volto irradiava gioia pura. «Popolo dei Varden!»

Silenzio.

«Come mio padre prima di me, darò la mia vita per voi e per la nostra causa. Non smetterò mai di combattere finché gli Urgali non saranno annientati, Galbatorix morto, e Alagaèsia ancora una volta libera!»

Un boato di applausi e grida.

«Perciò vi dico che è tempo di prepararci. Qui nel Farthen Dùr, dopo infinite schermaglie, abbiamo ottenuto la nostra più grande vittoria. È il nostro turno di reagire. Galbatorix è debole per aver perso così tante forze, e non ci sarà mai più un'occasione simile.

«Perciò, vi ripeto, è tempo di prepararci, affinchè la vittoria finale ci arrida!»

Dopo altri discorsi di svariati personaggi - fra cui un Falberd ancora schiumante di collera - l'anfiteatro cominciò a svuotarsi. Mentre Eragon si alzava per andarsene, Orik lo afferrò per un braccio e lo fermò. Il nano aveva gli occhi sgranati. «Eragon, avevi già deciso tutto?»

Eragon riflettè brevemente sull'opportunità di dirglielo, poi annuì. «Sì.»

Orik si lasciò sfuggire un lungo sospiro, scuotendo la testa. «È stata una mossa molto scaltra, direi. Hai dato a Nasuada una posizione molto forte per cominciare. Ma anche pericolosa, a giudicare dalle reazioni del Consiglio degli Anziani. Arya sapeva?»

«Ha convenuto che era necessario.»

Il nano lo studiò meditabondo. «Ne sono convinto. Ma hai appena alterato l'equilibrio dei poteri, Eragon. Nessuno oserà più sottovalutarti... Attento alla roccia che frana. Ti sei fatto dei nemici potenti, quest'oggi.» Batte il palmo sulla schiena del giovane e si allontanò.

Saphira lo osservò andar via, poi disse: Dobbiamo prepararci a lasciare il Farthen Dùr. Il Consiglio sarà assetato di vendetta. Prima ci troveremo lontani dalla loro portata, meglio sarà.

La maga, il serpente e la pergamena

Quella sera, quando tornò ai suoi alloggi dopo essersi lavato, Eragon rimase sorpreso nel trovare una donna alta che lo aspettava nel corridòio. Aveva i capelli scuri, gli occhi azzurri e le labbra atteggiate a un sorriso sardonico. Al polso portava un bracciale d'oro a forma di serpente sibilante. Eragon sperò che non fosse venuta a chiedergli consiglio, come facevano molti Varden.

«Argetlam» disse lei, con una graziosa riverenza.

Lui ricambiò con un cenno del capo. «Posso aiutarti?»

«Lo spero. Sono Trianna, maga del Du Vrangr Gata.»

«Davvero? Una maga?» disse lui, incuriosito.

«E strega di guerra, e spia, e qualunque altra cosa i Varden ritengano necessario. Non ci sono molti esperti di arti magiche, perciò ciascuno di noi assume una mezza dozzina di compiti.» La donna sorrise, mostrando una chiostra perfetta di denti bianchissimi. «Ecco perché sono venuta. Saremmo onorati se volessi assumere la guida del nostro gruppo, il Du Vrangr Gata. Tu sei l'unico che può sostituire i Gemelli.»

Senza quasi rendersene conto, Eragon ricambiò il sorriso. La donna era così amichevole e seducente che odiava dover dire di no. «Temo di non potere; Saphira e io lasceremo presto Tronjheim. Inoltre, sarebbe comunque mio dovere consultarmi prima con Nasuada.» E non voglio restare invischiato in altri intrighi politici... specie in quelli che un tempo ordivano i Gemelli.

Trianna si morse il labbro. «Mi dispiace sentirtelo dire.»

Si avvicinò di un passo. «Magari potremmo trascorrere del tempo insieme, prima della tua partenza. Potrei mostrarti come evocare e controllare gli spiriti... Sarebbe istruttivo per entrambi.»

Eragon si sentì avvampare le guance. «Apprezzo l'offerta, ma sono davvero molto occupato al momento.» Una scintilla d'ira balenò negli occhi di Trianna, poi svanì altrettanto rapida, tanto che Eragon si chiese se l'avesse effettivamente vista. La donna sospirò con grazia. «Capisco.»

Suonava così delusa - e aveva un'aria così afflitta - che Eragon si sentì in colpa per averla respinta. Che male può fare se le parlo per qualche minuto? si disse. «Sono curioso. Come hai appreso la magia?»

Trianna s'illuminò. «Mia madre era una guaritrice del Surda. Aveva qualche potere e m'istruì nelle antiche arti. Ovviamente non sono potente quanto un Cavaliere. Nessun membro del Du Vrangr Gata avrebbe potuto sconfiggere Durza da solo, come hai fatto tu. È stata un'impresa eroica.»

Imbarazzato, Eragon strisciò gli stivali sul pavimento. «Non sarei sopravvissuto se non fosse stato per Arya.» «Sei troppo modesto, Argetlam» lo adulò lei. «Sei stato tu a infliggere il colpo di grazia. Dovresti essere fiero di ciò che hai fatto. È stato un gesto degno dello stesso Vrael.» La maga si protese verso di lui. Il cuore di Eragon accelerò nel sentire il suo profumo, intenso e muschiato, con una nota di spezie esotiche. «Hai sentito le canzoni composte per te? I Varden le cantano ogni notte intorno ai fuochi. Dicono che sei venuto a strappare il trono a Galbatorix!» «No» ribattè aspro Eragon. Quella era una diceria che non poteva tollerare. «Loro possono dirlo, ma non è ciò che voglio. Qualunque sia il mio destino, non aspiro a governare.»

«Ed è saggio da parte tua. In fin dei conti, che cos'è un re se non un uomo imprigionato dai propri dovéri? Sarebbe invero una ben misera ricompensa per l'ultimo Cavaliere libero e il suo drago. No, a te spetta la facoltà di andare e compiere ciò che desideri e, per esteso, di forgiare il futuro di Alagaésia.» La donna fece una pausa. «Hai una famiglia nei territori dell'Impero?»

Cosa? «Soltanto un cugino.»

«Dunque non sei fidanzato?»

La domanda lo colse di sorpresa. Non gli avevano mai chiesto nulla di simile. «No, non sono fidanzato.» «Ma di certo dev'esserci qualcuno a cui tieni particolarmente.» La maga fece un altro passo avanti, e la sua manica dai lunghi nastri fluttuanti gli sfiorò il braccio.

«Non c'era nessuno a cui mi sentissi legato a Carvahall» balbettò lui, «e da allora ho sempre viaggiato.» Trianna indietreggiò appena, poi levò il polso in modo da portare il bracciale a forma di serpente all'altezza degli occhi. «Ti piace?» domandò. Eragon battè le palpebre e annuì, anche se il monile era piuttosto inquietante. «Lo chiamo Lorga. È mio amico e mi protegge.» La seduttrice avvicinò il volto al bracciale e vi soffiò sopra, mormorando: «Sé orùm thornessa hàvr sharjalvi lìfs.»

Con un fruscìo secco, il serpente prese vita. Eragon lo contemplò affascinato, mentre la creatura avvolgeva le sue spire intorno al pallido braccio di Trianna, poi levò la testa e fissò gli ipnotici occhi di rubino su di lui, con la lingua biforcuta che guizzava dentro e fuori. I suoi occhi parvero espandersi fino a diventare grandi quanto il pugno di Eragon. Il giovane provò la sensazione di precipitare nei loro sconfinati abissi; non riusciva a distogliere lo sguardo, per quanto si sforzasse.

Poi, a un brusco comando, il serpente s'irrigidì e riprese la sua forma originale. Con un sospiro esausto, Trianna si appoggiò alla parete. «Non sono in molti a capire quello che facciamo noi stregoni. Ma desidero che tu sappia che ci sono altri come te, e che faremo il possibile per aiutarti.»

D'impulso, Eragon le prese una mano. Non aveva mai tentato un simile approccio con una donna prima, ma l'istinto gli suggeriva di osare, di cogliere l'occasione. Era spaventoso e inebriante. «Se ti va, possiamo andare a mangiare qualcosa insieme. C'è una cucina non molto distante da qui.»

Lei posò l'altra mano su quelle di lui, le dita lisce e fresche, così diverse dalle ruvide strette a cui era abituato. «Volentieri. Potremmo...» Trianna trasalì quando la porta alle sue spalle si spalancò di colpo. La maga si volse e lanciò un grido nel trovarsi faccia a faccia con Saphira.

La dragonessa rimase immobile; si limitò ad arricciare un labbro che rivelò una minacciosa fila di zanne affilate. Poi ringhiò. Fu un ringhio prodigioso, carico di disprezzo e riprovazione, che echeggiò nel corridòio per oltre un minuto. Ascoltarlo fu come sopportare un'interminabile e umiliante predica.

Eragon la fissò truce.

Quando cessò, Trianna si stringeva la veste con entrambi i pugni, torcendo il tessuto. Il suo volto era sbiancato dalla paura. Rivolse una frettolosa riverenza a Saphira, poi, con malcelata ansia, si volse e si dileguò. Come se niente fosse, Saphira sollevò una zampa e si leccò gli artigli. Non riuscivo ad aprire la porta, disse.

Eragon non riuscì più a trattenersi. Perché l'hai fatto? esplose. Non avevi ragione d'interferirei

Ti serviva il mio aiuto, ribattè lei, imperturbabile.

Se mi serviva il tuo aiuto, ti avrei chiamata!

Non rivolgerti a me con quel tono, sbottò lei, facendo schioccare le fauci. Eragon percepì in lei lo stesso groviglio di emozioni che sconvolgeva lui. Non ti permetterò di perdere tempo con una sgualdrina che si interessa più a Eragon come Cavaliere che non come persona.

Non è una sgualdrina, ruggì lui, sferrando un pugno alla parete per la frustrazione. Sono un uomo, adesso, Saphira, non un eremita. Non puoi pretendere che ignori... ignori le donne solo perché io sono quello che sono. E di sicuro non spetta a te decidere. Almeno avrei potuto godere di una piacevole conversazione con lei, una piccola distrazione fra tutte le tragedie che abbiamo affrontato di recente. Tu sei dentro di me abbastanza da sapere cosa provo. Perché non mi hai lasciato stare? Che male c'era?

Non capisci. La dragonessa si rifiutava di incontrare il suo sguardo.

Non capisco! Vorresti forse impedirmi di avere una moglie e dei figli, un giorno? Una famiglia?

Eragon. Finalmente Saphira posò un grande occhio su di lui. Noi siamo legati intimamente.

Ovvio!

E se tu intrecci una relazione, con o senza la mia benedizione, e ti... affezioni... a qualcuno, coinvolgerai anche i miei sentimenti. Dovresti saperlo. Perciò - e ti avverto solo questa volta - stai attento a chi scegli, perché entrambi ne subiremo le conseguenze.

Eragon riflettè qualche istante sulle sue parole. Il nostro legame funziona in entrambi i sensi, ricorda. Se tu odi qualcuno, anch'io ne resterò influenzato... ma comprendo la tua preoccupazione. Quindi, non eri soltanto gelosa? Saphira si leccò ancora gli artigli. Forse, un pochino.

Fu Eragon a ringhiare, questa volta. La superò imbronciato ed entrò nella stanza, prese Zar'roc e uscì di nuovo a grandi passi, allacciandosi la spada alla cintura.

Vagò per Tronjheim per ore, evitando chiunque. Quello che era successo lo addolorava, anche se non poteva negare la verità delle parole di Saphira. Di tutte le questioni che condividevano, era la più delicata, quella su cui andavano meno d'accordo. Quella notte - per la prima volta da quando era stato catturato a Gil'ead - dormì lontano da Saphira, in uno dei quartieri destinati ai nani.

Eragon tornò al proprio alloggio la mattina seguente. Per un tacito accordo, lui e Saphira evitarono di discutere su quanto era accaduto; litigare ancora era inutile quando nessuno dei due era disposto a cedere. Per giunta, provarono un tale sollievo nel riunirsi che non vollero rischiare di mettere in pericolo la loro amicizia.

Stavano mangiando - Saphira strappava brani di carne da un cosciotto sanguinolento - quando arrivò Jarsha. Come sempre, rimase impalato a fissare Saphira, seguendone i movimenti mentre rosicchiava i resti di un femore. «Sì?» disse Eragon, asciugandosi il mento e chiedendosi se era il Consiglio degli Anziani che lo mandava a chiamare. Non aveva più avuto notizie dal funerale.

Jarsha distolse lo sguardo da Saphira giusto il tempo di dire: «Nasuada desidera vederti, mio signore. Ti aspetta nello studio di suo padre.»

Signore! Eragon trattenne una risata. Soltanto qualche tempo prima, era lui a chiamare signore gli altri, e non viceversa. Rivolse un'occhiata a Saphira. «Hai finito, o dobbiamo aspettare ancora?»

Roteando gli occhi, la dragonessa inghiottì la carne e spezzò l'osso con uno schianto secco. Ho finito. «D'accordo» disse Eragon, alzandosi. «Puoi lasciarci, Jarsha, conosciamo la strada.»

Impiegarono quasi mezz'ora per raggiungere lo studio, data la vastità della città-montagna. Come durante il governo di Ajihad, la soglia era presidiata, ma invece di due soli uomini, un'intera brigata di guerrieri armati di tutto punto sorvegliavano la porta, pronti a intervenire al minimo segnale di pericolo e disposti a sacrificare la propria vita per proteggere il loro nuovo capo da agguati o aggressioni.

Pur avendoli chiaramente riconosciuti, le sentinelle sbarrarono il passo a Eragon e Saphira, mentre Nasuada veniva avvertita della loro visita. Soltanto dopo fu concesso loro di entrare.

Eragon si accorse subito di un cambiamento nello studio: un vaso di fiori. I piccoli boccioli purpurei erano discreti, ma spandevano una tiepida fragranza che a Eragon evocava estati profumate di lamponi appena colti e campi di grano falciato che imbiondivano al sole. Inspirò a fondo, apprezzando l'abilità di Nasuada nell'affermare la propria personalità senza offuscare il ricordo di Ajihad.

La giovane era seduta alla grande scrivania, ancora vestita a lutto. Mentre Eragon si accomodava, e Saphira prendeva posto al suo fianco, lei disse: «Eragon.» Una semplice constatazione, né amichevole né ostile. Distolse brevemente lo sguardo, poi si concentrò su Eragon, gli occhi fieri e risoluti. «Ho trascorso gli ultimi giorni a esaminare gli affari dei Varden. Un'attività sconfortante. Siamo poveri, divisi e a corto di risorse; per giunta, sono pochi i rinforzi che giungono a noi dall'Impero. Ho intenzione di cambiare la situazione.

«I nani non possono continuare a mantenerci ancora a lungo; è stata una brutta annata per i raccolti, e loro hanno subito molte perdite. Tutto considerato, ho deciso di spostare i Varden nel Surda. È un progetto ambizioso, lo so, ma lo ritengo necessario per la nostra sicurezza. Una volta nel Surda, finalmente saremo abbastanza vicini da sferrare un attacco diretto all'Impero.»

Perfino Saphira ebbe un sussulto di sorpresa. Un'impresa immane! commentò Eragon. Ci vorranno mesi per spostare i beni di ogni Varden nel Surda, per non parlare della popolazione. E con ogni probabilità verranno attaccati durante il cammino. «Credevo che re Orrin non osasse sfidare apertamente Galbatorix» obiettò.

Nasuada sorrise. «La sua posizione è cambiata da quando abbiamo sconfitto gli Urgali. Ci offrirà asilo e rifornimenti, e combatterà al nostro fianco. Molti Varden sono già nel Surda, soprattutto donne e bambini che non potevano o non volevano combattere. Anche loro ci sosterranno, altrimenti li rinnegherò.»

«Ma come hai fatto» chiese Eragon «a comunicare così in fretta con re Orrin?»

«I nani usano un sistema di specchi e lanterne per trasmettere messaggi attraverso i tunnel. Sono in grado di inviare un dispaccio da qui ai confini occidentali dei Monti Beor in meno di un giorno. Poi i corrieri lo portano ad Aberon, la capitale del Surda. Tuttavia, per quanto veloce, questo metodo è ancora troppo lento, quando Galbatorix è in grado di sorprenderei con un esercito di Urgali con meno di un giorno di preavviso. Intendo organizzare qualcosa di molto più rapido fra il Du Vrangr Gata e i maghi di Rothgar, prima che ce ne andiamo.»

Nasuada aprì un cassetto della scrivania ed estrasse un rotolo di pergamena. «I Varden partiranno dal Farthen Dùr nel giro di un mese. Rothgar ci garantirà un passaggio sicuro attraverso i tunnel. Inoltre ha mandato una squadra a Orthìad per eliminare quel che resta degli Urgali e sigillare i tunnel affinchè nessuno possa attaccare i nani usando ancora quel percorso. E sebbene questo non assicuri la sopravvivenza dei Varden, ho un favore da chiederti.» Eragon annuì. Si era aspettato una richiesta o un comando. Era l'unica ragione per cui lei li aveva convocati. «Sono ai tuoi ordini.»

«Può darsi.» Gli occhi di lei guizzarono dalla parte di Saphira per un secondo. «Ma non si tratta di un ordine, e voglio che tu rifletta a fondo prima di rispondere. Per ingrossare le schiere di coloro che sostengono i Varden, vorrei diffondere in tutto l'Impero la notizia che un nuovo Cavaliere, di nome Eragon Ammazzaspettri, e il suo drago, Saphira, si sono uniti alla nostra causa. Tuttavia, gradirei il tuo consenso prima di farlo.»

È troppo pericoloso, protestò Saphira.

La notizia della nostra esistenza raggiungerà l'Impero in ogni caso, puntualizzò Eragon. I Varden vogliono vantarsi della vittoria e della morte di Durza. Dato che accadrà con o senza il nostro consenso, credo che dovremmo accettare. La dragonessa diede in un leggero sbuffo. Mi preoccupa Galbatorix. Finora non abbiamo manifestato pubblicamente da che parte stiamo.

Le nostre azioni sono state fin troppo eloquenti.

Sì, ma anche quando Durza ha combattuto contro di te a Tronjheim, non aveva intenzione di ucciderti. Se ci schieriamo contro l'Impero, Galbatorix non sarà più così indulgente. Chi può sapere quali forze o complotti ha tenuto in sospeso, mentre tentava di attirarci dalla sua parte? Finché restiamo nell'ambiguità, non saprà che fare.

Il tempo per l'ambiguità è passato, dichiarò Eragon. Abbiamo combattuto gli Urgali, ucciso Durza, e ho giurato fedeltà al capo dei Varden. Non esiste alcuna ambiguità. No, col tuo permesso acconsentirò alla sua proposta. La dragonessa tacque per lunghi istanti, poi abbassò la testa. Come preferisci.

Eragon le posò una mano sul fianco prima di rivolgere la sua attenzione a Nasuada e proclamare: «Fa' ciò che ti sembra opportuno. Se è questa la maniera in cui possiamo aiutare i Varden, così sia.»

«Ti ringrazio. Lo so che è chiederti molto. Ora, come abbiamo stabilito prima del funerale, vorrei che andassi a Ellesméra per completare il tuo addestramento.»

«Con Arya?»

«S'intende. Gli elfi si sono rifiutati di comunicare sia con noi umani che con i nani da quando fu catturata. Arya è l'unico essere vivente in grado di convincerli a uscire dall'isolamento.»

«Non può usare la magia per riferire loro del suo salvataggio?»

«Purtroppo no. Quando gli elfi si sono ritirati nella Du Weldenvarden, dopo la caduta dei Cavalieri, hanno eretto protezioni magiche tutto intorno alla foresta per impedire a qualunque pensiero, oggetto o creatura di entrare per mezzo di poteri arcani, anche se non di uscire, se ho ben capìto le spiegazioni di Arya. Per questo motivo, Arya deve andare di persona nella Du Weldenvarden affinchè la regina Islanzadi sappia che è viva, che tu e Saphira esistete, e venga a conoscenza di tutti gli eventi che hanno coinvolto i Varden in questi ultimi mesi.» Nasuada gli porse la pergamena. Era chiusa da un sigillo di cera. «Questa è una lettera per la regina Islanzadi, che le spiega la situazione dei Varden e i miei progetti in proposito. Difendila a costo della vita. Se cadesse nelle mani sbagliate, provocherebbe danni enormi. Spero che dopo quanto è accaduto, Islanzadi ci conceda nuovamente la sua benevolenza e riallacci i rapporti diplomatici. Il suo aiuto potrebbe rappresentare la differenza fra la vittoria e la sconfitta. Arya lo sa e ha accettato di perorare la nostra causa, ma volevo che anche tu conoscessi la situazione, per poter sfruttare qualunque occasione si presenti.» Eragon s'infilò la pergamena nella giubba. «Quando dovremmo partire?»

«Domattina... a meno che non abbiate già qualche altro programma.»

«No.»

«Bene» fece Nasuada, intrecciando le mani avanti a sé. «Sappiate che un'altra persona viaggerà insieme a voi.» Eragon la guardò interrogativo. «Re Rothgar ha deciso che per amor di equità dovrebbe esserci un rappresentante dei nani ad assistere al tuo addestramento, poiché la questione riguarda anche la loro razza. Perciò vi accompagnerà Orik.» La prima reazione di Eragon fu di irritazione. Saphira avrebbe potuto volare fino alla Du Weldenvarden portando lui e Arya, risparmiando loro settimane di inutile cammino. Ma tre passeggeri erano troppi da ospitare sulle spalle di Saphira. La presenza di Orik li avrebbe costretti a viaggiare via terra.

Dopo una breve riflessione, però, Eragon riconobbe che la richiesta di Rothgar era molto saggia, perché garantiva a Eragon e Saphira una parvenza di imparzialità di fronte alle diverse razze. Sorrise. «D'accordo. Questo ci rallenterà, ma suppongo di dover cedere a Rothgar. A dire il vero, sono contento di avere la compagnia di Orik. Attraversare Alagaèsia soltanto con Arya era una prospettiva inquietante. Lei è...»

Anche Nasuada sorrise. «È diversa.»

«Già.» Eragon tornò serio. «Hai davvero intenzione di attaccare l'Impero? Tu stessa hai detto che i Varden sono deboli. Non mi pare una mossa saggia. Se aspettiamo...»

«Se aspettiamo» lo interruppe lei, decisa, «Galbatorix diventerà sempre più forte. Questa è la prima volta da quando Morzan fu ucciso che abbiamo una sia pur minima opportunità di coglierlo impreparato. Non aveva ragioni per sospettare che avremmo sconfitto gli Urgali - un successo che dobbiamo a te - perciò non ha ancora preparato l'Impero a un'invasione.»

Invasione! esclamò Saphira. E come pensa di uccidere Galbatorix quando interverrà ad annientare il loro esercito con la magia?

Nasuada scrollò la testa in risposta, quando Eragon diede voce all'obiezione. «Da quanto sappiamo di lui, non combatterà finché la stessa Urù'baen non sarà minacciata.

A Galbatorix non importa se mezzo Impero viene distrutto, purché siamo noi ad andare da lui, e non viceversa. Perché dovrebbe preoccuparsi? Se mai riuscissimo a raggiungerlo, le nostre rendendogli ancor più facile il compito di distruggerci.»

«Non hai ancora risposto alla domanda di Saphira» protestò Eragon. «Perché ancora non lo so. Sarà una lunga campagna. Quando volgerà abbastanza potente da sconfiggere Galbatorix, o gli elfi potrebbero essersi uniti a noi, e i loro maghi sono i più potenti di Alagaésia. Non importa quel che accade, non possiamo permetterci altri indugi. È il momento di rischiare e osare quel che nessuno pensa che possiamo realizzare. I Varden sono vissuti nell'ombra troppo a lungo: dobbiamo sfidare Galbatorix, oppure sottometterci e perire.»

La portata di quanto Nasuada stava suggerendo lo turbava. Implicava così tanti rischi e pericoli ignoti che era quasi assurdo prendere in considerazione una simile impresa. Tuttavia non spettava a lui decidere, e doveva accettarlo. Né aveva intenzione di discuterne oltre. Dobbiamo confidare nel suo giudizio.

«Ma che ne sarà di te, Nasuada? Sarai al sicuro quando ce ne saremo andati? Devo pensare al mio giuramento. Ora è mia responsabilità garantire la tua incolumità.»

truppe sarebbero decimate ed esauste,

al termine, tu potresti essere diventato La donna serrò la mascella e agitò una mano. «Non devi temere, sono ben protetta.» Abbassò lo sguardo. «Tuttavia devo ammettere... una delle ragioni per cui voglio andare nel Surda è che Orrin mi conosce da tanto tempo e mi ha offerto la sua protezione. Non posso restare qui senza te e Arya, e con il Consiglio degli Anziani ancora troppo potente. Non mi accetteranno come loro capo finché non proverò oltre ogni dubbio che i Varden sono sotto il mio controllo, e non il loro.»

Poi sembrò attingere a una misteriosa forza interiore, che le raddrizzò le spalle e le sollevò il mento, dandole un'aria distante e altezzosa. «Ora va', Eragon. Prepara il tuo cavallo, riempi le bisacce, e trovati al cancello nord al sorgere del sole.»

Eragon s'inchinò, rispettando il suo ritorno alle formalità, e uscì con Saphira.

Dopo cena, Eragon e Saphira volarono insieme. Si librarono sopra Tronjheim, dove ghiaccioli scintillanti guarnivano le pendici interne del Farthen Dùr come un gigantesco merletto bianco. Anche se mancava ancora qualche ora alla notte, era già quasi buio dentro la montagna.

Eragon reclinò indietro la testa, assaporando l'aria sul viso. Gli mancava il vento: il vento che soffiava sui prati e sospingeva le nuvole, il vento che portava la pioggia e i temporali, e sferzava gli alberi tanto da piegarli. A dire il vero, mi mancano anche gli alberi, pensò. Il Farthen Dùr è un luogo incredibile, ma è privo di piante e animali come la tomba di Ajihad.

Saphira assentì. I nani sembrano pensare che le gemme possano prendere il posto dei fiori. Poi rimase in silenzio, mentre la luce sbiadiva a poco a poco. Quando fu troppo buio per gli occhi di Eragon, Saphira disse: È tardi. Sarà meglio rientrare.

Va bene.

La dragonessa cominciò a scendere tracciando ampie e pigre spirali, avvicinandosi a Tronjheim che riluceva come un faro al centro del Farthen Dùr. Erano ancora lontani dalla città-montagna, quando volse la testa e disse: Guarda. Eragon seguì il suo sguardo, ma non scorse altro che la grigia e piatta landa sotto di loro. Cosa? Invece di rispondere, la dragonessa inclinò le ali e virò a sinistra, sorvolando una delle quattro strade che partivano da Tronjheim seguendo i quattro punti cardinali. Mentre atterravano, Eragon notò una macchia bianca su una collinetta poco distante. La macchia ondeggiò stranamente nell'oscurità, come la fiamma di una candela, poi si trasformò in Angela, che indossava una tunica di lana candida.

L'indovina portava una grossa cesta di vimini carica di funghi delle più svariate specie; Eragon non ne riconobbe la maggior parte. Mentre lei si avvicinava, il giovane li indicò e disse: «Stai raccogliendo funghi?»

«Ciao» lo salutò Angela con una risata, e posò in terra il pesante fardello. «Oh no, funghi è un termine troppo generico.» Li sparpagliò con le mani. «Questo è una famigliola cattiva, questo è un coprino chiomato e qui c'è un gallinaccio, e un pletus, un cantarello, una colombina rossa e quello è un agarico ametistino. Una meraviglia, non trovi?» Indicò ciascuno a turno, per finire con un fungo dal cappello screziato di rosa, lavanda e giallo. «E quello?» domandò Eragon, indicando un fungo dal gambo azzurro folgore, le lamelle color arancio acceso e il cappello nero e lucido come inchiostro.

Lei lo guardò con orgoglio. «La Fricai Andlàt, come direbbero gli elfi. Il gambo provoca la morte istantanea, mentre il cappello può curare la maggior parte dei casi di avvelenamento. È da esso che si estrae il Nettare di Tunivor. La Fricai Andlàt cresce soltanto nelle grotte della Du Weldenvarden e del Farthen Dùr, ma qui morirebbe se i nani cominciassero a depositare i loro rifiuti da qualche altra parte.»

Eragon si guardò intorno, scrutando la piccola collina, e si rese conto di cosa voleva dire esattamente: un letamaio. «Salute a te, Saphira» disse Angela, oltrepassandolo per accarezzare la dragonessa sul naso. Saphira socchiuse gli occhi e sospirò di piacere, dimenando la coda. In quello stesso momento arrivò Solembum trotterellando, con un ratto inerte che gli penzolava dalla bocca. Senza scomporsi, il gatto mannaro si acciambellò sul terreno e cominciò a mordicchiare il roditore con deliberata indifferenza.

«Dunque» disse Angela, scostando una ciocca dell'enorme massa di riccioli, «si parte per Ellesméra?» Eragon annuì. Non si prese la briga di chiederle come lo sapeva: Angela sembrava sapere sempre tutto quel che accadeva. Quando lui rimase in silenzio, lei lo rimbrottò: «Perché quella faccia scura? Non è mica una condanna a morte!» «Lo so.»

«E allora sorridi, perché se non è una condanna a morte, allora devi essere contento! Sei flaccido come il ratto di Solembum. Flaccido. Che bella parola, non trovi?»

Eragon non potè fare a meno di sorridere, e anche Saphira ridacchiò, con un profondo brontolìo gutturale. «Non sono sicuro che sia bella come dici, ma sì, capisco il tuo punto di vista.»

«Ne sono lieta. La comprensione è un'ottima cosa.» Inarcando le sopracciglia, Angela infilò un'unghia sotto un fungo e lo capovolse per esaminarne le lamelle, mentre diceva: «Che fortunata coincidenza esserci incontrati stanotte, proprio mentre tu stai per partire e io... andrò ad accompagnare i Varden nel Surda. Come ti dissi tempo fa, mi piace trovarmi dove succedono le cose, e quello è il posto giusto.»

Eragon sorrise ancora di più. «Be', allora questo significa che faremo un viaggio tranquillo, altrimenti accompagneresti noi.»

Angela si strinse nelle spalle, poi si fece seria e disse: «Sta' attento nella Du Weldenvarden. Solo perché gli elfi sono misteriosi e imperscrutabili, non vuol dire che non siano soggetti alla rabbia e alle passioni come il resto di noi mortali. Ciò che le rende letali, però, è come le nascondono, a volte per anni.»

«Ci sei stata?»

«Tanto tempo fa.»

Dopo una pausa, Eragon chiese: «Cosa ne pensi dei progetti di Nasuada?»

«Mmm... è predestinata! Tu sei predestinato! Sono tutti predestinati!» Scoppiò a ridere, piegata in due, poi si raddrizzò di colpo. «Nota bene che non ho specificato quale tipo di destino vi attende, perciò non importa quel che accadrà, io l'ho predetto. Molto saggio da parte mia.» Sollevò di nuovo la cesta, posandola su un'anca. «Suppongo che non ti vedrò per un bel pezzo, perciò stammi bene, buona fortuna, evita i cavoli arrosto, non mangiare moccio, e guarda il lato bello della vita!» E con una strizzatina d'occhio, si allontanò, lasciando Eragon perplesso e imbarazzato. Dopo una pausa appropriata, Solembum raccolse la sua cena e la seguì, con la sua solita aria sdegnosa e noncurante.

Il dono di Rothgar

Mancava ancora mezz'ora all'alba quando Eragon e Saphira giunsero al cancello nord di Tronjheim. Il cancello era sollevato quel tanto da permettere a Saphira di passare, così si affrettarono a varcarlo e si disposero all'attesa sotto la volta vicina, dove torreggiavano pilastri di diaspro rosso, e sculture di bestie ringhianti si affacciavano fra le colonne color del sangue. Più avanti, due grifoni d'oro alti trenta piedi montavano guardia perenne ai confini di Tronjheim. Coppie identiche si trovavano davanti a ciascun cancello della città-montagna. Non c'era anima viva. Eragon teneva le redini di Fiammabianca. Lo stallone era stato strigliato, ferrato e sellato, con le bisacce che traboccavano di provviste. Scalpitava impaziente; Eragon non lo cavalcava da oltre una settimana. Poco dopo arrivò Orik, con la sua peculiare andatura dondolante, un grosso zaino in spalla e un voluminoso involto sotto il braccio. «Niente cavallo?» domandò Eragon, piuttosto stupito. Si aspetta che andiamo a piedi fino alla Du Weldenvarden?

Orik grugnì. «Faremo sosta a Tarnag, il primo insediamento a nord. Da lì navigheremo lungo l'Az Ragni fino a Hedarth, un avamposto per il commercio con gli elfi. Non ci serviranno cavalcature prima di Hedarth, perciò userò i miei piedi fino a lì.»

Lasciò cadere il fagotto, che produsse un sonoro clangore; quando lo aprì, comparve l'armatura di Eragon. Lo scudo era stato ridipinto - l'albero di quercia al centro era tornato smagliante - e tutte le ammaccature e i graffi erano scomparsi. Sotto c'era la lunga cotta di maglia, lucidata e oliata fino a far scintillare l'acciaio. Non c'era traccia dello squarcio lasciato da Durza quando aveva colpito Eragon alla schiena. Allo stesso modo erano stati riparati la calotta, i guanti, i bracciali, gli schinieri e l'elmo.

«I nostri migliori fabbri si sono adoperati per le tue armi» disse Orik, «come anche per la tua bardatura, Saphira. Ma poiché non possiamo portare con noi un'armatura per draghi, è stata affidata ai Varden, che la custodiranno fino al nostro ritorno.»

Per favore, ringrazialo da parte mia, disse Saphira.

Eragon eseguì, poi si allacciò i bracciali e gli schinieri, riponendo gli altri pezzi nelle bisacce. Per ultimo, stava per prendere l'elmo, quando vide che lo reggeva Orik. Accarezzando pensieroso il copricapo d'acciaio, il nano disse: «Non essere troppo precipitoso nell'indossarlo, Eragon. Devi prima fare una scelta.»

«Di quale scelta parli?»

Il nano sollevò l'elmo e ne rivelò la lucida visiera, che, Eragon notò, era stata alterata: incisi nell'acciaio c'erano il martello e le stelle del clan di Rothgar e Orik, l'Ingietum. Orik aggrottò la fronte, con un'espressione a metà fra il compiaciuto e il preoccupato, e disse in tono formale: «Il mio re, Rothgar, desidera farti dono di questo elmo come pegno dell'amicizia che prova per te. E con esso, Rothgar ti porge l'offerta di adottarti come uno del Dùrgrimst Ingietum, quale membro della nostra famiglia.»

Eragon fissò l'elmo, sconcertato dal gesto di Rothgar. Questo vuol dire che sarò soggetto alla sua autorità? Se continuo a promettere fedeltà e alleanze a questo ritmo, mi ritroverò presto imbrigliato, incapace di fare qualsiasi cosa senza infrangere un giuramento!

Non devi indossarlo per forza, precisò Saphira.

E rischiare di offendere Rothgar? Siamo di nuovo in trappola.

D'altro canto, potrebbe essere un dono sincero, un altro segno di otho, non una trappola. Credo che sia un modo per ringraziarci della mia promessa di risanare Isidar Mithrim.

Eragon non ci aveva pensato, troppo assorto a immaginare in che modo il re dei nani volesse approfittare di loro. Giusto. Ma credo sia anche un tentativo di correggere lo squilibrio di poteri creatosi quando ho giurato fedeltà a Nasuada. I nani non devono essere rimasti molto soddisfatti della piega che hanno preso gli eventi. Si rivolse a Orik, che attendeva ansioso: «Quante volte è stata fatta una simile offerta?»

«A un umano? Mai. Rothgar ha discusso con le famiglie dell'Ingietum un giorno e una notte prima di convincerle ad accettarti. Se acconsenti a portare il nostro emblema, avrai tutti i diritti di un membro del clan. Potrai venire ai nostri consigli e intervenire su ogni questione. E» aggiunse solenne, «se lo desideri, avrai il diritto di essere seppellito con i nostri defunti.»

Fu allora che il valore del gesto di Rothgar si rivelò a Eragon in tutta la sua grandiosità. I nani non potevano offrire onore più immenso. Con un rapido movimento, Eragon prese l'elmo dalle mani di Orik e se lo calcò in testa. «È un vero privilegio per me unirmi al Dùrgrimst Ingietum.»

Orik annuì soddisfatto e disse: «Ora prendi questo Knurlien, questo Cuore di Pietra, fra le tue mani... sì, così. Adesso devi tagliarti una venuzza per bagnare la pietra. Qualche goccia sarà sufficiente... E per finire, ripeti con me: Os il dom qirànù earn dùr thargen, zeitmen, oen grimst vor formv edaris rak skilfz. Narho is belgond...» Fu un lungo discorso, ancora più prolisso perché Orik si fermava a tradurre ogni singola frase. Alla fine, Eragon si guarì la ferita con un semplice incantesimo.

«Checché ne dicano i clan» osservò Orik, «ti sei comportato con integrità e rispetto. Non possono ignorarlo.» Sogghignò. «Facciamo parte dello stesso clan, adesso. Sei mio fratello adottivo! In circostanze normali, Rothgar ti avrebbe donato l'elmo di persona, e avremmo organizzato una lunga cerimonia per festeggiare il tuo ingresso nel Dùrgrimst Ingietum; tuttavia il precipitare degli eventi non ci permette di perdere altro tempo. Ma non pensare di cavartela così! La tua adozione sarà celebrata con i rituali del caso quando tu e Saphira tornerete nel Farthen Dùr. Brinderai e danzerai, e dovrai firmare molti pezzi di carta per formalizzare la tua nuova posizione.» «Non vedo l'ora che arrivi quel giorno» disse Eragon, ancora intento a esaminare ogni possibile sottinteso della sua affiliazione al Dùrgrimst Ingietum.

Orik si sfilò lo zaino dalle spalle, si sedette appoggiato a un pilastro ed estrasse la sua ascia, che cominciò a rigirarsi fra le mani. Dopo qualche minuto, guardò infuriato Tronjheim e sbottò: «Barzul knurlar! Dove si sono cacciati? Arya ha detto che sarebbe venuta subito. Ha! Gli elfi hanno un concetto molto elastico del tempo.»

«Li conosci da molto?» domandò Eragon, accovacciandosi accanto a lui. Saphira osservava la scena con interesse. Il nano scoppiò a ridere. «Età. Ho conosciuto soltanto Arya, e sempre in maniera sporadica perché viaggiava spesso. In settantanni ho imparato soltanto una cosa su di lei: non puoi mettere fretta a un elfo. È come prendere a martellate una lima: magari si spezza, ma non si piega.»

«Ma i nani, non sono anche loro così?»

«Già, ma la pietra col tempo può cambiare.» Orik sospirò e scosse il capo. «Fra tutte le razze, gli elfi sono quelli che cambiano meno, ragion per cui non ho molta voglia d'incontrarli.»

«Ma pensa, conosceremo la regina Islanzadi e vedremo

Ellesméra e chissà cos'altro! Quand'è stata l'ultima volta che un nano è stato invitato nella Du Weldenvarden?» Orik si accigliò. «La bellezza dei luoghi non significa niente. Questioni urgenti riguardano Tronjheim e le nostre altre città, ma a me tocca andare dall'altro capo di Alagaésia per scambiare convenevoli e assistere al tuo addestramento, ingrassando per l'ozio. Potrebbero volerci anni!»

Anni!... Ma se necessario alla sconfitta degli Spettri e dei Ra'zac, lo farò.

Saphira gli toccò la mente. Dubito che Nasuada ci permetterà di restare a Ellesméra più di qualche mese. Considerato quanto ha detto, ci sarà bisogno di noi molto presto.

«Finalmente!» esclamò Orik, alzandosi in piedi.

Stava arrivando Nasuada - le pantofoline ricamate che spuntavano dall'orlo della veste come topolini che si affacciano dalla tana - insieme a Jòrmundur e Arya, che portava uno zaino simile a quello di Orik. Indossava lo stesso completo di pelle nera con cui Eragon l'aveva vista la prima volta, e aveva con sé la spada.

All'improvviso Eragon si rese conto che Arya e Nasuada avrebbero potuto non approvare il fatto che si fosse legato all'Ingietum. Un profondo senso di colpa e di trepidazione lo pervase nel riconoscere che sarebbe stato suo dovere consultarsi prima con Nasuada. E Arya! Fece una smorfia al ricordo di come lei si era arrabbiata dopo il suo primo incontro con il Consiglio degli Anziani.

Quando Nasuada si fermò davanti a lui, Eragon evitò il suo sguardo, imbarazzato. Ma lei disse soltanto: «Hai accettato.» Il suo tono era cortese, controllato.

Lui annuì, con gli occhi ancora bassi.

«Mi chiedevo se l'avresti fatto. Ancora una volta, ti trovi vincolato a tutte e tre le razze. I nani possono rivendicare la tua alleanza in qualità di membro del Dùrgrimst Ingietum, gli elfi ti addestreranno e ti plasmeranno - e la loro influenza probabilmente sarà la più forte, poiché tu e Saphira siete legati dalla loro magia - e hai giurato fedeltà a me, un'umana... Tutto sommato, credo sia un bene che tutti noi condividiamo la tua lealtà.» La giovane accolse lo stupore di Eragon con uno strano sorriso, poi gli mise in mano un sacchetto di monete e si fece da parte.

Jòrmundur gli tese la mano ed Eragon ricambiò la stretta, ancora piuttosto confuso. «Buon viaggio, Eragon. Abbi cura di te.»

«Andiamo» disse Arya, oltrepassandoli per immergersi nelle tenebre del Farthen Dùr. «È tempo di partire. Aiedail è tramontata, e ci aspetta un lungo cammino.»

«Pronti» disse Orik, ed estrasse una lanterna rossa da una tasca laterale dello zaino.

Nasuada li guardò ancora una volta. «Molto bene. Eragon e Saphira, vi accompagni la benedizione dei Varden, come anche la mia personale. Vi auguro un viaggio tranquillo. Ricordate, con voi portate il peso delle nostre speranze e delle nostre aspettative, perciò fatevi onore.»

«Faremo del nostro meglio» promise Eragon.

Con le redini di Fiammabianca saldamente in pugno, Eragon si avviò dietro Arya, che era già avanti di parecchie iarde. Orik lo seguì, e infine Saphira. Nel passare accanto a Nasuada, la dragonessa si fermò un istante per leccarle la guancia. Poi allungò il passo e li raggiunse.

A mano a mano che si allontanavano verso nord, il cancello alle loro spalle rimpiccioliva sempre di più, finché non rimase che uno spiraglio di luce su cui si stagliavano le due sagome nere di Nasuada e Jòrmundur fermi sulla soglia. Quando alla fine raggiunsero la base del Farthen Dùr, trovarono una porta gigantesca - alta trenta piedi - con i battenti spalancati. I tre nani di guardia s'inchinarono e si fecero da parte. Oltre la porta cominciava un tunnel di analoghe proporzioni, fiancheggiato da colonne e lanterne per i primi cinquanta piedi. Il resto era vuoto e silenzioso come un mausoleo.

Era identico all'ingresso occidentale del Farthen Dùr, ma Eragon sapeva che quel tunnel era diverso: invece di scavarsi la strada per oltre un miglio nel fianco del Farthen Dùr per emergere all'esterno, proseguiva sotto terra di montagna in montagna, fino alla città di Tarnag.

«Ci siamo» disse Orik, sollevando la lanterna.

Lui e Arya varcarono la soglia, ma Eragon esitò, pervaso da un'improvvisa incertezza. Anche se non aveva paura del buio, lo turbava il pensiero di trovarsi immerso in una notte eterna finché non fossero arrivati a Tarnag. Una volta entrato nel tunnel, si sarebbe di nuovo avventurato fra le braccia dell'ignoto, abbandonando le poche cose cui si era abituato fra i Varden, in cambio di un destino incerto.

Cosa c'è? gli chiese Saphira.

Niente.

Trasse un profondo respiro e riprese il cammino, lasciando che la montagna lo inghiottisse nelle sue viscere.

Falci e forconi

Tre giorni dopo l'arrivo dei Ra'zac, Roran camminava avanti e indietro ai margini del suo piccolo accampamento sulla Grande Dorsale, in preda a una forte inquietudine. Non aveva avuto più notizie dalla visita di Albriech, né gli era possibile carpire informazioni dal suo punto di osservazione su Carvahall. Scoccò un'occhiata furente alle tende lontane dove dormivano i soldati, poi riprese a camminare.

A mezzogiorno consumò un magro pasto freddo. Asciugandosi la bocca col dorso della mano, si domandò: Ma quanto intendono aspettare i Ra'zac? Se era una gara di pazienza, era deciso a vincerla.

Per ammazzare il tempo, si esercitò al tiro con l'arco contro un tronco marcio, fermandosi solo quando una freccia s'infranse contro una pietra incastrata nel legno. A quel punto non gli rimase altro da fare che ricominciare a marciare avanti e indietro lungo l'arido sentiero che andava da un grosso masso fino al punto in cui dormiva. A un tratto sentì un rumore di passi provenire dalla foresta sottostante. Afferrò l'arco e si nascose in attesa. Con grande sollievo accolse la comparsa della faccia di Baldor tra il fogliame. Roran gli fece cenno di avvicinarsi. Si sedettero a terra e Roran gli chiese: «Perché non è più venuto nessuno?»

«Non potevamo» rispose Baldor, asciugandosi la fronte imperlata di sudore. «I soldati ci stanno addosso. Oggi è stata la prima volta che ho avuto occasione di svignarmela.

Ma non posso trattenermi a lungo.» Alzò lo sguardo verso il picco che torreggiava su di loro e rabbrividì. «Sei molto più coraggioso di me, a restare qui. Hai avuto problemi con gli orsi, i lupi o i puma?»

«No, no, sto bene. Novità sui soldati?»

«Uno di loro, l'altra sera, si è vantato con Morn che ogni elemento della loro squadra è stato selezionato con cura per questa missione.» Roran aggrottò la fronte. «Non sono tipi tranquilli, sai... Almeno due o tre si ubriacano ogni sera. Il primo giorno alcuni hanno distrutto la sala comune di Morn.»

«Hanno pagato i danni?»

«Ma figurati!»

Roran rivolse lo sguardo al villaggio. «Ancora non capisco perché l'Impero si dia tanto da fare per catturarmi. Cosa vogliono da me? Cosa credono che potrei dargli?»

Baldor seguì il suo sguardo. «I Ra'zac hanno interrogato

Katrina stamane. Qualcuno gli ha riferito che voi due siete molto amici, e i Ra'zac volevano sapere se lei era al corrente di dove fossi finito.»

Roran si volse di scatto verso Baldor. «Lei sta bene?»

«Ci vuole ben altro che quei due per spaventarla» lo rassicurò Baldor. Poi pronunciò la frase seguente con cautela. «Magari potresti consegnarti.»

«Preferirei impiccarmi, e loro con me!» Roran scattò in piedi e cominciò a percorrere la solita pista, battendosi le mani sulle gambe. «Come puoi dire una cosa simile, sapendo come hanno torturato mio padre?»

Baldor lo afferrò per un braccio e disse: «Cosa accadrà se resti ancora nascosto e i soldati non si arrendono? Penseranno che stiamo mentendo per aiutarti a fuggire. L'Impero non perdona i traditori.»

Roran si liberò dalla stretta con una scrollata di spalle. Fece qualche altro passo, poi tornò indietro e si sedette. Se non mi consegno, i Ra'zac se la prenderanno con chiunque gli capiti a tiro. Se provo a sviare i Ra'zac... Roran non era abbastanza esperto di montagne e foreste per eludere le ricerche di trenta uomini e dei Ra'zac. Eragon potrebbe farlo, ma non io. Eppure, a meno che la situazione non cambiasse, quella gli pareva l'unica soluzione possibile. Guardò Baldor. «Non voglio che qualcuno passi un guaio a causa mia. Per adesso continuerò ad aspettare, ma se i Ra'zac perderanno la pazienza e minacceranno qualcuno... be', allora penserò a qualcosa da fare.» «Comunque la rigiri, è una situazione difficile» commentò Baldor.

«Ma ho tutte le intenzioni di superarla indenne.»

Baldor se ne andò poco dopo, lasciando Roran solo con i propri pensieri, a macinare miglia su miglia sulla solita pista, dove impresse solchi profondi sotto il peso dei suoi pensieri. Quando scese il freddo crepuscolo, si tolse gli stivali per paura di consumarli - e continuò a piedi nudi.

Proprio mentre sorgeva la pallida luna, scacciando le ombre della notte con i suoi raggi d'argento, notò un certo scompiglio giù nel villaggio. Decine di lanterne sobbalzavano nell'oscurità, scomparendo per poi ricomparire quando passavano dietro le case. I puntini gialli si raggrupparono al centro di Carvahall, come uno sciame di lucciole, poi si mossero verso i margini del paese, dove vennero intercettati da una compatta fila di torce proveniente dall'accampamento dei soldati.

Per due ore Roran osservò le due fazioni affrontarsi a viso aperto: le agitate lanterne baluginavano deboli contro le solide fiamme delle torce. Alla fine i due gruppi si dispersero: chi rientrò nelle tende, chi nelle case. Quando tutto tornò alla calma, Roran srotolò il suo sacco e s'infilò sotto le coperte.

Per tutto il giorno seguente, Carvahall brulicò di insolita attività. Figure si aggiravano per le case e Roran notò con sorpresa che alcuni s'inoltravano nella Valle Palancar diretti alle fattorie. A mezzogiorno vide due uomini entrare nell'accampamento dei soldati e scomparire nella tenda dei Ra'zac per quasi un'ora.

Roran era così preso da quanto accadeva di sotto che non si mosse per tutto il giorno.

Stava cenando, quando, come aveva sperato, ricomparve Baldor. «Fame?» chiese Roran, indicandogli il cibo. Baldor scosse il capo e si lasciò cadere con un sospiro esausto. Aveva gli occhi cerchiati e la pelle del volto cerea e tirata. «Quimby è morto.»

La scodella di Roran cadde con un tonfo. Il giovane imprecò, spazzolandosi i calzoni dai pezzi di carne fredda, poi chiese: «Come?»

«Un paio di soldati hanno cominciato a importunare Tara, ieri sera.» Tara era la moglie di Morn. «Lei non ci ha fatto caso, ma i due hanno cominciato a litigare su chi doveva essere servito per primo. Quimby era lì - stava controllando un barile di birra, perché Morn gli aveva detto che era andata a male - e ha cercato di dividerli.» Roran annuì. Tipico di Quimby, intervenire sempre per garantire l'ordine. «Solo che un soldato ha scagliato un boccale che lo ha colpito alla tempia. È morto sul colpo.»

Con le mani sui fianchi, Roran fissava il terreno, sforzandosi di riprendere il controllo del respiro affannato. Era come se Baldor gli avesse sferrato un pugno allo stomaco. Non è possibile... Quimby, morto? Il contadino birraio faceva parte del panorama quanto le montagne che circondavano il villaggio, una presenza indiscussa radicata nel tessuto di Carvahall. «I soldati saranno puniti?»

Baldor alzò le mani al cielo. «Subito dopo che Quimby è morto, i Ra'zac hanno preso il corpo dalla taverna e se lo sono portato nella loro tenda. Abbiamo tentato di recuperarlo ieri notte, ma non hanno voluto sentire ragioni.» «Capisco.»

Baldor gemette, massaggiandosi il mento. «Papà e Loring si sono incontrati stamattina con i Ra'zac e sono riusciti a convincerli a restituire la salma. I soldati però non subiranno alcuna conseguenza.» Fece una pausa. «Stavo per venire qui, quando è stato consegnato il corpo. Sai che ha ottenuto sua moglie? Ossa.»

«Ossa?»

«Un mucchio di ossa spolpate... si vedevano i segni dei denti... alcune perfino spezzate in cerca di midollo.» Disgusto e orrore s'impadronirono di Roran al pensiero del terribile destino di Quimby. Tutti sapevano che uno spirito non può riposare in pace se al suo corpo non viene data degna sepoltura. Disgustato dalla profanazione, chiese: «Ma chi l'ha mangiato?» «I soldati sono rimasti altrettanto sconvolti. Devono essere stati i Ra'zac.»

«Perché? A quale scopo?»

«Sai» disse Baldor, «io non credo che siano umani. Tu non li hai mai visti da vicino, ma hanno l'alito fetido, e si coprono sempre la faccia con sciarpe nere. Hanno la schiena gobba e deforme, e tra loro comunicano con strani schiocchi. Perfino i loro uomini li temono.»

«Ma se non sono umani, di che razza di creature si tratta?» s'interrogò Roran. «Perché Urgali non sono.» «E chi lo sa?»

La paura, adesso, si aggiunse al disgusto: paura del soprannaturale. La vide riflettersi sul volto di Baldor, mentre il giovane si torceva le mani. Nonostante tutte le storie che si raccontavano sui misfatti di Galbatorix, era terribile accorgersi che i tentacoli malvagi del re si aggiravano anche fra le loro case, adesso. Roran capì di essere entrato a far parte della Storia, dove operavano forze oscure e grandiose che fino a quel momento aveva conosciuto soltanto attraverso le ballate e le leggende. «Bisogna fare qualcosa» mormorò.

Nel corso della notte e durante la mattinata l'aria si fece più tiepida, finché nel pomeriggio la Valle Palancar non brillò di un inatteso fulgore primaverile. Carvahall sembrava tranquilla sotto il cielo azzurro e limpido, ma Roran poteva percepire l'acre rancore che serpeggiava fra gli abitanti con feroce intensità. La calma era come un lenzuolo teso contro il vento.

Malgrado il senso di attesa, la giornata si rivelò noiosa: Roran passò la maggior parte del tempo a spazzolare il manto della giumenta di Horst. Alla fine si coricò, contemplando, sopra le chiome dei pini, le galassie di stelle che illuminavano il cielo notturno. Gli sembravano così vicine da poterle toccare mentre si lasciava cadere in un vuoto di tenebra.

La luna stava tramontando quando Roran si destò, la gola irritata dal fumo. Tossì e si alzò a sedere, battendo le palpebre mentre gli occhi gli bruciavano e lacrimavano. Non riusciva quasi a respirare per il fumo denso. Afferrò le coperte e sellò la cavalla spaventata, poi la spronò a salire ancora più su, in cerca d'aria fresca. Ben presto si rese conto che il fumo lo stava sorpassando, così fece voltare la giumenta e tagliò per la foresta. Dopo lunghi minuti passati a brancolare nel buio, finalmente uscirono allo scoperto e proseguirono lungo una cengia spazzata da una leggera brezza. Inspirando a pieni polmoni, Roran scandagliò la valle in cerca dell'incendio. Lo individuò subito.

Il granaio di Carvahall era avvolto da un turbine di fiamme, che trasformavano il suo prezioso contenuto in pagliuzze ardenti. Roran rabbrividì nel guardare le scorte alimentari del villaggio andare in fumo. Voleva gridare e correre ad aiutare gli uomini con i secchi, ma non riusciva ad abbandonare la sicurezza del suo rifugio.

Una scintilla cadde sul tetto della casa di Delwin. Nel giro di qualche secondo, il tetto di paglia esplose in una vampa di fuoco.

Roran imprecò e si strappò i capelli, con le lacrime che gli rigavano le guance. Ecco perché era così importante maneggiare con cura il fuoco a Carvahall. È stato un incidente? Sono stati i soldati? O forse i Ra'zac hanno voluto punire il villaggio per avermi coperto? Sono io il responsabile di questo scempio?

La casa di Fisk fu la terza a prendere fuoco. Atterrito, Roran non potè far altro che distogliere lo sguardo, odiandosi per la propria codardia.

Giunta l'alba, tutti gli incendi erano stati domati, o si erano consumati da soli. Soltanto la buona sorte e una notte senza vento avevano salvato il resto di Carvahall dalla distruzione.

Roran aspettò per assicurarsi che tutto fosse sotto controllo, poi tornò al suo campo e crollò a terra sfinito. Dalla mattina alla sera fu dimentico del mondo, pur soffrendo sprazzi di dolore nei suoi sogni tormentati. Quando si svegliò, si limitò ad aspettare il visitatore che era sicuro sarebbe comparso. Questa volta era Albriech. Arrivò al crepuscolo, con un'espressione cupa e tesa. «Seguimi» disse.

Roran s'irrigidì. «Perché?» Hanno deciso di consegnarmi? Se era stato lui la causa dell'incendio, poteva capire che il villaggio volesse sbarazzarsi di lui. Poteva persino capire che era una mossa necessaria. Era assurdo aspettarsi che gli abitanti di Carvahall si sacrificassero per lui. Ma questo non significava che si sarebbe lasciato consegnare ai Ra'zac. Dopo quello che i due mostri avevano fatto a Quimby, Roran si sarebbe battuto fino alla morte pur di non finire loro prigioniero.

«Perché» rispose Albriech, i muscoli della mascella tesi allo spasimo «sono stati i soldati ad appiccare il fuoco. Morn li aveva banditi dai Sette Covoni, ma quelli si sono ubriacati lo stesso con la loro birra. Uno di loro ha fatto cadere una torcia vicino al granaio mentre tornava alla tenda.»

«Si è fatto male qualcuno?» chiese Roran.

«Qualche leggera ustione. Gertrude è riuscita a curarle. Abbiamo tentato di negoziare con i Ra'zac. Hanno respinto la nostra richiesta che l'Impero ci rifondesse i danni e il colpevole venisse consegnato alla giustizia. Si sono perfino rifiutati di confinare i soldati nell'accampamento.»

«Ma perché devo tornare?»

Albriech ridacchiò. «È giunto il tempo delle falci e dei forconi. Ci serve il tuo aiuto per... estirpare i Ra'zac.» «Fareste questo per me?»

«Non rischiamo la nostra vita soltanto per la tua sicurezza. Adesso la questione riguarda tutto il villaggio. Se non altro, vieni a parlare con papà e con gli altri, per ascoltare le loro proposte... Pensavo che saresti stato contento di allontanarti da queste montagne maledette.»

Roran riflettè a lungo sull'invito di Albriech prima di decidere se seguirlo. O accetto o dovrò fuggire, ma potrò sempre fuggire in seguito. Andò a prendere la giumenta, legò le bisacce alla sella, e s'incamminò dietro Albriech, verso la valle. A mano a mano che si avvicinavano a Carvahall, rallentarono, usando alberi e cespugli per nascondersi. Rannicchiandosi dietro una botte per l'acqua piovana, Albriech controllò che le strade fossero sgombre, poi fece un segnale a Roran. Insieme sfrecciarono di ombra in ombra, sempre in guardia contro i servi dell'Impero. Alla fucina di Horst, Albriech aprì uno dei battenti della porta quel tanto da far passare Roran e la cavalla.

All'interno, la bottega era illuminata da una sola candela, che gettava una luce tremolante sul cerchio di facce chine su di essa nel buio circostante. C'era Horst - la folta barba che sporgeva come una mensola nella luce - in compagnia di Delwin, Gedric e Loring, i volti tesi. Il resto del gruppo era formato da uomini più giovani: Albriech, Baldor, i tre figli di Loring, Parr e il figlio di Quimby, Nolfavrell, che aveva soltanto tredici anni.

Tutti si volsero a guardare Roran che si univa all'assemblea. Horst disse : «Ah, ce l'hai fatta. Sei sfuggito alla sventura mentre eri sulla Dorsale?»

«Sono stato fortunato.» «Allora possiamo procedere.»

«Con che cosa, esattamente?» Roran legò la cavalla a un'incudine mentre ascoltava.

Rispose Loring: la faccia coriacea del calzolaio era una ragnatela di rughe profonde. «Abbiamo tentato di ragionare con questi Ra'zac... questi invasori.» Si fermò, il fragile petto scosso da un preoccupante sibilo rauco. «Si sono rifiutati di ragionare. Ci hanno messi tutti in pericolo, senza la minima traccia di rimorso o contrizione.» Si schiarì la gola, poi annunciò con voce stentorea: «Devono... andarsene. Queste creature...»

«No» intervenne Roran. «Non creature. Profanatori.»

I volti si incupirono e annuirono. Fu Delwin a riprendere il discorso. «Il punto è che qui si tratta delle nostre vite. Se l'incendio si fosse propagato, decine di persone sarebbero rimaste uccise, e coloro che si fossero messi in salvo, avrebbero perso tutto quello che possedevano. Di conseguenza, abbiamo deciso di cacciare i Ra'zac da Carvahall. Sarai dei nostri?»

Roran esitò. «E se tornano o mandano a chiamare rinforzi? Non possiamo sconfiggere tutto l'Impero.» «No» disse Horst con aria solenne, «ma non possiamo nemmeno restare a guardare i soldati che ci ammazzano e distruggono le nostre proprietà. Quanto deve sopportare un uomo prima di passare al contrattacco?» Loring scoppiò a ridere, gettando indietro la testa e la candela illuminò i monconi dei suoi denti. «Prima dobbiamo armarci» disse con gusto, «poi combatteremo. Li faremo pentire di aver messo le loro luride zampe sulla terra di Carvahall! Ha ha!»

Vendetta

Dopo l'assenso di Roran, Horst cominciò a distribuire falci, forconi, badili e tutto ciò che poteva servire a ricacciare indietro i soldati e i Ra'zac.

Roran scelse un forcone, poi lo rimise a posto. Anche se non aveva mai prestato troppa attenzione alle storie di Brom, una di esse, la Canzone di Gemnd, gli faceva vibrare le corde dell'anima ogni volta che l'ascoltava. Narrava di Gerand, il più grande guerriero dei suoi tempi, che depose la spada per prendere moglie e coltivare la terra. Purtroppo non trovò la pace agognata, poiché un signorotto geloso scatenò una sanguinosa faida contro la sua famiglia, costringendo Gerard a uccidere ancora. Ma non combattè con la spada, bensì con un semplice martello.

Si avvicinò alla parete e staccò dal gancio un martello di media grandezza, con un lungo manico e la lama arrotondata su un lato della testa. Lo soppesò con una mano e con l'altra, poi si rivolse a Horst e gli chiese: «Posso prendere questo?»

Horst guardò l'utensile e poi Roran. «Usalo con saggezza.» Poi parlò al resto del gruppo. «Ascoltate. Vogliamo spaventare, non uccidere. Rompete qualche osso, se vi aggrada, ma non fatevi prendere la mano. E qualunque cosa accada, non provate a opporre resistenza e combattere. Lo so che siete tutti coraggiosi ed eroici, ma rammentate che quelli sono soldati addestrati.»

Quando tutti furono armati, uscirono dalla fucina e attraversarono Carvahall fino all'accampamento. I soldati erano già andati a dormire, tranne quattro sentinelle che pattugliavano il perimetro delle tende grigie. I cavalli dei due Ra'zac erano legati presso un falò languente.

Horst impartì i suoi ordini sottovoce, mandando Albriech e Delwin a neutralizzare due sentinelle, e Parr e Roran a occuparsi delle altre due.

Roran trattenne il fiato nell'avvicinarsi all'ignaro soldato. Il suo cuore cominciò a battere all'impazzata, mentre il suo corpo era scosso da un fremito di energia. Si appostò tremante dietro l'angolo di una casa, e attese che Horst gli desse il segnale. Aspetta.

Aspetta.

Con un ruggito, Horst uscì allo scoperto, guidando la carica nell'accampamento. Roran scattò in avanti, mulinando il martello, e colpì la sentinella su una spalla con uno schianto secco.

L'uomo ululò di dolore e lasciò cadere l'alabarda.

Barcollò mentre Roran gli colpiva le costole e la schiena. Roran levò ancora il martello, e l'uomo indietreggiò atterrito, strillando aiuto.

Roran si lanciò all'inseguimento, gridando parole incoerenti. Piombò su una tenda, calpestando tutto ciò che vi era all'interno, poi colpì la calotta di un elmo spuntato da un'altra tenda. Il metallo risuonò come una campana. Roran quasi non si accorse di Loring che gli passava accanto danzando: il vecchio gracchiava e fischiava nella notte mentre infilzava i soldati con un forcone. Dappertutto era una confusione di corpi che lottavano.

Girando su se stesso, Roran notò un soldato che tentava d'incordare l'arco. Si slanciò all'attacco e calò il martello d'acciaio sull'arco, che si spezzò come un fragile rametto. Il soldato fuggì a gambe levate.

I Ra'zac uscirono dalla tenda con le spade sguainate, emettendo orribili grida stridule, ma non ebbero il tempo di attaccare perché Roran liberò i cavalli e li incitò a galoppare verso le due figure spettrali. I Ra'zac si divisero per poi riunirsi, ma furono travolti dalla massa di cavalli in fuga.

E poi finì.

Roran ansimava nel silenzio, il martello ancora stretto in pugno. Si avviò fra i mucchi calpestati di tende e coperte in cerca di Horst. Il fabbro sogghignava sotto la barba. «È stata la rissa migliore che mi sia capitata da anni.» Alle loro spalle, Carvahall prendeva vita mentre la gente cercava di scoprire la fonte del trambusto. Roran vide accendersi le lanterne dietro le persiane chiuse, poi si volse nell'udire singhiozzi soffocati.

Il ragazzo, Nolfavrell, era inginocchiato sul corpo di un soldato e lo pugnalava al petto con metodica ferocia, mentre le lacrime gli gocciolavano dal mento. Gedric e Albriech accorsero e lo sollevarono di peso dal cadavere. «Non sarebbe dovuto venire» disse Roran.

Horst si strinse nelle spalle. «Era suo diritto.»

Può darsi, ma l'uccisione di un uomo dei Ra'zac ci renderà ancor più difficile liberarci dai profanatori. «Dobbiamo innalzare barricate lungo la strada e fra le case, per non farci cogliere di sorpresa.» Passando in rassegna gli uomini in cerca di feriti, Roran vide Delwin con un lungo taglio sanguinante sul braccio, che si accingeva a fasciare con un lembo stracciato di camicia.

Horst riorganizzò il gruppo gridando ordini. Mandò Albriech e Baldor a recuperare il carro di Quimby dalla fucina, e spedì i figli di Loring e Parr a setacciare Carvahall in cerca di qualunque oggetto utile per difendere il villaggio. Mentre parlava, la gente cominciò a radunarsi ai bordi del campo, venuta a vedere cosa restava dell'accampamento dei Ra'zac e il soldato morto. «Cos'è successo?» gridò Fisk.

Loring si fece avanti e guardò il carpentiere negli occhi. «Cos'è successo? Te lo dico io cos'è successo! Abbiamo scacciato quei sacchi di escrementi... li abbiamo colti di sorpresa e scacciati come cani rognosi!» «Avete fatto bene!» La voce decisa apparteneva a Brigit, una donna dai capelli castani che si stringeva Nolfavrell al petto, ignorando il sangue che gli imbrattava il viso. «Meritano di morire come codardi per la morte di mio marito.» Gli abitanti del villaggio mormorarono parole di approvazione, ma intervenne Thane. «Sei impazzito, Horst? Anche se sei riuscito a scacciare i Ra'zac e i loro soldati, Galbatorix ne manderà qui molti altri. L'Impero non si arrenderà finché non avrà messo le mani su Roran.»

«Avremmo dovuto consegnarlo» grugnì Sloan.

Horst alzò le mani. «Può darsi. Nessuno vale più di tutta Carvahall. Ma se consegnassimo Roran, sei davvero convinto che Galbatorix ci risparmierebbe per la nostra resistenza? Ai suoi occhi siamo tali e quali ai Varden.» «Ma allora perché avete attaccato?» disse Thane. «Chi ti ha dato l'autorità di prendere una simile decisione? Ci hai condannati tutti!»

Questa volta rispose Brigit. «Gli avresti permesso di uccidere tua moglie?» Posò le mani sul volto del figlio, poi mostrò i palmi insanguinati, come un'accusa. «Gli avresti permesso di bruciarci tutti?... Ma che razza di uomo sei?» Thane abbassò lo sguardo, incapace di sostenere l'espressione torva di lei.

«Hanno raso al suolo la mia casa» disse Roran, «divorato Quimby e quasi distrutto Carvahall. Questi crimini non potevano restare impuniti. Siamo forse un branco di conigli spauriti che accettano il loro destino come viene? No! Abbiamo il diritto di difenderci.» S'interruppe nel vedere Albriech e Baldor che arrancavano con il carro su per la strada. «Ma possiamo parlarne dopo. Adesso dobbiamo prepararci. Chi vuole aiutarci?»

Una quarantina di uomini si offrirono volontari, e tutti insieme lavorarono per rendere Carvahall impenetrabile. Roran faticò senza tregua, inchiodando assi fra le case, accumulando botti piene di pietre per innalzare muraglie improvvisate, e trascinando tronchi da piazzare al centro della strada principale, che bloccarono con due carri rovesciati su un fianco. Mentre Roran correva da un posto all'altro, Katrina lo intercettò in un vicolo secondario. Lo abbracciò forte, poi gli disse: «Sono felice che tu sia tornato sano e salvo.»

Lui le sfiorò le labbra con un bacio. «Katrina... voglio parlarti non appena avremo finito.» Lei sorrise incerta, ma con un barlume di speranza. «Avevi ragione. È stato sciocco da parte mia aspettare. Ogni momento passato insieme è prezioso, e non ho intenzione di sprecare il tempo che abbiamo quando un capriccio del fato potrebbe dividerci.» Roran stava gettando acqua sul tetto di paglia della casa di Kiselt perché non prendesse fuoco, quando Parr gridò: «I Ra'zac!»

Roran lasciò cadere il secchio e corse ai carri, dove aveva lasciato il martello. Mentre afferrava l'arma, vide un solo Ra'zac in sella a un cavallo in fondo alla strada, fuori tiro degli archi. La creatura era illuminata da una torcia che impugnava nella mano sinistra, mentre la destra era tesa all'indietro, come pronta a scagliare qualcosa. Roran si mise a ridere. «Vuole prenderei a sassate? È troppo lontano anche solo per...» Le parole gli morirono in gola quando il Ra'zac abbassò il braccio e una fiala di vetro tracciò un arco nell'aria, infrangendosi contro il carro alla sua destra. Un istante dopo un globo di fuoco fece saltare in aria il carro, mentre l'onda d'urto scaraventava Roran contro un muro.

Cadde bocconi, stordito, ansimando in cerca d'aria. Attraverso il ronzio nelle orecchie, sentì il ritmico galoppo dei cavalli. Si rialzò a fatica e si volse verso il rumore, scansandosi appena in tempo per evitare i Ra'zac che piombavano a Carvahall grazie al varco fiammeggiante aperto fra i carri.

I Ra'zac frenarono le cavalcature e cominciarono a falciare gli uomini intorno. Roran vide tre uomini morire, poi Horst e Loring raggiunsero i Ra'zac e cominciarono a respingerli con i forconi. I paesani non ebbero il tempo di riorganizzarsi, perché i soldati sciamarono attraverso la breccia, uccidendo indiscriminatamente nel buio.

Roran sapeva di doverli fermare, altrimenti Carvahall sarebbe caduta. Balzò su un soldato, cogliendolo di sorpresa, e lo colpì in volto con la parte tagliente del martello.

Il soldato stramazzò senza emettere un lamento. Mentre i commilitoni dell'uomo correvano verso di lui, Roran strappò lo scudo dal braccio inerte del soldato e fece appena in tempo a bloccare il primo colpo.

Indietreggiando verso i Ra'zac, Roran parò un affondo di spada, poi roteò il martello contro il mento dell'uomo, mandandolo a terra. «A me!» gridò. «Difendete le vostre case!» Schivò un fendente, mentre cinque uomini tentavano di accerchiarlo. «A me!»

Baldor fu il primo a rispondere al suo richiamo, poi Albriech. Qualche secondo dopo, arrivarono i figli di Loring, seguiti da una ventina di altri uomini. Dalle vie laterali, donne e bambini scagliavano pietre contro i soldati. «Restate uniti» ordinò Roran, mantenendo la posizione. «Noi siamo molti di più.»

I soldati si fermarono mentre la folla davanti a loro continuava a ingrossarsi. Con oltre cento uomini alle spalle, Roran avanzò lentamente.

«Attaccate, ssstupidi!» strillò un Ra'zac, chinandosi per schivare il forcone di Loring.

Una freccia solitària sibilò verso Roran. La parò con lo scudo e rise. I Ra'zac erano schierati insieme ai soldati, adesso, e sibilavano di frustrazione, fissando i villici con sguardi di fuoco da sotto i cappucci neri. All'improvviso Roran si sentì pervaso da uno strano stordimento che gli impediva qualsiasi mossa; gli era difficile persino pensare. La stanchezza sembrava inchiodargli braccia e gambe.

Dal cuore di Carvahall, proruppe il grido rauco di Brigit. Un secondo dopo, una pietra volò sopra la sua testa, diretta contro il Ra'zac in prima linea, che si scansò a velocità soprannaturale per evitare il proiettile. La distrazione, per quanto minima, liberò la mente di Roran dall'influenza soporifera. Magia? si domandò.

Lasciò cadere lo scudo, afferrò il martello con entrambe le mani e lo levò sopra la testa, proprio come faceva Horst quando batteva il metallo. Roran si alzò in punta di piedi, inarcò il corpo all'indietro, poi abbassò le braccia di colpo ruggendo un possente huhl Il martello piroettò in aria e rimbalzò sullo scudo del Ra'zac, lasciando una profonda ammaccatura.

I due attacchi bastarono a disgregare gli ultimi residui dello strano potere del Ra'zac. I due si scambiarono rapidi schiocchi, mentre gli uomini sbraitavano e avanzavano minacciosi. I Ra'zac strattonarono le redini e fecero voltare i cavalli.

«Ritirata» ringhiarono, passando fra i soldati. I guerrieri cremisi cominciarono a indietreggiare da Carvahall, agitando le spade contro chiunque osasse avvicinarsi troppo. Soltanto quando furono a una discreta distanza dai carri in fiamme, osarono voltare la schiena.

Roran sospirò e recuperò il martello, sentendo per la prima volta il dolore dei lividi sul fianco e sulla schiena, dove aveva urtato contro il muro. Chinò la testa nel vedere che l'esplosione aveva ucciso Parr. Altri nove uomini erano morti. Già le mogli e le madri levavano al cielo notturno i loro lamenti di dolore.

Com'e potuto succedere quii

«Venite tutti!» chiamò Baldor.

Roran battè le palpebre e barcollò verso il centro della strada, dove si trovava Baldor. Un Ra'zac era curvo come uno scarafaggio sulla sella del cavallo, a non più di venti iarde da loro. La creatura tese un indice adunco verso Roran e disse: «Tu... tu hai lo ssstesso odore di tuo cugino. Non dimentico mai un odore.»

«Cosa vuoi?» gridò Roran. «Perché siete qui?»

Il Ra'zac emise un'orribile risatina da insetto. «Vogliamo... informazioni.» Si guardò alle spalle, dove i suoi compagni si erano già dileguati, poi gridò: «Lasssciateci Roran, e sssarete venduti come ssschiavi. Proteggetelo, e vi mangeremo tutti. Ci darete la vossstra risssposta quando torneremo. E fate che sssia quella giusssta.»

AZ SWELDN RAK ANHÙIN

La luce inondò il tunnel quando le porte si spalancarono. Con una smorfia, Eragon socchiuse gli occhi, non più avvezzi alla luce del giorno dopo tutto il tempo passato sotto terra. Al suo fianco, Saphira sibilò e inarcò il collo per vedere meglio la loro destinazione.

Avevano impiegato due interi giorni per attraversare il passaggio sotterraneo dal Farthen Dùr, anche se a Eragon era sembrato molto di più, per colpa del buio eterno e del silenzio che incuteva nel gruppo. Ricordava di aver scambiato con gli altri al massimo una decina di parole, durante le soste.

Eragon aveva sperato di sapere qualcosa di più sul conto di Arya, mentre viaggiavano insieme, ma l'unica informazione l'aveva ottenuta grazie al proprio spirito di osservazione. Non aveva mai mangiato con l'elfa prima, ed era rimasto sorpreso nel vedere che si era portata una provvista personale e non mangiava carne. Quando le aveva chiesto spiegazioni, lei si era limitata a rispondere: «Nemmeno tu mangerai più carne di animale quando avrai terminato il tuo addestramento, o se lo farai, sarà in rarissime occasioni.»

«Perché dovrei smettere di mangiare la carne?» domandò lui, accigliato.

«Non so spiegartelo a parole, ma capirai quando arriveremo a Ellesméra.»

Ma adesso che correva verso l'uscita, non pensava ad altro che alla meta agognata. Si ritrovò in cima a un rilievo di granito, che sovrastava di oltre cento piedi un lago dalle sfumature violacee, splendente sotto il sole a oriente. Al pari del Kóstha-mérna, lo specchio d'acqua si estendeva da montagna a montagna, riempiendo il fondo valle. Sulla sponda opposta del lago, il fiume Az Ragni scorreva verso nord, serpeggiando fra i monti finché in lontananza si perdeva fra le pianure a est.

Alla sua destra, le montagne erano spoglie, fatta eccezione per qualche raro sentiero, ma alla sua sinistra... alla sua sinistra c'era la città dei nani, Tarnag. Qui i nani avevano rimodellato gli immutabili Monti Beor in una serie di terrazze. Quelle più basse erano in gran parte fattorie scure mezzelune di terra in attesa della semina - punteggiate da basse e tozze casupole che, da lontano almeno, sembravano costruite interamente di pietra. Al di sopra di quelle brulle terrazze si susseguivano vari livelli di edifici comunicanti, che culminavano in una gigantesca cupola bianca e oro. Era come se la città non fosse altro che un'enorme scalinata che conduceva alla cupola, scintillante come un opale, una perla lattiginosa in cima a una piramide di grigia ardesia.

Orik anticipò la sua domanda, dicendo: «Quello è Celbedeil, il più grande tempio della razza nana, dimora del Dùrgrimst Quan, il clan dei Quan, che sono servi e messaggèri degli dei.»

Sono loro a governare Tarnag? chiese Saphira, ed Eragon ripetè la domanda ad alta voce.

«Nooo» fece Arya, sorpassandoli. «Anche se i Quan sono forti, il loro numero è esiguo, malgrado il potere che detengono sull'aldilà... e sull'oro. Sono i Ragni Hefthyn, i Guardiani del Fiume, che controllano Tarnag. Saremo ospiti del loro capoclan, Ùndin, finché restiamo qui.»

Mentre seguivano l'elfa giù dal pendio roccioso, attraversando l'arida foresta che ricopriva la montagna, Orik mormorò a Eragon: «Non farci caso. Non sopporta i Quan, e ogni volta che visita Tarnag e parla con un sacerdote, si scatenano discussioni così feroci da terrorizzare un Kull.»

«Arya?»

Orik annuì sogghignando. «Non ne so molto, ma ho sentito dire che non approva le pratiche dei Quan. A quanto pare gli elfi disdegnano il "borbottare all'aria in cerca di aiuto".»

Eragon guardò la schiena di Arya mentre scendevano, chiedendosi se fosse vero quanto affermava Orik, e in tal caso, in cosa credesse Arya. Trasse un profondo respiro e respinse la questione in un angolo della mente, per godere la meravigliosa sensazione di essere di nuovo all'aria aperta, dove poteva sentire l'odore del muschio, delle felci e degli alberi della foresta, dove il sole gli riscaldava il viso, e le api e gli altri insetti ronzavano.

Il sentiero li condusse sulla riva del lago prima di risalire verso Tarnag e i suoi cancelli aperti. «Come avete fatto a tenere nascosta Tarnag a Galbatorix?» chiese Eragon. «Il Farthen Dùr posso capirlo, ma questo... non ho mai visto nulla di simile.»

Orik ridacchiò. «Nasconderla? Impossibile. No, dopo la caduta dei Cavalieri, siamo stati costretti ad abbandonare le nostre città in superficie e a ritirarci nei tunnel, per sfuggire a Galbatorix e ai Rinnegati. Sorvolavano spesso i Monti Beor, uccidendo chiunque incontrassero.»

«Credevo che i nani avessero sempre vissuto sottoterra.»

Le folte sopracciglia di Orik si unirono in un'espressione corrucciata. «Perché avremmo dovuto? Certo, condividiamo più di un'affinità con la pietra, ma amiamo l'aria aperta quanto un elfo o un umano. Tuttavia è stato soltanto negli ultimi quindici anni, dalla morte di Morzan, che i nani hanno osato tornare a Tarnag e agli altri nostri antichi insediamenti. Galbatorix sarà anche dotato di poteri soprannaturali, ma non si azzarderebbe mai ad attaccare una città intera da solo. Ovviamente lui e il suo drago potrebbero causarci non pochi problemi se volessero, ma di questi tempi non si allontanano spesso da Urù'baen, nemmeno per brevi viaggi. E Galbatorix non potrebbe portare qui un esercito senza prima conquistare Buragh o il Farthen Dùr.»

Un'impresa che gli è quasi riuscita, commentò Saphira.

Nel superare la cima di una collinetta, Eragon sussultò sorpreso quando un animale sbucò dal sottobosco in mezzo al sentiero. La pelosa creatura somigliava a una capra di montagna come quelle della Grande Dorsale, solo che era grossa il doppio e vantava un paio di gigantesche corna ricurve da far impallidire quelle degli Urgali. Ancora più singolare era la sella che portava sul dorso, e il nano che la montava, con in mano un arco teso.

«Hert dùrgrimst? Fild rastn?» gridò il nano.

«Orik Thrifkz menthiv oen Hrethcarach Eragon rak

Dùrgrimst Ingietum» rispose Orik. «Wharn, az vanyalicarharùg Arya. Né oc Ùndinz grimstbelardn.» La capra guardava Saphira intimidita. Eragon notò quanto fossero limpidi e intelligenti i suoi occhi, malgrado il muso stolido irto di candidi ciuffi. In qualche modo gli ricordava Rothgar, e quasi si mise a ridere al pensiero di quanto fosse adatta ai nani. «Azt jok jordn rast» fu la risposta.

Senza alcun comando udibile da parte del nano, la capra balzò avanti, coprendo una tale distanza che per un momento parve volare. Poi cavaliere e cavalcatura scomparvero fra gli alberi.

«Cos'era?» chiese Eragon, incuriosito.

Orik riprese a camminare. «Una Feldùnost, uno dei cinque animali che vivono soltanto su queste montagne. I clan prendono il nome da ciascuno di essi. Tuttavia, il Dùrgrimst Feldùnost è forse il più valoroso e stimato fra i clan.» «Perché?»

«Dipendiamo dalle Feldùnost per il latte, la lana e la carne. Senza di loro, non potremmo vivere sui Beor. Quando Galbatorix e i suoi Cavalieri traditori ci terrorizzavano, fu il Dùrgrimst Feldùnost che rischiò la vita, e lo fa tuttora, per occuparsi dei greggi e dei campi. Per questo, gli siamo tutti debitori.»

«Tutti i nani cavalcano le Feldùnost?» Eragon pronunciò a fatica quella nuova parola.

«Soltanto fra le montagne. Le Feldùnost sono resistenti e hanno zampe salde, ma sono più adatte alle montagne che non alle pianure.»

Saphira sfiorò Eragon con il muso, facendo indietreggiare Fiammabianca. Ora sì che sarà divertente cacciare. Sono prede ben più appetibili di quelle che ho trovato sulla Dorsale o da qualsiasi altra parte! Se avrò tempo a Tarnag... No! disse Eragon. Non possiamo permetterci di offendere i nani.

La dragonessa sbuffò irritata. Potrei sempre chiedere loro il permesso.

Ora il sentiero che li aveva a lungo nascosti sotto il fogliame scuro entrò nella grande radura che circondava Tarnag. Gruppi di osservatori si erano già radunati nei campi quando sette Feldùnost dai finimenti ingioiellati uscirono dalla città. I cavalieri portavano lance sormontate da lunghi vessilli che schioccavano in aria come fruste. Tirando le redini per fermare la strana bestia, il nano al comando disse: «Vi porgo il benvenuto nella città di Tarnag. Per otho di Ùndin e Gannel, io, Thorv, figlio di Brokk, vi offro in pace l'asilo delle nostre dimore.» Il suo accento era più aspro e rauco di quello di Orik.

«E per otho di Rothgar, noi dellTngietum accettiamo la vostra ospitalità» replicò Orik.

«Anch'io, a nome di Islanzadi» fece eco Arya.

Con evidente soddisfazione, Thorv fece un cenno ai suoi compagni, che spronarono le Feldùnost per disporle in formazione intorno ai quattro. Con gran pompa, i nani li scortarono a Tarnag, attraverso i cancelli della città. Il muro di cinta era spesso quaranta piedi e proiettava la sua ombra sulle prime fattorie che circondavano Tarnag. Altri cinque gradoni - ciascuno difeso da un cancello fortificato - li portarono oltre i campi fino alla città vera e propria. In contrasto con i massicci bastioni e i contrafforti, gli edifici all'interno di Tarnag, sebbene di pietra, erano stati eretti con tale maestria da dare un'impressione di grazia e leggerezza. Eleganti bassorilievi, perlopiù di animali, adornavano le case e le botteghe. Ma ancora più sorprendente era la pietra stessa: vibranti sfumature, dallo scarlatto acceso al più tenue dei verdi, scintillavano nella roccia in strati traslucidi.

E appese in tutta la città c'erano le lanterne senza fiamma dei nani, con le loro scintille multicolori che lasciavano presagire le lunghe notti dei Monti Beor.

Diversamente da Tronjheim, Tarnag era stata costruita a misura di nano, senza alcuna concessione per elfi, umani o draghi in visita. Le porte più grandi erano alte cinque piedi, ma la maggior parte non raggiungevano i quattro. Eragon era di statura media, ma adesso si sentiva un gigante in un teatrino di burattini.

Le strade erano ampie e affollate. Nani di diversi clan si dedicavano laboriosi ai propri mestieri, o si affaccendavano nelle botteghe. Molti indossavano strani, esotici costumi, come un gruppo di fieri nani dai capelli neri che portavano elmi d'argento a forma di teste di lupo.

Eragon guardava soprattutto le donne, poiché le aveva viste soltanto di sfuggita a Tronjheim. Erano più robuste degli uomini, con volti duri ma occhi luminosi e capelli lustri, e mani gentili posate sui minuscoli figli. Non amavano adornarsi di monili preziosi, fatta eccezione per piccole, elaborate spille di ferro e pietra.

Al rumore di zoccoli delle Feldùnost, i nani si voltavano a guardare i nuovi arrivati. Non li acclamarono come Eragon si era aspettato, ma s'inchinavano e mormoravano: «Ammazzaspettri.» Quando videro il martello e le stelle sull'elmo di Eragon, l'ammirazione fu sostituita dallo spavento e, in molti casi, da espressioni offese. Alcuni nani, fra i più arrabbiati, si strinsero attorno a Eragon, imprecando a gran voce.

Eragon si sentì rizzare i capelli sulla nuca. A quanto pare, avermi adottato non è stata la decisione più popolare che Rothgar potesse prendere.

Già, concordò Saphira. Può aver rafforzato il suo controllo su di te, ma a costo di alienarsi molti nani... Sarà meglio che ci togliamo dai piedi, prima che cominci a scorrere il sangue. Thorv e le altre guardie incedevano fra la folla come se non esistesse, sgombrando la strada per altri sette livelli, finché non rimase un ultimo cancello a separarli dalla mole di Celbedeil. Poi Thorv svoltò a sinistra, verso un grande palazzo addossato al fianco della montagna, protetto sul fronte da un barbacane con due torri munite di caditoie.

Mentre si avvicinavano, un gruppo di nani armati uscì da dietro le case, schierandosi a formare una barriera che bloccava la strada. Lunghi veli viola coprivano i loro volti e le spalle, come calotte di maglia.

Le guardie subito arrestarono le loro Feldùnost, scuri in volto. «Cosa c'è?» chiese Eragon a Orik, ma il nano si limitò a scuotere la testa e a farsi avanti, la mano sull'ascia.

«Etzil nithgech!» gridò un nano velato, sollevando un pugno. «Formv Hrethcarach... formv Jurgencarmeitder nos età goroth bahst Tarnag, dùr encesti rak kythn! Jok is warrev az barzulegùr dùr dùrgrimst, Az Sweldn rak Anhùin, mògh tor rak Jurgenvren? Né ùdim etal os rast knurlag. Rnurlag ana...» Per un intero minuto, continuò a blaterare con crescente livore.

«Vrron!» latrò Thorv, tagliando corto, poi i due nani cominciarono a litigare. Malgrado l'asprezza dei toni, Eragon si accorse che Thorv provava rispetto per l'altro nano.

Il giovane si spostò di lato nel tentativo di vedere meglio la scena da dietro la Feldùnost di Thorv, e il nano velato tacque di colpo, indicando inorridito l'elmo di Eragon.

«Knurlag qana qirànù Dùrgrimst Ingietum!» strillò. «Barzul ana Rothgar oen volfild...»

«Jok is frekk dùrgrimstvren?» lo interruppe Orik a voce bassa, estraendo l'ascia. Preoccupato, Eragon rivolse un'occhiata ad Arya, ma anche lei era troppo assorbita dal confronto per notarlo. Senza farsi notare, fece scivolare la mano sull'impugnatura di Zar'roc.

Lo strano nano guardò truce Orik, si tolse un anello di ferro dalla tasca, si strappò tre peli dalla lunga barba e li avvolse intorno a esso, poi lo scagliò sulla strada e sputò. Senza altre parole, i nani ammantati di viola se ne andarono. Thorv, Orik e gli altri guerrieri trasalirono quando l'anello rimbalzò tintinnando sul selciato di granito. Perfino Arya parve sconcertata. Due dei nani più giovani sbiancarono e misero mano alle lame, poi le abbassarono quando Thorv gridò: «Età!»

La loro reazione turbò Eragon molto più del rauco alterco. Mentre Orik si chinava a raccogliere l'anello per infilarlo in un sacchetto, Eragon chiese: «Cosa significa?»

«Significa» rispose Thorv «che hai dei nemici.»

Oltre il barbacane si apriva un ampio cortile apparecchiato con tre tavoli da banchetto, decorato da lanterne e stendardi. Trovarono un nutrito gruppo di nani ad attenderli davanti ai tavoli, fra cui spiccava uno dalla barba grigia vestito con una pelle di lupo. Allargò le braccia e disse: «Benvenuti a Tarnag, dimora del Dùrgrimst Ragni Hefthyn. Ho sentito tessere le tue lodi, Eragon Ammazzaspettri. Io sono Ùndin, figlio di Derùnd, e capoclan.» Un altro nano si fece avanti. Aveva le spalle e il torace da guerriero, con un paio di occhi neri infossati che non si staccarono dal volto di Eragon nemmeno per un secondo. «E io sono Gannel, figlio di Orm Scuredisangue, capoclan del Dùrgrimst Quan.»

«È un onore essere vostri ospiti» disse Eragon chinando il capo. Percepì l'irritazione di Saphira nell'essere ignorata. Pazienza, mormorò, con un sorriso forzato.

La dragonessa sbuffò.

I capiclan salutarono Arya e Orik a turno, ma la loro cordialità fu inutile con Orik, il quale per tutta risposta tese la mano col palmo aperto, mostrando l'anello di ferro.

Ùndin sgranò gli occhi, e prese l'anello con cautela, tenendolo fra il pollice e l'indice come se fosse uno scorpione velenoso. «Chi te lo ha dato?»

«L'Az Sweldn rak Anhùin. E non l'ha dato a me, ma a Eragon.»

Quando sui volti dei nani si dipinse un'espressione allarmata, Eragon si sentì di nuovo cogliere dalla preoccupazione. Aveva visto nani che da soli affrontavano un gruppo di Kull senza battere ciglio. L'anello doveva simboleggiare qualcosa di spaventoso, se poteva minare il loro coraggio.

Ùndin si accigliò mentre ascoltava i mormorii dei suoi consiglieri, poi disse: «Dobbiamo consultarci su questo argomento. Ammazzaspettri, è stata preparata una festa in tuo onore. Se vuoi essere così gentile da seguire i miei servitori, ti mostreranno i tuoi alloggi, dove potrai rinfrescarti, e poi potremo cominciare.»

«Prego» disse Eragon, porgendo le redini di Fiammabianca a un nano in attesa, e ne seguì un altro nel palazzo. Nel varcare la soglia, scoccò un'occhiata indietro ad Arya e Orik, impegnati con i capiclan, le teste chine e ravvicinate. Non ci metterò molto, promise a Saphira.

Dopo aver percorso a schiena curva una serie di passaggi a misura di nano, fu sollevato nel vedere che la stanza che gli era stata assegnata era abbastanza spaziosa da consentirgli di stare dritto. Il servitore s'inchinò e disse: «Tornerò non appena Grimstborith Ùndin sarà pronto.»

Come il nano lo lasciò da solo, Eragon trasse un profondo respiro, godendosi il silenzio. L'incontro con i nani velati continuava a turbarlo, impedendogli di rilassarsi. Se non altro non resteremo a lungo qui a Tarnag. Questo dovrebbe far sì che non ci facciano del male.

Si tolse i guanti e si avvicinò a un bacile di marmo posato sul pavimento, accanto al letto basso. Infilò le mani nell'acqua e le ritrasse di scatto con un gridolino involontario. L'acqua era bollente. Dev'essere un'usanza dei nani, pensò. Attese che si raffreddasse un po', poi si lavò la faccia e il collo, strofinandoli con cura mentre il vapore si levava dalla sua pelle.

Rinvigorito, si sfilò i calzoni e la tunica, e indossò gli abiti che aveva usato per le esequie di Ajihad. Toccò Zar'roc, poi decise che sarebbe stato un insulto alla tavola di Ùndin, e alla cintura allacciò soltanto il suo coltello da caccia. Estrasse dallo zaino la pergamena che gli aveva affidato Nasuada con l'incarico di consegnarla a Islanzadi e la soppesò, domandandosi dove nasconderla. La lettera era troppo importante per lasciarla incustodita nella stanza, dove avrebbero potuto leggerla o rubarla. Non trovando posto migliore, se la infilò in una manica. Qui sarà al sicuro, purché non capiti di combattere, e in questo caso avrò problemi ben più grossi di cui preoccuparmi.

Quando il servitore tornò a chiamare Eragon, era passata un'ora o poco più da mezzogiorno, ma il sole era già calato dietro le montagne torreggianti, immergendo Tarnag nell'oscurità. Uscito nel cortile, Eragon rimase sorpreso dalla trasformazione della città. Con la notte prematura, le lanterne dei nani rivelavano la loro vera potenza, inondando le vie di una luce pura e intensa che faceva risplendere l'intera valle.

Ùndin e gli altri nani erano disposti intorno ai tavoli, insieme a Saphira, che si era sistemata a un capotavola. Nessuno sembrava intenzionato a contestare la sua scelta.

Successo niente? chiese Eragon, affrettandosi verso di lei.

Ùndin ha convocato altri guerrieri, e poi hanno sbarrato i cancelli. Si aspetta un attacco?

Quantomeno lo considera un'eventualità.

«Eragon, ti prego, unisciti a noi» disse Ùndin, indicando la sedia alla propria destra. Il capoclan si sedette non appena lo fece Eragon, e il resto della compagnia li imitò.

Eragon fu contento quando Orik prese posto accanto a lui, con Arya seduta dall'altro lato del tavolo, anche se entrambi erano scuri in volto. Prima di poter chiedere a Orik dell'anello, Ùndin battè le mani e ruggì: «Ignh az voth!» I servitori sciamarono dal palazzo, portando vassoi d'oro massiccio carichi di carni, torte e frutta. Si divisero in tre colonne - una per ciascun tavolo - e deposero i vassoi profondendosi in inchini.

Davanti a loro c'erano zuppe e stufati guarniti di una grande varietà di tuberi, cacciagione arrosto, lunghi filoni di pane lievitato, e schiere di torte al miele grondanti di marmellata di lamponi. Su un letto d'insalata erano adagiati filetti di trota profumata al prezzemolo, e l'anguilla in salamoia fissava mesta un vaso di formaggio molle, come se sperasse in qualche modo di tornare in un fiume. Un cigno troneggiava su ciascun tavolo, circondato da stormi di pernici, anatre e oche ripiene.

C'erano funghi dappertutto: soffritti in succosi filetti, infilati sulla testa di un volatile a mo' di cuffia, o tagliati a forma di castelli in mezzo a fossati ricolmi di sugo. Ce n'era una varietà incredibile: da bianchi funghi carnosi grandi quanto il pugno di Eragon, ad alcuni che avrebbe potuto scambiare per corteccia secca, a delicati funghetti tagliati a metà a mostrare la polpa azzurrognola.

Poi venne introdotto il piatto forte del banchetto: un gigantesco cinghiale arrosto, lucente di sugo. Almeno, Eragon pensò che fosse un cinghiale, perché la carcassa era grande quanto Fiammabianca, e ci erano voluti sei nani per portarlo. Le zanne erano più lunghe del suo braccio, il muso tozzo grande quanto la sua testa. E l'odore sovrastava tutti gli altri in ondate pungenti che gli facevano lacrimare gli occhi.

«Nagra» mormorò Orik. «Cinghiale gigante. Ùndin ti rende un vero onore stasera, Eragon. Soltanto i nani più audaci osano cacciare il Nagra, che viene servito solo a ospiti di grande prestigio. Inoltre ho ragione di credere che il suo gesto miri a conquistarti i favori del Dùrgrimst Nagra.»

Eragon si chinò verso di lui per non farsi udire da orecchie indiscrete. «Quindi anche questo è un animale nativo dei Monti Beor? Quali sono gli altri?»

«Lupi delle foreste così enormi da predare i Nagra, e tanto agili da cacciare le Feldùnost. Orsi delle cavèrne, che chiamiamo Urzhadn, e gli elfi chiamano Beorn, da cui deriva il nome che usano per queste vette, anche se noi non le chiamiamo così. Il nome delle montagne è un segreto che non condividiamo con nessun'altra razza. E...» «Smer voth» comandò Ùndin, sorridendo ai suoi ospiti. I servitori estrassero subito piccoli coltelli ricurvi con cui tagliarono porzioni di Nagra che deposero sui piatti di ciascun commensale - tranne che su quello di Arya -, compreso un pezzo enorme per Saphira. Ùndin sorrise di nuovo, prese il pugnale e si tagliò una fetta di carne. Eragon prese il proprio coltello, ma Orik gli afferrò il braccio. «Aspetta.»

Ùndin masticò lentamente, roteando gli occhi e annuendo in modo esagerato, poi inghiottì e proclamò: «Ilf gauhnith!» «Ora» disse Orik, e cominciò a mangiare, mentre fra i tavoli si accendevano cordiali e animate conversazioni. Eragon non aveva mai assaggiato niente come quel cinghiale. Era succoso, morbido, e stranamente speziato, come se la carne fosse stata marinata in miele e sidro, e il sapore era esaltato dalla menta. Come hanno fatto a cuocere una bestia così grande?

A fuoco lento, commentò Saphira, addentando il suo pezzo di Nagra.

Fra un boccone e l'altro, Orik spiegò: «È nostra usanza, dai tempi in cui l'avvelenamento era una pratica alquanto diffusa fra i clan, che il padrone di casa assaggi per primo il cibo e lo dichiari sicuro per i suoi ospiti.» Durante il banchetto, Eragon divise il suo tempo fra un assaggio della moltitudine di pietanze e la conversazione con Orik, Arya e i nani del suo tavolo. Così le ore parvero scorrere in fretta, quando in realtà il banchetto durò tanto a lungo che solo nel tardo pomeriggio venne servita l'ultima portata, masticato l'ultimo boccone e vuotato l'ultimo calice. Mentre i servitori sparecchiavano, Ùndin si rivolse a Eragon. «Hai gradito il pranzo?»

«Delizioso.»

Ùndin annuì. «Sono lieto che ti sia piaciuto. Ho fatto spostare i tavoli all'esterno, ieri, perché potessi mangiare con il drago.» Il suo sguardo rimase su Eragon tutto il tempo.

Eragon si sentì gelare dentro. Che lo avesse fatto volontariamente oppure no, Ùndin aveva trattato Saphira come una bestia qualsiasi. Eragon aveva avuto intenzione di chiedere spiegazioni sui nani velati in privato, ma ora, come spinto dal desiderio di irritare Ùndin, disse: «Saphira e io ti ringraziarne» E poi: «Perché hanno scagliato quell'anello davanti a noi?»

Un silenzio avvilito discese sul cortile. Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik che faceva una smorfia. Arya però sorrideva, come se avesse capìto che cosa stava facendo.

Ùndin posò il pugnale, visibilmente accigliato. «I knur-lagn che hai incontrato appartengono a un tragico clan. Prima della caduta dei Cavalieri erano fra le più antiche e ricche famiglie del nostro regno. Il loro destino, però, fu segnato da due terribili errori: vivevano ai confini occidentali dei Monti Beor, e inviarono i loro più valorosi guerrieri al servizio di Vrael.»

La rabbia s'impadronì della sua voce, rendendola rauca. «Galbatorix e i suoi Rinnegati, siano maledetti per sempre, li massacrarono nella vostra città di Ùru'baen. Poi volarono su di noi, e ne uccisero molti. Di quel clan, soltanto Grimstcarvlorss Anhùin e le sue guardie sopravvissero. La povera Anhùin morì presto di crepacuore, e i suoi uomini assunsero il nome di Az Sweldn rak Anhùin, le Lacrime di Anhùin, coprendosi il volto per rammentare a se stessi il loro lutto e il desiderio di vendetta.»

Le guance gli formicolarono di vergogna, ma Eragon si sforzava di mantenere un'espressione neutra. «E così» proseguì Ùndin, fissando torvo un dolcetto, «ricostruirono il clan nel corso dei decenni, aspettando la loro rivalsa. E adesso arrivi tu, portando l'emblema di Rothgar. È un insulto gravissimo per loro, malgrado le tue gesta nel Farthen Dùr. E quindi l'anello rappresenta un gravissimo gesto di sfida. Significa che il Dùrgrimst Az Sweldn rak Anhùin si opporrà a te con tutte le sue forze, in ogni questione, grande o piccola. Si sono schierati contro di te, si sono dichiarati nemici di sangue.»

«Vuoi dire che intendono farmi del male?» domandò Eragon, rigido.

Lo sguardo di Ùndin vacillò nel rivolgere una fugace occhiata a Gannel, poi Ùndin scrollò il capo ed emise una rauca risata che risuonò forse un po' troppo ostentata. «No, Ammazzaspettri! Nemmeno loro oserebbero nuocere a un ospite. È proibito. Vogliono soltanto che tu vada via, lontano e il più presto possibile.» Eragon non sembrava del tutto convinto. Allora Ùndin aggiunse: «Ti prego, non parliamo più di questi sgradevoli argomenti. Gannel e io ti abbiamo offerto il nostro cibo e il nostro idromele in segno di amicizia. Non è questo ciò che più conta?» Il sacerdote lì accanto mormorò un assenso.

«Lo apprezzo molto» concesse infine Eragon.

Saphira lo guardò con occhi solenni e disse: Hanno paura, Eragon. Paura e risentimento, perché sono stati costretti ad accettare l'assistenza di un Cavaliere.

Già. Se sarà necessario, combatteranno con noi, ma non per noi.

Celbedeil

Il mattino senza alba trovò Eragon nel salone principale di Ùndin, ad ascoltare il capoclan che discorreva con Orik nella lingua dei nani. Ùndin s'interruppe nel vedere Eragon che si avvicinava, poi disse: «Ah, Ammazzaspettri. Hai dormito bene?»

«Sì.»

«Bene.» Fece un cenno a Orik. «Stavamo parlando della vostra partenza. Mi sarebbe piaciuto che vi tratteneste più a lungo qui da noi, ma date le circostanze è preferibile che riprendiate il vostro viaggio domattina presto, quando non ci sarà nessuno per la strada che possa importunarvi. Ho già dato ordine di preparare le provviste e i mezzi di trasporto. Per esplicita volontà di Rothgar, una scorta vi accompagnerà fino a Ceris, e dal canto mio ho aumentato il loro numero da tre a sette.»

«E nel frattempo?»

Ùndin si strinse nelle spalle ammantate di pelliccia. «Avrei voluto mostrarti le meraviglie di Tarnag, ma adesso non sarebbe saggio lasciarti girare per la mia città. Tuttavia Grimstborith Gannel ti ha invitato a Celbedeil. Se lo desideri, accetta. Con lui sarai al sicuro.» Il capoclan sembrava aver dimenticato l'affermazione del giorno prima, secondo cui gli Az Sweldn rak Anhùin non gli avrebbero torto un capello.

«Ti ringrazio. Credo che accetterò.» Nel lasciare la sala, Eragon prese da parte Orik e gli chiese: «Quanto è seria questa faida? Devo sapere la verità.»

Orik rispose, con malcelata riluttanza: «In passato, non era raro che le faide durassero per generazioni. Intere famiglie si sono estinte nel sangue. Sono stati sconsiderati gli Az Sweldn rak Anhùin ad appellarsi alle antiche usanze; una cosa del genere non accadeva dai tempi delle guerre fra clan... Finché non revocheranno il loro giuramento, dovrai guardarti dai loro complotti, che sia per un anno oppure per un secolo. Mi rincresce che la tua amicizia con Rothgar abbia provocato tutto questo, Eragon. Ma non sei solo. Il Dùrgrimst Ingietum è dalla tua parte.»

Una volta uscito, Eragon corse da Saphira, che aveva trascorso la notte accucciata in cortile. Ti dispiace se vado a visitare Celbedeil?

Se proprio devi, va'pure. Ma porta Zar'roc. Il giovane seguì il suo consiglio, e s'infilò la pergamena di Nasuada nella tunica. Quando Eragon si avvicinò al cancello incassato nel muro di cinta del palazzo, cinque nani spinsero da parte i battenti di legno grezzo, poi si strinsero intorno a lui, le mani salde sulle impugnature delle spade e delle asce, gli occhi che guizzavano da un lato e dall'altro per ispezionare la strada. Le guardie lo scortarono nel ripercorrere il tragitto del giorno prima, fino all'ingresso sbarrato del più elevato livello di Tarnag.

Eragon rabbrividì. La città era innaturalmente deserta. Le porte erano sprangate, le finestre chiuse, e i pochi passanti distoglievano lo sguardo e imboccavano vicoli laterali per evitarlo. Hanno paura di mostrarsi accanto a me, comprese Eragon. Forse perché sanno che gli Az Sweldn rak Anhùin si vendicheranno contro chiunque mi aiuti. Spinto dal desiderio sempre più pressante di togliersi dalla strada troppo esposta, Eragon alzò una mano per bussare, ma le sue nocche non avevano ancora toccato il legno che una porta si aprì verso l'esterno con un lieve cigolìo, e un nano dalla lunga veste nera gli fece cenno di entrare. Stringendosi il cinturone, Eragon entrò, lasciando la scorta ad aspettarlo fuori.

La sua prima impressione fu di colore. Un vasto prato verdeggiante circondava la mole colonnata di Celbedeil, come un arazzo adagiato sulla collina simmetrica da cui svettava il tempio. L'edera rampicante strangolava le antiche mura dell'edificio con lunghi tentacoli barbati, le foglie appuntite scintillavano di rugiada. E a dominare su tutto il resto, tranne che sulle montagne, sorgeva la grande cupola bianca dalle coste in rilievo d'oro cesellato. L'impressione successiva fu l'odore. Fiori e incenso mescolavano le proprie fragranze in un aroma così etereo da dare a Eragon la sensazione che avrebbe potuto vivere solo di quel profumo.

L'ultima fu il suono, o meglio, la sua assenza, poiché sebbene gruppi di sacerdoti passeggiassero lungo i vialetti a mosaico e i vasti piazzali, l'unico rumore che Eragon udì fu il fievole frullo d'ali di un corvo nero che volava in alto. Il nano gli fece un altro cenno e s'incamminò lungo il viale principale che portava a Celbedeil. Nel passare sotto i cornicioni, Eragon non potè che ammirare la profusione di ricchezze e la maestria con cui erano stati costruiti. Le mura erano tempestate di gemme di ogni colore e taglio tutte purissime - e nelle venature che screziavano i soffitti, il pavimento e le mura di pietra erano state martellate lamine d'oro rosso, intervallate da perle lucenti e borchie d'argento. Più di una volta oltrepassarono paraventi fatti interamente di giada intagliata.

Il tempio era privo di ornamenti in tessuto. In compenso, i nani avevano scolpito un'abbondanza di statue, perlopiù creature mostruose e divinità impegnate in epiche battaglie.

Dopo aver risalito diversi livelli, varcarono una porta coperta di verderame, con una serie di nodi intricati e complessi lavorati a sbalzo, per entrare in una sala vuota dal pavimento di legno. Le pareti erano coperte di armature e rastrelliere stipate di lunghe aste di legno con una lama a ciascuna estremità, identiche a quella che Angela aveva usato per combattere nel Farthen Dùr.

Nella sala c'era Gannel, impegnato ad allenarsi al combattimento con tre nani più giovani. Il capoclan aveva la veste raccolta intorno alle cosce per potersi muovere liberamente, il volto una maschera di concentrazione mentre faceva roteare il bastone, le lame smussate che guizzavano come calabroni infastiditi.

Due nani si lanciarono verso Gannel, ma furono bloccati in un clangore di legno e metallo, mentre il sacerdote piroettava colpendogli le ginocchia e la testa, spedendoli a terra. Eragon sorrise guardando Gannel che disarmava l'ultimo avversario con un'elegante sequenza di colpi.

Finalmente il capoclan notò Eragon e congedò gli altri nani. Mentre Gannel riponeva l'arma sulla rastrelliera, Eragon gli domandò: «Tutti i Quan sono così esperti nelle arti marziali? È strano che i sacerdoti coltivino questa pratica.» Gannel si volse. «Dobbiamo essere capaci di difenderci, non credi? Molti nemici calpestano questa terra.» Eragon annuì. «Queste sono armi molto singolari. Non ne ho mai viste di simili, tranne che nella battaglia del Farthen Dùr, in mano a un'erborista.»

Il nano trattenne il fiato, poi lo liberò con un sibilo a denti stretti. «Angela.» La sua espressione si fece torva. «Vinse il bastone a un sacerdote in una gara di indovinelli. Fu un trucco sleale, dato che noi siamo gli unici ad aver diritto di usare gli hùthvìrn. Lei e Arya...» Scrollò le spalle e si diresse a un tavolinetto dove riempì due boccali di birra. Porgendone uno a Eragon, disse: «Ti ho invitato qui, oggi, su richiesta di Rothgar. Mi ha detto che se tu avessi accettato la sua offerta di entrare a far parte dell'Ingietum, io avrei dovuto insegnarti le tradizioni dei nani.» Eragon sorseggiò la birra e tacque, osservando come la fronte sporgente di Gannel coglieva la luce, proiettando scure ombre sugli zigomi.

Il capoclan proseguì. «A nessuno straniero sono mai state rivelate le nostre segrete credenze, né potrai mai parlarne con umano o elfo. Ma senza questa conoscenza, non potresti mai comprendere cosa significa essere knurla. Ora sei un Ingietum: il nostro sangue, la nostra carne, il nostro onore. Capisci?»

«Sì.»

«Vieni.» Con il boccale in mano, Gannel condusse Eragon fuori dalla sala di allenamento; percorsero cinque ampi corridoi e si fermarono sotto un arco che affacciava su una stanza dalla fioca illuminazione, satura di fumi d'incenso. Davanti a loro, dal pavimento al soffitto si ergeva una poderosa statua col volto cupo scolpito nel granito marrone con insolita crudezza.

«Chi è?» chiese Eragon, intimidito.

«Gùntera, il re degli dei. È un guerriero e un sapiente, ma di umore volubile; per assicurarci la sua benevolenza bruciamo offerte in occasione dei solstizi, prima della semina, alle nascite e alle morti.» Gannel fece uno strano gesto con la mano e s'inchinò alla statua. «È lui che preghiamo prima delle battaglie, poiché fu lui a plasmare questa terra con le ossa di un gigante, e dona al mondo il suo ordine. Tutti i regni appartengono a Gùntera.»

Poi Gannel insegnò a Eragon la maniera corretta per venerare il dio, spiegandogli i segni e le parole da usare. Gli illustrò il significato dell'incenso - simbolo di vita e prosperità - e gli narrò con dovizia di particolari le leggende su Gùntera, raccontandogli come il dio era nato già perfettamente formato da una lupa all'alba dei tempi; come aveva combattuto mostri e giganti per conquistare in Alagaésia una terra per la sua specie; come infine aveva preso Kilf, la dea dei fiumi e del mare, in sposa.

Passarono quindi alla statua di Kilf, che era stata scolpita con grazia squisita nel pallido turchese. I capelli le ricadevano in liquide onde sulle spalle e incorniciavano due occhi di brillante ametista. Nelle mani a coppa teneva un giglio d'acqua e un ramo di roccia rossa porosa che Eragon non riconobbe.

«Cos'è?» domandò indicando.

«Corallo raccolto dal mare che bagna i Monti Beor.»

«Corallo?»

Gannel bevve un sorso di birra, poi disse: «I nostri tuffatori l'hanno trovato mentre cercavano perle. A quanto pare, nell'acqua salata certe pietre crescono come piante.» Eragon lo contemplò, ammirato. Non aveva mai pensato a ciottoli e sassi come creature viventi, eppure lì c'era la prova che bastavano acqua e sale per farli prosperare. Questo finalmente spiegava come mai le rocce continuavano ad affiorare nei loro campi nella Valle Palancar anche quando il terreno veniva dissodato ogni primavera. Crescono!

Proseguirono verso Urùr, dio dell'aria e dei cieli, e suo fratello Morgothal, dio del fuoco. Davanti alla statua rosso carminio di Morgothal, il sacerdote gli narrò che i fratelli si amavano tanto che nessuno dei due poteva vivere senza l'altro. Per questo motivo, nel cielo il Palazzo di Morgothal ardeva di giorno, e le scintille della sua forgia comparivano ogni notte. E sempre per la stessa ragione Urùr alimentava costantemente suo fratello per non farlo morire. Mancavano soltanto altre due statue: Sindri - madre della terra - ed Helzvog.

La statua di Helzvog era diversa dalle altre. Il dio nudo era chino su un masso di silice grigia, delle dimensioni di un nano, e lo sfiorava con la punta dell'indice. I muscoli della schiena erano tesi e gonfi di fatica sovrumana, eppure la sua espressione era incredibilmente tenera, come se davanti a lui ci fosse un neonato.

La voce di Gannel si ridusse a un sussurro. «Gùntera sarà anche il re degli dei, ma è Helzvog che regna nei nostri cuori. Fu lui che avvertì l'esigenza di ripopolare la terra dopo la scomparsa dei giganti. Gli altri dei non erano d'accordo, ma Helzvog li ignorò e in segreto plasmò il primo nano dalle radici di una montagna.

«Quando il suo gesto fu scoperto, gli dei si ingelosirono e Gùntera creò gli elfi per controllare Alagaésia in sua vece. Allora Sindri generò gli umani dal suolo, mentre Urùr e Morgothal fusero le loro conoscenze per dare origine ai draghi. Soltanto Kilf si astenne. Fu così che le prime razze comparvero sulla terra.»

Eragon ascoltava le parole di Gannel, riconoscendo la sua sincerità, ma non poteva fare a meno di chiedersi: Come fa a saperlo? Eragon capì che sarebbe stata una domanda indelicata, e si limitò ad annuire.

«Questo» disse Gannel, bevendo l'ultimo sorso di birra «ci porta al nostro rito più importante, di cui so che Orik ti ha già parlato... Tutti i nani devono essere sepolti nella pietra, altrimenti i nostri spiriti non si uniranno mai a Helzvog nella sua dimora. Non siamo fatti di terra, aria o fuoco, ma di pietra. E come membro dell'Ingietum è tuo dovere assicurare una degna sepoltura a qualunque nano muoia in tua compagnia. Se mancherai di farlo, in assenza di ferite o nemici, Rothgar ti esilierà, e nessun nano riconoscerà la tua presenza fin dopo la tua morte.» Raddrizzò le spalle, fissando Eragon negli occhi. «Hai ancora molto da imparare, ma fa' tesoro degli insegnamenti di oggi, e le tue azioni seguiranno il giusto corso.»

«Non li dimenticherò» promise Eragon.

Soddisfatto, Gannel si allontanò dalle statue per imboccare una scala a chiocciola. Mentre salivano, il capoclan s'infilò una mano nella veste e ne trasse una collana, una semplice catena che passava in un ciondolo d'argento a forma di martello in miniatura. La diede a Eragon.

«Questo è un altro favore che mi ha chiesto Rothgar» spiegò Gannel. «Teme che Galbatorix possa aver scorto una tua immagine dalla mente di Durza, o dei Ra'zac, o di qualcuno dei soldati che hai incontrato viaggiando per l'Impero.» «Cosa avrei da temere?»

«Galbatorix potrebbe divinarti. Forse lo ha già fatto.»

Un brivido di apprensione gli corse lungo la schiena, come un serpente di ghiaccio. Avrei dovuto pensarci, si rimproverò. «La collana impedirà a chiunque di divinare te o il tuo drago, purché la indossi sempre. Ho formulato io l'incantesimo, perciò dovrebbe resistere anche alla più potente delle menti. Ma ti avverto: quando si attiva, la collana attingerà alla tua forza finché non la toglierai, o il pericolo sarà cessato.»

«E quando dormo? La collana potrebbe consumarmi tutta l'energia senza che me ne accorga?»

«No. Ti sveglierà.»

Eragon si fece rotolare il piccolo martello fra i polpastrelli. Era difficile bloccare gli incantesimi di un'altra persona, soprattutto quelli di Galbatorix. Se Gannel è così potente, quali altri incantesimi può aver nascosto nel suo dono? Notò una riga di rune incise sul manico del martello. Dicevano Astim Hefthyn. La scala terminò mentre chiedeva: «Come mai i nani scrivono con le rune degli umani?»

Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Gannel scoppiò a ridere; le sue larghe spalle tremavano e il tempio riecheggiò della sua voce profonda. «È il contrario: gli umani scrivono con le nostre rune. Quando i vostri antenati giunsero in Alagaésia, erano illetterati come conigli. Tuttavia adottarono il nostro alfabeto e lo adattarono al loro linguaggio. Alcune delle vostre parole addirittura derivano dalle nostre, come padre, che in origine era farthen.» «Quindi Farthen Dùr significa...?» Eragon s'infilò la collana e la nascose sotto la tunica.

«Nostro Padre.»

Fermandosi davanti a una porta, Gannel invitò Eragon a entrare in una galleria che correva tutto intorno alla cupola di Celbedeil; gli archi aperti che la fiancheggiavano offrivano una visuale completa delle montagne alle spalle di Tarnag, come della città terrazzata sottostante.

Tuttavia Eragon notò a malapena il panorama, poiché la parete interna della galleria era coperta da uno straordinario fregio ininterrotto, una gigantesca fascia narrativa che cominciava con la creazione dei nani da parte di Helzvog. Le figure e gli oggetti spiccavano in rilievo, donando allo sfondo una qualità iperrealista, con i suoi colori saturi e scintillanti e i dettagli minuti.

Affascinato, Eragon chiese: «Com'è stato fatto?»

«Ogni scena è stata scolpita su piccole lastre di marmo, che in seguito sono state smaltate a fuoco e unite a formare un unico pezzo.»

«Non sarebbe stato più facile usare colori normali?»

«Sì» rispose Gannel, «ma non sarebbero durati secoli, millenni, senza cambiare. Lo smalto non sbiadisce né si opacizza, come accade ai colori a olio. La prima sezione è stata realizzata soltanto un decennio dopo la scoperta del Farthen Dùr, molto prima che gli elfi mettessero piede in Alagaésia.»

Il sacerdote prese Eragon sotto braccio e lo guidò lungo il fregio. A ogni passo, percorrevano innumerevoli anni di storia.

Eragon vide che un tempo i nani erano nomadi che vagavano per una sconfinata pianura, finché la terra non era diventata così rovente e desolata da costringerli a migrare a sud, verso i Monti Beor. Ecco come si è formato il Deserto di Hadarac, pensò, stupito.

Via via che fiancheggiavano il murale, girando intorno a Celbedeil, Eragon fu testimone di ogni momento cruciale della storia, dall'addomesticamento delle Feldùnost alla creazione di Isidar Mithrim, dal primo incontro fra nani ed elfi alle incoronazioni dei re dei nani. I draghi apparivano di frequente, ma sempre nell'atto di incendiare e uccidere. Eragon ebbe difficoltà a trattenersi dai commenti davanti a quelle sezioni.

Rallentò il passo quando si accorse che la fascia istoriata si stava avvicinando all'evento che aveva sperato di trovare: la guerra fra elfi e draghi. Qui i nani avevano dedicato ampio spazio alle devastazioni che le due razze avevano arrecato ad Alagaésia. Eragon rabbrividì di orrore alla vista di elfi e draghi che si uccidevano a vicenda. Le battaglie si susseguivano per diverse iarde, ogni immagine più sanguinosa della precedente, finché le tenebre non s'illuminarono, mostrando un giovane elfo inginocchiato sull'orlo di una rupe, con in mano un bianco uovo di drago. «È... ?» mormorò Eragon.

«Sì, è Eragon, il Primo Cavaliere. È un ritratto fedele, poiché lui acconsentì a posare per i nostri artigiani.» Affascinato, Eragon studiò il volto del suo omonimo. L'ho sempre immaginato più vecchio. Gli occhi dal classico taglio obliquo, il naso adunco e il mento aguzzo gli conferivano un'aria feroce; era un viso remoto, completamente diverso dal suo... eppure l'atteggiamento dell'elfo, le spalle dritte e tese, gli rammentavano come si era sentito lui quando aveva trovato l'uovo di Saphira. Non siamo poi tanto diversi, tu e io, pensò, accarezzando il freddo smalto. E una volta che le mie orecchie saranno diventate come le tue, saremo davvero fratelli nel tempo... Mi domando se approveresti le mie azioni. Sapeva che avevano fatto almeno una scelta identica: entrambi avevano tenuto l'uovo. In quel momento, sentì una porta aprirsi e chiudersi; si volse e vide Arya che si avvicinava dal fondo della galleria. L'elfa scrutò la parete istoriata con la stessa espressione neutra che Eragon le aveva visto usare al cospetto del Consiglio degli Anziani. Quali che fossero le sue particolari emozioni, Eragon capì soltanto che lei trovava la situazione sgradevole.

Arya chinò la testa. «Grimstborith.»

«Arya.»

«Stai insegnando a Eragon la vostra mitologia?»

Gannel le rivolse un sorriso glaciale. «Un individuo deve sempre conoscere la fede della società cui appartiene.» «Ma la conoscenza non sempre implica la fede.» L'elfa sfiorò con l'indice il pilastro di un arco. «Né significa che coloro che alimentano tali credenze lo facciano per scopi che non siano... puramente materiali.»

«Vuoi forse negare il valore dei sacrifici che compie il mio clan per portare conforto ai nostri fratelli?» «Non nego nulla, ma mi domando soltanto se non sarebbe stato preferibile condividere le vostre ricchezze con i più bisognosi: gli affamati, i senzatetto, o magari perfino i Varden. Invece le avete accumulate per innalzare un monumento alle vostre pie illusioni.»

«Basta!» Il nano serrò i pugni, il volto chiazzato di rosso. «Senza di noi i raccolti si seccherebbero per la siccità. I fiumi e i laghi strariperebbero. Le nostre greggi darebbero vita a bestie da un occhio solo. Il cielo stesso si squarcerebbe per l'ira degli dei!» Arya sorrise. «Soltanto le nostre preghiere impediscono che questo accada. Se non fosse stato per Helzvog, dove...»

Eragon perse il filo. Non comprese le vaghe critiche di Arya nei confronti del Dùrgrimst Quan, ma dalle risposte di Gannel intuì che, in maniera implicita e sempre in tono affabile e cortese, l'elfa aveva suggerito che le divinità dei nani non esistessero, pareva mettere in dubbio le facoltà mentali di ogni nano che entrava in un tempio, e sostenere che i ragionamenti dei nani presentassero numerose lacune.

Dopo qualche minuto, Arya levò una mano per interrompere Gannel e disse: «Questa è la differenza tra noi, Grimstborith. Tu ti sei consacrato a qualcosa che credi vero ma non puoi provare. Non ci resta che trovarci d'accordo sul fatto che non siamo d'accordo.» Poi si rivolse a Eragon. «Gli Az Sweldn rak Anhùin hanno aizzato la popolazione di Tarnag contro di te. Ùndin ritiene, come me, del resto, che sia meglio se resti all'interno delle sue mura fino alla partenza.»

Eragon esitò. Voleva continuare a visitare Celbedeil, ma se c'erano guai in vista, allora il suo posto era accanto a Saphira. S'inchinò a Gannel e domandò scusa. «Non devi giustificarti, Ammazzaspettri» disse il capoclan, scoccando un'occhiata torva all'indirizzo di Arya. «Fai ciò che devi, e che la benedizione di Gùntera sia con te.» Insieme, Eragon e Arya lasciarono il tempio e circondati da una decina di guerrieri attraversarono la città. Eragon sentì una folla inferocita che gridava da una terrazza più in basso. Un sasso rimbalzò su un tetto vicino. Il movimento attirò il suo sguardo verso un pennacchio scuro di fumo che risaliva dai margini della città.

Una volta al sicuro nel palazzo, Eragon corse in camera sua. S'infilò la cotta di maglia, e si legò i bracciali e gli schinieri; si calcò la calotta di cuoio in testa, e poi l'elmo, e afferrò lo scudo. Raccolse in fretta lo zaino e le bisacce, e tornò subito nel cortile, dove si sedette con la schiena appoggiata alla zampa destra di Saphira.

Tarnag è come un termitaio stuzzicato, osservò lei.

Speriamo di non essere morsi.

Arya li raggiunse poco dopo, seguita a ruota da uno squadrone di cinquanta nani armati di tutto punto, che si schierarono al centro del cortile. I nani aspettavano impassibili, borbottando piano fra di loro, mentre occhieggiavano di continuo il cancello sprangato e la montagna che si ergeva alle loro spalle.

«Hanno paura» disse Arya, sedendosi accanto a Eragon «che i dimostranti ci impediscano di raggiungere i battelli.» «Saphira può sempre portarci in volo.»

«E Fiammabianca? E le guardie di Ùndin? No, se ci fermano, dovremo aspettare che la rabbia dei nani sbollisca.» Studiò il cielo che si andava oscurando. «È un peccato che tu sia riuscito a offendere così tanti nani, ma forse era inevitabile. I clan sono sempre stati litigiosi: quello che piace a uno scontenta un altro.»

Eragon giocherellò con le maglie della cotta. «Vorrei non aver accettato il dono di Rothgar.»

«Già. Ma come nel caso di Nasuada, credo che tu abbia fatto l'unica scelta possibile. Non è colpa tua. La colpa, semmai, è di Rothgar, per averti fatto quell'offerta. Doveva prevedere le ripercussioni del suo gesto.» Tacquero per qualche minuto. Una mezza dozzina di nani marciavano intorno al cortile per sgranchirsi le gambe. Alla fine, Eragon chiese: «Hai dei familiari che ti aspettano nella Du Weldenvarden?»

Arya restò a lungo in silenzio, prima di rispondere. «Nessuno a cui mi senta vicina.»

«Come... come mai?»

Lei esitò di nuovo. «Non hanno approvato la mia scelta di diventare messaggera e ambasciatrice della regina. Lo ritenevano inappropriato. Quando ignorai le loro obiezioni e mi feci tatuare lo yawé sulla spalla, simbolo di totale dedizione al bene supremo della nostra razza, come l'anello che ti ha dato Brom, la mia famiglia si è rifiutata di rivedermi.»

«Ma è stato più di settantanni fa» protestò lui. Arya distolse lo sguardo, nascondendo il volto dietro una cortina di capelli. Eragon tentò di immaginare che cosa avesse significato per lei: bandita dalla sua stessa famiglia e mandata a vivere fra due razze completamente diverse. Non c'è da sorprendersi che sia tanto riservata, si disse. «Ci sono altri elfi fuori dalla Du Weldenvarden?»

Con il volto ancora nascosto, Arya rispose: «Tre di noi partirono da Ellesméra. Fàolin e Glenwing viaggiavano sempre con me quando trasportavamo l'uovo di Saphira fra la Du Weldenvarden e Tronjheim. Soltanto io sono sopravvissuta all'agguato di Durza.» «Com'erano?»

«Prodi guerrieri. Glenwing amava parlare agli uccelli con la mente. Se ne stava per ore nella foresta circondato da uno stormo di usignoli che cantavano per lui. E subito dopo ci cantava le più dolci melodie.»

«E Fàolin?» Questa volta Arya si rifiutò di rispondere, e strinse con forza l'arco che teneva in grembo. Senza perdersi d'animo, Eragon cercò un altro argomento. «Perché Gannel ti è tanto antipatico?»

Lei si volse a guardarlo e gli sfiorò la guancia con le dita delicate. Eragon trasalì, sorpreso. «Questa» disse lei «è una discussione da rimandare a un altro momento.» Poi si alzò e si andò a sedere in un'altra zona del cortile. Confuso, Eragon rimase a fissare la sua schiena. Non la capisco, disse, appoggiandosi al ventre di Saphira. La dragonessa sbuffò divertita, poi circondò Eragon con il collo e la coda e si addormentò all'istante. Mentre la valle piombava nell'oscurità, Eragon si sforzava di restare sveglio. Prese la collana di Gannel e la sondò più volte con l'ausilio della magia, ma trovò soltanto l'incantesimo di protezione del sacerdote. Alla fine si arrese; si rimise la collana sotto la tunica, si coprì con lo scudo e si preparò ad attendere tutta la notte.

Alle prime luci dell'alba - anche se la valle era ancora in ombra e tale sarebbe rimasta fino a mezzogiorno - Eragon svegliò Saphira. I nani si erano già alzati e stavano avvolgendo le armi con pezze di stoffa per poter attraversare Tarnag senza fare rumore. Ùndin invitò persino Eragon a coprire di stracci le unghie di Saphira e gli zoccoli di Fiammabianca. Quando furono pronti, Ùndin e i suoi guerrieri fecero quadrato intorno a Eragon, Saphira e Arya. I cancelli dai cardini perfettamente oliati si schiusero adagio senza un cigolìo, e il gruppo cominciò a marciare in direzione del lago. Tarnag sembrava deserta; le strade erano sgombre, le case silenziose, e i loro occupanti dormivano e sognavano ignari. I pochi nani che incontrarono li guardarono di sottecchi, poi si dileguarono come fantasmi nell'oscurità. Ai cancelli di ciascun livello, una guardia faceva loro cenno di passare, senza commenti. Ben presto si lasciarono gli edifici alle spalle e attraversarono i campi deserti ai piedi di Tarnag, per raggiungere infine la banchina di pietra che costeggiava le acque grigie e immobili.

Li aspettavano due grandi battelli, ormeggiati presso un pontile di legno. Tre nani erano accovacciati sulla prima zattera, quattro sulla seconda. Non appena videro Ùndin, scattarono in piedi.

Eragon aiutò i nani a infilare una cavezza e un cappuccio sulla testa di Fiammabianca, poi fecero salire l'animale ricalcitrante sul secondo battello, dove lo costrinsero a mettersi in ginocchio e lo legarono. Nel frattempo, Saphira si era tuffata dal pontile. Soltanto la testa emergeva dalla superficie mentre pagaiava con le zampe nell'acqua. Ùndin afferrò il braccio di Eragon. «Qui ci separiamo. Vi ho dato i miei uomini migliori; vi proteggeranno finché non raggiungerete la Du Weldenvarden.» Eragon fece per ringraziarlo, ma Ùndin scosse il capo. «Non devi ringraziarmi. È mio dovere. Sappi che mi vergogno profondamente del fatto che l'odio cieco degli Az Sweldn rak Anhùin abbia funestato la tua permanenza a Tarnag.»

Eragon s'inchinò, poi s'imbarcò sulla prima zattera insieme a Orik e Arya. I nani sciolsero gli ormeggi e spinsero via i battelli dal pontile con lunghi pali. Mentre l'alba allungava sull'acqua le sue dita rosate, le due zattere scivolarono verso la bocca dell'Az Ragni, con Saphira che nuotava nel mezzo.

Diamanti nella notte

L'Impero ha violato la mia casa. Questo pensava Roran nell'ascoltare i gemiti di dolore degli uomini feriti durante lo scontro della notte prima con i Ra'zac e i soldati. Il suo corpo era scosso da brividi febbrili di rabbia e di paura che gli lasciarono le guance bollenti e il fiato corto. E si sentiva triste, molto triste... come se le nefandezze dei Ra'zac avessero distrutto l'innocenza della sua infanzia.

Lasciando la guaritrice, Gertrude, a occuparsi dei feriti, Roran proseguì verso la casa di Horst, notando le barricate che riempivano i varchi fra gli edifici: assi di legno, botti, mucchi di pietre, e le carcasse dei due carri distrutti dalle esplosioni dei Ra'zac. Aveva tutto un'aria così penosamente fragile.

Le poche persone che si aggiravano per Carvahall avevano gli occhi vitrei per la paura, il dolore e la stanchezza. Anche Roran non si era mai sentito così stanco in vita sua. Non dormiva da due notti, e le braccia e la schiena gli dolevano per la lotta.

Entrò in casa di Horst e vide Elain ferma accanto alla porta aperta della stanza da pranzo, intenta ad ascoltare le voci concitate che provenivano dall'interno. Lei gli fece cenno di avvicinarsi.

Dopo aver respinto il contrattacco dei Ra'zac, i membri più importanti della comunità di Carvahall si erano rinchiusi in volontario isolamento nel tentativo di decidere una linea d'azione per il villaggio, come anche l'eventualità di una punizione per Horst e compagni, che avevano dato inizio alle ostilità. Il gruppo era riunito in assemblea da ore. Roran sbirciò nella stanza. Seduti intorno al lungo tavolo c'erano Brigit, Loring, Sloan, Gedric, Delwin, Fisk, Morn e molti altri. Horst presiedeva a capotavola.

«... e io dico che è stata una mossa stupida e sconsiderata!» esclamò Kiselt, puntando i gomiti ossuti sul tavolo. «Non avevi motivo di mettere a repentaglio...»

Morn lo zittì con la mano. «Ne abbiamo già discusso. Non ha più importanza se quello che è stato fatto dovesse essere fatto o meno. Si da il caso che io sia d'accordo: Quimby era amico mio come di tutti voi, e rabbrividisco al pensiero di cosa quei mostri farebbero a Roran. Ma quello che voglio davvero sapere è come possiamo uscire da questa situazione.»

«Facile, ammazziamo i soldati» latrò Sloan.

«E poi? Ne verranno degli altri, finché non annegheremo in un mare di tuniche cremisi. Se anche consegnassimo Roran, non servirebbe a niente. Avete sentito tutti cos'hanno detto i Ra'zac: ci uccideranno se proteggiamo Roran, e ci faranno schiavi se non lo faremo. Tu puoi essere di diverso avviso, ma per quanto mi riguarda, preferisco morire che passare la vita da schiavo.» Morn scosse il capo con le labbra tese in una smorfia. «Non possiamo sopravvivere.» Intervenne Fisk. «Potremmo andarcene.»

«E dove?» ribattè Kiselt. «Alle spalle abbiamo la Grande Dorsale, i soldati bloccano la strada, e più in là non c'è che l'Impero.»

«E tutta colpa tua» strillò Thane, puntando un dito tremante contro Horst. «Daranno fuoco alle nostre case e uccideranno i nostri figli per colpa tua. Tua!»

Horst scattò in piedi così di colpo da rovesciare la sedia. «Ma dov'è il tuo onore, uomo? Lasceresti che ci mangiassero senza combattere?»

«Sì, se il contrario significa il suicidio.» Thane guardò torvo gli uomini intorno al tavolo, poi uscì di corsa, urtando Roran sulla soglia. Il suo volto era una maschera di puro, genuino terrore.

Fu allora che Gedric si accorse di Roran e lo invitò con la mano. «Vieni, entra, ti stavamo aspettando.» Roran si strinse le mani dietro la schiena, mentre decine di occhi lo fissavano. «Che posso fare?» «Io credo» disse Gedric, indicando gli altri, «che qui siamo tutti d'accordo che non servirebbe a niente consegnarti all'Impero, a questo punto. E non è il caso, adesso, di discutere se lo avremmo fatto in circostanze diverse. L'unica cosa che ci resta da fare è prepararci per un altro attacco. Horst fabbricherà delle lance, e altre armi se ne avrà tempo, e Fisk ha acconsentito a costruire gli scudi. Per fortuna la sua falegnameria non è andata a fuoco. E qualcuno dovrà occuparsi delle opere di difesa. Vorremmo che fossi tu. Avrai piena assistenza.»

Roran annuì. «Farò del mio meglio.»

Al fianco di Morn si alzò Tara, torreggiando sul marito. Era una donna corpulenta, con i capelli neri striati di grigio e mani forti, capaci tanto di tirare il collo a una gallina quanto di separare due litiganti. «Farai del tuo meglio sì, Roran, altrimenti ci saranno altri funerali.» Poi si rivolse a Horst. «Prima di procedere, abbiamo degli uomini da seppellire. E ci sono dei bambini che devono essere messi al sicuro, magari nella fattoria di Cawley a Nost Creek. Dovresti andare anche tu, Elain.»

«Non lascerò Horst» dichiarò Elain, con calma serafica.

Tara si scaldò. «Non c'è posto qui per una donna incinta di cinque mesi. Perderai il bambino, se te ne andrai in giro correndo di qua e di là come hai già fatto.»

«Mi farebbe ancora più male se fossi lontana a tormentarmi nell'ignoranza. Qui ho partorito i miei figli, e qui resterò, come so che farete tu e tutte le altre donne di Carvahall.»

Horst girò intorno al tavolo e con un'espressione di profonda tenerezza prese la mano di Elain. «Né io ti vorrei da qualche altra parte che non sia al mio fianco. Ma i bambini dovrebbero andare. Cawley si prenderà cura di loro, e noi faremo in modo che la via per arrivare alla sua fattoria sia sgombra.»

«Non solo» gracchiò Loring, «ma nessuno di noi, assolutamente nessuno deve avere contatti con le famiglie giù della valle, a parte Cawley, s'intende. Loro non possono aiutarci, e noi non dobbiamo permettere che quei profanatori le perseguitino.»

Tutti convennero che aveva ragione, poi l'assemblea si sciolse e i partecipanti si dispersero per Carvahall. Poco dopo, però, si riunirono tutti di nuovo, insieme alla maggior parte del villaggio, nel piccolo cimitero alle spalle della casa di Gertrude. Dieci cadaveri avvolti in bianchi teli erano adagiati accanto alle fosse, un rametto di cicuta sui gelidi petti e un amuleto d'argento intorno a ciascun collo.

Gertrude fece un passo avanti e recitò i nomi degli uomini: «Parr, Wyglif, Ged, Bardrick, Farold, Hale, Garner, Kelby, Melkolf e Albem.» Depose sugli occhi di ciascuno due sassolini neri, levò le braccia, alzò il viso al cielo e intonò un lugubre canto di morte. Le lacrime le scorrevano dagli occhi chiusi, mentre la sua voce, rotta dai singhiozzi, cantilenava frasi antiche quanto il mondo. Cantò della terrà e della notte e dell'eterno dolore dell'umanità a cui nessuno può sfuggire.

Quando l'ultima nota dolente si spense nel silenzio, i membri delle famiglie pronunciarono brevi discorsi per ricordare coloro che avevano perduto. Poi le salme furono interrate.

Mentre ascoltava, Roran posò lo sguardo sull'anonimo tumulo dove erano stati sepolti i tre soldati. Uno ucciso da Nolfavrell, e due da me. Sentiva ancora lo schianto viscerale dei muscoli e delle ossa che cedevano... si spezzavano... si riducevano in poltiglia sotto il suo martello. Sentì in bocca l'amaro sapore della bile e dovette sforzarsi di non vomitare davanti a tutto il villaggio. Sono io che li ho massacrati. Roran non aveva mai pensato né desiderato di uccidere, eppure aveva tolto più vite di chiunque altro a Carvahall. Aveva la sensazione che un marchio di sangue gli fosse stato impresso sulla fronte.

Si allontanò il più in fretta possibile, senza nemmeno fermarsi a parlare con Katrina, e si inerpicò su un colle per poter osservare tutta Carvahall e decidere come meglio proteggerla. Purtroppo le case erano troppo distanti l'una dall'altra per formare un perimetro difensivo semplicemente barricando gli spazi fra gli edifici. E comunque non sarebbe stata una buona idea far arrivare i soldati fin sotto le case della gente, a combattere nei loro giardini. Il fiume Anora protegge il nostro fianco occidentale, pensò, ma non riusciremmo a tenere lontano neppure un bambino dal resto... Cosa possiamo costruire in poche ore che faccia da solida barriera difensiva?

Tornò di corsa nel cuore del villaggio, gridando: «Mi serve ogni uomo libero per aiutarmi a tagliare gli alberi!» Dopo un minuto, gli uomini cominciarono a riversarsi sulla strada dalle case. «Avanti, ancora! Dobbiamo dare tutti una mano!» Roran attese che il gruppo intorno a lui aumentasse.

Uno dei figli di Loring, Darmen, gli si affiancò. «Qual è il tuo piano?»

Roran alzò la voce perché tutti potessero udirlo. «Ci serve uno sbarramento intorno a Carvahall, il più massiccio possibile. Ho pensato che se tagliamo qualche grosso albero, lo mettiamo di traverso e facciamo la punta ai rami, dovremmo essere in grado di fermare i Ra'zac.»

«Quanti alberi pensi che ci occorrano?» domandò Orval.

Roran esitò, cercando di calcolare a mente la circonferenza di Carvahall. «Una cinquantina, almeno. Magari sessanta, per fare le cose come si deve.» Gli uomini imprecarono e cominciarono a obiettare. «Aspettate!» Roran contò quanti erano. Quarantotto. «Se ciascuno di voi abbatte un albero nella prossima ora, ci saremo quasi. Che ne dite, ce la farete?»

«Ma per chi ci hai presi?» ribatte Orval. «L'ultima volta che ci ho messo un'ora per abbattere un albero, avevo dieci anni!»

Intervenne Darmen: «E i cespugli di rovi? Potremmo metterli sui tronchi. Non conosco nessuno che sappia arrampicarsi in un groviglio di spine.»

Roran sogghignò. «Ottima idea. Mi rivolgo a quelli che hanno figli. Fateli andare a prendere i cavalli, per poter trascinare qui gli alberi.» Gli uomini assentirono e si sparpagliarono per Carvahall a prendere seghe e accette. Roran fermò Darmen e disse: «Assicurati che gli alberi abbiano rami lungo tutto il tronco, altrimenti sarà inutile.» «Tu dove vai?» chiese Darmen.

«A lavorare a un'altra linea di difesa.» Roran lo lasciò per correre a casa di Quimby, dove trovò Brigit occupata a inchiodare assi alle finestre.

«Sì?» disse lei.

Lui le spiegò per sommi capi il suo piano con gli alberi. «Voglio scavare una trincea all'interno dello sbarramento di alberi, per rallentare chiunque riesca a passare. Potremmo persino piantare dei pali appuntiti sul fondo e...» «Vieni al punto, Roran.»

«Vorrei che fossi tu a organizzare il gruppo delle donne e dei bambini in grado di scavare. Non posso fare tutto da solo, e non ci resta molto...» Roran la guardò dritto negli occhi. «Ti prego.»

Brigit aggrottò la fronte. «Perché lo chiedi a me?»

«Perché tu, come me, odi i Ra'zac, e so che faresti di tutto per fermarli.»

«Già» mormorò Brigit, poi battè le mani decisa. «Molto bene, come desideri. Ma non dimenticherò mai, Roran Garrowsson, che siete stati tu e la tua famiglia a decretare il fato di mio marito.» Si allontanò a grandi passi, senza lasciargli il tempo di rispondere.

Roran accettò il livore della donna con serenità; doveva aspettarselo, tenendo conto del lutto che l'aveva colpita. Era fortunato, anzi, che la donna non avesse preteso una faida di sangue. Si riscosse e andò di corsa all'incrocio dove la strada maestra entrava a Carvahall. Era il punto più debole del villaggio e necessitava di una doppia protezione. Non dobbiamo più permettere ai Ra'zac di aprirsi un varco con un'esplosione.

Roran reclutò Baldor, e insieme cominciarono a scavare una trincea perpendicolare alla strada. «Dovrò andarmene presto» lo avvertì Baldor, fra una picconata e l'altra. «Papà ha bisogno di me alla fucina.»

Roran borbottò il suo assenso senza alzare gli occhi. Mentre lavorava, la sua mente tornò ad affollarsi di ricordi dei soldati: come gli erano parsi mentre li colpiva, e la sensazione, l'orribile sensazione di fracassare un corpo come fosse legno marcio. Si fermò, nauseato, e notò il fermento che animava Carvahall, mentre la gente si preparava al prossimo attacco.

Quando Baldor se ne andò, Roran completò da solo la trincea profonda fino alla cintola, poi andò alla bottega di Fisk. Col permesso del carpentiere, prese cinque lunghi pali di legno stagionato e li fece trascinare dai cavalli fino alla strada maestra. Lì infilò i pali appuntiti nella trincea, formando una barriera impenetrabile.

Mentre compattava il terreno intorno alla base dei pali, arrivò Darmen. «Abbiamo gli alberi. Li stanno sistemando proprio come hai detto.» Roran lo accompagnò ai margini settentrionali di Carvahall, dove dodici uomini sgobbavano per allineare quattro pini dalle verdi chiome rigogliose, mentre un tiro di cavalli, spronati dalla frusta di un ragazzino tornava sulle colline pedemontane. «Quasi tutti stanno sistemando gli alberi abbattuti. Gli altri si sono fatti trascinare dalla passione: sembravano decisi ad abbattere tutta la foresta quando me ne sono andato.»

«Bene, il legno in più ci sarà utile.»

Darmen indicò una catasta di rovi accumulata ai margini del podere di Kiselt. «Li ho tagliati lungo l'Anora. Usali dove serve. Io vado a cercarne degli altri.»

Roran gli diede una pacca sulla schiena, poi si avviò nella zona orientale di Carvahall, dove una lunga fila di donne, bambini e uomini lavorava nella terra. Trovò Brigit che impartiva ordini come un generale, e distribuiva acqua da bere agli scavatori. La trincea era già larga cinque piedi e profonda due. Quando Brigit si fermò per riprendere fiato, Roran disse: «Sono colpito.»

Lei si scostò una ciocca di capelli senza guardarlo. «Prima di tutto abbiamo arato il terreno. Così è stato più facile.» «Hai una pala da darmi?» chiese. Brigit gli indicò un cumulo di attrezzi dall'altro capo della trincea. Sul cammino intravvide lo scintillio ramato dei capelli di Katrina in mezzo alle altre schiene curve. Al suo fianco, Sloan il macellaio aggrediva il terreno con un'energia rabbiosa e ossessiva, come se volesse scuoiare la terra, privarla della sua pelle di argilla per esporre i muscoli sottostanti. I suoi occhi scintillavano di luce selvaggia, e i suoi denti lampeggiavano in un ghigno malevolo, malgrado i granelli di terra che gli insozzavano le labbra.

Roran rabbrividì davanti all'espressione di Sloan, e si affrettò a superarlo, voltando il viso per evitare di incontrare i suoi occhi iniettati di sangue. Afferrò un badile e lo affondò nel terreno, facendo del suo meglio per dimenticare le preoccupazioni con la fatica fisica.

La giornata proseguì in un continuo susseguirsi di attività, senza intervalli per mangiare o riposare. La trincea diventò sempre più lunga e profonda, finché non circondò due terzi del villaggio e raggiunse le sponde dell'Anora. La terra smossa venne accumulata sul bordo interno della trincea, nel tentativo di impedire a chiunque di saltarla, e di rendere difficile a chiunque uscirne.

Lo sbarramento di alberi venne terminato nel primo pomeriggio. Roran smise di scavare per aiutare ad appuntire i numerosi rami - contorti e intrecciati - e spargere le matasse di rovi. Di tanto in tanto dovevano spostare un albero affinchè i contadini come Ivor potessero guidare il bestiame al sicuro, all'interno di Carvahall.

Giunta la sera, le fortificazioni erano più robuste ed estese di quanto Roran avesse osato sperare, ma occorrevano ancora lunghe ore di lavoro per completare l'opera come desiderava.

Si sedette in terra, a masticare un pezzo di pane lievitato e a guardare le stelle attraverso il velo di nebbia della stanchezza. Una mano gli si posò su una spalla; era Albriech. «Tieni.» Albriech gli porse un rozzo scudo fatto di assi segate e inchiodate e una lancia lunga sei piedi. Roran li accettò con gratitudine, poi Albriech si allontanò per distribuire lance e scudi a chiunque incontrasse.

Roran si costrinse a rimettersi in piedi, andò a prendere il martello a casa di Horst e così armato andò all'imbocco della strada maestra, dove Baldor e altri due montavano di guardia. «Svegliami quando hai bisogno di riposare» disse Roran, sdraiandosi sull'erba soffice sotto la grondaia di una casa vicina. Posò le armi in maniera tale da trovarle anche al buio e chiuse gli occhi, in trepida attesa.

«Roran.»

La voce gli aveva sussurrato nell'orecchio destro. «Katrina?» Si affannò a mettersi seduto, battendo le palpebre quando lei socchiuse lo sportellino della lanterna e un fascio di luce gli colpì la gamba. «Che cosa ci fai qui?» «Volevo vederti.» I suoi occhi, grandi e misteriosi sul volto pallido, erano pozzi di ombre notturne. Katrina lo prese per mano e lo condusse sotto un portico deserto, lontano dalle orecchie indiscrete di Baldor e degli altri. Lì gli posò le mani sulle guance e lo baciò teneramente, ma lui era troppo stanco e preoccupato per rispondere con trasporto. Lei si ritrasse e lo studiò. «Qualcosa non va, Roran?»

Una risata senza allegria gli sfuggì di gola. «Qualcosa non va? Il mondo non va! È tutto storto, come una cornice appesa di sghimbescio.» Si piantò un pugno nello stomaco. «E sono io che non vado. Ogni volta che tento di pensare ad altro, vedo i soldati che sanguinano sotto il mio martello. Uomini che ho ucciso, Katrina. E i loro occhi... i loro occhi! Sapevano che stavano per morire, e non potevano farci niente.» Cominciò a tremare nel buio. «Loro sapevano... io sapevo... ma dovevo farlo. Non potevo...» Le parole gli vennero meno, quando sentì le calde lacrime scorrergli lungo il viso.

Katrina gli prese la testa fra le braccia e lo cullò, mentre Roran finalmente piangeva tutto il suo dolore. Piangeva per Garrow e per Eragon; piangeva per Parr, Quimby e gli altri morti; piangeva per se stesso; e piangeva per il destino di Carvahall. Singhiozzò finché la marea di emozioni non si ritrasse, lasciandolo prosciugato e inaridito come un guscio vuoto.

Tratto un profondo respiro, Roran guardò Katrina e si accorse delle sue lacrime, che asciugò con il pollice, dove brillarono come diamanti nella notte. «Katrina... amore mio.» Lo disse di nuovo, assaporando le parole. «Amore mio. Non ho niente da offrirti, se non il mio amore. Ma... devo chiedertelo. Vuoi sposarmi?»

Nella fioca luce della lanterna, Roran vide il volto di lei irradiare pura gioia e stupore. Poi Katrina esitò, e comparve l'ombra del dubbio. Roran non avrebbe dovuto farle quella domanda, e lei non avrebbe dovuto accettare, senza il permesso di Sloan. Ma a Roran non importava più; doveva sapere, e subito, se lui e Katrina avrebbero trascorso il resto della vita insieme.

«Sì, Roran» rispose lei in un soffio. «Sarò tua moglie.»

Sotto un cielo di piombo

Quella notte piovve.

Enormi masse di nuvole grigie si addensarono sulla Valle Palancar, aggrappandosi alle montagne con artigli tenaci; l'aria era satura di una nebbiolina densa e fredda. Dal coperto, Roran guardava la fitta cortina di pioggia che batteva sulle tremule foglie degli alberi, riduceva in fanghiglia la trincea intorno a Carvahall e inzuppava i tetti di paglia, scorrendo a fiumi giù dalle grondaie, mentre le nuvole si liberavano del loro carico. Tutto era fradicio, appannato e nascosto dall'inesorabile diluvio.

A metà mattina il temporale era cessato, anche se un'acquerugiola persistente continuava a filtrare dalla nebbia. Quando Roran andò a rilevare la guardia presso la barricata sulla strada maestra, si ritrovò subito capelli e abiti bagnati. Si accovacciò accanto ai pali aguzzi, scrollò il mantello e si tirò il cappuccio sul viso, cercando di ignorare il freddo. Malgrado il tempo, Roran era raggiante e in cuor suo esultava per la risposta di Katrina. Erano fidanzati! Aveva la sensazione che un pezzo mancante del mondo si fosse finalmente incastrato al posto giusto, che gli fosse stata infusa l'audacia di un guerriero invulnerabile. Che importavano i soldati, o i Ra'zac, o l'Impero stesso, davanti a un amore come il loro? Non erano altro che fuscelli al vento.

Nonostante il suo nuovo stato di grazia, però, non riusciva a distogliere la mente da quello che era diventato il fulcro della sua esistenza: assicurarsi che Katrina sopravvivesse alle ire di Galbatorix. Non pensava ad altro da quando si era svegliato. La cosa migliore per Katrina sarebbe andare da Cawley, decise, gli occhi fissi sulla strada nebbiosa, ma lei non accetterebbe mai di andarsene... a meno che Sloan non glielo ordini. Dovrei riuscire a convincerlo; sono sicuro che la vuole lontano dal pericolo almeno quanto me.

Mentre rifletteva sulla maniera migliore di accostarsi al macellaio, le nuvole tornarono ad addensarsi e la pioggia rinnovò il suo assalto al villaggio, scrosciando a ondate gelide e pungenti. Le pozzanghere intorno a Roran si animarono, colpite dalle gocce d'acqua che rimbalzavano come cavallette impaurite.

Quando gli venne fame, Roran passò la guardia a Lame - il figlio più giovane di Loring - e andò verso casa per pranzare, correndo dal riparo di una grondaia a un altro.

Svoltando un angolo, rimase sorpreso nel vedere, sul portico, Albriech che discuteva animatamente con un gruppo di uomini.

Ridley gridava: «... sei cieco... Seguiamo il pioppeto e non ci vedranno mai! Ti stai cacciando in una situazione senza via d'uscita.»

«Provaci, se ci tieni» ribatte Albriech.

«Puoi scommetterci!»

«Così mi potrai dire se ti piace il sapore delle frecce.»

«Magari» intervenne Thane «noi non siamo degli smidollati come te.»

Albriech si girò di scatto verso di lui, con un ringhio. «Le tue parole sono vuote come il tuo cervello. Non sono io lo stupido a rischiare la vita della mia famiglia portandola al riparo di qualche foglia che non ho mai nemmeno visto.» Thane strabuzzò gli occhi e la sua faccia si coprì di chiazze viola. «Be'?» incalzò Albriech. «Ti sei mangiato la lingua?» Thane ruggì e sferrò un pugno sullo zigomo di Albriech.

Il giovane si mise a ridere. «Sei debole come una femminuccia.» Poi prese Thane per le spalle e lo scaraventò giù dal portico, facendolo volare in mezzo al fango, dove rimase stordito e umiliato.

Impugnando la lancia come un bastone, Roran balzò davanti ad Albriech, impedendo a Ridley e agli altri di aggredirlo. «Basta» ringhiò Roran, su tutte le furie. «I nostri nemici sono altri. Più in là potremo organizzare un'assemblea e gli arbitri decideranno se il risarcimento spetta ad Albriech o a Thane. Ma fino a quel momento non possiamo azzuffarci fra di noi.»

«Per te è facile parlare» sibilò Ridley. «Tu non hai moglie o figli.» Poi aiutò Thane a rimettersi in piedi e si allontanò col gruppo di uomini.

Roran squadrò Albriech con aria severa, mentre un livido violaceo si allargava sotto l'occhio destro dell'uomo. «Chi ha cominciato?» chiese. «Io...» Albriech s'interruppe con una smorfia e si tastò lo zigomo. «Ero andato in perlustrazione con Darmen. I Ra'zac hanno appostato i soldati sulle colline. In questo modo possono controllare l'Anora e tutta la valle. Uno o due di noi potrebbero, dico potrebbero, riuscire a svignarsela senza farsi vedere, ma non ce la faremo mai a portare i bambini da Cawley senza uccidere i soldati. Tanto varrebbe dire ai Ra'zac dove stiamo andando.» Roran si sentì prendere dal panico, come un veleno che gli scorreva nelle vene e nel cuore. Cosa faccio? Fiaccato dalla sensazione di un destino incombente, cinse le spalle di Albriech con un braccio. «Andiamo. Sarà meglio che Gertrude ti dia un'occhiata.»

«No» disse Albriech, liberandosi dalla stretta con una scrollata di spalle. «Ha casi più gravi del mio.» Trasse un lungo respiro - come se stesse per tuffarsi in un lago - e si slanciò sotto la pioggia battente diretto alla fucina. Roran lo guardò allontanarsi, poi scosse il capo ed entrò in casa. Trovò Elain seduta sul pavimento, circondata da un gruppo di bambini che affilavano un mucchio di punte di lancia con lime e cote. Roran fece un cenno a Elain, e quando furono in un'altra stanza, le raccontò quello che era appena accaduto.

Elain imprecò con violenza - una sorpresa, perché Roran non l'aveva mai sentita usare un linguaggio simile - poi gli domandò: «E questo basta perché Thane proclami una faida?»

«Può darsi» ammise Roran. «Si sono insultati a vicenda, ma le offese di Albriech sono state le più gravi... Tuttavia, è stato Thane a colpire per primo. Avreste tutti i diritti di dichiarare voi stessi una faida.»

«Sciocchezze» sentenziò Elain, avvolgendosi uno scialle sulle spalle. «Questo è un caso da sottoporre ad arbitrato. Se dovremo pagare un'ammenda, che sia, purché si eviti uno spargimento di sangue.» E con queste parole, uscì dalla stanza, stringendo in mano una lancia finita.

Preoccupato, Roran trovò pane e carne in cucina, poi andò ad aiutare i bambini ad affilare le punte della lancia. Quando arrivò Felda, una delle madri, Roran lasciò i bambini alla sua custodia, e riattraversò i torrenti di fango di Carvahall per tornare sulla strada maestra.

Mentre si accovacciava nel fango, un improvviso raggio di sole squarciò la cappa grigia, illuminando le gocce di pioggia che sembravano ardere di un fuoco cristallino. Roran contemplava rapito lo spettacolo, incurante della pioggia che gli bagnava il viso. Lo squarcio fra le nubi continuò ad allargarsi, finché il poderoso fronte di nubi temporalesche si fermò sul versante occidentale della Valle Palancar, mentre dall'altro lato si stagliava una limpida fascia di cielo azzurro: era come se il pennello di un artista avesse tracciato una riga netta sul panorama bagnato, con i campi, i cespugli, gli alberi, il fiume e le montagne che da una parte sfolgoravano di colori brillanti, e dall'altra erano grevi di ombre scure. Sembrava che il mondo fosse stato trasformato in una scultura di metallo brunito.

Poi, d'un tratto, Roran colse un movimento con la coda dell'occhio e vide un soldato fermo sulla strada, la cotta di maglia che scintillava come ghiaccio. L'uomo spalancò la bocca sbalordito davanti alle nuove fortificazioni di Carvahall, poi si volse per dileguarsi in fretta nella nebbiolina dorata.

«Soldati!» gridò Roran, balzando in piedi. Era un peccato non avere l'arco con sé, ma lo aveva lasciato in casa per proteggerlo dagli elementi. La sua unica consolazione era che anche i soldati avrebbero avuto difficoltà a tenere le armi asciutte.

Dalle case del villaggio, uomini e donne accorsero per assieparsi lungo la trincea e sbirciarono fra i rami dello sbarramento di pini imperlati di gocce di pioggia, zirconi lucenti che riflettevano file di occhi angosciati. Roran si trovò al fianco di Sloan. Il macellaio impugnava uno degli scudi costruiti da Fisk nella sinistra, e nella destra una mannaia ricurva come una mezzaluna. Aveva la cintura festonata da una dozzina di coltelli, tutti grandi e affilati come rasoi. Lui e Roran si scambiarono un cenno d'intesa, poi tornarono a concentrarsi sul punto dov'era scomparso il soldato.

Meno di un minuto dopo, la voce disincarnata di un Ra'zac sibilò nella bruma: «La vossstra ossstinazione nel difendere Carvahall è una dichiarazione d'intenti. Il vossstro dessstino è sssegnato: morirete!»

Rispose Loring: «Mostrate le vostre facce pustolose se osate, luridi vermi, insetti schifosi, viscidi serpenti, mostril Vi spaccheremo il cranio e ingrasseremo i porci con il vostro sangue!»

Una sagoma scura volò verso di loro, seguita dal tonfo sordo di una lancia che si conficcava in una porta, a un soffio dal braccio sinistro di Gedric.

«Al riparo!» gridò Horst dal centro della linea. Roran s'inginocchiò dietro lo scudo e sbirciò attraverso il sottile spiraglio fra due tavole. Fece appena in tempo, poiché una mezza dozzina di lance sfrecciarono oltre lo sbarramento di alberi per piombare fra i villici rannicchiati.

Da qualche parte, nella nebbia, si udì un grido straziante.

Il cuore di Roran sobbalzò. Aveva il fiato corto, anche se non aveva mosso un muscolo, e le mani fradicie di sudore. Udì un debole rumore di vetro infranto ai margini settentrionali di Carvahall... poi il boato di un'esplosione e lo schianto del legno.

Voltandosi di scatto, lui e Sloan si precipitarono dall'altra parte di Carvahall, dove trovarono una squadra di sei soldati che spostavano i resti tranciati di alcuni alberi. Alle loro spalle, lividi e infuriati nella luccicante cortina di pioggia, sedevano i Ra'zac sui loro neri destrieri. Senza rallentare, Roran balzò contro il primo uomo con la lancia in pugno. Il soldato parò il primo e il secondo affondo con un braccio levato, poi Roran lo colpì al fianco e, quando l'uomo barcollò, gli trapassò la gola.

Sloan ululò come una bestia impazzita e scagliò la mannaia, che si andò a conficcare nell'elmo di un soldato, spaccandogli il cranio. Due soldati lo caricarono con le spade sguainate. Sloan scartò di lato, ridendo, adesso, e si difese dall'attacco con lo scudo. Un soldato colpì tanto forte che la lama gli restò conficcata nel legno. Sloan lo attirò a sé e gli piantò un coltello nell'occhio. Estratta un'altra mannaia, il macellaio cominciò a saltellare intorno al secondo avversario, fissandolo con un ghigno da folle. «Mi divertirò a sbudellarti come un capretto!» gracchiò, gli occhi iniettati di sangue.

Roran perse la lancia nel combattere contro gli altri due rimasti. Riuscì appena in tempo a estrarre il martello per parare il fendente di una spada, che altrimenti gli avrebbe tagliato la gamba. Il soldato che gli aveva strappato la lancia di mano gliela scagliò addosso, mirando al petto. Roran lasciò cadere il martello e l'afferrò al volo, con una mossa fulminea che sorprese lui stesso almeno quanto i soldati. Poi si volse e la piantò fra le costole dell'uomo che l'aveva tirata, e quella rimase incastrata nel metallo della corazza. Ormai disarmato, si vide costretto a indietreggiare davanti all'altro soldato. Inciampò su un cadavere, ferendosi il polpaccio su una spada nel cadere, e rotolò di fianco per schivare un colpo, cercando a tentoni nel fango qualcosa, qualunque cosa, da poter usare come arma. Le sue dita frenetiche si strinsero su un'elsa. Strappò la lama dal fango e recise di netto la mano del soldato che impugnava la spada. L'uomo si guardò inebetito il moncherino sanguinante. «Colpa mia che non ho usato lo scudo» farfugliò.

«Già» assentì Roran, e gli tagliò la testa.

In preda al panico, l'ultimo soldato fuggì verso le impassibili sagome dei Ra'zac, mentre Sloan lo subissava di insulti e maledizioni. Nella fitta cortina di pioggia, Roran osservò con un brivido di orrore le due figure nere protendersi dai cavalli e afferrare l'uomo per la gola con mani deformi. Le dita crudeli si strinsero; l'uomo emise un gorgoglio disperato e si divincolò, poi il suo corpo si afflosciò inerte. I Ra'zac trassero il cadavere su una delle selle, poi voltarono i cavalli e si allontanarono.

Roran rabbrividì e guardò Sloan, che stava pulendo le lame. «Hai combattuto bene.» Mai avrebbe immaginato che il macellaio avesse in corpo tanta ferocia.

Sloan disse a bassa voce: «Non avranno mai Katrina. Mai, dovessi scuoiarli uno per uno, o combattere mille Urgali, e anche il re, se necessario. Tirerò giù il cielo e farò annegare l'Impero nel suo stesso sangue, prima che le venga torto un capello.» Poi serrò le labbra, si rimise i coltelli nella cintura, e cominciò a trascinare i tre alberi spezzati al loro posto. Nel frattempo Roran fece rotolare i soldati morti nel fango, lontani dalle fortificazioni. Adesso ne ho uccisi cinque. Alla fine si stiracchiò la schiena indolenzita e si guardò intorno, perplesso, perché non sentiva altro che il sibilo della pioggia nel silenzio. Perché nessuno è venuto ad aiutarci?

Chiedendosi che cos'altro era successo, tornò con Sloan sulla scena del primo attacco. Due soldati penzolavano inerti dai rami viscidi dello sbarramento di alberi, ma non fu quello ad attirare la loro attenzione. Horst e gli altri abitanti del villaggio erano inginocchiati in circolo intorno a un corpicino immobile. Roran trasalì. Era Elmund, figlio di Delwin, e aveva soltanto dieci anni. Il ragazzino era stato colpito al fianco da una lancia. I genitori erano seduti nel fango accanto a lui, le facce bianche come cenci lavati.

Bisogna fare qualcosa, si disse Roran, cadendo in ginocchio, le mani strette intorno alla lancia per sostenersi. Pochi bambini sopravvivevano ai loro primi cinque o sei anni. Ma perdere il primogenito adesso, quando tutto indicava che sarebbe cresciuto per diventare alto e forte e prendere il posto di suo padre a Carvahall, era una tragedia insopportabile. Katrina, i bambini... bisogna metterli al sicuro.

Ma dove?... Dove?... Dove?... Dove?

Lungo la corrente impetuosa

Durante il primo giorno di navigazione da Tarnag, Eragon s'impegnò per imparare i nomi delle guardie di Ùndin. Erano Ama, Trihga, Hedin, Ekksvar, Shrrgnien - un nome che trovò impronunciabile, ma gli dissero che significava Cuordilupo - Dùthmér e Thorv.

Ogni zattera aveva una piccola cabina al centro, ma Eragon preferiva trascorrere il tempo seduto sul bordo dei legni, ad ammirare i Monti Beor che gli scorrevano davanti. Martin pescatori e taccole volteggiavano bassi sul fiume limpido, mentre aironi azzurri se ne stavano appollaiati immobili come statue sulle rive paludose, screziate di luce che filtrava dalle chiome dei noccioli, dei faggi e dei salici. Di tanto in tanto una rana gracidava da un cespuglio di felci. Quando Orik si sedette al suo fianco, Eragon disse: «È bellissimo.»

«Lo credo anch'io.» Il nano si accese la pipa, poi si adagiò sulla schiena ed emise uno sbuffo di fumo. Eragon ascoltava gli scricchiolii del legname e delle corde, mentre Trihga timonava la zattera con una lunga pagaia fissata a poppa. «Orik, tu lo sai perché Brom si unì ai Varden? So così poco di lui. Per gran parte della mia vita non è stato altro che il vecchio cantastorie del villaggio.»

«Lui non si unì mai ai Varden. Contribuì a fondarli.» Orik fece una pausa per gettare un po' di cenere nell'acqua. «Dopo che Galbatorix ascese al trono, Brom rimase l'unico Cavaliere ancora in vita, a parte i Rinnegati.» «Ma lui non era un Cavaliere, non più, allora. Il suo drago era rimasto ucciso nella battaglia di Dorù Areaba.» «Be', restava comunque un Cavaliere nel suo cuore. Brom fu il primo a organizzare gli amici e gli alleati dei Cavalieri che erano stati costretti all'esilio. Fu lui che convinse Rothgar a ospitare i Varden nel Farthen Dùr, e che ottenne l'aiuto degli elfi.»

Qualche attimo di silenzio, poi Eragon chiese: «Come mai rifiutò il comando?»

Orik sorrise mesto. «Forse perché non l'aveva mai desiderato. Tutto questo accadde prima che Rothgar mi adottasse, e vedevo così poco Brom a Tronjheim... Era sempre lontano a combattere i Rinnegati o impegnato in qualche complotto.» «I tuoi genitori sono morti?»

«Sì. Se li portò via il vaiolo quando ero piccolo, e Rothgar fu così gentile da accogliermi nel suo palazzo, e dato che non aveva figli suoi, mi nominò suo erede.»

Eragon pensò all'elmo con il simbolo dell'Ingietum. Rothgar è stato altrettanto gentile con me.

Quando calarono le prime ombre della sera, i nani appesero una lanterna rotonda a ciascun angolo dei battelli. Eragon rammentò che il tipico colore rosso delle lanterne serviva a migliorare la visione notturna. Mentre scrutava le pure e immobili profondità delle lampade, domandò ad Arya, in piedi accanto a lui: «Sai come sono fatte?» «Funzionano con un incantesimo che donammo ai nani molto tempo fa. Sanno usarlo con grande perizia.» Eragon si grattò il mento e le guance, sentendo le prime chiazze di peluria che gli cresceva. «Puoi insegnarmi altre magie durante il viaggio?»

L'elfa si teneva in perfetto equilibrio sui tronchi ondeggianti; lo guardò severa. «Non è compito mio. Un insegnante ti aspetta.»

«Allora puoi dirmi almeno una cosa?» insistette lui. «Cosa significa il nome della mia spada?»

La voce di Arya si ridusse a un sussurro. «Miseria è la tua spada. E questo rimase finché non l'hai avuta tu.» Eragon guardò Zar'roc con avversione. Più cose apprendeva sulla spada, più maligna e funesta gli sembrava, come se la lama fosse dotata di una propria volontà in grado di causare sventure. Non solo Morzan l'ha usata per uccidere i Cavalieri, ma lo stesso nome di Zar'roc è malvagio. Se non fosse stato Brom a dargliela, e se Zar'roc non avesse avuto il pregio di non rompersi e non perdere mai il filo, Eragon l'avrebbe scagliata nel fiume all'istante.

Prima che si facesse buio, Eragon andò a nuoto da Saphira. Insieme volarono per la prima volta da quando avevano lasciato Tronjheim, e si librarono in alto sull'Az Ragni, dove l'aria era rarefatta e l'acqua sottostante un minuscolo rigagnolo viola.

Senza sella, Eragon strinse forte le ginocchia intorno ai fianchi di Saphira, sentendo le sue squame strofinare contro le cicatrici che gli erano rimaste dal loro primo volo.

Quando Saphira virò a sinistra, sfruttando una corrente ascensionale, Eragon vide tre puntolini marroni lanciarsi dalle pendici dei monti e ascendere rapidamente. Sulle prime Eragon li prese per falchi, ma mentre si avvicinavano, si rese conto che gli animali erano lunghi venti piedi, con code affusolate e ali membranose. In effetti assomigliavano ai draghi, solo che il corpo era più piccolo, più magro e più serpentesco di quello di Saphira. E le loro squame non scintillavano, ma erano screziate di verde e marrone.

Eccitato, Eragon li indicò a Saphira. Secondo te sono draghi? domandò.

Non saprèi. La dragonessa batteva le ali per restare ferma in aria, mentre i nuovi arrivati le volteggiavano intorno. Le creature parvero sconcertate da Saphira. Si lanciarono contro di lei sibilando, ma solo per deviare sopra la sua testa all'ultimo momento.

Eragon sogghignò ed espanse la mente, nel tentativo di toccare i loro pensieri. Nello stesso istante, le tre creature sussultarono e lanciarono acute strida, aprendo le fauci come serpenti infuriati. Le loro grida laceranti erano mentali oltre che fisiche, e trafissero Eragon con una forza inaudita, cercando di renderlo inoffensivo. Anche Saphira la percepì. Continuando a strillare, le selvagge creature attaccarono, con gli artigli snudati.

Reggiti, lo avvertì Saphira. Ripiegò l'ala sinistra e fece un mezzo giro su se stessa, evitando due degli animali, poi battè rapida le ali per librarsi sopra il terzo. Nello stesso tempo, Eragon si affannava nel tentativo di bloccare le grida. Nell'istante in cui la sua mente fu di nuovo lucida, fece ricorso alla magia. Non li uccidere, disse Saphira. Lascia a me questo piacere.

Benché le creature fossero più agili di Saphira, la dragonessa aveva dalla sua il vantaggio della mole e della forza fisica. Una delle bestie alate si gettò in picchiata su di lei. Saphira si capovolse - volando in caduta libera - e sferrò un calcio al petto della creatura.

Il grido calò mentre l'avversario ferito batteva in ritirata.

Saphira dispiegò le ali, tornando in posizione normale per affrontare gli altri due che convergevano su di lei. Inarcò il collo, Eragon sentì un rombo sonoro scuoterle le costole, e poi una vampa di fuoco scaturì dalle sue fauci. Un alone azzurro avvolse la testa di Saphira, scorrendo lungo le squame sfaccettate finché la dragonessa non sfolgorò tutta di una luce abbagliante che sembrava illuminarla dall'interno.

Le due bestie serpentesche lanciarono grida sgomente e ciascuna virò su un lato di Saphira. L'assalto mentale cessò, mentre volavano via, dileguandosi veloci fra le montagne.

Per poco non mi facevi cadere, si lamentò Eragon, sciogliendosi i muscoli indolenziti delle braccia che aveva tenuto avvinghiate al suo collo.

Lei gli rivolse un sogghigno divertito. Per poco, ma non abbastanza.

È vero, rise lui.

Accaldati per l'eccitazione della vittoria, tornarono alle zattere. Mentre Saphira ammarava sollevando due ampi ventagli di spruzzi, Orik gridò: «Siete feriti?»

«No» esclamò Eragon. L'acqua gelida gli lambiva le gambe, mentre Saphira nuotava verso il battello. «Erano un'altra delle razze native dei Beor?»

Orik lo aiutò a issarsi sulla zattera. «Li chiamiamo Fanghur. Non sono intelligenti come i draghi, e non possono sputare fuoco, ma restano pur sempre combattenti formidabili.»

«L'abbiamo visto.» Eragon si massaggiò le tempie per alleviare il mal di testa provocato dall'attacco dei Fanghur. «Ma con Saphira non avevano scampo.»

Naturale, si vantò lei.

«È così che cacciano» spiegò Orik. «Usano la mente per immobilizzare la preda mentre la uccidono.» Saphira schizzò Eragon con un guizzo di coda. £ una buona idea. Me ne ricorderò la prossima volta che vado a caccia. Lui annuì. Potrebbe tornarci utile anche in battaglia.

Arya si avvicinò al bordo della zattera. «Sono lieta che non li abbiate uccisi. I Fanghur sono così rari che sarebbe stato un peccato eliminare quei tre.»

«Ne restano comunque abbastanza da decimare il nostro bestiame» brontolò Thorv dall'interno della cabina. Il nano uscì e si diresse verso Eragon, borbottando sotto la massa intricata della barba. «Non andate più a volare mentre siamo ancora fra i Monti Beor, Ammazzaspettri. Già è difficile proteggerti, senza che tu e il tuo drago vi azzuffiate con le vipere del cielo.»

«Resteremo a terra finché non raggiungeremo le pianure» promise Eragon.

«Bene!»

Quando si fermarono per la notte, i nani ormeggiarono le zattere ad alcuni pioppi che crescevano sulla bocca di un piccolo affluente. Ama accese un falò, mentre Eragon aiutava Ekksvar a sbarcare Fiammabianca. Legarono lo stallone in una zona erbosa.

Thorv controllò l'allestimento di sei grandi tende. Hedin raccolse tanta legna da poter alimentare il fuoco fino al mattino. Dùthmér andò a prendere le provviste sulla seconda zattera e si accinse a preparare la cena. Arya montò di guardia ai margini dell'accampamento, dove ben presto fu raggiunta da Ekksvar, Ama e Trìhga, che avevano finito di svolgere le altre mansioni.

Eragon si accorse di non avere niente da fare, così andò ad accovacciarsi davanti al falò, in compagnia di Orik e Shrrgnien. Quando Shrrgnien si tolse i guanti per avvicinare le mani deformi al fuoco, Eragon notò che da ciascuna nocca, tranne che dai pollici, spuntava un chiodo di lucido acciaio lungo all'incirca un quarto di pollice. «Cosa sono?» domandò.

Shrrgnien guardò Orik e rise. «Sono i miei Ascùdgamln, i miei pugni d'acciaio.» Senza alzarsi, girò il busto e sferrò un pugno al tronco di un pioppo, lasciando quattro fori simmetrici nella corteccia. «Comodi per colpire, eh?» La cosa suscitò la curiosità e l'invidia di Eragon. «Come sono fatti? Voglio dire, i chiodi, come sono attaccati alle mani?»

Shrrgnien esitò, cercando di trovare le parole giuste. «Un guaritore ti fa cadere in un sonno profondo, per non farti sentire dolore. Poi ti vengono... trapanate, giusto?... trapanate le articolazioni e...» S'interruppe e si rivolse a Orik nel linguaggio dei nani, parlando fitto fitto.

«In dascun foro viene inserito un dado di metallo» spiegò Orik, «che viene sigillato nella carne con la magia. Quando il guerriero si è completamente ristabilito, nei dadi si possono avvitare chiodi di diversa misura.»

«Già, guarda» disse Shrrgnien con un sogghigno. Afferrò il chiodo dell'indice sinistro e lo svitò lentamente, poi lo porse a Eragon.

Eragon sorrise mentre soppesava il pezzo di metallo acuminato nel palmo della mano. «Non mi dispiacerebbe avere questi pugni d'acciaio.» Restituì il chiodo a Shrrgnien.

«È un'operazione pericolosa» lo ammonì Orik. «Sono ben pochi i knurlan che si fanno impiantare gli Ascùdgamln, perché c'è il rischio di perdere l'uso della mano, se il trapano arriva troppo in profondità.» Levò un pugno e lo mostrò a Eragon. «Le nostre ossa sono più robuste delle vostre. Potrebbe non funzionare per un umano.» «Me lo ricorderò.» Ma Eragon non potè fare a meno di immaginare come si sarebbe sentito a combattere con gli Ascùdgamln, a poter colpire qualsiasi cosa senza correre rischi, persino le armature degli Urgali. L'idea lo solleticava. Dopo mangiato, Eragon si ritirò nella sua tenda. La luce del falò all'esterno gli consentiva di vedere la sagoma di Saphira accucciata accanto alla tenda, come una figura ritagliata da un foglio nero e incollata alla parete di tela. Eragon si sedette con le coperte tirate sulle gambe e si guardò in grembo, assonnato: non aveva ancora voglia di addormentarsi. Libera di pensare, la sua mente cominciò a vagare fra i ricordi di casa. Eragon si domandò che cosa stessero facendo Roran, Horst e gli altri abitanti di Carvahall, e se il tempo nella Valle Palancar fosse abbastanza mite da permettere ai contadini di dare inizio alla semina. Lo pervase una profonda tristezza e sentì nostalgia di casa. Prese una ciotola di legno dallo zaino e la riempì fino all'orlo con l'acqua versata dalla borraccia. Poi si concentrò su un'immagine di Roran e mormorò: «Draumr kópa.»

Come sempre, l'acqua prima divenne nera per poi illuminarsi e rivelare la persona o la cosa da divinare. Eragon vide Roran seduto da solo in una stanza da letto illuminata dalla fiamma di una candela. Eragon riconobbe la casa di Horst. Roran deve aver lasciato il suo lavoro a Therinsford, pensò. Suo cugino aveva la schiena curva, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, e fissava il muro con espressione corrucciata, segno di qualche grave problema. Eppure sembrava sano, anche se un po' stanco, ed Eragon si sentì rincuorato. Dopo un minuto, dissolse l'incantesimo e l'acqua tornò limpida.

Confortato, vuotò la ciotola, poi si sdraiò, tirandosi le coperte fino al mento. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare nel tiepido sopore che separa la veglia dal sonno, dove la realtà si piega e ondeggia al flusso dei pensieri, e la fantasia sboccia in tutta libertà, svincolata dalla materia, e tutto è possibile.

Il sonno lo vinse. Dormì tranquillo, ma poco prima di destarsi, i soliti fantasmi notturni furono sostituiti da una visione non meno chiara e vibrante che se fosse stato sveglio.

Vide un cielo tormentato, nero e cremisi di fumo. Corvi e aquile volteggiavano sopra nugoli di frecce che volavano da un lato all'altro di due schieramenti in battaglia. Un uomo annaspava nel fango con l'elmo ammaccato e l'armatura insanguinata, il volto celato da un braccio alzato.

Una mano guantata d'acciaio entrò nella visuale di Eragon,

tanto vicina da oscurare metà del mondo con lo scintillio del metallo. Come una macchina inesorabile, il pollice e le ultime tre dita si chiusero a pugno, lasciando l'indice teso verso l'uomo riverso, implacabile e crudele come il fato. La visione era ancora vivida nella mente di Eragon quando sgusciò fuori dalla tenda. Trovò Saphira a una certa distanza dall'accampamento, intenta a masticare una massa pelosa. Quando le raccontò cosa aveva visto, la dragonessa smise di masticare, poi inarcò il collo e inghiottì il boccone ancora intero.

L'ultima volta che ti è successo, disse lei, si è rivelata un'esatta predizione di eventi che si svolgevano altrove. Credi che ci sia una battaglia in corso in Alagaè'sia?

Lui tirò un calcio a un rametto spezzato. Non ne sono sicuro... Brom disse che si possono divinare soltanto persone, luoghi e cose che uno ha già visto. Eppure quel luogo non l'ho mai visto. Né avevo mai conosciuto Arya quando la sognai la prima volta a Teirm. Magari Togira Ikonoka saprà darci una spiegazione.

Mentre si preparavano alla partenza, i nani sembravano molto più tranquilli ora che avevano messo una discreta distanza fra loro e Tarnag. Quando cominciarono a navigare lungo l'Az Ragni, Ekksvar - che timonava la zattera di Fiammabianca - cominciò a cantare con la sua roca voce da basso:

Lungo la corrente impetuosa

Del sangue spumeggiante di Kilf,

Cavalchiamo i legni ondeggianti,

Per la patria, il clan e l'onore.

Sotto il dominio delle aquile, Nelle foreste dei lupi di montagna

Cavalchiamo i legni sanguinanti, Per il ferro, l'oro e il diamante.

Ascia e piccozza, riempite il mio palmo, Lamina da guerra, proteggi la mia pietra, Mentre lascio la dimora dei miei padri Per le terre desolate e ignote.

Gli altri si unirono a Ekksvar, intonando altre strofe nel linguaggio dei nani. Il canto basso e vibrante accompagnò Eragon mentre puntava cauto verso la prua del battello, dove Arya era seduta a gambe incrociate. «Ho avuto... una visione durante il sonno» disse Eragon. Arya lo guardò con interesse, e lui le riferì le immagini che aveva visto. «Se stavo divinando, allora...»

«Non era divinazione» lo interruppe Arya, poi proseguì con voluta lentezza, per non dar luogo a equivoci. «Ho riflettuto a lungo su come tu sia riuscito a vedermi imprigionata a Gil'ead, e sono giunta alla conclusione che mentre ero priva di sensi il mio spirito ha vagato in cerca di aiuto, ovunque riuscisse a trovarlo.»

«Ma perché io?»

Arya indicò con la testa la mole di Saphira che fendeva le acque. «Durante i quindici anni in cui ho sorvegliato il suo uovo, mi ero abituata alla presenza di Saphira. Probabilmente mi stavo dilatando verso qualunque cosa mi fosse familiare, quando ho toccato i tuoi sogni.»

«Sei davvero così potente da evocare qualcuno a Teirm da Gil'ead? Ti avevano anche drogata!.» Un lieve sorriso comparve sulle labbra di Arya. «Potrei trovarmi alle porte di Vroengard e parlarti con la stessa chiarezza con cui parliamo adesso.» Fece una pausa. «Poiché a Teirm non si trattò di divinazione, vuol dire che anche questo nuovo sogno non lo hai divinato, e perciò

dev'essere stata una premonizione. Si sa che ogni tanto capitano alle razze senzienti, specie a coloro che usano la magia.»

La zattera rollò ed Eragon, per sostenersi, si afferrò alla rete che conteneva le provviste. «Se quello che ho visto si realizzerà, allora come possiamo cambiare le cose che avvengono? Le nostre scelte non contano niente? E se mi gettassi in acqua in questo preciso istante e mi lasciassi annegare?»

«Non lo farai.» Arya immerse l'indice nel fiume e fissò la goccia solitària che le restava sospesa alla pelle, come una tremula lente. «Tanto tempo fa, l'elfo Maerzadi ebbe la premonizione che avrebbe ucciso accidentalmente suo figlio in battaglia. Piuttosto che vivere per vederlo succedere, preferì uccidersi, salvare suo figlio e al tempo stesso provare che il futuro non è prestabilito. Ma a meno che tu non ti suicidi, puoi fare ben poco per cambiare il tuo destino, poiché non sai quali scelte ti condurranno a quel particolare momento nel tempo che hai visto.» Scrollò la mano e la goccia piovve sul legno fra di loro. «Sappiamo che è possibile carpire informazioni al futuro... gli indovini spesso percepiscono il corso che prenderà la vita di una persona... ma non siamo stati capaci di raffinare il processo al punto tale da poter scegliere che cosa, dove e quando vedere.»

Eragon trovava profondamente inquietante l'idea di far scorrere la conoscenza attraverso il tempo. Suscitava troppi interrogativi sulla natura della realtà. Che il fato e il destino esistano oppure no, l'unica cosa che posso fare è godermi il presente e vivere nel modo più onorevole possibile. Eppure non potè fare a meno di domandare: «Che cosa mi impedisce, però, di divinare uno dei miei ricordi? In essi ho già visto tutto... perciò dovrei riuscire a vederli con la magia.»

Arya si volse di scatto a guardarlo negli occhi. «Se ti preme la vita, non provarci mai. Tanti anni fa, alcuni dei nostri maghi si dedicarono al tentativo di sconfiggere gli enigmi del tempo. Quando cercarono di evocare il passato, riuscirono soltanto a creare un'immagine sfuocata nello specchio, prima che l'incantesimo consumasse tutta la loro energia e li uccidesse. Non abbiamo più compiuto esperimenti del genere. Si dice che l'incantesimo funzionerebbe con la partecipazione di un numero maggiore di maghi, ma nessuno ha voglia di rischiare e la teoria resta non provata. Se anche uno riuscisse a divinare il passato, non avrebbe alcuna utilità. E per divinare il futuro, bisognerebbe conoscere esattamente cosa sta per accadere, quando e dove, il che vanifica lo scopo.

«È un mistero quindi, come una persona possa avere premonizioni mentre dorme, come possa fare inconsapevolmente qualcosa che ha sconfitto i nostri più grandi sapienti. Le premonizioni possono essere legate alla natura e alla sostanza stessa della magia... o magari funzionano in maniera simile alla memoria ancestrale dei draghi. Non lo sappiamo. Sono molte le vie della magia ancora da esplorare.» L'elfa si alzò con fluida agilità. «Cerca di non smarrirti in esse.»

Inquietudini

Nel corso della mattinata, la valle andò sempre più allargandosi, a mano a mano che le zattere procedevano verso un ampio varco fra due montagne. A mezzogiorno raggiunsero lo sbocco e finalmente abbandonarono un regno di ombre per affacciarsi su una pianura assolata che si perdeva a vista d'occhio.

La corrente li trascinò oltre i picchi innevati, e le pareti del mondo si aprirono per rivelare un cielo sconfinato e un orizzonte piatto. Quasi all'istante l'aria si fece più mite. L'Az Ragni curvava a est, lambendo le colline da un lato e la pianura dall'altro.

La vastità del panorama sembrava turbare i nani. Borbottavano fra di loro e rivolgevano sguardi struggenti alla gola cavernosa che si lasciavano alle spalle.

Eragon si sentì rinvigorito dai raggi del sole. Era difficile persino sentirsi svegli quando per tre quarti della giornata eri immerso nella penombra. Dietro la sua zattera, Saphira spiccò il volo dall'acqua e si librò sulla prateria fino a diventare un puntino splendente sotto l'azzurra volta.

Che cosa vedi? le domandò.

Vedo branchi di gazzelle a nord e a est. A ovest, il Deserto di Hadarac. Tutto qui.

Nient'altro? Niente Urgali, o carovane di mercanti di schiavi, o di nomadi?

Siamo soli.

Quella sera Thorv scelse una piccola insenatura per accamparsi. Mentre Dùthmér preparava la cena, Eragon sgombrò una zona di fianco alla sua tenda, poi estrasse Zar'roc e assunse la posizione di guardia che Brom gli aveva insegnato quando si allenavano. Eragon sapeva di non essere all'altezza degli elfi, e non aveva alcuna intenzione di arrivare a Ellesméra fuori esercizio.

Con estrema lentezza, levò Zar'roc sopra la testa e la calò con entrambe le mani come per spaccare l'elmo di un nemico. Mantenne la posizione per un secondo; poi, sempre controllando i movimenti, torse il busto a destra, girando la lama di Zar'roc per parare un colpo immaginario... poi si fermò con le braccia rigide.

Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik, Arya e Thorv che lo osservavano. Li ignorò e tornò a concentrarsi soltanto sulla lama rossa tra le sue mani: la maneggiava come se fosse un serpente che poteva sgusciargli dalle mani e morderlo. Voltandosi ancora, eseguì una serie di movimenti fluidi, passando dall'uno all'altro con disciplinata scioltezza, mentre aumentava via via la rapidità. Non era più nell'insenatura ombreggiata, ma circondato da un manipolo di feroci Urgali e Kull. Si abbassava, si lanciava in un affondo, parava, riprendeva posizione, schivava e fendeva, in un turbine di movimenti. Combatteva con energia intuitiva, come aveva fatto nel Farthen Dùr, senza pensare a salvarsi la pelle, colpendo e massacrando i nemici immaginari.

Fece roteare Zar'roc nel tentativo di passarsela da una mano all'altra, ma la spada gli cadde di mano quando un'atroce fitta di dolore gli straziò la schiena. Barcollò e cadde. Sopra di sé sentì Arya e i nani che parlottavano concitati, ma non vedeva altro che una nebbia rossa, come un sudario insanguinato che velava il mondo. Nessuna sensazione esisteva, a parte il dolore. Gli oscurò pensiero e ragione, lasciando solo una bestia selvaggia che urlava per essere liberata. Quando Eragon si riprese abbastanza da capire dove si trovava, scoprì che era nella sua tenda, sotto le coperte. Arya sedeva accanto a lui, e Saphira faceva capolino dai lembi dell'ingresso.

Sono rimasto svenuto a lungo? chiese Eragon.

Un po'. Alla fine ti sei addormentato. Ho cercato di estrarti dal tuo corpo per farti entrare nel mio e proteggerti dal dolore, ma ho potuto fare ben poco mentre eri incosciente.

Eragon annuì e chiuse gli occhi. Si sentiva pulsare tutto il corpo. Inspirò a fondo, guardò Arya e con voce sommessa chiese: «Come potrò allenarmi?... Come potrò combattere o usare la magia?... Sono un relitto inutile.» Di colpo il suo viso dimostrò molti più anni di quanti ne avesse.

Lei rispose con altrettanta dolcezza. «Puoi sempre sederti a osservare. Puoi ascoltare. Puoi leggere. E puoi imparare.» Malgrado le sue parole, Eragon avvertì una nota di incertezza, forse addirittura di timore, nella sua voce. Si voltò su un fianco per evitare il suo sguardo. Provava vergogna nel mostrarsi così indifeso davanti a lei. «Cosa mi ha fatto lo Spettro?»

«Non ho risposte da darti, Eragon. Non sono né la più saggia né la più forte degli elfi. Facciamo tutti del nostro meglio, e non puoi prendertela con te stesso. Forse il tempo guarirà la tua ferita.» Arya gli premette le dita sulla fronte e mormorò: «Sé mor'ranr ono finna» poi uscì dalla tenda.

Eragon si alzò a sedere e fece una smorfia nel distendere i muscoli contratti della schiena. Si fissava le mani senza vederle. Ho paura.

Perché? chiese Saphira.

Perché... esitò lui. Perché non posso fare niente per impedire un altro attacco. Non so quando e dove mi capiterà, so soltanto che sarà inevitabile. Perciò aspetto, e in ogni momento ho paura che se sollevo qualcosa di pesante o faccio la mossa sbagliata, il dolore tornerà ad affliggermi. Il mio corpo mi è diventato nemico.

Saphira emise un sordo brontolìo di gola. Nemmeno io ho risposte da darti. La vita è fatta di dolore e piacere. Se è questo il prezzo che devi pagare per le ore in cui sei felice, è troppo?

Sì, tagliò corto lui. Si tolse le coperte e uscì dalla tenda urtandola, piombando al centro dell'accampamento dove Arya e i nani sedevano intorno al falò. «È rimasto qualcosa da mangiare?» chiese Eragon.

Dùthmér gli riempì in silenzio una scodella e gliela porse. Con espressione deferente, Thorv gli chiese: «Ti senti meglio, adesso, Ammazzaspettri?» Lui e gli altri nani sembravano impressionati da quanto avevano visto.

«Sto bene.»

«Porti un pesante fardello, Ammazzaspettri.»

Eragon gli scoccò un'occhiataccia e si rintanò in un angolo appartato ai bordi del campo, dove si sedette al buio. Imprecò a denti stretti e infilzò lo stufato di Dùthmér con rabbia.

Proprio mentre si accingeva ad addentare il primo boccone, Orik comparve al suo fianco all'improvviso. «Non dovresti trattarli così.»

Eragon guardò torvo la faccia del nano. «Cosa?»

«Thorv e i suoi uomini sono stati mandati a proteggere te e Saphira. Darebbero la vita per te, se necessario, e affidano a te la loro sacra sepoltura. Dovresti ricordarlo.»

Eragon si ricacciò in gola un'aspra risposta, e fissò la nera superficie del fiume - sempre in movimento, mai fermo - nel tentativo di placare la mente. «Hai ragione. Mi sono fatto prendere dalla collera.»

I denti di Orik scintillarono nella notte quando sorrise. «È una lezione che ogni comandante deve imparare. Io l'ho imparata a suon di legnate da parte di Rothgar, quando da giovane scagliai uno stivale contro un nano che aveva lasciato la sua alabarda in un punto dove la gente poteva inciampare.»

«E lo colpisti?»

«Gli ruppi il naso» ridacchiò Orik.

Suo malgrado, anche Eragon rise. «Mi ricorderò di non farlo.» Prese la scodella tra le mani a coppa, per riscaldarle. Si udì un tintinnio metallico quando Orik trasse qualcosa dalla sua scarsella. «Tieni» disse il nano, facendo cadere una piccola catena di anelli d'oro intrecciati nel palmo di Eragon. «È un rompicapo che usiamo per mettere alla prova l'abilità e la destrezza. Sono otto anelli. Se riesci a sistemarli nella maniera giusta, formano un singolo anello. Io lo trovo utile quando voglio distrarmi da qualche preoccupazione.»

«Ti ringrazio» mormorò Eragon, già assorto nella complessità della catena scintillante.

«Puoi tenerlo, se ci riesci.»

Quando tornò alla tenda, Eragon si distese sulla pancia e ispezionò la catena nella fioca luce del falò che filtrava dai lembi sollevati. Quattro anelli passavano attraverso gli altri quattro; ciascuno era liscio nella metà inferiore, mentre la parte superiore presentava delle scanalature dove avrebbe dovuto incastrarsi con gli altri pezzi.

Eragon sperimentò varie configurazioni, ma si sentiva sempre più frustrato nel constatare un semplice fatto: sembrava impossibile mettere in parallelo le due serie di anelli per formarne uno solo.

Concentrato nella sfida, dimenticò il terrore che lo attanagliava.

Eragon si svegliò poco prima dell'alba. Si strofinò gli occhi per cancellare gli ultimi residui di sonno e uscì dalla tenda per stiracchiarsi. Il suo respiro si condensò in candide nuvolette nell'aria frizzante del mattino. Fece un cenno a Shrrgnien - che montava di guardia presso il fuoco - e andò sulla sponda del fiume, dove si accovacciò per lavarsi la faccia, rabbrividendo per l'acqua gelida.

Trovò Saphira con un guizzo mentale, si allacciò Zar'roc e si avviò verso di lei fra i pioppi che orlavano l'Az Ragni. A un tratto si ritrovò la strada sbarrata da un groviglio di pruni, che gli bagnarono il volto e le mani di rugiada. Con uno sforzo, si fece largo nel fitto intrico di rami e finalmente uscì allo scoperto, nella vasta pianura. Davanti a lui si ergeva una collinetta tondeggiante. In cima - come due antiche statue - c'erano Saphira e Arya, rivolte verso oriente, dove i primi bagliori rosati dell'alba tingevano d'oro la prateria.

Quando un raggio di luce colpì le due figure, Eragon rammentò come Saphira aveva osservato il sorgere del sole, appollaiata su una colonnina del suo letto, poco dopo essere uscita dall'uovo. Sembrava un falco o un'aquila, lo sguardo intenso e brillante sotto le sporgenze cornee della fronte, il fiero arco del collo, e la muscolosa energia che permeava ogni tratto del suo corpo. Era una vera predatrice, dotata di tutta la selvaggia bellezza insita nel termine. I lineamenti affilati e la grazia felina di Arya erano perfettamente complementari alla dragonessa al suo fianco. Non c'era alcuna differenza nei loro atteggiamenti mentre stavano immobili, immerse nei primi raggi del mattino. Eragon si sentì percorrere la schiena da un brivido di gioia e timore reverenziale. Era questo che gli apparteneva, come Cavaliere, ed era tanto fortunato da essere legato, fra tutte le cose di Alagaésia, proprio a questo. Stupore e riconoscenza gli fecero salire le lacrime agli occhi, e sulle sue labbra affiorò un sorriso di selvaggia esultanza che dissipò ogni dubbio e timore, in un impeto di pura emozione.

Ancora col sorriso sulle labbra, risalì il pendio e prese posto al fianco di Saphira, per contemplare insieme a lei il sorgere del nuovo giorno.

Arya lo guardò. Eragon incontrò i suoi occhi, e qualcosa si agitò dentro di lui. Arrossì senza saperne il motivo, ma con la percezione di un'improvvisa comunione con lei, la sensazione che l'elfa lo comprendesse meglio di chiunque altro, a parte Saphira. La propria reazione lo sconcertò, poiché nessuno aveva mai avuto un tale effetto su di lui. Per tutto il giorno bastò che Eragon ripensasse a quel momento per mettersi a sorridere e rievocare il miscuglio di sensazioni che non riusciva a identificare. Trascorse gran parte del tempo seduto con la schiena appoggiata alla cabina del battello, giocando con l'anello di Orik e contemplando il mutevole panorama.

Verso mezzogiorno passarono davanti all'imboccatura di una valle, da cui scorreva un affluente che s'immetteva nell'Az Ragni. Il fiume raddoppiò in velocità e ampiezza, finché le sponde non furono distanti oltre un miglio. I nani si prodigarono per impedire alle zattere di essere sballottate come turaccioli nei gorghi spumeggianti e di andare a fracassarsi contro i tronchi trasportati dalla corrente.

Un miglio dopo la congiunzione dei due fiumi, l'Az Ragni curvava verso nord, lambendo un picco solitario velato di nubi che si distaccava dalla catena dei Monti Beor, come una gigantesca torre di guardia costruita per sorvegliare le pianure.

I nani chinarono il capo nel passare ai piedi della montagna, e Orik spiegò a Eragon: «Si chiama Moldùn il Fiero. È l'ultima vera montagna che vedremo nel nostro viaggio.»

Quando ormeggiarono le zattere per la notte, Eragon vide Orik trarre dallo zaino una lunga scatola nera tempestata di rubini e intarsiata di madrcperla e filigrana d'argento. Orik fece scattare la fibbia intagliata e sollevò il coperchio decorato per rivelare un arco disteso su una fodera di velluto rosso. Sulle parti flessibili, nere come l'ebano, spiccavano intricate ramificazioni di foglie, fiori, animali e rune, tutte di oro purissimo. Era un'arma così straordinaria che Eragon si chiese come qualcuno osasse usarla.

Orik incordò l'arco, alto quasi quanto lui, ma non più grande di un arco per bambini secondo i criteri di Eragon, ripose la custodia, e disse: «Vado a cercare un po' di carne fresca. Sarò di ritorno fra un'ora.» E scomparve nella boscaglia. Thorv borbottò scuotendo la testa, ma non fece alcun tentativo di fermarlo.

Fedele alla parola data, Orik tornò con una coppia di oche dal lungo collo. «Le ho trovate appollaiate su un albero» disse, gettando i volatili a Dùthmér.

Quando Orik riprese la custodia ingioiellata, Eragon gli chiese: «Di che legno è fatto il tuo arco?» «Legno?» scoppiò a ridere Orik, scuotendo la testa. «Non si può fare un arco così piccolo con il legno e scoccare una freccia più lontano di venti iarde; si rompe, oppure s'imbarca dopo appena qualche tiro. No, questo è un arco di corno di Urgali!»

Eragon lo guardò sospettoso, sicuro che il nano lo stesse prendendo in giro. «Il corno non è abbastanza elastico per fare un arco.»

«Ah» lo corresse Orik, «perché non sai come trattarlo. All'inizio provammo con le corna di Feldùnost, ma funziona altrettanto bene con quelle di Urgali. Si taglia il corno a metà per la lunghezza, poi si rifila il bordo esterno fino allo spessore desiderato. Si fa bollire la lista per appiattirla e si scartavetra fino a ottenere la forma finale, prima di fissarla a una doga di frassino con colla fatta di squame di pesce e pelle di palato di trota. La parte posteriore della doga viene quindi coperta da strati multipli di tendini, che conferiscono all'arco il suo scatto. L'ultimo passo è la decorazione. L'intero processo può richiedere una decina d'anni.»

«Non ho mai sentito di un arco costruito in questo modo prima d'ora» disse Eragon. Al confronto, la sua arma sembrava un ramo sgrossato alla meno peggio. «Qual è la sua gittata?»

«Prova» disse Orik. Eragon prese l'arco, maneggiandolo con cura per paura di graffiarne i decori. Orik estrasse una freccia dalla faretra e gliela porse. «Ricorda però che mi dovrai una freccia.»

Eragon incoccò la freccia alla corda, mirò verso l'Az Ragni e scoccò. L'ampiezza di tensione dell'arco non arrivava a due piedi, ma rimase sorpreso nel constatare che il suo peso superava di gran lunga quello della sua arma; aveva la forza appena sufficiente per mantenere tesa la corda. Liberò la freccia che svanì con uno schiocco, soltanto per riapparire sul fiume. Eragon guardò affascinato la freccia che si tuffava in un ventaglio di spruzzi a metà dell'Az Ragni. Subito superò le barriere della propria mente per evocare la magia, e disse: «Gath sem oro un lam iet.» Dopo un paio di secondi, la freccia guizzò fuori dall'acqua per atterrare nel suo palmo aperto. «Tieni» disse al nano, «la freccia che ti devo.»

Orik si battè il pugno sul petto, poi abbracciò arco e freccia tutto gongolante. «Splendido! Adesso ne ho ancora due dozzine. Altrimenti avrei dovuto aspettare fino a Hedarth per reintegrare la mia scorta.» Tolse la corda dall'arco e lo ripose, avvolgendo la custodia in morbidi stracci per proteggerla.

Eragon si accorse che Arya li stava osservando. Le domandò: «Anche gli elfi usano archi di corno? Siete così forti che un arco di legno si schianterebbe fra le vostre mani.»

«Noi cantiamo i nostri archi da alberi che non crescono.» Detto questo, l'elfa si allontanò.

Per giorni e giorni seguirono la corrente attraverso campi verdeggianti, mentre i Monti Beor svanivano in una nebulosa parete bianca dietro di loro. Le rive ospitavano spesso branchi di gazzelle e cervi che li guardavano con i loro occhi liquidi.

Ora che i Fanghur non erano più una minaccia, Eragon volava spesso con Saphira. Era la loro prima opportunità di passare tanto tempo insieme in aria, dai tempi di Gil'ead, e la sfruttarono al massimo. Inoltre Eragon approfittava dell'occasione per sfuggire al ponte affollato della zattera, dove si sentiva turbato e a disagio, con Arya così vicina.

Arya Svit-kona

Eragon e la sua compagnia seguirono il corso dell'Az Ragni fino al punto in cui si immetteva nel fiume Edda, seguitando a scorrere verso l'ignoto oriente. Visitarono così l'avamposto commerciale dei nani, Hedarth, e barattarono le zattere con dei muli. I nani non usavano mai i cavalli per via della loro altezza.

Arya rifiutò la cavalcatura, affermando: «Non tornerò nella terra dei miei antenati a dorso di mulo.» Thorv aggrottò la fronte. «E come terrai il passo con noi?» «Correrò.» E l'elfa corse davvero, lasciando Fiammabianca e i muli a mangiare la sua polvere, per poi sedersi ad aspettarli sulla collina o nel boschetto successivi. Malgrado lo sforzo, non mostrava mai segni di affaticamento quando si fermavano per la notte, e nessuna propensione a scambiare più di qualche parola fra la colazione e la cena. A ogni passo sembrava più tesa.

Da Hedarth viaggiarono verso nord, risalendo lungo il corso dell'Edda fino al suo punto di origine, il lago Eldor. Giunsero in vista della Du Weldenvarden dopo tre giorni. La foresta comparve dapprima come un bassorilievo caliginoso all'orizzonte, poi si ingrandì rapidamente in un mare smeraldino di antichi faggi, aceri e querce. Dal dorso di Saphira, Eragon vide che la foresta si estendeva ininterrotta a nord e a est, dove sapeva che continuava oltre, fiancheggiando l'intero territorio di Alagaèsia.

Le ombre annidate sotto i rami frondosi degli alberi gli apparivano misteriose e invitanti, e anche pericolose, poiché fra di esse vivevano gli elfi. Nascoste da qualche parte nel cuore verde della Du Weldenvarden c'erano Ellesméra, dove avrebbe completato il suo addestramento, Osilon e le altre città elfiche che ben pochi estranei avevano visitato dopo la caduta dei Cavalieri. La foresta era un luogo denso di pericoli per i mortali, ed Eragon aveva la netta sensazione che avrebbe dovuto affrontare strane magie e ancor più strane creature.

È come se fosse un altro mondo, osservò. Una coppia di farfalle risalì danzando a spirale dall'interno oscuro della foresta.

Spero, disse Saphira, che ci sia spazio per me fra gli alberi del sentiero che gli elfi decideranno di seguire. Non posso volare tutto il tempo.

Sono sicuro che hanno trovato il modo di ospitare i draghi all'epoca dei Cavalieri.

Mmm.

Quella notte, proprio mentre Eragon andava in cerca delle coperte, Arya gli comparve accanto, materializzandosi dal nulla come uno spirito. Il giovane trasalì; non riusciva a capacitarsi di come l'elfa potesse muoversi in maniera tanto furtiva e silenziosa. Prima di avere il tempo di chiederle che cosa volesse, la mente di lei toccò la sua e disse: Seguimi facendo meno rumore possibile.

Rimase sorpreso dal contatto quanto dalla richiesta. Avevano condiviso i pensieri durante il volo verso il Farthen Dùr era stato l'unico modo per comunicare con lei attraverso il coma che si era autoindotta - ma da quando si era ripresa, Eragon non aveva fatto alcun tentativo di cercarla con la mente. Era un'esperienza molto intima e personale. Ogni volta che si espandeva nella coscienza di un altro individuo, aveva la sensazione di urtare uno spigolo della propria anima contro la sua. Gli sembrava un atto rozzo e villano, e per paura di tradire la fiducia già labile di Arya, si era astenuto. Inoltre temeva che un simile legame avrebbe rivelato i suoi nuovi e confusi sentimenti per lei, e non aveva alcuna intenzione di rendersi ridicolo.

Seguì l'elfa che sgusciava dal cerchio di tende, attenta a evitare Trìhga, che aveva scelto il primo turno di guardia, per allontanarsi dalle orecchie indiscrete degli altri. Dentro di lui, Saphira lo controllava vigile, pronta a scattare al suo fianco se necessario.

Arya si sedette su un ceppo coperto di muschio e si cinse le ginocchia con le braccia, senza guardarlo in faccia. «Ci sono cose che devi sapere prima di raggiungere Ceris ed Ellesméra, per evitare di mettere in imbarazzo te stesso o me per la tua ignoranza.»

«Tipo?» Lui si accovacciò di fronte a lei, incuriosito.

Arya esitò. «Nel corso degli anni che ho passato come ambasciatrice di Islanzadi, sono arrivata alla conclusione che gli umani e i nani sono molto simili. Condividete la maggior parte delle passioni e delle credenze. Più di un umano è riuscito a vivere tranquillamente fra i nani perché poteva comprendere la loro cultura, così come loro comprendono la vostra. Entrambe le vostre razze amano, desiderano, odiano, combattono e creano grossomodo nella stessa maniera. La tua amicizia con Orik e l'aver accettato di entrare nel Dùrgrimst Ingietum ne sono una prova.» Eragon annuì, anche se per lui le differenze erano numerose e più che evidenti. «Tuttavia gli elfi non sono come le altre razze.» «Parli come se non fossi una di loro» disse lui, riecheggiando le parole di lei nel Farthen Dùr.

«Ho vissuto con i Varden abbastanza a lungo da abituarmi alle loro tradizioni» rispose Arya in tono irritato. «Ah... Perciò mi stai dicendo che gli elfi non provano le stesse emozioni dei nani e degli umani? Lo trovo difficile da credere. Tutti gli esseri viventi condividono gli stessi bisogni e desideri elementari.»

«Non sto dicendo questo!» Eragon trasalì, poi aggrottò la fronte e la studiò. Non era da lei comportarsi in modo così brusco. Arya chiuse gli occhi e si portò le mani alle tempie, inspirando a fondo. «Noi elfi viviamo tanti anni, e perciò consideriamo la cortesia come la suprema virtù sociale: non possiamo permetterci di offendere, quando il rancore rischia di sopravvivere per decenni, o secoli. La cortesia è l'unico modo per impedire all'ostilità di accumularsi. Non sempre riesce, ma ci atteniamo scrupolosamente ai nostri rituali, poiché ci proteggono dagli eccessi. E dato che non siamo molto fecondi, è essenziale evitare i conflitti fra di noi. Se avessimo lo stesso tasso di crimini di voi umani o dei nani, ben presto ci estingueremmo.

«C'è una maniera appropriata di rivolgersi alle sentinelle di Ceris; gesti formali da osservare quando verrai presentato alla regina Islanzadi; e un centinaio di modi diversi di salutare quelli intorno a te, quando non sia preferibile restare in silenzio.»

«Con tutti i vostri usi» si azzardò a commentare Eragon, «mi sembra che in realtà abbiate reso più facile offendere la gente.»

Un lieve sorriso affiorò sulle labbra dell'elfa. «Può darsi. Sai bene quanto me che verrai giudicato secondo criteri molto severi. Se commetti uno sbaglio, gli elfi penseranno che lo hai fatto apposta. Ancora peggio se scopriranno che era dovuto all'ignoranza. Meglio essere scortese e capace che scortese e incapace, altrimenti rischi di essere manipolato come il Serpente in una coppia di Rune. La nostra politica si muove in cicli estremamente lunghi e sofisticati. Quello che vedi fare o senti dire a un elfo un giorno potrebbe essere soltanto un'abile mossa di una strategia che risale a millenni addietro, e non avere niente a che fare con il comportamento che l'elfo adotterà il giorno dopo. È una partita che giochiamo tutti ma pochi sanno controllare, una partita in cui tu stai per entrare.

«Forse adesso ti rendi conto della ragione per cui sostengo che gli elfi non sono come le altre razze. Anche i nani vivono molto a lungo, ma sono più prolifici di noi, e non condividono la nostra riservatezza o il nostro gusto per l'intrigo. Quanto agli umani...» La sua voce si spense in un rispettoso silenzio.

«Gli umani» disse Eragon «fanno del loro meglio con quanto è stato dato loro.»

«Giusto.»

«Perché non dici queste cose anche a Orik, dato che anche lui, come me, resterà a Ellesméra?»

La voce di Arya si colorì di un certo nervosismo. «In una certa misura, conosce già la nostra etichetta. Tuttavia, in qualità di Cavaliere, sarà meglio che tu ti dimostri più educato di lui.»

Eragon accettò il monito senza protestare. «Cosa devo imparare?»

E così Arya cominciò a istruirlo, e attraverso di lui anche Saphira fu introdotta alle sottigliezze della società elfica. In primo luogo Arya spiegò che quando un elfo incontra un altro elfo, entrambi si fermano e si portano due dita alle labbra, per significare: "Non altereremo la verità durante la nostra conversazione." Poi segue la frase: "Atra esterni ono thelduin", alla quale si risponde: "Atra du evarirna ono varda".

«Inoltre» aggiunse Arya, «se la circostanza è particolarmente formale, si usa una terza formula: "Un atra mor'- ranrlifa unin hjarta onr" che significa "Possa la pace regnare nel tuo cuore." Queste frasi sono state tratte da una benedizione che pronunciò un drago a suggello del nostro patto. Recita così:

Atra esterni ono thelduin, Mor'ranr Ufa unin hjarta onr, Un du evarinya ono varda.

«Che sta per: "Che la fortuna ti assista, che la pace regni nel tuo cuore, e che le stelle ti proteggano."» «Come si fa a capire chi deve parlare per primo?»

«Se incontri qualcuno di rango sociale più elevato, o se desideri onorare un tuo subordinato, parli per primo tu. Se incontri qualcuno di rango inferiore, allora parli dopo. Se invece sei indeciso sulla posizione, offri alla controparte l'occasione di parlare, e se resta in silenzio, allora parli tu. È questa la regola.»

Vale anche per me? chiese Saphira.

Arya si chinò a raccogliere una foglia secca che sbriciolò fra le dita. Alle sue spalle, l'accampamento piombò nell'oscurità quando i nani spensero il falò, soffocando le fiamme con uno strato di terriccio affinchè i carboni e la brace si mantenessero caldi fino al mattino. «Essendo un drago, nessuno è superiore a te nella nostra cultura. Nemmeno la regina rivendicherebbe una simile autorità su di te. Puoi dire e fare ciò che desideri. Non riteniamo i draghi vincolati dalle nostre leggi.»

Poi insegnò a Eragon come muovere la mano destra e portarsela allo sterno in uno strano gesto. «Questo» disse «lo userai al cospetto di Islanzadi. Indica che le stai offrendo la tua lealtà e la tua obbedienza.»

«È vincolante, come il mio giuramento di fedeltà a Nasuada?»

«No, è soltanto un gesto di cortesia, e nemmeno troppo impegnativo.»

Eragon si impegnò a fondo per ricordare gli svariati modi per salutarsi che Arya gli andava via via insegnando. I saluti erano diversi a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un adulto o un bambino, di un ragazzo o una ragazza, e variavano in base al rango e al prestigio. Era una lista infinita, ma Eragon sapeva di doverla memorizzare alla perfezione.

Quando ebbe assorbito il più possibile, Arya si alzò e si spazzolò le mani. «Cerca di non dimenticare nulla, e tutto andrà bene.» Si volse per andarsene.

«Aspetta» disse Eragon. Tese una mano per fermarla, poi la ritrasse prima che lei notasse il suo gesto sfrontato. Lei lo guardò da sopra una spalla, con aria interrogativa; Eragon si sentì stringere lo stomaco mentre tentava di dare voce ai propri pensieri. Malgrado i suoi sforzi, finì per dire soltanto: «Stai bene, Arya? Mi sei sembrata distratta e di malumore da quando abbiamo lasciato Hedarth.» Quando il volto dell'elfa si trasformò in una maschera di granito, Eragon capì di aver scelto l'approccio sbagliato, anche se non riusciva a capire come la domanda avesse potuto offenderla tanto. «Quando ci troviamo nella Du Weldenvarden» lo informò lei asciutta, «mi aspetto che tu non ti rivolga a me in toni così familiari, a meno che tu non voglia insultarmi.» E si allontanò a grandi passi.

Corrile dietro! esclamò Saphira.

Cosa?

Non possiamo permetterci che sia arrabbiata con te. Vai a scusarti.

L'orgoglio del giovane si ribellò. No! È colpa sua, non mia.

Vai a scusarti, Eragon, o ti riempirò la tenda di carogne. Non era una minaccia inconsistente.

Come faccio?

Saphira riflettè per qualche istante, poi gli disse come fare. Senza più obiettare, Eragon balzò in piedi e corse dietro ad Arya, piantandosi di fronte a lei. L'elfa fu costretta a fermarsi e lo squadrò con espressione sdegnosa. Lui si toccò le labbra con due dita, e disse: «Arya Svit-kona» usando l'appellativo onorifico appena imparato per una donna di grande saggezza. «Le mie parole sono state scortesi, e per questo imploro il tuo perdono. Saphira e io eravamo soltanto preoccupati per il tuo benessere. Dopo quanto hai fatto per noi, ci è sembrato il minimo offrirti il nostro aiuto in cambio, se ti occorre.»

Finalmente Arya si distese e disse: «Apprezzo le vostre premure. E anch'io ho parlato in maniera scortese.» Abbassò lo sguardo. Nell'oscurità, i contorni delle sue spalle e del suo busto avevano una rigidità innaturale. «Mi chiedi cosa mi affligge, Eragon. Vuoi davvero saperlo? Allora te lo dirò.» La sua voce si ridusse a un fievole sussurro. «Ho paura.» Sconcertato, Eragon rimase senza parole, e lei gli passò accanto, lasciandolo solo nella notte.

Ceris

Il mattino del quarto giorno, mentre Eragon cavalcava insieme a Shrrgnien, il nano disse: «Dimmi una cosa. È vero che gli uomini hanno dieci dita dei piedi come si dice? Sai, in verità non ho mai varcato i nostri confini prima d'ora.» «Certo che abbiamo dieci dita!» esclamò Eragon, sbalordito. Si spostò di lato sulla sella, alzò il piede destro, si tolse lo stivale e la calza, e agitò le dita sotto gli occhi stupefatti di Shrrgnien. «Voi no?»

Shrrgnien scrollò la testa con aria solenne. «Nooo, noi abbiamo sette dita per ciascun piede. È così che ci ha fatti Helzvog. Cinque è troppo poco, e sei è il numero sbagliato, ma sette... sette è il numero giusto.» Scoccò un'altra occhiata al piede di Eragon, poi spronò avanti il mulo e cominciò a parlare animatamente con Hedin e Ama, che alla fine gli consegnarono parecchie monete d'argento.

Ho idea, disse Eragon, rinfilandosi lo stivale, di essere appena stato oggetto di una scommessa. Per qualche ragione, Saphira lo trovò molto divertente.

Al calar della sera, mentre sorgeva la luna piena, il corso del fiume Edda si avvicinò ai margini della Du Weldenvarden. Cavalcarono lungo uno stretto sentiero attraverso fitti cespugli di sanguinella e rosa selvatica, che riempivano l'aria della sera con la loro tiepida fragranza.

Il cuore di Eragon era colmo di trepida attesa mentre scrutava l'oscura foresta, sapendo che erano già entrati nel dominio degli elfi ed erano vicini a Ceris. Era teso sulla sella di Fiammabianca, le redini strette in pugno. { L'eccitazione di Saphira era grande quanto la sua; volava sulle loro teste facendo guizzare la coda avanti e indietro con impazienza. Eragon aveva la sensazione di camminare in un sogno. Non sembra vero, disse.

Già. Qui le antiche leggende ancora camminano sulla terra.

Alla fine giunsero in una piccola radura erbosa, tra il fiume e la foresta. «Fermatevi» disse Arya a bassa voce. Poi s'incamminò fino a raggiungere il centro del prato rigoglioso e gridò nell'antica lingua: «Fatevi avanti, fratelli miei! Non avete nulla da temere. Sono io, Arya di Ellesméra. I miei compagni sono amici e alleati, e le loro intenzioni sono benevole.» Aggiunse altre parole, ma per Eragon erano sconosciute. Per lunghi minuti non si udì che il mormorio del fiume che scorreva alle loro spalle, finché da sotto il fogliame immobile si levò una voce elfica così esile e rapida che Eragon non riuscì a coglierne il senso. Arya rispose «Sì.»

Con un fruscìo di fronde, due elfi comparvero ai margini della foresta, mentre altri due uscivano allo scoperto sui rami di una quercia nodosa. Quelli a terra portavano lunghe lance dalla punta bianca, mentre gli altri impugnavano gli archi. Tutti indossavano tuniche del colore del muschio e della corteccia, sotto mantelli svolazzanti fermati sulle spalle da spille d'avorio. Uno aveva la chioma nera come quella di Arya, mentre gli altri tre avevano capelli biondi come raggi di stelle.

Gli elfi saltarono giù dagli alberi e abbracciarono Arya, ridendo con le loro voci pure e cristalline. Si presero per mano e danzarono in cerchio attorno a lei, come bambini, cantando allegri mentre giravano sul prato.

Eragon li osservò stupito. Arya non gli aveva mai dato ragione di sospettare che agli elfi piacesse - o addirittura che sapessero - ridere. Era un suono meraviglioso, come flauti e arpe che vibravano di delizia per la loro stessa musica. Avrebbe potuto ascoltarlo per sempre.

Poi Saphira discese oltre il fiume e atterrò accanto a Eragon. Alla sua comparsa, gli elfi gridarono allarmati e puntarono le armi contro di lei. Arya si affrettò a parlare in tono conciliante, indicando prima Saphira, poi Eragon. Quando si fermò per riprendere fiato, Eragon si tolse il guanto della mano destra e voltò il palmo per mostrare il gedwéy ignasia al chiaro di luna. Poi disse, come aveva fatto con Arya tanto tempo prima: «Eka ai fricai un Shur'tugal.» Sono un Cavaliere e un amico. Rammentando la lezione del giorno prima, si sfiorò le labbra, aggiungendo: «Atra esterni ono thelduin.» Gli elfi abbassarono le armi, mentre i volti affilati si illuminavano di gioia. Si premettero due dita sulle labbra e s'inchinarono a lui e a Saphira, mormorando la loro risposta nell'antica lingua.

Poi si rialzarono, indicarono i nani e risero come per una battuta allusa. Tornando verso la foresta, fecero un cenno con le mani e dissero: «Venite, venite!»

Eragon seguì Arya insieme a Saphira e ai nani, che brontolavano fra di loro. Passando sotto il denso fogliame degli alberi, piombarono in una tenebra vellutata, dove solo qualche sprazzo di luna scintillava fra i rami e le foglie. Eragon sentiva gli elfi ridere e sussurrare, ma non riusciva a vederli. Di tanto in tanto gridavano indicazioni quando lui o i nani esitavano.

Davanti a loro, un falò ardeva fra gli alberi, spandendo ombre guizzanti che danzavano sul tappeto di foglie come tanti folletti. Quando Eragon entrò nel cono di luce, vide tre piccoli capanni addossati al tronco di un'enorme quercia. In alto, fra i rami, c'era una piattaforma di legno dove una sentinella poteva sorvegliare il fiume e la foresta. Fra due capanni era appeso un palo, da cui pendevano mazzi di piante lasciate a essiccare.

I quattro elfi svanirono nei capanni per tornare con le braccia cariche di frutta e verdura - niente carnee cominciarono a preparare la cena per gli ospiti. Mentre lavoravano, canticchiavano a bassa voce, passando da una melodia all'altra senza mai interrompersi. Quando Orik chiese i loro nomi, l'elfo con i capelli neri indicò se stesso e disse: «Io sono Lifaen del Casato di Rìlvenar. E i miei compagni sono Edurna, Celdin e Nari.»

Eragon si sedette accanto a Saphira, lieto dell'opportunità di riposare e osservare gli elfi. Benché fossero tutti e quattro maschi, i loro volti ricordavano quello di Arya, con le labbra delicate, i nasi sottili e i grandi occhi obliqui che brillavano sotto le sopracciglia arcuate. Il resto del corpo era proporzionato, con spalle strette e braccia e gambe affusolate. Erano più nobili e leggiadri di qualsiasi umano Eragon avesse mai visto, sebbene in maniera esotica, rarefatta. Chi mai avrebbe pensato che un giorno avrei visitato il regno degli elfi? si disse Eragon. Sorrise, e si appoggiò alla parete di un capanno, cullato dal calore del fuoco. Sopra di lui, i vigili occhi azzurri di Saphira seguivano ogni movimento degli elfi.

C'è più magia in questa razza, osservò lei alla fine, che negli umani o nei nani. Loro non sentono di provenire dalla terra o dalla pietra, ma piuttosto da un altro regno. Appartengono a questo mondo soltanto per metà, come riflessi nell'acqua.

Di certo sono molto aggraziati, disse Eragon. Gli elfi si muovevano con la leggerezza e la fluidità dei danzatori. Brom aveva detto a Eragon che era scortese parlare con la mente al drago di un Cavaliere senza permesso, e gli elfi si attenevano scrupolosamente a questa usanza, esprimendo ad alta voce i loro commenti a Saphira, che a sua volta rispondeva loro direttamente. Di norma Saphira si asteneva dal toccare i pensieri degli umani e dei nani, e lasciava che fosse Eragon a riferire le sue parole, dato che erano pochi i membri delle due razze in grado di schermare la propria mente dagli intrusi. Inoltre sembrava quasi un abuso ricorrere a una forma di contatto così intima per scambiare quattro chiacchiere informali. Tuttavia gli elfi non avevano queste inibizioni; accolsero con gioia Saphira nella propria mente, godendo della sua presenza.

Alla fine la cena fu pronta e servita su piatti intagliati che sembravano fatti d'osso, anche se tra i fiori e le foglie che decoravano il bordo si scorgevano i nodi del legno. Eragon ricevette anche un calice di vino di uvaspina - fatto con lo stesso insolito materiale - che recava un drago scolpito avvolto intorno allo stelo.

Mentre mangiavano, Lifaen prese un flauto di canna e cominciò a suonare una delicata melodia, con le dita che correvano lievi sui fori. Bel presto, l'elfo biondo più alto, Narì, cominciò a cantare:

Il giorno muore; le stélle splendono; La luna è bianca; le foglie tacciono! Ridi dei crucci e ridi del nemico, La stirpe di Menoa le tenebre proteggono!

In guerra perdemmo un virgulto di foresta; Una figlia silvana alla vita si desta! Libera dalla paura e libera dalla fiamma, Un Cavaliere ha strappato all'oscurità funesta!

I draghi tornano di nuovo a volare, E le loro sofferenze vogliamo vendicare!

Forti di spada e forti di braccio; L'era di un re sta per tramontare!

Il vento è dolce; profonda la corrente; Gli alberi alti; la fauna dormiente! Ridi dei crucci e ridi del nemico, È giunta l'ora del trionfo fulgente!

Solo quando Narì terminò, Eragon si ricordò di respirare. Non aveva mai sentito una voce simile; era come se l'elfo avesse rivelato la sua essenza, la sua anima. «È stato magnifico, Nari-vodhr.»

«Una semplice composizione, Argetlam» si schermì Nari. «Ma ti ringrazio comunque.»

Thorv borbottò. «Già, bella canzone, mastro elfo. Ma invece di starcene qui a recitare versi, sarebbe meglio occuparci di questioni più urgenti. Dobbiamo accompagnare ancora Eragon?»

«No» intervenne Arya, attirandosi gli sguardi degli altri elfi. «Voi potrete ripartire domattina. Penseremo noi a scortare Eragon fino a Ellesméra.»

Thorv chinò il capo. «Allora il nostro compito è finito.»

Mentre Eragon se ne stava disteso sul giaciglio che gli elfi gli avevano preparato, tese le orecchie nel tentativo di cogliere le parole di Arya, che provenivano da un capanno vicino. Sebbene usasse molti termini dell'antica lingua che gli erano sconosciuti, dedusse che stava spiegando agli elfi come aveva perso l'uovo di Saphira e la successione di eventi. Alla fine, seguì un lungo silenzio, poi un elfo disse: «È bello che tu sia tornata, Arya Dròttningu. Islanzadi è rimasta profondamente addolorata quando ha saputo che eri stata catturata e l'uovo rubato, e dagli Urgali, per giunta! Aveva, e ha, la morte nel cuore.»

«Sst, Edurna... sst» mormorò un altro. «I Dvergar sono piccoli, ma hanno le orecchie lunghe e sono sicuro che riferiranno tutto a Rothgar.»

Poi le voci si abbassarono ed Eragon non riuscì più a comprendere una parola. Il sommesso brusìo degli elfi e il fruscìo delle foglie lo cullarono mentre si abbandonava al sonno, e il canto dell'elfo continuò a riecheggiare nei suoi sogni. L'aria era satura del profumo dei fiori quando Eragon si destò, davanti a una Du Weldenvarden bagnata dai raggi dorati del sole. Sopra di lui si estendeva una fitta cupola di foglie ondeggianti, sostenuta da grossi tronchi che svettavano da un terreno brullo e asciutto. Soltanto muschi, licheni e sparuti cespugli sopravvivevano nella densa ombra verde. La scarsità del sottobosco consentiva di vedere a grandi distanze fra i pilastri nodosi e di camminare liberamente sotto la volta screziata.

Eragon si alzò e vide che Thorv e le sue guardie erano già pronti a partire. Il mulo di Orik era legato dietro a quello di Ekksvar. Eragon si avvicinò a Thorv e disse: «Ringrazio tutti voi per aver protetto me e Saphira. Ti prego di porgere i miei omaggi a Ùndin.»

Thorv si portò il pugno al petto. «Riferirò le tue parole.» Esitò, scoccando un'occhiata furtiva ai capanni. «Gli elfi sono una razza strana, piena di luci e ombre. La mattina brindano con te; la sera ti pugnalano alle spalle. Tieni gli occhi aperti, Ammazzaspettri. Sono caratteri capricciosi.»

«Lo terrò a mente.»

«Mmm.» Thorv fece un cenno verso il fiume. «Hanno intenzione di attraversare il lago Eldor con le barche. Cosa farai del tuo cavallo? Potremmo riportarlo a Tarnag con noi, e da lì a Tronjheim.»

«Barche!» esclamò Eragon, sgomento. Aveva sempre pensato di portare Fiammabianca a Ellesméra. Era utile avere un cavallo quando Saphira era lontana, o nei luoghi troppo ristretti per la sua mole. Si accarezzò la rada peluria del mento. «È un'offerta gentile. Mi garantisci che Fiammabianca sarà ben accudito? Non potrei sopportare che gli accadesse qualcosa.»

«Sul mio onore» disse Thorv, «al tuo ritorno lo troverai grasso e lucido.»

Eragon andò a prendere Fiammabianca e affidò lo stallone, la sella e le bisacce alle cure di Thorv. Si congedò da ciascuno dei guerrieri, poi lui, Saphira e Orik rimasero a guardare i nani che si allontanavano lungo il sentiero da cui erano arrivati.

Nel tornare ai capanni, Eragon e quanto restava del suo gruppo seguirono gli elfi in un boschetto sulle rive dell'Edda, dove trovarono, ormeggiate ai lati di un grosso scoglio, due canoe bianche con lunghi fregi intagliati sulle fiancate. Eragon salì su quella più vicina e s'infilò lo zaino sotto i piedi. Rimase stupefatto dalla leggerezza dell'imbarcazione: avrebbe potuto sollevarla con una mano. Ancor più sorprendente era il fatto che gli scafi sembravano composti da lamine di corteccia di betulla fuse insieme senza che si vedessero comenti. Incuriosito, toccò il fianco. La corteccia era dura e compatta come pergamena, e fredda per il contatto con l'acqua. La battè con le nocche. Il guscio fibroso riverberò come un tamburo sordo.

«Tutte le vostre imbarcazioni sono fatte così?» chiese.

«Tutte, tranne le più grosse» rispose Nari, sedendosi a prua della canoa di Eragon. «Per quelle cantiamo il cedro e la quercia migliori.»

Eragon non ebbe modo di chiedere che cosa voleva dire, perché Orik salì sulla loro canoa, mentre Arya e Lifaen s'imbarcavano sulla seconda. Arya si rivolse a Edurna e Celdin, fermi sulla riva, e disse: «Restate qui di guardia perché nessuno ci segua, e non fate parola a nessuno della nostra presenza. La regina dovrà essere la prima a sapere. Vi manderò rinforzi non appena giungeremo a Silthrim.»

«Arya Dròttningu.»

«Che le stelle vi proteggano!» rispose lei.

Chinandosi in avanti, Nari e Lifaen estrassero pali appuntiti da dentro le barche e cominciarono a spingere le canoe controcorrente. Saphira scivolò in acqua dietro di loro e li raggiunse facendo leva con gli artigli sul fondo del fiume. Quando Eragon la guardò, lei ammiccò divertita e s'immerse; il fiume si gonfiò sul suo dorso dentellato. Gli elfi risero a quella scena e si profusero in complimenti per la sua forza e le sue dimensioni. Dopo un'ora raggiunsero il lago Eldor, increspato da piccole onde schiumose. Uccelli e mosche sfrecciavano dentro e fuori da una parete di alberi sulla riva occidentale, mentre quella orientale risaliva verso la prateria, dove pascolavano centinaia di cervi. Una volta sfuggiti alla corrente del fiume, Nari e Lifaen issarono i pali a bordo e distribuirono pagaie a forma di foglia. Orik e Arya sapevano già come governare una barca, ma Nari dovette spiegare il procedimento a Eragon. «La barca gira dalla parte in cui remi» disse l'elfo. «Perciò, se io pagaio a destra e Orik a sinistra, allora tu dovrai pagaiare prima da un lato, e poi dall'altro, altrimenti perderemo la rotta.» Alla luce del sole, i capelli di Nari scintillavano come preziosa filigrana.

Eragon imparò subito a manovrare la pagaia e mentre il movimento diventava automatico, la sua mente fu libera di fantasticare, fluttuando sul freddo lago, smarrita nei favolosi mondi nascosti ai suoi occhi. Quando fece una pausa per riposarsi le braccia, estrasse dalla cintura il rompicapo di Orik, e si dedicò con caparbietà a trovare la giusta disposizione degli anelli d'oro.

Nari notò quello che stava facendo. «Posso vederlo?» Eragon lo passò all'elfo, che si volse di schiena. Per qualche istante, Eragon e Orik governarono da soli la canoa, mentre Nari era impegnato con gli anelli intrecciati. Poi, con un'esclamazione soddisfatta, alzò la mano, mostrando un unico anello d'oro al dito medio. «Un giochetto divertente» disse. Si sfilò l'anello e lo scosse, così che tornò fra le mani di Eragon nel suo stato originale.

«Come hai fatto?» disse Eragon sbalordito, e invidioso che Nari avesse risolto il rompicapo così facilmente. «Aspetta... Non dirmelo. Voglio riuscirci da solo.» ' «Ma certo» disse Nari con un sorriso.

Ferite del passato

Per tre giorni e mezzo, gli abitanti di Carvahall diI scussero dell'ultimo attacco, della tragica morte di Elmund e di quello che si poteva fare per sfuggire alla drammatica situazione. Dibattiti dai toni accesi infuriavano in ogni singola stanza di ogni singola casa; nel tempo di una parola, gli amici si rivoltavano contro gli amici, i mariti contro le mogli, i figli contro i genitori, per poi riconciliarsi qualche istante dopo nel disperato tentativo di trovare una maniera per sopravvivere. Alcuni sostenevano che, dal momento che Carvahall era condannata in ogni caso, avrebbero fatto meglio a uccidere i Ra'zac e i soldati rimasti, se non altro per appagare la sete di vendetta. Altri dicevano che se Carvahall era davvero condannata, l'unica cosa logica da fare era arrendersi e rimettersi alla clemenza del re, anche se questo significava tortura e morte per Roran e schiavitù per tutti gli altri. Altri ancora non appoggiavano né l'una né l'altra fazione, e covavano una sorda rabbia contro chiunque avesse attirato quella disgrazia sul villaggio. Molti facevano del loro meglio per nascondere il panico sul fondo di un boccale.

Dal canto loro, sembrava che i Ra'zac si fossero resi conto che con undici soldati morti non disponevano più di una forza sufficiente ad attaccare Carvahall; si erano infatti ritirati ancora più su lungo la strada e avevano appostato le sentinelle nei vari punti strategici della Valle Palancar.

«Aspettano rinforzi da Ceunon o da Gil'ead, se volete sapere come la penso» disse Loring durante una riunione. Roran ascoltava in silenzio, tenendo per sé le proprie opinioni, e valutando ogni proposta. Sembravano tutte ugualmente rischiose.

Roran non aveva ancora detto a Sloan che lui e Katrina erano fidanzati. Sapeva che era sciocco aspettare, ma aveva paura della reazione che avrebbe avuto il macellaio nell'apprendere che Roran e Katrina avevano infranto la tradizione e di conseguenza minato la sua autorità. Per giunta restava ancora molto lavoro a distrarre Roran: si convinse che rafforzare le difese di Carvahall era al momento la priorità più urgente.

Trovare gente disposta ad aiutarlo fu più facile del previsto. Dopo l'ultima battaglia, i compaesani erano più inclini ad ascoltarlo e a obbedirgli, se non altro quelli che non lo ritenevano responsabile della situazione. Al principio era rimasto sconcertato da quell'atteggiamento che gli conferiva un'autorità mai avuta prima, ma poi si era reso conto che era il risultato della soggezione, della stima e forse persino della paura ispirate dalle uccisioni che aveva commesso. Lo chiamavano Fortemartello. Roran Fortemartello.

Il nome gli piaceva.

Quando la notte inghiottì la valle, Roran si appoggiò in un angolo della stanza da pranzo di Horst, con gli occhi chiusi. Donne e uomini, seduti intorno al tavolo illuminato da una candela, conversavano tra di loro. Kiselt stava illustrando lo stato delle scorte alimentari di Carvahall. «Non moriremo di fame» concluse, «ma se non ci occuperemo presto dei campi e del bestiame, tanto vale tagliarci la gola da soli prima del prossimo inverno. Sarebbe un destino più clemente.» Horst si accigliò. «Sciocchezze!»

«Sciocchezze o no» disse Gertrude, «dubito che avremo occasione di scoprirlo. Eravamo superiori di numero, dieci contro uno, quando sono arrivati i soldati. Loro hanno perso undici uomini; noi dodici, e io mi sto prendendo cura di nove feriti. Cosa succederà, Horst, quando la situazione si ribalterà?»

«Daremo ai bardi un motivo per ricordare i nostri nomi» ribattè il fabbro. Gertrude scrollò il capo avvilita. Loring picchiò un pugno sul tavolo. «Io dico che è il nostro turno di attaccare, prima di trovarci in inferiorità numerica. Ci servono soltanto uomini, scudi e lance, e ci libereremo da questa infestazione. Potremmo farlo stanotte!» Roran non riusciva a stare fermo per l'inquietudine. Aveva già sentito quei discorsi e, come sempre, la proposta di Loring suscitò aspre polemiche che consumavano il gruppo. Dopo un'ora, la questione era ancora irrisolta, e non erano state fatte nuove proposte, tranne quella di Thane a Gedric, quando gli disse di andarsi ad annegare in una vasca da concia. La rissa fu evitata per un soffio. Alla fine, mentre la conversazione languiva, Roran si avvicinò al tavolo, zoppicando per il polpaccio ferito. «Ho una cosa da dire.» La situazione richiedeva un intervento immediato, come se avesse messo un piede su una spina e dovesse strapparsela via senza pensare al dolore: prima lo faceva, meglio era. Gli sguardi di tutti - severi, indulgenti, arrabbiati, indifferenti e curiosi - si volsero verso di lui. Roran trasse un profondo respiro. «L'indecisione finirà per ucciderci quanto una spada o una freccia.» Orval roteò gli occhi, ma gli altri continuarono ad ascoltare. «Non so se dovremmo attaccare o fuggire...»

«Dove?» lo interruppe Kiselt.

«... ma una cosa la so: i nostri bambini, le nostre madri e i nostri infermi devono essere protetti dal pericolo. I Ra'zac hanno sbarrato la strada che ci collega alla fattoria di Cawley e alle altre famiglie della valle. E allora? Conosciamo questa terra meglio di chiunque altro in Alagaésia, e c'è un posto... c'è un posto, dove i nostri cari saranno al sicuro. La Grande Dorsale.»

Roran si fece piccolo piccolo sotto la tempesta di voci irate che si scatenò. Sloan era quello più infervorato e gridò: «Mi farò impiccare prima di mettere piede su quelle maledette montagne!»

«Roran» disse Horst, urlando sugli altri. «Tu più di tutti dovresti sapere che la Grande Dorsale è troppo pericolosa... è dove Eragon ha trovato la pietra che ha portato qui i Ra'zac! Le montagne sono fredde, e popolate di lupi, orsi e altri mostri. Come ti è venuto in mente?»

Per salvare Katrina! avrebbe voluto gridare Roran. Invece disse: «Per quanti soldati i Ra'zac riescano a radunare, non oseranno mai affrontare la Grande Dorsale. Non dopo che Galbatorix ha perso mezzo esercito fra quei monti.» «È stato tanto tempo fa» obiettò Morn, dubbioso.

Roran approfittò di quella affermazione. «Giusto, e le leggende non hanno fatto altro che ingigantirsi a furia di aggiungere fantasiosi dettagli sempre più terrificanti! Esiste già un sentiero che porta in cima alle Cascate di Igualda. Ci basta mandare i bambini e gli altri lassù. Resteranno appena ai margini della Dorsale, ma saranno al sicuro. Se Carvahall cade, potranno aspettare finché i soldati non se ne andranno, e poi scendere a cercare rifugio a Therinsford.» «È troppo pericoloso» ringhiò Sloan. Il macellaio afferrò il bordo del tavolo con una stretta così tenace che le punte delle sue dita sbiancarono. «Il freddo, le bestie. Nessun uomo sano di mente manderebbe la sua famiglia lassù.» «Ma...» Roran balbettò, colto di sorpresa dalla reazione di Sloan. Benché sapesse che il macellaio odiava le montagne più di chiunque altro - sua moglie si era gettata da una rupe vicino alle Cascate di Igualda - aveva sperato che il suo profondo desiderio di proteggere Katrina sarebbe stato abbastanza forte da vincere l'avversione. Ma capì che avrebbe dovuto convincere Sloan come tutti gli altri. Adottando un tono più conciliante, proseguì: «Non è così brutta come pensi. La neve si sta già sciogliendo. Ormai sulla Grande Dorsale non fa più freddo di quanto non lo faceva qui appena qualche mese fa. E dubito che i lupi o gli orsi provino ad attaccare un gruppo così numeroso.»

Sloan fece una smorfia, arricciando le labbra sui denti serrati, e scosse il capo. «Non troverai altro che la morte sulla Grande Dorsale.»

Di fronte agli evidenti cenni d'assenso degli altri, Roran si sentì ancora più determinato, convinto com'era che Katrina sarebbe morta se non fosse riuscito a persuaderli. Scrutò i volti in cerca di un'espressione amica. «Delwin, lo so che è crudele dirlo da parte mia, ma se Elmund non si fosse trovato a Carvahall sarebbe ancora vivo. Non puoi non essere d'accordo con me quando dico che questa è la cosa giusta da fare! Hai l'occasione di risparmiare ad altri genitori le tue sofferenze...»

Nessuno rispose. «E tu, Brigit!» Roran si trascinò verso di lei, aggrappandosi alle spalliere delle seggiole per non cadere. «Vuoi forse che Nolfavrell condivida il destino di suo padre? Deve andarsene. Non capisci, è l'unico modo per salvarlo...» Suo malgrado, Roran si sentì inondare gli occhi di lacrime. «È per il bene dei bambini!» gridò all'improvviso. L'assemblea taceva. Roran fissava il legno che stringeva fra le mani nel tentativo di controllarsi. Delwin fu il primo a scuotersi. «Non lascerò mai Carvahall finché gli assassini di mio figlio restano qui. Tuttavia...» Fece una pausa, poi riprese. «Tuttavia non posso negare che nelle tue parole c'è del vero: bisogna proteggere i bambini.» «Io l'ho detto fin dal principio» dichiarò Tara.

Poi fu il turno di Baldor. «Roran ha ragione. Non possiamo farci accecare dalla paura. La maggior parte di noi è salita fino in cima alle cascate, una volta o l'altra. È un posto sicuro.»

«Anch'io» intervenne Brigit «sono d'accordo.»

Horst annuì. «Preferirei di no, ma date le circostanze... non credo che abbiamo altra scelta.» Dopo qualche secondo, gli altri presenti cominciarono ad accettare la proposta a malincuore.

«È una follia!» esplose Sloan. Si alzò di scatto e puntò l'indice contro Roran. «Dove prenderanno il cibo sufficiente ad aspettare per settimane e settimane? Non possono portarlo con sé. Come faranno a riscaldarsi? Se accenderanno il fuoco, li vedranno! Come, come, come? Se non muoiono di fame, moriranno di freddo. Se non congeleranno, verranno divorati dalle bestie. Se non saranno le bestie... Chi lo sa? Potrebbero cadere!»

Roran allargò le braccia. «Se diamo tutti una mano, avranno cibo a sufficienza. Il fuoco non sarà un problema se si spingono nella foresta, cosa che dovranno fare comunque, dato che non c'è abbastanza spazio sulle cascate per accamparsi.»

«Scuse! Giustificazioni!»

«Cos'altro vuoi che facciamo, Sloan?» chiese Morn, fissandolo con curiosità.

Sloan rise amaramente. «Non questo.»

«Allora cosa?»

«Non importa. Solo che questa è la decisione sbagliata.»

«Non devi partecipare per forza» puntualizzò Horst.

«Infatti» disse il macellaio. «Fate come vi pare, ma né io né il mio sangue saliremo sulla Grande Dorsale, finché avrò midollo nelle ossa.» Detto questo, afferrò il cappello e se ne andò, scoccando un'occhiata velenosa a Roran, che ricambiò con uno sguardo torvo.

Per come la vedeva Roran, Sloan stava mettendo in pericolo Katrina per la propria testardaggine. Se non riesce ad accettare la Dorsale come rifugio, decise Roran, allora diventerà mio nemico e dovrà vedersela con me. Horst poggiò i gomiti sul tavolo e intrecciò le dita. «Allora... Se vogliamo adottare il piano di Roran, quali preparativi occorre fare?» I presenti si scambiarono qualche breve occhiata circospetta; poi, a poco a poco, cominciarono a discutere dell'argomento.

Roran aspettò fino a quando non ebbe la certezza di aver centrato l'obiettivo prima di scivolare inosservato dalla stanza. Vagò per il villaggio immerso nel buio in cerca di Sloan, setacciando il perimetro interno allo sbarramento di alberi. Alla fine scorse il macellaio accovacciato accanto a una torcia, lo scudo stretto fra le braccia, contro le ginocchia. Roran fece dietrofront e corse alla bottega di Sloan, ed entrò nella cucina sul retro.

Katrina stava apparecchiando e si fermò a guardarlo stupita. «Roran! Che ci fai qui? Hai parlato con papà?» «No.» Il giovane si fece avanti e le prese le mani, assaporando il contatto. Il semplice fatto di stare nella stessa stanza con lei lo colmava di gioia. «Ho un grande favore da chiederti. È stato deciso di mandare i bambini e pochi altri sulla Grande Dorsale, in cima alle Cascate di Igualda.» Katrina trasalì. «Voglio che li accompagni.»

Con espressione sconvolta, Katrina si liberò dalla sua stretta e si volse verso il caminetto, cingendosi il corpo con le braccia mentre fissava le braci ardenti. Per lunghi istanti non disse nulla, poi: «Papà mi ha proibito di avvicinarmi alle cascate da quando la mamma è morta. La fattoria di Albem è il posto più vicino alla Grande Dorsale in cui sia stata negli ultimi dieci anni.» Rabbrividì, e il suo tono divenne accusatorio. «Come fai a suggerirmi di abbandonare te e mio padre? Questa è anche casa mia. E perché dovrei andarmene, quando Elain, Tara e Brigit resteranno?»

«Katrina, ti prego.» Timidamente, Roran le posò le mani sulle spalle. «I Ra'zac sono qui per me, e non voglio che ti accada nulla di male per causa mia. Finché sei in pericolo, non posso concentrarmi su quello che va fatto: difendere Carvahall.»

«Chi mi rispetterebbe se fuggissi come una vigliacca?» La ragazza sollevò fiera il mento. «Mi vergognerei di guardare in faccia le donne di Carvahall e di essere tua moglie.»

«Vigliacca? Quale vigliaccheria c'è nel proteggere e sorvegliare i bambini sulla Grande Dorsale? Direi piuttosto che ci vuole più coraggio per andare sulle montagne che non per restare.»

«Che orrore è mai questo?» mormorò Katrina, girandosi fra le sue braccia, con gli occhi lucidi e le labbra serrate. «L'uomo che dovrebbe diventare mio marito non mi vuole più al suo fianco.»

Lui scosse il capo. «Non è vero. Io...»

«È vero! Che cosa succede se ti uccidono mentre sono lontana?»

«Non dire...»

«No! Carvahall ha ben poche speranze di sopravvivere, e se dobbiamo morire, preferisco morire insieme a te, piuttosto che rifugiarmi sulla Dorsale senza più cuore né vita. I bambini sapranno badare a se stessi. Come me, del resto.» Una lacrima le rotolò lungo la guancia.

Gratitudine e stupore pervasero Roran davanti a tanta devozione. La guardò nel profondo degli occhi. «E in nome di questo amore che ti chiedo di andare. So cosa provi. So che questo è il sacrificio più grande che entrambi possiamo fare, e te lo chiedo adesso.»

Katrina rabbrividì. Il suo corpo si fece teso, mentre le mani bianche torcevano l'orlo del grembiule di mussola. «Se accetto» disse con voce tremante, «tu devi promettermi, qui e adesso, che non mi farai mai più una richiesta del genere. Devi promettermi che se anche ci trovassimo di fronte a Galbatorix in persona, e soltanto uno di noi due potesse salvarsi, tu non mi chiederai di andarmene.»

Roran la guardò disperato. «Non posso.»

«Allora come ti aspetti che faccia quello che tu non faresti?» gridò lei. «Questo è il mio prezzo, e né l'oro, né i gioielli, né tutte le belle parole di questo mondo valgono il tuo giuramento. Se non ci tieni abbastanza a me da fare tu un sacrificio, Roran Fortemartello, allora vattene e non farti mai più vedere!»

Non posso perderla. Sebbene il dolore fosse intollerabile, abbassò il capo e disse: «Hai la mia parola.» Katrina annuì e si adagiò su una sedia - la schiena rigida ed eretta - e si asciugò le lacrime con una manica. Con voce tranquilla disse: «Papà mi odierà per questo.»

«Come farai a dirglielo?»

«Non glielo dirò» rispose lei, con aria di sfida. «Non mi permetterà mai di andare sulla Grande Dorsale, ma dovrà capire che questa è una mia decisione. A ogni modo, non oserà inseguirmi sulle montagne. Le teme più della morte.» «Ma potrebbe temere di più di perderti.»

«Si vedrà. Se... quando verrà il momento di tornare, mi aspetto che tu abbia già parlato con lui del fidanzamento. Questo dovrebbe dargli il tempo di accettare il fatto compiuto.»

Roran annuì, pensando in cuor suo che sarebbero stati davvero fortunati se gli eventi avessero preso quella piega.

Ferite del presente

Quando giunse l'alba, Roran si svegliò, ma rimase disteso a fissare il soffitto intonacato, ascoltando il lento raschio del proprio respiro. Dopo un minuto scese dal letto, si vestì e andò in cucina, dove si preparò una fetta di pane spalmata di formaggio molle. Uscì a mangiare sul portico, ammirando il sorgere del sole.

La sua tranquillità fu interrotta da una masnada di bambini scalmanati che attraversarono di corsa il giardino di una casa accanto, lanciando gridolini mentre giocavano a prendersi. Li seguivano alcuni adulti, ciascuno indaffarato a bloccare i propri figli. Roran osservò la baraonda svanire dietro un angolo, poi mangiò l'ultimo boccone e tornò in cucina, dove nel frattempo si era riunito il resto della famiglia.

Elain lo salutò. «Buongiorno, Roran.» Aprì le imposte della finestra e alzò lo sguardo al cielo. «Sembra che ricomincerà a piovere.»

«Meglio così» sentenziò Horst. «Ci aiuterà a nasconderci mentre scaliamo il monte Narnmor.»

«Scaliamo?» disse Roran. Si sedette al tavolo accanto ad Albriech, che si strofinava gli occhi ancora assonnati. Horst annuì. «Sloan aveva ragione a proposito delle provviste; dobbiamo aiutarli a trasportarle fin sulle cascate, altrimenti non potranno portarne abbastanza.»

«Resteranno abbastanza uomini per difendere il villaggio?»

«Puoi contarci.»

Dopo la colazione, Roran aiutò Baldor e Albriech a impacchettare cibo, coperte e vettovaglie in tre grossi fagotti che si misero in spalla per poi dirigersi verso la zona nord del villaggio. Il polpaccio gli faceva ancora male, ma non in modo insopportabile. Per la strada incontrarono i tre fratelli, Darmen, Lame e Hamund, che recavano in spalla altrettanti fardelli.

Lungo il margine interno della trincea che circondava le case, Roran e i suoi compagni trovarono un vasto gruppo di bambini, genitori e nonni, impegnati a organizzarsi per la spedizione. Alcune famiglie avevano dato in prestito i propri muli per portare le provviste e i bambini più piccoli; gli animali legati scalpitavano impazienti, e il ragliare si aggiungeva alla confusione generale.

Roran posò il fagotto a terra e scrutò il gruppo. Vide Svart - lo zio di Ivor che, a quasi sessantanni, era l'uomo più anziano di Carvahall - seduto su una balla di indumenti, intento a far giocare un piccoletto con la punta della sua lunga barba bianca; Nolfavrell, sorvegliato da Brigit; Felda, Nolla, Calitha e altre madri dall'aria preoccupata; e un gran numero di uomini e donne dall'espressione riluttante. Tra la folla, Roran scorse anche Katrina, impegnata ad annodare i lembi di un fagotto. Lei levò lo sguardo e gli sorrise, poi tornò al suo lavoro.

Dato che nessuno sembrava essersi occupato del coordinamento, Roran si adoperò per organizzare al meglio la raccolta di provviste. Scoprì che mancavano le borracce d'acqua, ma quando ne chiese delle altre, finì con averne tredici di troppo. Lungaggini simili consumarono le prime ore della mattinata.

Mentre discuteva con Loring sull'eventuale necessità di scarpe di riserva, Roran notò Sloan fermo all'imbocco di un vicolo.

Il macellaio osservava la scena con uno sdegno che gli accentuava le rughe intorno alle labbra serrate. La sua indignazione si trasformò in rabbia incredula nel vedere Katrina infilarsi lo zaino in spalla, fugando ogni dubbio che fosse lì soltanto per dare una mano. Una vena cominciò a pulsargli al centro della fronte.

Roran corse verso Katrina, ma Sloan arrivò per primo. Le afferrò il manico dello zaino e lo scrollò con violenza, gridando: «Chi ti ha convinta a farlo?» Katrina disse qualcosa a proposito dei bambini e cercò di liberarsi, ma Sloan strattonò lo zaino, torcendole le braccia quando gli spallacci le scivolarono via, e lo gettò in terra. Il contenuto si sparse a terra. Continuando a gridare, Sloan afferrò il braccio di Katrina e cominciò a trascinarla via. Lei piantò i talloni nel terreno e si divincolò, i capelli ramati che le ondeggiavano davanti al viso come una tempesta di sabbia. Furibondo, Roran si scagliò contro Sloan per separarlo dalla figlia, e spinse il macellaio sul petto con una tale foga da farlo barcollare all'indietro di diversi passi. «Fermati! Sono io che gliel'ho chiesto.»

Sloan fulminò Roran con un'occhiata e ruggì: «Non ne hai il diritto!»

«Sì che ce l'ho!» Roran guardò il cerchio di spettatori che si era radunato intorno a loro, e poi dichiarò a gran voce, perché tutti potessero udire: «Katrina e io siamo fidanzati e ci sposeremo. E non permetterò che la mia futura moglie venga trattata in questo modo!» Per la prima volta, gli abitanti di Carvahall tacquero; perfino i muli si zittirono. Sorpresa, e un profondo, inconsolabile dolore affiorarono sul viso vulnerabile di Sloan, insieme al luccichio delle lacrime. Per un istante Roran provò compassione per lui, ma poi una serie di spasmi deformarono i lineamenti del padre di Katrina, ciascuno più intenso del precedente, finché la sua pelle non diventò paonazza. Lanciò un'imprecazione e disse: «Tu, codardo dalla doppia faccia! Come hai potuto guardarmi negli occhi e parlarmi come un uomo onesto, mentre corteggiavi mia figlia senza il mio permesso? Io mi sono fidato di te, e adesso ti scopro a intrufolarti in casa mia appena volto la schiena.»

«Era mia intenzione fare le cose come si deve» disse Roran, «ma gli eventi hanno cospirato contro di me. Non avrei mai voluto ferirti. Purtroppo è andata diversamente da come tutti noi speravamo, ma vorrei ugualmente ricevere la tua benedizione, se acconsenti.»

«Preferirei avere un porco verminoso come genero! Tu non hai fattoria. Tu non hai famiglia. E non avrai niente a che fare con mia figlia!» Il macellaio imprecò ancora. «E lei non avrà niente a che fare con la Grande Dorsale!» Sloan si avventò su Katrina, ma Roran gli sbarrò il passo, l'espressione feroce, i pugni serrati. I due si fissarono ad appena un palmo di distanza, tremando per l'intensità delle loro emozioni. Gli occhi orlati di rosso di Sloan luccicavano di follia.

«Katrina, vieni qui» ordinò Sloan.

Roran indietreggiò di un passo - i tre formarono un triangolo - e fissò Katrina. Le lacrime le inondavano il viso, mentre il suo sguardo guizzava fra Roran e il padre. Fece un passo avanti, esitò, poi con un grido di angoscia si tirò i capelli, tormentata dall'indecisione.

«Katrina!» esclamò Sloan, terrorizzato.

«Katrina» mormorò Roran.

Al suono della sua voce, Katrina smise di versare lacrime e drizzò la schiena, il viso ora composto e pacato. «Mi dispiace, papà» disse, «ma ho deciso di sposare Roran.» E si affiancò al giovane.

Sloan sbiancò. Si morse il labbro così forte da far sgorgare una gocciolinà di sangue. «Non puoi abbandonarmi! Sei mia figlia!» Le si avventò contro con le dita contratte come artigli. Nello stesso momento, Roran ruggì e colpì il macellaio con tutte le sue forze, scaraventandolo a terra davanti all'intero villaggio.

Sloan si rialzò lentamente, il viso e il collo rossi di umiliazione. Quando il suo sguardo si posò di nuovo su Katrina, il macellaio parve rimpicciolirsi, come ripiegato in sé, finché Roran non ebbe l'impressione di guardare il fantasma dell'uomo che era stato. Con un filo di voce, il macellaio disse: «È sempre così: sono quelli che ami di più che ti danno i dolori più grandi. Tu non avrai alcuna dote da me, vipera, né riceverai l'eredità di tua madre.» Piangendo amare lacrime, Sloan si volse e corse verso la sua bottega.

Katrina si appoggiò a Roran, e lui le cinse le spalle con un braccio. Restarono aggrappati l'uno all'altra, mentre la gente si assiepava intorno a loro, chi per congratularsi, chi per disapprovare, chi per dare consigli. Malgrado il clamore, Roran non si accorgeva di niente se non della donna che teneva fra le braccia, e che ricambiava la sua stretta. All'improvviso tra la folla si fece largo Elain a suon di gomitate, nonostante il pancione. «Oh, povera cara!» esclamò, e gettò le braccia al collo di Katrina, strappandola a Roran. «Siete davvero fidanzati?» Katrina annuì e sorrise, poi scoppiò in un pianto dirotto sulla spalla di Elain. «Su, su, non temere.» Elain cullava Katrina con dolcezza materna, lisciandole i capelli e mormorandole parole affettuose, ma invano. Ogni volta che Roran pensava che stesse per smettere, Katrina ricominciava a piangere ancora più forte. Alla fine, Elain lo guardò da sopra le spalle tremanti di Katrina e gli disse: «La porto a casa.»

«Vi accompagno.»

«No» replicò Elain. «Ha bisogno di tempo per calmarsi, e tu hai del lavoro da sbrigare. Vuoi il mio consiglio?» Roran annuì stordito. «Sta' alla larga da lei fino a stasera. Ti garantisco che si sarà ripresa. Domani potrà raggiungere gli altri.» E senza aspettare risposta, Elain guidò la singhiozzante Katrina lontano dallo sbarramento di alberi. Roran rimase con le braccia inerti lungo i fianchi, in preda a uno strano torpore. Cosa abbiamo fatto? Si pentiva di non aver rivelato prima la notizia del loro fidanzamento a Sloan. Rimpiangeva di non poter più lavorare insieme a Sloan per proteggere Katrina dall'Impero. E si rammaricava di aver costretto Katrina a rinnegare la sua famiglia per lui. Ora era doppiamente responsabile della sua vita. Non avevano scelta, se non sposarsi. Ho combinato un disastro. Sospirò e strinse il pugno, facendo una smorfia per le nocche escoriate.

«Come ti senti?» gli chiese Baldor, avvicinandosi.

Roran abbozzò un sorriso. «Non è andata come speravo. Sloan non vuole sentire ragioni quando si tratta della Grande Dorsale.»

«E di Katrina.»

«Già. Io...» Roran tacque nel vedere Loring che si avvicinava.

«È stata una sciocchezza madornale!» ringhiò il calzolaio, arricciando il naso. Poi protese il mento e sogghignò, mostrando i denti smozzicati. «Ma auguro a te e alla ragazza ogni fortuna.» Scosse il capo. «Eh, ne avrai un gran bisogno, Fortemartello!»

«Tutti ne avremo bisogno» lo rimbeccò Thane, passando vicino.

Loring lo congedò con un gesto della mano. «Bah, lascia perdere quel vecchio acido. Ascolta, Roran. Vivo a Carvahall da tanti anni e con la mia esperienza posso dirti che è stato meglio che sia accaduto ora, piuttosto che quando il villaggio sonnecchia tranquillo e beato.»

Baldor annuì, ma Roran chiese: «Perché?»

«Non è ovvio? In circostanze normali, tu e Katrina sareste stati sulla bocca di tutti per i prossimi nove mesi.» Loring si grattò un lato del naso. «Invece, con tutti i problemi che abbiamo, sarete presto dimenticati e potrete godervi un po' di pace.»

Roran si accigliò. «Avrei preferito i pettegolezzi a quei profanatori accampati sulla strada.»

«Lo so, è così per tutti. Ma bisogna trovare il lato positivo di ogni situazione... e il cielo sa se non ne abbiamo tutti bisogno... specie tu, una volta che ti sarai sposato!» Loring ridacchiò e indicò Roran. «Ehi, ragazzo, sei diventato tutto rosso!»

Brontolando fra sé, Roran cominciò a raccogliere le cose di Katrina sparse per terra. Tutti quelli che si trovarono a passargli accanto mormoravano un commento, nessuno dei quali troppo adatto a calmargli i nervi. «Balle!» sibilò fra i denti, dopo una critica particolarmente maligna.

Sebbene la spedizione sulla Grande Dorsale avesse subito un ulteriore ritardo per colpa della scenata a cui i paesani avevano appena assistito, la carovana di uomini e muli partì poco prima di mezzogiorno, seguendo la pista battuta che risaliva le pendici del monte Narnmor fino al culmine delle Cascate di Igualda. Era una salita ripida, da percorrere con cautela, per via dei bambini e del peso che ciascuno portava.

Roran passò gran parte del tempo intralciato da Calitha - la moglie di Thane - e dai suoi cinque figli, ma non se ne fece un cruccio, anzi, così non affaticava il polpaccio ferito e poteva ripensare ai recenti eventi. Lo scontro con Sloan lo aveva profondamente scosso. Se non altro, si consolava, Katrina non resterà a Carvahall ancora a lungo. Poiché nel profondo del suo cuore, Roran era convinto che il villaggio sarebbe stato presto sconfitto. Era una semplice constatazione, terribile, ma inevitabile.

A tre quarti dell'ascesa si fermò a riposare, e si appoggiò al tronco di un albero ad ammirare il panorama della Valle Palancar. Cercò di individuare l'accampamento dei Ra'zac - che sapeva trovarsi a sinistra dell'Anora e a sud della strada

- ma non riuscì a scorgere nemmeno un filo di fumo.

Roran sentì il ruggito delle Cascate di Igualda molto prima di vederle. Avevano l'aspetto di una spumeggiante criniera bianca che si riversava dalla vetta frastagliata del Narnmor giù nella valle, mezzo miglio più sotto. La grande corrente seguiva un percorso sinuoso nel precipitare, a seconda degli ostacoli e delle raffiche di vento.

Dopo aver superato la cornice di ardesia da dove si gettava l'Anora, Roran percorse una stretta gola piena di cespugli di lamponi, per finire in un'ampia radura fiancheggiata su un lato da un cumulo di massi, dove trovò i primi della carovana già impegnati a organizzare il campo. La foresta risuonava di grida di bimbi.

Sfilatosi lo zaino, Roran prese un'accetta e si mise a ripulire la zona dai cespugli insieme ad altri uomini. Quando ebbero finito, cominciarono a tagliare gli alberi per circondare l'accampamento. L'aroma di resina di pino saturava l'aria. Roran lavorava in fretta; le schegge di legno volavano al ritmo dei suoi colpi.

Il tempo di finire la palizzata, e il campo era stato eretto, con diciassette tende e quattro piccoli falò che illuminavano le tetre espressioni della gente e dei muli. Nessuno voleva andarsene e nessuno voleva restare.

Roran vagò con lo sguardo sulla massa di bambini e anziani che impugnavano le lance e pensò: Troppa esperienza, o troppo poca. I nonni hanno l'esperienza per affrontare orsi e bestie del genere, ma i nipoti saranno in grado di metterla in pratica? Poi notò lo scintillio d'acciaio negli occhi delle donne e si rese conto che, sebbene fossero occupate a cullare un neonato o a curare un braccio graffiato, tenevano gli scudi e le lance sempre a portata di mano. Roran sorrise. Forse... forse c'è ancora una speranza.

Vide Nolfavrell seduto da solo su un tronco abbattuto, intento a fissare la Valle Palancar, e lo raggiunse. Il ragazzino lo guardò serio. «Te ne andrai presto?» domandò. Roran annuì, colpito dal suo atteggiamento e dalla sua determinazione. «Farai del tuo meglio, vero, per uccidere i Ra'zac e vendicare mio padre? Lo farei io, ma la mamma dice che devo proteggere i miei fratelli e le mie sorelle.»

«Ti porterò io stesso le loro teste, se potrò» promise Roran.

Il mento del ragazzino tremò. «Ci conto!»

«Nolfavrell...» Roran s'interruppe per cercare le parole adatte. «Tu sei l'unico qui, a parte me, che ha ucciso un uomo. Questo non significa che siamo meglio o peggio di chiunque altro, ma significa che potrò fare affidamento su di te, se sarete attaccati. Quando domani verrà Katrina, ti assicurerai che sia ben protetta?»

Il petto di Nolfavrell si gonfiò di orgoglio. «La seguirò come un'ombra!» Poi abbassò lo sguardo, rammaricato. «Voglio dire... quando non dovrò badare...»

Roran comprese. «Oh, la tua famiglia viene al primo posto. Ma forse Katrina potrà stare nella tenda con i tuoi fratelli e le tue sorelle.»

«Sì» disse Nolfavrell con un filo di voce. «Sì, potrebbe funzionare. Conta pure su di me.»

«Ti ringrazio.» Roran gli diede una pacca sulla spalla. Avrebbe potuto chiederlo a una persona più grande e capace, ma gli adulti erano troppo occupati con le proprie responsabilità per difendere Katrina come lui desiderava. D'altro canto, Nolfavrell aveva il modo e la tempra per garantire la sua incolumità. Saprà sostituirmi, finché saremo separati. Roran si alzò vedendo avvicinarsi Brigit.

Rivolgendogli un'occhiata spenta, la donna disse: «Vieni, è ora.» Poi abbracciò il figlio e s'incamminò verso le cascate con Roran e gli altri compaesani che tornavano a Carvahall. Alle loro spalle, nel piccolo accampamento, tutti si avvicinarono alla palizzata, sbirciando attraverso i tronchi tagliati con occhi smarriti.

Il volto del nemico

Roran trascorse il resto della giornata a migliorare le difese, sentendo sua la desolazione di Carvahall. JL ViEra come se avessero preso una parte di lui per nasconderla sulla Grande Dorsale. Senza bambini, il villaggio sembrava un accampamento fortificato. Il cambiamento aveva reso tutti cupi e taciturni.

Quando il sole si tuffò fra le guglie frastagliate della Grande Dorsale, Roran risalì la collina verso casa di Horst. Si fermò davanti alla porta principale con la mano sul pomello, ma rimase lì, senza entrare. Perché questo incontro mi spaventa quanto una battaglia?

Alla fine abbandonò la porta principale e girò intorno alla casa per entrare direttamente in cucina dove, con suo sgomento, vide Elain seduta a fare la calza da un lato del tavolo, intenta a parlare con Katrina, seduta di fronte a lei. Entrambe si volsero a guardarlo, e Roran balbettò: «Stai... stai bene?»

Katrina si alzò per andargli incontro. «Sto bene.» Sorrise dolcemente. «È stato solo un momento terribile quando papà... quando...» Abbassò la testa per un istante. «Elain è stata così gentile da offrirmi la stanza di Baldor per stanotte.»

«Sono contento che tu stia meglio» disse Roran e l'abbracciò forte, cercando di infondere tutto il suo amore e la sua adorazione in quel semplice contatto.

Elain avvolse la lana intorno ai ferri. «Coraggio. Il sole è tramontato, ed è ora di andare a letto, Katrina.» Roran la lasciò a malincuore. La ragazza lo baciò sulla guancia e disse: «Ci vediamo domattina.»

Lui fece per seguirla, ma si fermò quando Elain disse in tono aspro: «Roran.» Il suo volto delicato era accigliato e risoluto.

«Sì?»

Elain attese di sentire lo scricchiolio delle scale per essere sicura che Katrina non sentisse. «Spero che tu voglia tener fede a ogni parola che hai detto a quella ragazza, perché altrimenti, convocherò un'assemblea e ti farò esiliare nel giro di una settimana.»

Roran rimase sbalordito. «Ma certo che manterrò le promesse. Io l'amo.»

«Katrina ha appena rinunciato a tutto quello che possedeva e a cui teneva per te.» Elain lo fissava con sguardo inflessibile. «Ho visto uomini professare amore eterno a giovani donne, come giuramenti fatti al vento. Le fanciulle sospirano e piangono e credono di essere speciali, ma per l'uomo non si tratta che di un trastullo momentaneo. Sei sempre stato un uomo d'onore, Roran, ma la lussuria può trasformare la persona più sensibile in un fantoccio rimbambito o in una scaltra, infima volpe. Tu cosa sei? Perché Katrina non ha bisogno di un fantoccio, né di un bugiardo, e nemmeno di amore; ciò di cui ha soprattutto bisogno è un uomo che provveda a lei. Se tu l'abbandoni, diventerà la persona più derelitta di Carvahall, costretta a vivere dell'elemosina degli amici, la nostra prima e unica mendicante. Per il sangue che mi scorre nelle vene, non lo permetterò.»

«Neppure io» protestò Roran. «Dovrei essere senza cuore, o peggio, per fare una cosa del genere.» Elain levò fiera il mento. «Già. Non dimenticare che intendi sposare una donna che ha perso sia la sua dote che l'eredità di sua madre. Capisci cosa significa per Katrina perdere l'eredità? Non avrà argento, né biancheria, né merletti, nessuna delle cose necessarie a mettere su casa. Tutte noi possediamo tali oggetti, tramandati di madre in figlia dal primo giorno in cui mettemmo piede in Alagaésia. Simboleggiano quanto valiamo. Una donna senza eredità è come... è come...» «È come un uomo senza terra o senza mestiere» concluse Roran.

«Giusto. È stato crudele da parte di Sloan diseredare Katrina, ma adesso non possiamo farci più niente. Entrambi non avete soldi né risorse. La vita già è difficile di suo senza questi problemi. Comincerete da zero e con zero in tasca. La prospettiva ti spaventa o ti sembra insopportabile? Perciò, ti chiedo ancora una volta - e non mentirmi, altrimenti voi due ve ne pentirete per il resto dei vostri giorni - ti prenderai cura di lei senza rancore né rimpianti?» «Sì.»

Elain sospirò e versò del sidro in due boccali di terracotta da una caraffa che prese da una mensola. Ne porse uno a Roran e si sedette di nuovo al tavolo. «Allora ti suggerisco di cominciare a ricostruire una casa e un'eredità per Katrina, affinchè lei, e le figlie che un giorno avrete, possano guardare in faccia le donne di Carvahall senza vergogna.» Roran sorseggiò il sidro fresco. «Se vivremo tanto a lungo.»

«Già.» Elain si scostò una ciocca bionda dalla fronte e scosse il capo. «Hai scelto la via più difficile, Roran.» «Dovevo essere sicuro che Katrina lasciasse Carvahall.»

Elain inarcò un sopracciglio. «Allora è stato per questo. Bene, non discuterò le tue ragioni, ma perché diavolo non hai parlato a Sloan del fidanzamento prima di questa mattina? Quando Horst chiese la mia mano a mio padre, donò alla nostra famiglia dodici pecore, una scrofa e otto paia di candelieri di ferro battuto ancora prima di sapere se avrebbe acconsentito. Avresti potuto pensare a qualcosa di meglio che non prendere a pugni il tuo futuro suocero.» Un'amara risata sfuggì dalle labbra di Roran. «Avrei potuto, certo, ma non ho mai trovato il momento adatto, con tutti quegli attacchi.»

«I Ra'zac non hanno attaccato per sei giorni.»

Roran si rabbuiò. «No, ma... è che... Oh, non lo so!» Calò il pugno sul tavolo in un moto di frustrazione. Elain posò la tazza e mise le sue esili mani sulla sua. «Se riuscirai a ricucire questo strappo con Sloan adesso, prima che si accumulino anni di rancore, allora la tua vita con Katrina sarà molto, molto più facile. Domattina va' a casa sua e implora il suo perdono.»

«Non lo implorerò! Non lui.»

«Roran, ascoltami. Dovessi implorare per un mese intero, niente è più prezioso della pace in famiglia. Lo so per esperienza; litigare non serve a niente.»

«Sloan odia la Grande Dorsale. Non vorrà avere niente a che fare con me.»

«Ma devi provarci lo stesso» insistette Elain con foga. «Se anche respingesse le tue scuse, almeno nessuno ti potrà accusare di non aver provato. Se ami Katrina, manda giù l'orgoglio e fa' quel che è giusto per lei. Non farla soffrire per i tuoi errori.» Finì di bere il sidro, usò un cappuccio di latta per spegnere le candele e lasciò Roran seduto nell'oscurità. Passarono lunghi minuti prima che Roran trovasse la forza di alzarsi. Tese una mano e seguì il bordo del piano di lavoro fino a tastare la soglia, poi salì di sopra, continuando a far scorrere le dita sulle pareti per trovare la strada. Nella sua stanza, si spogliò e si gettò sul letto.

Con la braccia strette intorno al cuscino, ascoltò i deboli suoni che echeggiavano nella casa di notte: il raspio di un topo in soffitta e i suoi squittii intermittenti, i gemiti del legno che si raffreddava di notte, il sussurro del vento negli interstizi della finestra, e... e un fruscìo di pantofole nel corridòio davanti alla sua stanza.

Guardò il paletto della sua porta sollevarsi dal gancio, poi la porta si socchiuse con uno scricchiolio di protesta. Silenzio. Una sagoma scura entrò nella stanza, la porta si chiuse, e Roran sentì una pioggia di capelli di seta sfiorargli il viso, poi due labbra delicate come petali di rosa. Sospirò.

Katrina.

Un boato fragoroso strappò Roran dal sonno.

Una luce violenta lo investì mentre cercava di riprendere coscienza, come un tuffatore disperato che tenta di risalire in superficie. Aprì gli occhi e vide uno squarcio nella porta. Sette soldati entrarono dal varco, seguiti dai due Ra'zac, che sembravano riempire la stanza con la loro presenza spettrale. La punta di una spada si posò sulla gola di Roran. Al suo fianco, Katrina gridò e strinse a sé le coperte.

«Alzati!» ordinò un Ra'zac. Roran si mise in piedi lentamente. Il cuore gli batteva tanto da esplodergli nel petto. «Legategli le mani e portatelo via.»

Quando un soldato si avvicinò a Roran con una corda, Katrina gridò di nuovo e si avventò sugli uomini, mordendo e graffiando con furia inaudita. Le sue unghie affilate penetrarono nella carne, lasciando lunghi solchi sanguinanti che accecarono gli uomini.

Roran s'inginocchiò di colpo e afferrò il martello da sotto il letto, poi si rialzò fulmineo e roteò l'arma sopra la testa, ruggendo come un orso. I soldati si gettarono su di lui nel tentativo di bloccarlo, ma invano: Katrina era in pericolo, e lui era invincibile. Gli scudi e gli elmi si deformavano sotto i suoi colpi, le cotte di maglia e le brigantine si frantumavano sotto la sua arma spietata. Due uomini rimasero feriti, e altri tre caddero per non rialzarsi più.

Il trambusto aveva svegliato la casa; Roran udì vagamente Horst e i suoi figli che gridavano in corridòio. I Ra'zac sibilarono, poi si avventarono su Katrina e la sollevarono di peso, dileguandosi in un batter d'occhio. «Roran!» gridò la ragazza.

Facendo appello a tutte le sue energie, Roran caricò i due uomini rimasti per imboccare la porta. Piombò in corridòio e vide i Ra'zac scavalcare una finestra. Roran si precipitò verso di loro e colpì l'ultimo Ra'zac proprio mentre stava per saltare dal davanzale. Con uno scatto repentino, il Ra'zac afferrò il polso di Roran a mezz'aria e trillò di gusto, soffiandogli il suo alito fetido sul viso. «Sssì! Tu ssei quello che vogliamo!»

Roran tentò di liberare il braccio, ma il Ra'zac non mollava. Con la mano libera, tempestò di pugni la testa e le spalle della creatura, che erano dure come ferro. Disperato e furibondo, afferrò l'orlo del cappuccio del Ra'zac e tirò, scoprendogli il volto.

Vide una faccia raccapricciante e deforme che gli gridava addosso. La pelle era nera e lucida come il carapace di uno scarafaggio. La testa era calva. Gli occhi privi di palpebre erano grandi quanto il suo pugno e scintillavano come sfere di lucida ematite; non avevano né iridi né pupille. Al posto del naso, della bocca e del mento sporgeva un becco adunco che terminava con una punta aguzza che schioccava su un'ispida lingua violacea.

Roran strillò e piantò i piedi contro i lati della finestra, lottando per liberarsi da quella mostruosità, ma il Ra'zac lo trascinava inesorabile fuori della casa. Roran vide Katrina in basso, che urlava e si divincolava.

Proprio mentre le ginocchia gli cedevano, comparve Horst alle sue spalle, che lo cinse con le braccia, tenendolo fermo. «Qualcuno prenda una lancia!» gridò il fabbro. Sbuffava come un mantice, le vene del collo gonfie per lo sforzo di reggere Roran. «Ci vorrà ben altro che questa feccia infernale per fermarci!»

Il Ra'zac provò con uno strattone finale a tirare giù Roran, ma vedendo che era inutile, allungò il becco e disse: «Sssei nossstro!» Scattò in avanti con rapidità sorprendente e Roran ululò quando sentì il becco del Ra'zac che gli affondava nel muscolo della spalla destra. Nello stesso momento il suo polso si spezzò. Con una perversa risata gracchiante, il Ra'zac lo lasciò andare e si lasciò cadere, inghiottito dall'oscurità.

Roran e Horst caddero l'uno addosso all'altro nel corridòio. «Hanno preso Katrina» ringhiò Roran. La vista gli si offuscò e nel buio esplosero mille puntini luminosi quando tentò di rialzarsi facendo leva sulla mano sinistra. La destra penzolava inerte. Albriech e Baldor emersero dalla sua stanza, macchiati di sangue. Dietro di loro non restavano che cadaveri. Ora ne ho uccisi otto. Roran recuperò il martello e si avviò barcollante per il corridòio per trovarsi la strada sbarrata da Elain, in camicia da notte bianca.

Lei lo guardò con gli occhi sgranati, poi gli prese il braccio e lo fece sedere su un baùle di legno addossato alla parete. «Devi farti vedere da Gertrude.»

«Ma...»

«Se continui a sanguinare così, morirai.»

Roran si guardò il fianco destro: era inzuppato di sangue. «Dobbiamo salvare Katrina prima...» strinse i denti per il dolore straziante, «... prima che le facciano del male.»

«Ha ragione. Non possiamo aspettare» disse Horst, torreggiando su di loro. «Fascialo come meglio puoi, poi andremo.» Elain serrò le labbra, e corse all'armadio della biancheria. Tornò con diversi pezzi di stoffa che avvolse stretti intorno alla spalla lacerata di Roran e al polso fratturato. Nel frattempo Albriech e Baldor sottrassero armature e spade ai soldati morti. Horst si accontentò di una lancia.

Elain appoggiò le mani al torace del marito e disse: «Siate prudenti.» Guardò i figli. «Tutti voi.»

«Andrà tutto bene, mamma» promise Albriech. Elain abbozzò un sorriso forzato e li baciò sulle guance. Uscirono di corsa dalla casa e puntarono ai margini di Carvahall, dove scoprirono che lo sbarramento di alberi era stato aperto e l'uomo di guardia, Byrd, ucciso. Baldor s'inginocchiò per esaminare il corpo, e con voce strozzata disse: «È stato pugnalato alle spalle.» Roran lo udì a stento, con il fragore del sangue che gli pompava nelle orecchie. In preda alle vertigini, si appoggiò a una casa e ansimò.

«Altolà! Chi siete?»

Dalle loro postazioni lungo il perimetro di Carvahall, le altre sentinelle si radunarono intorno al compagno ucciso, formando un capannello di lanterne schermate. Sottovoce, Horst raccontò loro dell'attacco e del rapimento di Katrina. «Chi viene con noi?» domandò. Dopo un breve scambio di frasi, cinque uomini acconsentirono ad accompagnarli; il resto sarebbe rimasto a sorvegliare la breccia aperta nello sbarramento e a svegliare il villaggio.

Con una spinta, Roran si scostò dal muro della casa e raggiunse la testa del gruppo, che si incamminò furtivo attraverso i campi e giù per la valle, verso l'accampamento dei Ra'zac. Ogni passo era un tormento, ma non gl'importava; niente aveva importanza, tranne Katrina. Inciampò, e Horst lo prese al volo per il gomito, senza dire una parola.

A mezzo miglio di distanza da Carvahall, Ivor individuò una sentinella su una bassa collinetta, che li costrinse a una lunga deviazione. Un centinaio di iarde più avanti il rosso bagliore delle torce si fece visibile. Roran alzò il braccio sano per rallentare l'avanzata, poi si chinò e cominciò a strisciare acquattato nell'erba alta, spaventando una lepre. Gli uomini lo imitarono e lo seguirono fino ai margini di un boschetto di stiance, dove Roran si fermò e separò la cortina di steli per osservare gli ultimi tredici soldati.

Lei dov'è?

Al contrario di quando erano arrivati la prima volta, i soldati erano laceri ed esausti, le armi graffiate e le corazze ammaccate. Quasi tutti ostentavano bende macchiate di bruno sangue rappreso. Gli uomini erano ammassati insieme, di fronte ai due Ra'zac - entrambi incappucciati intorno a un falò da campo.

Uno stava gridando: «... più della metà di noi uccisi da un branco di bifolchi pidocchiosi che non sanno distinguere una picca da una scure, o trovare la punta di una spada nemmeno se ce l'hanno piantata nelle budella, perché voi non avete nemmeno un'oncia del cervello del mio scudiero! Non m'importa se Galbatorix in persona vi lustra gli stivali con la lingua, noi non muoveremo più un dito se non avremo un nuovo comandante.» Gli uomini annuirono. «Uno che sia umano.»

«Sssul ssserio?» sibilò piano un Ra'zac.

«Ne abbiamo abbastanza di prendere ordini da due storpi come voi, con tutti i vostri schiocchi e fischi e sibili... ci date la nausea! E non so cosa avete fatto a Sardson, ma se resterete un'altra notte, vi pianteremo l'acciaio in corpo per vedere se sanguinate come noi. Ma potete lasciare la ragazza, che...»

L'uomo non ebbe possibilità di proseguire, perché il Ra'zac più grosso gli saltò addosso volando sul fuoco, come un corvo gigantesco. Urlando, il soldato crollò sotto il suo peso. Tentò di sguainare la spada, ma il Ra'zac lo colpì due volte alla gola con il becco nascosto, e l'uomo giacque immobile.

«Dobbiamo combattere con quelli?» mormorò Ivor alle spalle di Roran.

I soldati rimasero impietriti dallo spavento, mentre i Ra'zac si abbeveravano al collo del cadavere. Quando le nere creature si alzarono, si strofinarono le mani, e dissero: «Sssì. Ce ne andremo. Voi ressstate, ssse volete. I rinforzi arriveranno a giorni.» I Ra'zac reclinarono indietro la testa e cominciarono a gridare al cielo, uno strido sempre più acuto fino a superare la soglia dell'udito.

Roran alzò lo sguardo. Lì per lì non vide niente, ma poi un terrore senza nome lo afferrò nello scorgere due ombre frastagliate comparire sulla Grande Dorsale, eclissando le stelle. Avanzavano rapide, diventando sempre più grosse fino a oscurare metà del cielo con la loro lugubre presenza. Un vento rancido spazzò la terra, portando con sé miasmi sulfurei che fecero tossire Roran fino a farsi venire i conati.

I soldati ne furono altrettanto ammorbati; le loro maledizioni riecheggiarono nella notte, mentre si premevano maniche e sciarpe sul naso.

Sopra di loro, le ombre si fermarono e cominciarono a discendere a spirale, chiudendo l'accampamento sotto una volta di tenebre minacciose. Le torce languenti tremolarono e rischiarono di spegnersi, ma illuminarono ugualmente le due bestie che atterravano fra le tende.

I loro corpi erano nudi e glabri, come di topi appena nati, la pelle grigia e coriacea, tesa sui toraci e sui ventri nervati. Nell'aspetto ricordavano due cani smunti e affamati, ma le zampe posteriori erano dotate di muscoli possenti in grado di schiantare un macigno. Le teste oblunghe recavano sulla nuca una cresta sottile, cui faceva da contraltare un lungo e diritto becco nero, adatto a infilzare le prede, su cui spiccavano un paio di gelidi occhi bulbosi identici a quelli dei Ra'zac. Dalle spalle e dai dorsi partivano enormi ali che facevano gemere l'aria con i loro battiti imperiosi. Gettandosi a terra, i soldati si strinsero gli uni agli altri, nascondendosi il volto per non vedere i mostri. Una terribile, aliena intelligenza emanava da quelle creature, narrando di una razza molto più antica e molto più potente di quella umana. All'improvviso Roran ebbe paura che la missione potesse fallire. Dietro di lui, Horst sussurrò agli uomini di restare immobili e nascosti, o sarebbero stati uccisi.

I Ra'zac s'inchinarono davanti alle bestie, poi s'infilarono in una tenda e ne uscirono portando Katrina - legata con delle corde - e Sloan. Il macellaio camminava libero.

Roran rimase a bocca aperta, incapace di comprendere come mai Sloan fosse stato catturato. Casa sua non è vicina a quella di Horst. Poi lo folgorò un pensiero. «Ci ha traditi» mormorò con un filo di voce. La mano si strinse lentamente sull'impugnatura del martello nel sentirsi travolto da tutto l'orrore della situazione. «Ha ucciso Byrd e ci ha traditi!» Lacrime di rabbia gli solcarono il viso.

«Roran» mormorò Horst, accovacciandosi al suo fianco. «Non possiamo attaccare adesso; ci ucciderebbero. Roran... mi senti?»

Roran non udiva che un fievole sussurro in lontananza, mentre osservava il Ra'zac più piccolo balzare in groppa a una bestia per poi afferrare Katrina, che l'altro Ra'zac gli porgeva. Sloan aveva l'aria sconvolta e terrorizzata, adesso. Cominciò a protestare con i Ra'zac, scuotendo il capo e indicando il suolo. Alla fine, un Ra'zac lo colpì sulla bocca, scaraventandolo a terra privo di sensi. Montando in groppa alla seconda bestia con il macellaio sotto il braccio, il Ra'zac più grosso dichiarò: «Torneremo quando la sssituazione sssarà di nuovo sssicura. Uccidete il ragazzo, e perderete la vita.» Poi le bestie mostruose piegarono le cosce possenti e spiccarono il volo, tornando a essere ombre contro il firmamento stellato.

Roran si sentiva svuotato di parole ed emozioni. Era distrutto. Non gli restava altro che uccidere i soldati. Si alzò, brandendo il martello per prepararsi alla carica, ma quando fece il primo passo, la spalla ferita gli esplose in un'ondata di dolore che si propagò fino alla testa, il terreno turbinò in un vortice di luce, e lui cadde nell'oblio.

Un cuore trafitto

Dopo aver lasciato l'avamposto di Ceris, il tempo trascorse in una serie di tiepide e lente giornate, passate a remare lungo il lago Eldor e, in seguito, il fiume Gaena. L'acqua mormorava intorno a loro, scorrendo in una galleria di pini verdeggianti che s'inoltrava sempre più nel cuore della Du Weldenvarden.

A Eragon piaceva moltissimo viaggiare con gli elfi. Narì e Lifaen non facevano che sorridere, oppure ridere, o intonare canzoni, specie quando c'era Saphira nei paraggi. Di rado guardavano altrove o parlavano di un altro argomento se non di lei, in sua presenza.

Tuttavia gli elfi non erano umani, nonostante le vaghe somiglianze nell'aspetto. Si muovevano troppo in fretta, con troppa agilità per essere creature fatte di semplice carne e sangue. E quando parlavano, spesso usavano frasi involute e aforismi che lasciavano Eragon più confuso di quando avevano cominciato. Fra uno scoppio d'ilarità e l'altro, Narì e Lifaen rimanevano in silenzio per ore, osservando l'ambiente attorno con un'espressione di raggiante rapimento sul volto. Se Eragon od Orik provavano a parlare con loro durante questi periodi di contemplazione, ricevevano in risposta al massimo una parola o due.

Al confronto, Arya era molto più loquace e schietta. A dire il vero, sembrava a disagio davanti a Nari e Lifaen, come se non fosse più sicura di come comportarsi con quelli della sua razza.

Dalla prua della canoa, Lifaen si guardò indietro e disse:

«Dimmi, Eragon-finiarel... Cosa canta il tuo popolo di questi tempi bui? Ricordo le epiche e le ballate che ascoltavo a Ilirea - saghe dei vostri grandi re e nobili - ma è stato tanto, tanto tempo fa, e le memorie sono come fiori avvizziti nella mia mente. Quali nuove opere ha creato la tua gente?»

Eragon aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare i titoli delle storie che recitava Brom. Quando Lifaen li udì, scrollò il capo avvilito e disse: «Quante cose sono andate perdute. Non sopravvivono più le ballate di corte, e se quanto dici corrisponde al vero, nemmeno più la vostra storia o la vostra arte, tranne quei pochi racconti di fantasia che Galbatorix permette di tramandare.»

«Una volta Brom ci raccontò della caduta dei Cavalieri» disse Eragon, sulla difensiva. Nella mente gli balenò l'immagine di un cervo che superava d'un balzo un tronco caduto, inviata da Saphira che era andata a caccia. «Ah, che uomo coraggioso.» Lifaen continuò a pagaiare in silenzio per un minuto. «Anche noi cantiamo della caduta dei Cavalieri... ma di rado. La maggior parte di noi erano vivi quando Vrael entrò nel vuoto, e ancora piangiamo le nostre città incendiate... i gigli rossi di Ewayéna, i cristalli di Luthivira... e le nostre famiglie uccise. Il tempo non può lenire il dolore di quelle ferite, nemmeno se passassero un milione di anni e il sole si spegnesse, lasciando il mondo immerso in una notte eterna.»

Orik borbottò a poppa. «Lo stesso vale per i nani. Ricorda, elfo, che abbiamo perso un intero clan per mano di Galbatorix.»

«E noi perdemmo il nostro re, Evandar.»

«Non ne ho mai sentito parlare» disse Eragon, sorpreso.

Lifaen annuì e governò la canoa rasente uno scoglio semisommerso. «Pochi lo sanno. Brom avrebbe potuto parlartene; lui c'era quando venne inferto il colpo fatàle. Prima della morte di Vrael, gli elfi affrontarono Galbatorix sulle pianure di Ilirea, nel nostro ultimo tentativo di sconfiggerlo. Lì Evandar...»

«Dove si trova Ilirea?» domandò Eragon.

«È Urù'baen, ragazzo» rispose Orik. «Un tempo era una città elfica.»

Imperturbabile malgrado l'interruzione, Lifaen continuò. «Come hai detto, Ilirea era una delle nostre città. Venne abbandonata durante la nostra guerra contro i draghi, e in seguito, dopo parecchi secoli, gli umani l'adottarono come propria capitale, dopo che re Palancar venne esiliato.»

«Re Palancar?» esclamò Eragon. «Chi era? È da lui che prese il nome la Valle Palancar?»

Questa volta l'elfo si voltò con un sorrisino divertito. «Hai tante domande quante foglie su un albero, Argetlam.» «Brom era della stessa opinione.»

Lifaen sorrise, restando in silenzio, come se stesse dando ordine ai propri pensieri. «Quando i tuoi antenati arrivarono in Alagaésia, ottocento anni fa, vagabondarono in lungo e in largo, in cerca di un posto adatto per vivere. Alla fine si stabilirono nella Valle Palancar, anche se non si chiamava così, allora, poiché era uno dei pochi luoghi difendibili che non avevamo occupato noi né i nani. Lì il vostro re, Palancar, cominciò a porre le basi di un potente regno. «Nel tentativo di espandere i confini, ci dichiarò guerra, benché noi non gli avessimo offerto alcun pretesto. Tre volte attaccò, e per tre volte annientammo il suo esercito. La nostra forza spaventò i nobili di Palancar, che implorarono il loro sovrano di fare la pace. Lui ignorò il loro consiglio. Allora i nobili ci offrirono un trattato, che firmammo all'insaputa del re.

«Con il nostro aiuto, Palancar fu detronizzato e bandito, ma lui, la sua famiglia e i loro vassalli si rifiutarono di lasciare la valle. Poiché non avevamo desiderio di ucciderli, costruimmo la torre di Ristvak'baen, perché i Cavalieri potessero sorvegliare Palancar e assicurarsi che non provasse più a riprendersi il potere o ad attaccare altri popoli di Alagaésia. «Non passò molto che Palancar fu assassinato da un figlio che non volle aspettare che la natura facesse il suo corso. Da quel momento in poi, la politica di famiglia fu tutto un susseguirsi riducendo il casato di Palancar all'ombra della sua grandezza di un abbandonarono mai quei luoghi, e il sangue dei re ancora scorre a Therinsford e a Carvahall.»

«Capisco» disse Eragon.

Lifaen inarcò un sopracciglio scuro. «Capisci? Significa molto più di quanto credi. Fu questo evento che convinse Anurin, il predecessore di Vrael come capo dei Cavalieri, a consentire agli umani di diventare Cavalieri, allo scopo di scongiurare altri conflitti.»

Orik scoppiò in una rauca risata. «Immagino che si sia sollevato un gran polverone.»

«Fu una decisione impopolare» ammise Lifaen. «Ancora oggi alcuni ne mettono in dubbio l'opportunità. Le tensioni fra Anurin e la regina Dellanir arrivarono a tal punto che Anurin decise di scindersi dal nostro governo e di condurre i Cavalieri a Vroengard, come entità indipendente.»

«Ma se i Cavalieri si separarono dal vostro governo, come potevano garantire la pace, ossia lo scopo per cui erano stati istituiti?» chiese Eragon.

«Non poterono» disse Lifaen. «Non finché la regina Dellanir non comprese che era fondamentale che i Cavalieri fossero indipendenti da qualunque signore o sovrano, e li riammise nella Du Weldenvarden. Ma non accettò mai il fatto che ci fosse un'autorità indipendente dalla sua.»

Eragon si accigliò. «Ma non era soltanto questo, vero?»

«Sì e no. Il compito dei Cavalieri era prevenire gli errori e garantire la pace fra i diversi governi e le razze, ma chi controllava i controllori? Fu questo il vero problema all'origine della loro caduta. Non c'era nessuno in grado di di omicidi, tradimenti e altre depravazioni,

tempo. Tuttavia i suoi discendenti non individuare le lacune nel sistema dei Cavalieri, poiché erano al di sopra di ogni indagine e giudizio, e così perirono.» Eragon continuava a pagaiare - prima da un lato, poi dall'altro - riflettendo sulle parole di Lifaen. Il remo gli vibrava nelle mani quando fendeva l'acqua. «Chi succedette a Dellanir come re o regina?»

«Fu Evandar. Salì al trono nodoso cinquecento anni fa, quando Dellanir abdicò per studiare i misteri della magia, e vi restò fino alla morte. Ora è la sua compagna, Islanzadi, che ci governa.»

«Ma è...» Eragon si fermò con la bocca aperta. Stava per dire impossibile, ma poi si rese conto di quanto ridicola sarebbe suonata la sua affermazione. Chiese invece: «Gli elfi sono immortali?»

Con voce soave, Lifaen rispose: «Un tempo eravamo come voi, delicati ed effimeri come la rugiada del mattino. Ora la nostra vita si allunga senza fine attraverso i secoli. Sì, siamo immortali, anche se restiamo vulnerabili alle ferite della carne.»

«Siete diventati immortali? Come?» L'elfo si rifiutò di rispondere, anche se Eragon insisteva per avere altri dettagli. Alla fine si accontentò di chiedere: «Quanti... quanti anni ha Arya?»

Lifaen posò i suoi occhi scintillanti su di lui, scrutando Eragon con sconcertante acutezza. «Arya? Quale interesse provi per lei?»

«Io...» Eragon si trovò a corto di parole, all'improvviso insicuro di ciò che provava. La sua attrazione per Arya era complicata dal fatto che lei era un'elfa, e che la sua età, qualunque fosse, doveva essere molto più avanzata della sua. Deve considerarmi un bambino. «Non lo so» rispose con sincerità. «Ma ha salvato la mia vita e quella di Saphira, e sono curioso di sapere qualcosa di più su di lei.»

«Mi vergogno» disse Lifaen, soppesando ogni parola «di averti fatto quella domanda. Fra di noi, è ritenuto scortese indagare sulle faccende degli altri... Solo che vorrei consigliarti, e credo che Orik sia d'accordo con me, di tenere a freno il tuo cuore, Argetlam. Non è questo il momento di perderlo, e la collocazione che vorresti dargli non è adeguata.» «Già» grugnì Orik.

Eragon si sentì avvampare, mentre il sangue gli affiorava alle guance scorrendo nelle vene come pece bollente. Prima di poter ribattere, Saphira entrò nella sua mente e disse: E adesso è il momento di tenere a freno la lingua. Le loro intenzioni sono oneste. Non insultarli.

Eragon trasse un profondo respiro e cercò di liberarsi dall'imbarazzo. Sei d'accordo con loro?

Eragon, io credo che tu sia pieno d'amore e che stia cercando qualcuno che ricambi il tuo sentimento. Non c'è nulla da vergognarsi in questo.

Il giovane si sforzò di accettare le sue parole, poi alla fine disse: Torni presto?

Sono già sulla strada.

Riportando la sua attenzione lì dove si trovava, Eragon si accorse che sia l'elfo che il nano lo stavano osservando. «Comprendo la vostra preoccupazione... ma ancora non hai risposto alla mia domanda.»

Lifaen esitò. «Arya è piuttosto giovane. È nata un anno prima della distruzione dei Cavalieri.»

Cento anni! Benché si fosse aspettato una cifra del genere, Eragon rimase ugualmente colpito. Nascose il suo stupore dietro un'espressione vacua, pensando: Potrebbe avere pronipoti più vecchi di me! Rimase in silenzio a rimuginare sulla scoperta per qualche minuto, poi, per distrarsi, disse: «Hai detto che gli umani scoprirono Alagaèsia ottocento anni fa. Ma Brom mi ha detto che arrivarono tre secoli dopo la formazione dei Cavalieri, ossia migliaia di anni fa.» «Duemilasettecentoquattro anni fa, secondo il nostro computo» intervenne Orik. «Brom aveva ragione, se consideri una sola nave con venti guerrieri come l'arrivo degli umani in Alagaèsia. Sbarcarono nel sud, dove si trova adesso il Surda. Ci incontrammo mentre noi eravamo in esplorazione, e ci scambiammo doni, ma poi loro partirono e noi non vedemmo più un umano per quasi due millenni, finché re Palancar non arrivò con un'intera flotta al seguito. Gli umani si erano del tutto dimenticati di noi, tranne che per qualche vaga storia di irsuti uomini-dellemontagne che rapivano i bambini di notte. Bah!»

«Sai da dove veniva Palancar?» chiese Eragon.

Orik aggrottò la fronte e si mangiucchiò la punta di un baffo, poi fece no con la testa. «Le nostre storie dicono solo che la sua patria era nel lontano sud, oltre i Beor, e che il suo esodo fu la conseguenza di una guerra e della carestìe.» Eccitato da un'idea, Eragon esclamò: «Allora forse ci sono altri paesi che potrebbero aiutarci nella guerra contro Galbatorix!»

«Può darsi» disse Orik. «Ma sarebbe difficile trovarli, anche a dorso di drago, e dubito che parleresti la stessa lingua. In ogni caso, chi vorrebbe aiutarci? I Varden hanno ben poco da offrire a un altro paese, ed è già abbastanza arduo muovere un esercito dal Farthen Dùr a Urù'baen, figurati spostare truppe da centinaia, se non migliaia di leghe di distanza.»

«E comunque non possiamo fare a meno di te» disse Lifaen a Eragon.

«Ma io...» Eragon s'interruppe quando Saphira comparve sul fiume, seguita da un furibondo stormo di passeri e merli che volevano tenerla lontana dai loro nidi. Allo stesso tempo, un coro di squittii si levò dalle schiere di scoiattoli nascosti fra i rami.

Lifaen s'illuminò e disse: «Non è splendida? Guardate come le sue squame catturano la luce! Non c'è tesoro al mondo che si possa paragonare a questo spettacolo.» Dall'altra canoa, Nari espresse analoghi apprezzamenti. «Già, magnificamente magnifico» borbottò Orik sotto i baffi. Eragon nascose un sorriso, anche se non poteva dar torto al nano: sembrava che gli elfi non ne avessero mai abbastanza di lodare Saphira.

Non c'è niente di male in qualche complimento, disse Saphira, che ammarò sollevando un ventaglio di spruzzi e tuffò la testa sotto la superficie per evitare un passero in picchiata.

Assolutamente niente, disse Eragon.

Saphira gli scoccò un'occhiata torva da sotto l'acqua. Era sarcasmo, quello?

Eragon ridacchiò e lasciò correre. Guardando l'altra canoa, vide Arya che pagaiava, la schiena dritta, il volto imperscrutabile, illuminata dai raggi del sole che filtravano dai rami muschiosi. Sembrava così cupa e assorta che gli fece venire voglia di consolarla. «Lifaen» disse sotto voce, perché Orik non lo sentisse, «perché Arya è così... infelice? Tu e...»

Le spalle di Lifaen s'irrigidirono sotto la tunica color ruggine e mormorò, così piano che Eragon lo udì a stento: «Siamo onorati di servire Arya Dròttningu. Ha sofferto molto più di quanto tu possa immaginare per il nostro popolo. Esultiamo di gioia per quanto è riuscita a compiere con Saphira, e piangiamo nei nostri sogni per il suo sacrificio... e la sua perdita. Le sue sofferenze sono le nostre, ma non posso rivelartele senza il suo permesso.»

Mentre era seduto presso il falò da campo, accarezzando un sasso coperto di muschio vellutato come pelo di coniglio, Eragon sentì un trambusto nella foresta. Scambiandosi un'occhiata con Saphira e Orik, s'incamminò furtivo verso il suono, con Zar'roc sguainata.

Si fermò sul ciglio di un piccolo burrone e guardò dall'altra parte, dove un girfalco con un'ala spezzata si trascinava in un letto di vischio. Il predatore s'impietrì nel vederlo, poi aprì il becco e lanciò uno strido lacerante. Che terribile fato, non poter più volare, disse Saphira.

Quando arrivò Arya, guardò il girfalco, poi incoccò una freccia all'arco e, con mira perfetta, lo trafisse al cuore. Lì per lì, Eragon pensò che lo avesse fatto per procacciare del cibo, ma l'elfa non accennò nemmeno ad andare a prendere l'uccello o la sua freccia.

«Perché?» domandò.

Con espressione dura, Arya s'infilò l'arco a tracolla e disse: «Era una ferita troppo grave perché potessi guarirla, e sarebbe morto fra stanotte e domattina. È la natura delle cose. Gli ho risparmiato ore di agonia.»

Saphira abbassò la testa e sfiorò Arya sulla spalla con il muso, poi tornò all'accampamento, la coda guizzante che strappava brani di corteccia dagli alberi. Quando Eragon fece per seguirla, si sentì tirare una manica da Orik, e si chinò ad ascoltare il nano che a bassa voce commentò: «Mai chiedere aiuto a un elfo. Potrebbe decidere che è meglio se muori, eh?»

Il canto di Dagshelgr

Benché stanco per le fatiche della giornata precedente, Eragon si costrinse ad alzarsi prima dell'alba nel tentativo di sorprendere uno degli elfi ancora addormentato. Era diventata una specie di gara per lui riuscire a svegliarsi prima degli elfi - se mai dormivano - per coglierli almeno una volta con gli occhi chiusi. Ma quel giorno non andò diversamente dagli altri.

«Buongiorno» lo salutarono Nari e Lifaen dall'alto. Eragon reclinò indietro la testa e vide che i due erano in piedi sul ramo di un pino, a circa cinquanta piedi dal suolo. Volteggiando di ramo in ramo con grazia felina, gli elfi saltarono a terra accanto a lui.

«Eravamo di vedetta» spiegò Lifaen.

«Perché?»

Arya comparve da dietro un tronco e disse: «Per i miei timori. Nella Du Weldenvarden ci sono molti misteri e pericoli, specie per un Cavaliere. Viviamo qui da migliaia di anni, e antichi sortilegi ancora aleggiano in luoghi inaspettati; la magia permea l'aria, l'acqua e la terra. In certi luoghi ha infettato gli animali. A volte strane creature vagano per la foresta, e non tutte sono amichevoli.»

«Sono...» Eragon s'interruppe nel sentir formicolare il gedwéy ignasia. Il martello d'argento appeso al collo che gli aveva donato Gannel divenne bollente sulla sua pelle, e avvertì l'incantesimo dell'amuleto attingere alla sua energia. Qualcuno stava tentando di divinarlo.

È Galbatorix? s'interrogò, spaventato. Afferrò la catena e la tirò fuori dalla tunica, pronto a strapparsela dal collo se fosse diventato troppo debole. Dall'altra parte del campo, Saphira accorse al suo fianco, sostenendolo con la propria energia.

Un istante dopo, il calore abbandonò il martello, che tornò freddo al tatto. Se lo fece rimbalzare sul palmo, poi se lo rimise sotto i vestiti, e Saphira disse: I nostri nemici ci cercano.

Nemici? Non potrebbe essere stato qualcuno del Du Vrangr Gaia?

Credo che Rothgar abbia avvertito Nasuada di aver ordinato a Gannel di darti questa catena fatata... Potrebbe essere stata persino lei a suggerire l'idea.

Arya s'incupì quando Eragon le spiegò che cos'era accaduto. «A questo punto è ancor più importante raggiungere Ellesméra alla svelta, perché tu possa riprendere il tuo addestramento. Gli eventi in Alagaésia stanno precipitando, e temo che non avrai tempo sufficiente per i tuoi studi.»

Eragon avrebbe desiderato discuterne ancora, ma perse l'occasione nella fretta di smontare le tende. Caricate le canoe e spento il fuoco, continuarono a risalire il fiume Gaena.

Erano sull'acqua da appena un'ora quando Eragon notò che il fiume diventava sempre più ampio e profondo. Qualche minuto dopo, giunsero vicino a una cascata che riempiva la Du Weldenvarden con il suo rombo scrosciante. La cataratta era alta un centinaio di piedi e scorreva lungo una parete rocciosa con una cornice sporgente che rendeva impossibile l'arrampicata. «Come facciamo a passare?» Sentiva già gli spruzzi freddi sul viso.

Lifaen indicò la riva sinistra, a una certa distanza dalla cascata, dove l'uso aveva scavato un sentiero sul ripido rilievo. «Dovremo trasportare le canoe e le provviste per mezza lega prima di rimetterci sul fiume.»

I cinque slegarono i fagotti infilati sotto le panche delle canoe e divisero le provviste per infilarle negli zaini. «Uff» sbuffò Eragon sollevando il peso. Era due volte più pesante di quanto era abituato a trasportare di solito a piedi. Potrei portarli in volo oltre la cascata... tutti quanti, si offrì Saphira, strisciando sulla riva fangosa e scrollandosi l'acqua di dosso.

Quando Eragon ripete il suggerimento, Lifaen fece una faccia inorridita. «Non ci sogneremmo mai di usare un drago come bestia da soma. Sarebbe un disonore per te, Saphira, e per Eragon come Shur'rugai, e getterebbe la vergogna sulla nostra ospitalità.»

Saphira sbuffò, esalando una piccola fiammata dalle narici che creò una nube di vapore sulla superficie del fiume. Che sciocchezze. Scavalcando Eragon con una delle possenti zampe, infilò gli artigli negli spallacci degli zaini ammucchiati, e spiccò il volo. Prendetemi, se vi riesce!

Una risata argentina ruppe il silenzio, come il trillo di un usignolo. Sbigottito, Eragon si volse e guardò Arya. Era la prima volta che la sentiva ridere; amò quel suono. L'elfa sorrise a Lifaen. «Hai ancora molto da imparare se pensi di dire a un drago cosa può o non può fare.»

«Ma il disonore... »

«Non c'è disonore se Saphira lo fa di sua spontanea volontà» dichiarò Arya. «E adesso muoviamoci, senza perdere altro tempo.»

Sperando che lo sforzo non gli risvegliasse il dolore alla schiena, Eragon prese la canoa con Lifaen e se la mise in spalla. Fu costretto ad affidarsi all'elfo per seguire la pista, dato che vedeva soltanto il terreno sotto i suoi piedi. Un'ora dopo, arrivarono in cima al dislivello e oltrepassarono le pericolose acque spumeggianti fino a quando il Gaena tornò a essere calmo come uno specchio. Ad aspettarli c'era Saphira, impegnata a catturare pesci nell'acqua bassa, tuffando la testa triangolare nell'acqua come un airone.

Arya la chiamò e disse a lei e a Eragon: «Oltre la prossima ansa si trova il lago Ardwen e sulla sua sponda occidentale Silthrim, una delle nostre città più grandi. Superata quella, ancora una vasta estensione di foresta ci separa da Ellesméra. Incontreremo molti elfi vicino a Silthrim. Tuttavia non voglio che vedano nessuno di voi due finché non avremo parlato con la regina Islanzadi.»

Perché? chiese Saphira, anticipando il pensiero di Eragon.

Con la sua voce musicale, Arya rispose: «La vostra presenza rappresenta un enorme e terribile cambiamento per il nostro regno, e tali cambiamenti sono pericolosi se affrontati senza cautela. La regina dovrà essere la prima a incontrarvi. Soltanto lei possiede l'autorità e la saggezza per sovrintendere a questa transizione.» «Parli con grande stima di lei» commentò Eragon.

A queste parole, Narì e Lifaen si fermarono a guardare Arya con occhi vigili. Il volto di lei si oscurò, poi raddrizzò le spalle e disse fiera: «Il suo è un buon governo... Eragon, so che possiedi un mantello col cappuccio. Finché non saremo lontani da occhi indiscreti, vorrei che tu lo indossassi e tenessi il capo celato, perché nessuno veda le tue orecchie rotonde e capisca che sei umano.» Eragon annuì. «Saphira, tu dovrai nasconderti di giorno e raggiungerci di notte. Ajihad mi ha detto che facevi così nei territori dell'Impero.»

Già, e ne ho odiato ogni istante, ringhiò lei.

«È soltanto per oggi e per domani. Dopo, saremo abbastanza lontani da Silthrim da non doverci più preoccupare d'incontrare qualcuno» promise Arya.

Saphira rivolse il suo sguardo azzurro a Eragon. Quando siamo fuggiti dall'Impero, ho giurato che ti sarei sempre rimasta accanto per proteggerti. Ogni volta che mi allontano, succede sempre qualcosa di brutto: Yazuac, Daret, Dras-Leona, i mercanti di schiavi.

Non a Teirm.

Sai cosa voglio dire E non sopporto l'idea di lasciarti proprio adesso che non puoi difenderti, con quella schiena malandata.

Confido in Arya e negli altri, saranno loro a difendermi. Tu no?

Saphira esitò. Mi fido di Arya. Si volse e s'incamminò lungo la riva del fiume, dove si accucciò per un minuto; poi tornò. D'accordo. Trasmise il suo consenso ad Arya, aggiungendo: Ma non voglio aspettare oltre domani notte, nemmeno se in quel momento vi troverete al centro di Silthrim.

«Capisco» disse Arya. «Ma dovrai stare comunque attenta anche quando volerai col buio, poiché gli elfi hanno la vista acuta anche nelle notti più nere. Se ti avvistano per sbaglio, potrebbero attaccarti con la magia.» Splendido, commentò Saphira.

Mentre Orik e gli elfi caricavano di nuovo le provviste a bordo delle canoe, Eragon e Saphira esplorarono la foresta in cerca di un nascondiglio sicuro. Scelsero un avvallamento asciutto tra alcune rocce franate, ricoperto da un morbido tappeto di aghi di pino. Saphira si acciambellò sul terreno e fece un cenno con la testa. Va' pure. Io starò bene. Eragon le cinse il collo, attento a evitare le punte acuminate; poi si congedò a malincuore, continuando a guardarsi alle spalle. Sulla riva, indossò il mantello col cappuccio prima di riprendere il viaggio.

L'aria era immota quando raggiunsero il lago Ardwen, e la distesa d'acqua era liscia e piatta, uno specchio immacolato che rifletteva alberi e nuvole. L'illusione era così perfetta da dare a Eragon l'impressione di scorgere un altro mondo attraverso una finestra, e che le canoe sarebbero finite per sprofondare nel cielo riflesso. Rabbrividì al pensiero. Nella caligine che offuscava l'orizzonte, numerose imbarcazioni di corteccia di betulla sfrecciavano lungo le sponde, spinte a incredibile velocità dalla forza degli elfi. Eragon nascose la testa fra le spalle e si calò il bordo del cappuccio sul viso.

Il suo legame con Saphira diventava sempre più tenue a mano a mano che si allontanavano, finché soltanto un esile filamento di pensiero non rimase a collegarli. A sera, non riuscì più a percepire la sua presenza, pur sforzando al massimo la mente. All'improvviso, la Du Weldenvarden gli parve molto più solitària e desolata.

Con il calar delle tenebre, un miglio più avanti, comparve un grappolo di luci bianche, disseminate a diverse altezze fra gli alberi. Le luci sfolgoravano con la radiosità argentea della luna piena, misteriose e soprannaturali nella notte. «Quella è Sìlthrim» annunciò Lifaen.

Con un fievole sciabordio, un'imbarcazione scura li incrociò dalla direzione opposta, accompagnata dal "Kvetha Fricai" dell'elio al timone.

Arya accostò la sua canoa a quella di Eragon. «Ci fermeremo qui, stanotte.»

Si accamparono a una certa distanza dal lago Ardwen, dove il terreno era abbastanza asciutto per dormirci. Gli sciami di zanzare fameliche costrinsero Arya a evocare un incantesimo protettivo perché potessero mangiare in pace. Dopo cena, rimasero tutti e cinque seduti intorno al fuoco, fissando le fiamme dorate. Eragon appoggiò la testa a un albero e guardò una stella cadente solcare il cielo. Le sue palpebre stavano per chiudersi quando una voce di donna attraversò la foresta giungendo da Sìlthrim, un fievole sussurro che gli solleticò l'orecchio come una lanugine. Aggrottò la fronte e raddrizzò la schiena, per ascoltare meglio.

Come un filo di fumo che si infittisce quando un fuoco appena acceso divampa, così la voce crebbe sempre più d'intensità finché la foresta sospirò di una struggente, incostante melodia che alternava toni bassi e acuti in un selvaggio abbandono. Altre voci si fusero al canto ultraterreno, intrecciando centinaia di variazioni al tema originale. L'aria stessa sembrava vibrare al ritmo della musica tumultuosa.

Eragon si sentì percorrere la spina dorsale da brividi di euforia e terrore, suscitati dagli arcani motivi che gli ottenebravano i sensi, attirandolo nella notte vellutata. Sedotto dalle note misteriose, balzò in piedi e fece per slanciarsi nella foresta in cerca della sorgente di quelle voci, desideroso di danzare fra gli alberi e il muschio, di fare qualsiasi cosa pur di unirsi alla gioia degli elfi. Ma prima che potesse muovere un solo passo, Arya lo afferrò per un braccio e lo fece girare verso di lei. «Eragon! Sgombra la mente!» Lui si divincolò nel vano tentativo di liberarsi dalla sua stretta. «Eyddr eyreya onr!» Svuota le orecchie. All'improvviso ogni rumore cessò; era come se fosse diventato sordo. Smise di dibattersi e si guardò intorno, chiedendosi che cosa fosse successo. Dall'altra parte del falò, vide Lifaen e Nari che lottavano contro Orik, ma non sentì niente.

Eragon guardò la bocca di Arya muoversi mentre parlava, poi il suono tornò nel suo mondo con un pop, anche se non udiva più la musica. «Cosa...?» domandò, frastornato.

«Levatemi le zampe di dosso!» ringhiò Orik. Lifaen e Nari alzarono le mani e indietreggiarono.

«Ti chiedo perdono, Orik-vodhr» disse Lifaen.

Arya guardò verso Silthrim. «Ho contato male i giorni. Non volevo trovarmi vicino a nessuna città durante il Dagshelgr. I nostri festeggiamenti sono pericolosi per i mortali. Cantiamo nell'antica lingua, e le liriche intrecciano sortilegi di passione e struggimento a cui è difficile resistere, persino per noi elfi.»

Nari si agitò, a disagio. «Dovremmo trovarci in un boschetto.»

«Lo so» disse Arya, «ma faremo il nostro dovere e aspetteremo.»

Scosso, Eragon tornò a sedersi accanto al fuoco, desiderando la compagnia di Saphira; era sicuro che lei avrebbe protetto la sua mente dall'influsso della musica. «A che serve il Dagshelgr?» chiese.

Arya si sedette accanto a lui, a gambe incrociate. «Serve a mantenere la foresta sana e fertile. Ogni primavera cantiamo per gli alberi, cantiamo per le piante, e cantiamo per gli animali. Senza di noi, la Du Weldenvarden sarebbe la metà di come la vedi.» Come a conferma delle sue parole, uccelli, cervi, scoiattoli rossi e neri, tassi striati, volpi, conigli, lupi, rane, rospi, tartarughe e ogni altro animale nei pressi, abbandonarono i loro nascondigli per correre selvaggiamente intorno a loro in una cacofonia di versi e strida. «Cercano un compagno o una compagna» spiegò Arya. «In tutta la Du Weldenvarden, in tutte le nostre città, gli elfi intonano questa canzone. Più sono coloro che partecipano, più forte è l'incantesimo, e più prospera sarà la Du Weldenvarden quest'anno.»

Eragon ritrasse una mano di scatto quando un terzetto di porcospini gli trotterellò accanto a una coscia. L'intera foresta riecheggiava di suoni. Sono entrato nel mondo delle fiabe, si disse, cingendosi le ginocchia.

Orik si avvicinò al falò e alzò la voce per superare il frastuono. «Per la mia barba e la mia ascia, non mi farò controllare dalla magia contro la mia volontà. Se questo dovesse accadere di nuovo, Arya, giuro sulla cintura di pietra di Helzvog che tornerò nel Farthen Dùr e dovrete affrontare l'ira del Dùrgrimst Ingietum.»

«Non era mia intenzione farvi sperimentare il Dagshelgr» disse Arya. «Chiedo scusa per il mio errore. Tuttavia, anche se ti proteggo da questo incantesimo, non puoi sfuggire alla magia nella Du Weldenvarden. Essa permea ogni cosa.» «Purché non mi spappoli il cervello.» Orik scosse il capo e accarezzò il manico della sua ascia, scrutando le bestie selvatiche che strisciavano nelle ombre che lambivano il cono di luce del falò.

Nessuno dormì quella notte. Eragon e Orik rimasero svegli per il fracasso tremendo degli animali che continuavano a scorrazzare intorno alle tende; gli elfi perché ascoltavano la canzone. Lifaen e Narì tracciarono cerchi infiniti camminando inquieti, mentre Arya fissava la lontana Silthrim con espressione bramosa, la pelle scura tesa sugli zigomi. Dopo quattro ore di chiasso e movimento, Saphira scese dal cielo, gli occhi che le brillavano di una strana luce. Rabbrividì e inarcò il collo, ansimando con le fauci aperte. La foresta, disse, è viva. E io sono viva. Il sangue mi ribolle come mai prima d'ora. Lo sento bruciare come accade a te quando pensi ad Arya. Ora... capisco! Eragon le posò una mano sulla spalla, sentendo i brividi che la scuotevano; i suoi fianchi vibravano mentre la dragonessa mormorava a bocca chiusa la canzone. Artigliò il terreno con le unghie d'avorio, i muscoli contratti nello sforzo di restare immobile. La punta della coda guizzava, come se Saphira fosse pronta a balzare. Arya si alzò e si spostò dall'altro lato della dragonessa, mettendole una mano sull'altra spalla, e i tre rimasero così nel buio, uniti in una catena vivente.

Allo spuntar dell'alba, la prima cosa che Eragon notò furono i verdi germogli che spuntavano alle estremità dei rami. Si chinò ed esaminò le bacche bianche ai suoi piedi e scoprì che ogni pianta, grande o piccola, era cresciuta durante la notte. La foresta sfolgorava di nuovi, più ricchi colori: tutto era rigoglioso e fresco e pulito. L'aria aveva il profumo di quando è appena piovuto.

Saphira si stiracchiò al fianco di Eragon e disse: La... la febbre è passata; sono di nuovo me stessa. Ho sentito certe cose... Era come se il mondo stesse rinascendo e io partecipassi alla sua creazione con il fuoco dei miei lombi. Come stai? Dentro, voglio dire.

Mi ci vorrà del tempo per comprendere quanto ho sperimentato.

Dato che la musica era cessata, Arya sciolse l'incantesimo di protezione per Eragon e Orik e disse: «Lifaen. Nari. Andate a Silthrim a prendere dei cavalli per noi cinque. Non possiamo camminare fino a Ellesméra. Inoltre avvertite il capitano Damitha che Ceris ha bisogno di rinforzi.»

Narì s'inchinò. «E cosa le diremo quando ci chiederà perché abbiamo abbandonato il nostro posto?» «Ditele che ciò che un tempo sperava e temeva si è avverato; il wyrm si è morso la coda. Lei capirà.» I due elfi partirono per Silthrim dopo aver svuotato le canoe dalle provviste. Tre ore dopo, Eragon sentì uno schiocco secco e alzò lo sguardo, vedendoli tornare per la foresta in groppa a fieri stalloni bianchi, conducendone altri quattro identici. Le magnifiche bestie si muovevano fra gli alberi con grazia e intelligenza straordinarie; i loro mantelli rilucevano di riflessi smeraldini. Nessuno di loro aveva selle o briglie.

«Blòthr, blòthr» mormorò Lifaen, e il suo cavallo si fermò, scalpitando con gli zoccoli scuri.

«Tutti i vostri cavalli sono così eleganti?» chiese Eragon. Si avvicinò con cautela a uno di essi, colpito dalla sua bellezza. Gli animali erano poco più alti di un pony, il che rendeva loro più facile muoversi per la fitta foresta. Non sembravano spaventati da Saphira.

«Non tutti» rise Nari, scrollando gli argentei capelli, «ma la maggior parte sì. Li alleviamo da secoli.» «Come faccio a guidarli?»

Rispose Arya: «Un cavallo elfico risponde ai comandi nell'antica lingua; digli dove vuoi andare e lui ti ci porterà. Non trattarli mai con percosse o parole dure, poiché essi non sono nostri schiavi, ma amici e compagni. Ti portano solo perché vogliono farlo; è un grande privilegio cavalcarli. Io sono riuscita a salvare l'uovo di Saphira da Durza soltanto perché i nostri cavalli percepirono che qualcosa non andava e ci impedirono di finire dritti nell'agguato... Non ti faranno mai cadere, a meno che non tu non scelga di lanciarti, e sono capaci di scegliere la via più sicura e veloce sui terreni accidentati. Le Feldùnost dei nani sono molto simili.»

«Puoi ben dirlo» borbottò Orik. «Una Feldùnost è in grado di condurti su e giù per una rupe senza un solo graffio. Ma come facciamo a trasportare i viveri e le altre cose senza selle? Non posso cavalcare con un pesante zaino in spalla.» Lifaen gli gettò ai piedi una pila di bisacce vuote e indicò il sesto cavallo. «Non lo farai.»

Nari disse a Eragon e Orik le parole da usare per dirigere i cavalli. «Ganga fram per andare avanti, blòthr per fermarlo, hlaupa per lanciarlo al galoppo e ganga aptr per andare indietro. Puoi dargli istruzioni più precise, se conosci l'antica lingua.» Condusse Eragon davanti a un cavallo e disse: «Questo è Folkvir. Tendi la mano.»

Eragon lo fece, e lo stallone sbuffò, dilatando le froge. Folkvir annusò il palmo di Eragon, poi lo toccò col muso e gli permise di accarezzargli il collo muscoloso. «Bene»

disse Nari, soddisfatto. L'elfo fece altrettanto con Orik e un altro cavallo.

Quando Eragon montò su Folkvir, Saphira si avvicinò. Lui la guardò e notò quanto ancora era turbata per la notte passata. Ancora un giorno soltanto, le disse.

Eragon... La dragonessa fece una pausa. Ho pensato molto mentre ero sotto l'influenza dell'incantesimo elfico a qualcosa che ho sempre ritenuto di poca importanza, qualcosa che ora incombe su di me come una montagna di nera paura. Ogni creatura, che sia pura o mostruosa, ha un compagno della sua specie. Ma io no. Rabbrividì e chiuse gli occhi. Io sono sola.

La sua affermazione rammentò a Eragon che non aveva più di otto mesi. Nella maggior parte delle occasioni, la sua giovane età non si sentiva - grazie all'influenza dei suoi istinti e dei ricordi ancestrali - ma in questo campo era ancora più inesperta di lui, con i flebili palpiti di romanticismo che aveva provato a Carvahall e a Tronjheim. Si sentì muovere a compassione, ma la scacciò prima che potesse filtrare attraverso il loro legame mentale. Saphira avrebbe soltanto disprezzato quell'emozione: non poteva risolvere il problema né farla sentire meglio. Invece disse: Galbatorix possiede ancora due uova di drago. Durante il nostro primo colloquio con Rothgar, tu dicesti che avresti voluto recuperarle. Se riusciamo...

Saphira sbuffò amaramente. Potrebbero volerci anni, e se anche riuscissimo a prendere le uova, non è detto che si schiuderebbero, o che sarebbero maschi, o che sarebbero compagni adeguati. Il fato ha condannato la mia razza all'estinzione. Dimenò la coda in un impeto di frustrazione, spezzando un alberello. Sembrava pericolosamente vicina alle lacrime.

Che cosa posso dire? domandò lui, turbato dalla sua angoscia. Non puoi abbandonare la speranza. Hai ancora una probabilità di trovare un compagno, ma devi essere paziente. E se anche le uova di Galbatorix non dovessero andare bene, devono esistere altri draghi da qualche parte nel mondo, come gli umani, gli elfi o perfino gli Urgali. Nel momento in cui avremo assolto a tutti i nostri obblighi, ti aiuterò a cercarli. D'accordo?

D'accordo, accettò lei, tirando su col naso. Reclinò indietro la testa ed esalò una nuvoletta di fumo bianco che si disperse fra i rami. Non avrei dovuto farmi travolgere dalle emozioni.

Sciocchezze. Non sei fatta di pietra. È una cosa assolutamente normale... Ma promettimi di non rimuginarci sopra quando sei da sola.

Lei lo fissò con un occhio di zaffiro. Lo prometto. Lui si sentì rincuorato avvertendo la gratitudine della dragonessa per le sue rassicurazioni e la sua compagnia. Sporgendosi da Folkvir, le posò una mano sulla guancia ruvida e ve la lasciò per un momento. arrivederci, piccolo mio, mormorò lei. Ci vediamo stasera.

Eragon odiava l'idea di separarsi da lei in quello stato. A malincuore si addentrò nella foresta con Orik e gli elfi, dirigendosi a ovest, verso il cuore della Du Weldenvarden. Dopo un'ora passata a riflettere in silenzio sui crucci di Saphira, ne parlò con Arya.

Sottilissime rughe incresparono la fronte dell'elfa. «Questo è uno dei crimini più grandi di Galbatorix. Non so se esiste una soluzione, ma possiamo sperare. Dobbiamo sperare.»

La città fra i pini

Eragon si trovava nella Du Weldenvarden da così tanto tempo che cominciava ad aver voglia di radure, spazi aperti, magari addirittura una montagna, invece delle infinite schiere di alberi intervallate appena da sparuti cespugli. E non provava sollievo nemmeno durante i voli con Saphira poiché gli mostravano soltanto vaste colline verdeggianti che si susseguivano ininterrotte come un verde oceano.

Talvolta i rami erano così fitti che era impossibile capire da quale parte il sole sorgeva o tramontava. La mancanza del sole come riferimento e la monotonia del paesaggio lo facevano sentire smarrito, nonostante tutte le volte che Arya o Lifaen gli avevano indicato i punti cardinali. Se non fosse stato per gli elfi, sapeva che avrebbe potuto vagare per la Du Weldenvarden per il resto della sua vita senza mai trovarne l'uscita.

Quando pioveva, la coltre di nubi e la densità del fogliame li facevano piombare in una fitta tenebra, come se fossero sepolti sottoterra. L'acqua scrosciante si raccoglieva sugli aghi di pino per poi gocciolare dall'alto sulle loro teste come un migliaio di piccole cascate. In quelle occasioni, Arya evocava un globo sfavillante di magia verde che fluttuava sulla sua mano destra, unica fonte di luce nella buia foresta. Si fermavano e si rannicchiavano sotto un albero finché il temporale non cessava, ma anche ore dopo l'acqua intrappolata nella miriade di rami si riversava sul gruppo alla minima sollecitazione.

Più si addentravano nel cuore della Du Weldenvarden, più gli alberi diventavano alti e massicci, sebbene più distanziati per ospitare la maggiore ampiezza dei rami. I tronchi - nudi pilastri marroni che svettavano fino alla volta scanalata e nera di ombre - superavano i duecento piedi, molto più alti di qualsiasi albero della Grande Dorsale o dei Monti Beor. Eragon girò intorno alla base di un tronco e misurò una circonferenza di settanta piedi. Quando lo disse ad Arya, lei annuì. «Significa che siamo vicini a Ellesméra.» L'elfa allungò una mano e la posò su una radice contorta, come a toccare, con familiare delicatezza, la spalla di un amico o di un amante. «Questi alberi sono fra le più antiche creature viventi di Alagaésia. Gli elfi se ne sono innamorati la prima volta che vedemmo la Du Weldenvarden, e abbiamo fatto tutto quanto era in nostro potere per aiutarli a prosperare.» Un debole raggio di luce attraversò la volta smeraldina e bagnò il suo braccio e il suo viso d'oro liquido, facendoli risaltare sullo sfondo scuro. «Abbiamo viaggiato molto insieme, Eragon, ma soltanto adesso stai per entrare nel mio mondo. Cammina piano, poiché la terra e l'aria sono carichi di ricordi, e niente è come sembra... Non volare con Saphira quest'oggi, poiché abbiamo già attivato alcuni degli incantesimi di difesa che proteggono Ellesméra. Non sarebbe prudente lasciare il sentiero.» Eragon chinò la testa e tornò da Saphira, che giaceva raggomitolata su un letto di muschio, divertendosi a soffiare dalle narici nuvolette di fumo che poi guardava dissolversi in aria. Senza tanti preamboli, lei disse: Ormai c'è abbastanza spazio per me sul terreno. Non avrò difficoltà.

Bene. Eragon montò su Folkvir e seguì Orik e gli elfi sempre più nel folto della foresta deserta e silenziosa. Saphira strisciava al suo fianco. La dragonessa azzurra e i cavalli bianchi rilucevano nella cupa penombra. Eragon sostò per qualche minuto, soggiogato dalla solenne bellezza che lo circondava. Tutto emanava un senso di gelida antichità, come se nulla fosse cambiato nel corso dei secoli sotto l'intrico di aghi di pino, e nulla potesse cambiare; il tempo stesso sembrava essere caduto in una specie di torpore da cui non si sarebbe mai svegliato. Nel tardo pomeriggio, dall'oscurità emerse un elfo, illuminato da un raggio di luce che pioveva fra i rami. Indossava una lunga veste fluttuante e un cerchietto d'argento sulla fronte. Il suo volto era vecchio, nobile e sereno. «Eragon» mormorò Arya. «Mostragli il tuo palmo e il tuo anello.»

Togliendosi il guanto Eragon alzò la mano destra a mostrare prima l'anello di Brom e poi il gedwéy ignasia. L'elfo sorrise, chiuse gli occhi e allargò le braccia in segno di benvenuto.

«La via è libera» disse Arya, poi mormorò un dolce comando e il suo cavallo riprese a camminare. Aggirarono l'elfo come l'acqua di un torrente si divide intorno alla base di un macigno - e quando furono tutti passati, l'elfo abbassò le braccia e scomparve, mentre la luce che lo illuminava cessava di esistere.

Chi è? domandò Saphira.

«Gilderien il Saggio» rispose Arya, «Principe del Casato di Miolandra, depositario della Bianca Fiamma di Vàndil, e guardiano di Ellesméra fin dai tempi della Du Fyrn Skulblaka, la nostra guerra contro i draghi. Nessuno può entrare nella città senza il suo permesso.»

Un quarto di miglio più avanti, la foresta si diradò e nella volta di rami comparvero squarci da cui filtravano raggi di sole simili a sbarre di un cancello di luce. Proseguirono sotto due alberi nodosi, inclinati l'uno verso l'altro, e si fermarono ai margini di una radura deserta.

Il suolo era ricoperto da un tappeto di fiori: rose, campanule, gigli, tutti gli effimeri tesori della primavera scintillavano come cumuli di rubini, zaffiri e opali. Il loro profumo inebriante attirava sciami di bombi. A destra, un ruscello gorgogliava dietro una siepe di arbusti, mentre due scoiattoli si rincorrevano intorno a una roccia. Al principio Eragon pensò che fosse un luogo ideale per i cervi, ma continuando a osservare, cominciò a scorgere sentieri nascosti fra gli alberi e i cespugli; una calda luce soffusa dove normalmente avrebbero dovuto esserci ombre scure; strane conformazioni nella disposizione dei rami e dei fiori, così sottili che si vedevano appena: tutti indizi del fatto che quanto vedeva non era del tutto naturale. Batte le palpebre, e la sua visione cambiò all'improvviso, come se si fosse posto davanti agli occhi una lente che rendeva riconoscibili le sagome. Sì, quelli erano sentieri. E sì, quelli erano fiori. Ma ciò che aveva scambiato per gruppi di alberi contorti erano in realtà eleganti costruzioni che crescevano direttamente dai pini.

Il tronco di un albero aveva un rigonfiamento intorno alla base che formava una casa di due piani, prima di affondare le radici nel terriccio. Entrambi i piani erano esagonali, anche se quello superiore era grande la metà del primo, dando alla casa un aspetto terrazzato. I tetti e le pareti erano rivestiti di falde di legno intrecciate, addossate a sei robuste nervature in rilievo. Muschio e licheni gialli orlavano le grondaie e pendevano sulle finestre che si affacciavano su ciascun lato. La porta d'ingresso era una misteriosa sagoma nera incassata sotto un arco intagliato di simboli. Un'altra casa era annidata fra tre pini, uniti a essa mediante una serie di rami ricurvi. Rinforzata da questi bastioni aerei, la casa si ergeva per ben cinque piani, leggera ed eterea; al suo fianco si apriva un pergolato fatto di salice e sanguinella, con numerose lanterne senza fiamma a foggia di galle.

Ogni edificio si integrava perfettamente con l'ambiente circostante, fondendosi con la foresta senza linee di demarcazione evidenti, tanto che era impossibile dire dove finisse l'artificio e cominciasse la natura: i due erano in perfetto equilibrio. Invece di dominare l'ambiente, gli elfi avevano scelto di accettare il mondo com'era e di adattarsi a esso.

Alla fine, gli abitanti di Ellesméra si rivelarono con un debole movimento che Eragon colse con la coda dell'occhio, non più di un fruscìo di aghi nella brezza. Poi vide mani, un volto pallido, un piede che calzava un sandalo, un braccio alzato. Uno dopo l'altro, con aria circospetta, gli elfi si palesarono, gli occhi a mandorla fissi su Saphira, Arya ed Eragon.

Le donne portavano i capelli sciolti, che ricadevano sulle loro spalle in morbide onde d'argento e d'ebano intrecciate di fiori freschi. Tutte possedevano una delicata, eterea bellezza che dissimulava la loro forza straordinaria; sembravano prive di qualsiasi difetto. Gli uomini erano altrettanto attraenti, con zigomi alti, nasi diritti e palpebre pesanti. Sia i maschi che le femmine indossavano rustiche tuniche verdi e marroni, bordate con i colori dell'autunno: arancio, ruggine e oro.

Questo è davvero il Popolo Leggiadro, pensò Eragon, e si toccò le labbra in segno di saluto.

Come un sol uomo, gli elfi si inchinarono. Poi sorrisero e levarono risate di gioia sfrenata. Dal centro della folla, una donna intonò:

Gala O Wyrda brunhvitr, Abr Berundal vandr-fódhr, Burthro laufsblàdar ekar undir, Eom kona dauthleikr... Eragon si tappò le orecchie con le mani, temendo che la melodia fosse un incantesimo simile a quello che aveva udito a Sìlthrim, ma Arya scosse il capo e gli scostò le mani dal volto. «Non è magia.» Poi si rivolse al cavallo. «Ganga.» Lo stallone nitrì e trottò via. «Congedate i vostri cavalli. Non abbiamo più bisogno di loro ed essi meritano di riposarsi nelle nostre stalle.»

La canzone crebbe d'intensità mentre Arya avanzava lungo un sentiero lastricato di frammenti di tormalina verde, che serpeggiava fra i cespugli di malvone e le case e gli alberi per poi attraversare un ruscello. Gli elfi danzavano intorno al gruppo, girando su se stessi e ridendo come bambini giocosi; di tanto in tanto qualcuno saltava su un ramo per correre sopra le loro teste. Lodavano Saphira con nomi quali Lungartiglio oppure Figlia dell'Aria e del Fuoco o anche la Possente.

Eragon sorrideva estasiato. Potrei restare a vivere qui, si disse, pervaso da un grande senso di pace. Nascosto nel cuore della Du Weldenvarden, con tanto spazio aperto e tanti anfratti sicuri, dimentico del resto del mondo... Sì, gli piaceva molto Ellesméra, molto più di qualsiasi città dei nani. Indicò una costruzione situata in un pino e chiese ad Arya: «Come fate?»

«Cantiamo alla foresta nell'antica lingua e le diamo la nostra forza per crescere nelle forme che desideriamo. Tutti i nostri manufatti sono realizzati così.»

Il sentiero terminava davanti a un fitto intrico di radici che formavano una serie di nudi gradini. Salirono verso un portale incassato in una parete di giovani alberelli. Il cuore di Eragon accelerò quando i battenti si spalancarono, all'apparenza da soli, per rivelare un'enorme sala alberata. Centinaia di rami si intrecciavano a formare un soffitto a nido d'ape; lungo ciascuna delle due pareti erano disposti dodici scranni.

Su di essi erano seduti ventiquattro elfi, fra dame e signori.

D'aspetto nobile e saggio, con volti lisci senza traccia di età e occhi sagaci che scintillavano di eccitazione, gli elfi si protesero con le mani strette sui braccioli degli scranni, e fissarono il gruppo di Eragon con evidente stupore e speranza. Diversamente dagli altri elfi, portavano spade alla cintura - le impugnature tempestate di berilli e granati - e cerchietti sulla fronte.

In fondo spiccava un padiglione bianco che ospitava un trono di radici nodose, su cui era seduta la regina Islanzadi. Bella come un tramonto d'autunno, altera e orgogliosa, con due scure sopracciglia oblique come ali spiegate, labbra rosse e lucenti come bacche di agrifoglio e capelli neri come la notte cinti da un diadema di diamanti. La sua veste era cremisi. Intorno ai fianchi portava una cintura di filigrana d'oro, e sulle spalle un mantello di velluto che ricadeva in terra in morbide pieghe. Malgrado il suo aspetto imperioso, la regina sembrava fragile, come se nascondesse un grande dolore.

Accanto alla mano sinistra c'era un trespolo ricurvo che terminava con una croce cesellata. Su di esso se ne stava appollaiato un corvo dal candido piumaggio, che spostava impaziente il peso da una zampa all'altra. Tese il collo e scrutò Eragon con straordinaria intelligenza, poi emise un lungo verso rauco e gridò: «Wyrda!» Eragon rabbrividì per la potenza di quell'unica parola gracchiante.

La porta si chiuse dietro i sei, non appena entrarono nella sala avvicinandosi alla regina. Arya s'inginocchiò sul pavimento coperto di muschio e chinò la testa per prima, poi Eragon, Orik, Lifaen e Nari la imitarono. Perfino Saphira, che non si era mai inchinata davanti a nessuno, nemmeno davanti ad Ajihad o a Rothgar, abbassò la testa. Islanzadi si alzò e scese dal trono; lo strascico del mantello fluttuò sulle radici del podio. Si fermò davanti ad Arya, le posò le mani tremanti sulle spalle e disse, con un profondo vibrato: «Alzati.» Arya obbedì, e la regina scrutò il suo volto con tensione crescente, come se stesse cercando di decifrare un testo oscuro.

Alla fine Islanzadi le gettò le braccia al collo, gridando: «Ti ho trattata ingiustamente, figlia mia!»

La regina Islanzadi

Eragon s'inginocchiò al cospetto della regina degli elfi e dei suoi consiglieri in quella sala meravigliosa fatta di tronchi di alberi viventi, in una terra quasi mitica, e l'unica cosa che riusciva a pensare, sbalordito, era: Arya è una principessa! In un certo senso, i conti tornavano - l'elfa aveva sempre avuto una certa aria regale - ma il suo rammarico era profondo, poiché era un'altra barriera fra loro, se mai fosse riuscito ad abbattere le altre. La scoperta gli riempì la bocca col sapore della cenere. Rammentò la profezìa di Angela, secondo cui avrebbe amato una donna di nobile stirpe, e che non era in grado di prevedere se sarebbe andata a finire bene o male.

Percepì anche la sorpresa di Saphira, poi il suo divertimento. La dragonessa disse: A quanto pare abbiamo viaggiato in compagnia di sangue reale senza saperlo.

Perché non ce l'ha detto?

Perché probabilmente questo l'avrebbe messa in pericolo.

«Islanzadi Dròttning» disse Arya in tono formale.

La regina si ritrasse come se l'avessero schiaffeggiata, poi ripetè nell'antica lingua: «Figlia mia, ti ho tratta ingiustamente.» Si coprì il volto. «Da quando sei scomparsa, non ho quasi mangiato o dormito. Ero angosciata per la tua sorte, e temevo di non rivederti mai più. Che terribile, terribile sbaglio ho commesso... Potrai perdonarmi?» Gli elfi riuniti bisbigliarono turbati.

Arya rispose dopo quella che parve un'eternità. «Per settant'anni ho vissuto e amato, combattuto e ucciso senza mai parlarti, madre mia. Benché le nostre vite siano lunghe, questo non è certo un breve periodo.»

Islanzadi si ricompose e alzò il fiero mento, percorso da un lieve tremito. «Non posso disfare il passato, Arya, anche se lo desidero con tutto il cuore.»

«E io non posso dimenticare quanto ho subito.»

«E non devi.» Islanzadi afferrò le mani della figlia. «Arya, io ti voglio bene. Tu sei tutta la mia famiglia. Vai se devi, ma a meno che tu non voglia rinnegarmi, vorrei riconciliarmi con te.»

Per un terribile momento parve che Arya non volesse rispondere, o peggio, che intendesse rifiutare l'offerta. Eragon la vide esitare e scoccare occhiate fugaci ai presenti. Poi l'elfa abbassò gli occhi e disse: «No, madre. Non me ne andrò.» Islanzadi accennò un sorriso incerto, poi abbracciò di nuovo la figlia. Questa volta Arya ricambiò il gesto, e sui volti degli elfi si dipinsero sorrisi soddisfatti.

Il corvo bianco saltellò sul trespolo, gracchiando: «E sul portale venne inciso a ricordare quel che sarà il motto familiare, Che tra noi ci si possa sempre amare!»

«Zitto, Blagden» intimò Islanzadi al corvo. «Tieni per te le tue rime strampalate.» Liberandosi dall'abbraccio, la regina si rivolse a Eragon e Saphira. «Vi prego di scusarmi per essere stata scortese e avervi ignorati, voi che siete i nostri ospiti più importanti.»

Eragon si toccò le labbra e poi torse la mano destra portandola al petto, come gli aveva insegnato Arya. «Islanzadi Dròttning. Atra esterni ono thelduin.» Non c'erano dubbi su chi dovesse parlare per primo.

Gli occhi neri di Islanzadi si spalancarono. «Atra du evarìnya ono varda.»

«Un atra mor'ranr lifa unin hjarta onr» rispose Eragon, completando il rituale. Capì che gli elfi erano rimasti di stucco nel vedere che conosceva bene le loro usanze. Nella mente, ascoltò Saphira che ripeteva il saluto alla regina. Quando finì, Islanzadi domandò: «Drago, qual è il tuo nome?»

Saphira.

Un lampo di riconoscimento comparve sul volto della regina, ma non fece alcun commento. «Benvenuta a Ellesméra, Saphira. E il tuo, Cavaliere?»

«Eragon Ammazzaspettri, maestà.» Questa volta, gli elfi seduti alle loro spalle mormorarono in maniera più che evidente; perfino Islanzadi parve sorpresa.

«Un nome potente» disse in tono pacato, «che di rado imponiamo ai nostri figli... Benvenuto a Ellesméra, Eragon Ammazzaspettri. Ti aspettavamo da tempo.» Poi si rivolse a Orik, lo salutò e infine tornò a sedersi sul trono, drappeggiandosi lo strascico del mantello di velluto sul braccio. «La tua presenza qui, Eragon, dopo così breve tempo dalla scomparsa dell'uovo di Saphira, come anche l'anello che porti al dito e la spada al tuo fianco, mi fanno supporre che Brom sia morto e che il tuo addestramento con lui sia rimasto incompleto. Avrei piacere di ascoltare innanzitutto la tua storia, compresa la morte di Brom e le circostanze che ti hanno fatto incontrare mia figlia. Poi, nano, vorrò conoscere i motivi della tua missione qui, e infine tu, Arya, mi racconterai le tue peripezìe, fin dall'agguato nella Du Weldenvarden.»

Non era la prima volta che Eragon narrava le proprie avventure, e non ebbe difficoltà a ripeterle davanti alla regina. Nelle rare occasioni in cui la memoria lo tradiva, interveniva Saphira a fornire dettagliate descrizioni degli eventi. Più di una volta, lasciò che fosse lei a raccontare. Quando ebbero finito, Eragon estrasse la pergamena di Nasuada dallo zaino e la consegnò a Islanzadi.

La regina prese la pergamena, ruppe il sigillo di cera rossa e, dopo aver finito di leggere la missiva sospirò, chiudendo gli occhi per qualche istante. «Ora comprendo quanto sia stata grande la mia follia. Mi sarei risparmiata molte sofferenze se non avessi ritirato i miei guerrieri e ignorato i messaggèri di Ajihad, dopo aver saputo che Arya era caduta in un'imboscata. Non avrei mai dovuto incolpare i Varden della sua morte. Per essere tanto vecchia, sono ancora troppo stolta...»

Seguì un lungo silenzio, poiché ovviamente nessuno osava assentire o dissentire. Facendo appello a tutto il suo coraggio, Eragon disse: «Dato che Arya è tornata sana e salva, vorresti concedere di nuovo il tuo aiuto ai Varden? Nasuada non può farcela da sola, e io mi sono votato alla

sua causa.»

«La mia controversia con i Varden è sabbia nel vento» disse Islanzadi. «Non temere. Li aiuteremo come facevamo un tempo, anzi, di più, grazie a te e alla loro vittoria sugli Urgali.» Tese la mano aperta. «Vorresti darmi l'anello di Brom, Eragon?» Senza esitare, lui si sfilò l'anello e lo porse alla regina, che lo prese con le dita affusolate. «Non avresti dovuto portarlo, Eragon, poiché non era destinato a te. Tuttavia, grazie all'aiuto che hai reso ai Varden e alla mia famiglia, ora ti nomino Amico degli Elfi e ti concedo questo anello, Aren, affinchè tutti gli elfi, ovunque tu vada, sappiano che sei degno di fiducia e di aiuto.»

Eragon la ringraziò e si rimise l'anello al dito, profondamente consapevole dello sguardo della regina, che lo fissava in maniera inquietante, come volesse sondargli l'anima. Aveva la sensazione che lei sapesse tutto quello che lui avrebbe potuto dire o fare. La regina dichiarò: «Sono anni che nella Du Weldenvarden non abbiamo notizie di gesta simili a quelle che hai compiuto. Noi siamo abituati a uno stile di vita più lento rispetto al resto di Alagaèsia, e mi preoccupa che siano accadute così tante cose senza che una sola parola raggiungesse le mie orecchie.»

«Cosa hai deciso in merito al mio addestramento?» Eragon scoccò un'occhiata furtiva agli elfi seduti, chiedendosi se uno di loro potesse essere Togira Ikonoka, la presenza che lo aveva raggiunto mentalmente e liberato dall'influenza nefasta di Durza dopo la battaglia del Farthen Dùr, e che lo aveva incoraggiato ad andare a Ellesméra. «Comincerà a tempo debito. Purtroppo, temo che istruirti sia vano, finché la tua infermità persiste. A meno che tu non riesca a vincere la magia dello Spettro, non sarai altro che un debole fantoccio. Potrai ancora esserci utile, ma solo come ombra della speranza che abbiamo nutrito per secoli.» Islanzadi parlò senza astio, eppure le sue parole colpirono Eragon come un maglio. Sapeva che la regina aveva ragione. «Non è certo colpa tua se ti trovi in queste condizioni, e mi addolora dar voce a questi pensieri, ma devi comprendere la gravita della tua invalidità... Mi rincresce.» Poi Islanzadi si rivolse a Orik. «È passato molto tempo dall'ultima volta che la tua razza è entrata nei nostri palazzi, nano. Eragon-finiarel ha spiegato i motivi della tua presenza, ma tu hai qualcosa da aggiungere?»

«Soltanto i più cordiali e rispettosi saluti da parte del mio re, Rothgar, e la preghiera, ormai superflua, di riprendere i contatti con i Varden. Inoltre, sono qui per assicurarmi che il patto che Brom ha stretto fra voi e gli umani venga rispettato.»

«Noi rispettiamo sempre le promesse, che vengano pronunciate in questa o nell'antica lingua. Accetto i saluti di Rothgar che ricambio di buon grado.» Alla fine - Eragon era sicuro che la regina desiderava farlo da quando avevano messo piede nella sala - Islanzadi chiese ad Arya: «Ora, figlia mia, dimmi. Cosa ti è accaduto?»

Arya cominciò a raccontare, con voce lenta e monocorde, prima della sua cattura, poi della lunga prigionia e delle torture patite a Gil'ead. Saphira ed Eragon avevano evitato di proposito i dettagli delle violenze da lei subite, ma Arya sembrava non avere difficoltà a parlarne. Quelle descrizioni impassibili suscitarono in Eragon la stessa rabbia di quando aveva visto le sue ferite la prima volta. Gli elfi rimasero in assoluto silenzio durante tutto il racconto, anche se le mani si contraevano sulle impugnature delle spade e i lineamenti si alteravano in espressioni tese di gelida collera. Una lacrima solitària scese lungo la guancia di Islanzadi.

Un nobile elfo si alzò e avanzò flessuoso lungo il corridòio muschioso fra gli scranni. «So di parlare a nome di tutti, Arya Dròttningu, quando dico che il mio cuore è straziato dal dolore per quanto hai patito. È un crimine che travalica ogni scusa, ogni giustificazione e ogni perdono, e Galbatorix dovrà pagare per questo. Inoltre ti siamo debitori per non aver rivelato allo Spettro dove si trovano le nostre città. Pochi di noi avrebbero sopportato tanto, per così lungo tempo.»

«Ti ringrazio, Dàthedr-vor.»

Islanzadi riprese la parola, e la sua voce risuonò argentina come una campana. «Fermiamoci qui. I nostri ospiti esausti attendono in piedi, e abbiamo parlato soltanto di argomenti spiacevoli. Non permetterò che questa occasione venga sciupata dalle ferite del passato.» Un sorriso glorioso illuminò la sua espressione. «Mia figlia è tornata, un drago e il suo Cavaliere sono comparsi, e voglio vedervi celebrare tutti come si conviene!» Si eresse in tutta la sua statura, magnifica nella tunica cremisi, e batte le mani. A quel suono, gli scranni e il padiglione furono inondati da una pioggia di gigli e di rose, che caddero dall'alto fluttuando come fiocchi di neve colorati, riempiendo la sala con le loro inebrianti fragranze.

Non ha usato l'antica lingua, pensò Eragon.

Mentre tutti gli altri erano intenti ad ammirare la pioggia di petali, soltanto lui si accorse che Islanzadi aveva sfiorato la spalla di Arya per sussurrarle piano: «Non avresti mai sofferto tanto se avessi seguito il mio consiglio. Avevo ragione a oppormi alla tua decisione di accettare lo yawé.»

«Spettava a me prendere quella decisione.»

La regina fece una pausa, poi annuì e tese il braccio. «Blagden.» Con un frullo d'ali, il corvo volò dal suo trespolo e atterrò sulla sua spalla sinistra. L'assemblea s'inchinò al passaggio di Islanzadi che incedeva altera verso il fondo della sala. Aprì il portale alle centinaia di elfi che attendevano all'esterno, e fece un breve discorso nell'antica lingua che Eragon non capì. Gli elfi scoppiarono in un boato di applausi, poi si dispersero in fretta.

«Cos'ha detto?» mormorò Eragon a Nari.

Nari sorrise. «Di aprire i nostri barili più pregiati e di accendere i fuochi, perché stanotte sarà una notte di festeggiamenti e canti. Vieni!» L'elfo prese Eragon per mano e lo condusse dietro la regina, che si era incamminata per il sentiero fra i pini e le siepi di felci. Mentre erano chiusi nella sala, il sole era calato, imbevendo la foresta di una luce ambrata che colava dagli alberi e dalle piante come olio lucente.

Ti rendi conto, vero, disse Saphira, che il re di cui ha parlato Lifaen, Evandar, doveva essere il padre di Arya? Per poco Eragon non inciampò. Hai ragione... E questo significa che è stato ucciso o da Galbatorix o dai Rinnegati. I cerchi si chiudono.

Si fermarono in cima a una collinetta, dove una squadra di elfi aveva approntato un lungo tavolo e delle sedie. Tutto intorno la foresta brulicava di attività. Con l'approssimarsi della sera, in tutta Ellesméra comparvero fuochi dal vivace bagliore, compreso un falò vicino al tavolo.

Qualcuno porse a Eragon un calice fatto con lo stesso strano legno che aveva notato a Ceris. Bevve il chiaro liquore e trasalì nel sentirsi bruciare la gola. Aveva il sapore del sidro aromatico mescolato all'idromele. La pozione gli fece formicolare i polpastrelli e le orecchie, e gli donò un meraviglioso senso di lucidità. «Cos'è?» chiese a Narì. Nari rise. «Faelnirv. Lo distilliamo da bacche di sambuco macinate e raggi di luna filati. Se necessario, un uomo forte può sopravvivere in viaggio per tre giorni bevendo soltanto questo.»

Saphira, dovresti assaggiarlo. La dragonessa annusò il calice, poi aprì la bocca e gli permise di versare il resto del faelnirv nella gola. Sgranò gli occhi e dimenò la coda.

Che delizia! Ce n'è ancora?

Prima che Eragon avesse modo di rispondere, arrivò Orik con aria imbronciata. «Figlia della regina» borbottò, scuotendo il capo. «Vorrei poterlo dire a Rothgar e a Nasuada. Dovrebbero saperlo.»

Islanzadi prese posto su una sedia dall'alto schienale e battè di nuovo le mani. Dall'interno della città arrivò un quartetto di elfi con strumenti musicali. Due avevano arpe di legno di ciliegio, il terzo una siringa di canne, e la quarta nient'altro che la voce, che subito mise all'opera per una canzone gioiosa che solleticò le loro orecchie. Eragon riusciva a capire appena una parola su tre, ma quel poco che comprese lo fece sorridere. Era la storia di un cervo che non riusciva ad abbeverarsi a uno stagno perché una gazza continuava a infastidirlo.

Mentre ascoltava, lasciò vagare lo sguardo fino a posarlo su una gracile fanciulla che si aggirava furtiva alle spalle della regina. Aguzzò la vista e si accorse che i suoi capelli ispidi non erano argentati, come quelli di molti elfi, bensì sbiancati dall'età, e che il suo volto era rugoso come una mela vizza. Non era un'elfa, né una nana, né - Eragon ne ebbe un'acuta percezione - umana. Lei gli sorrise, e lui intravvide una chiostra di denti aguzzi.

Quando la cantante terminò, siringhe e flauti sostituirono la sua voce nel silenzio, ed Eragon si ritrovò assalito da decine di elfi che volevano conoscere lui, ma soprattutto Saphira.

Gli elfi si presentarono con un lieve inchino, portandosi l'indice e il medio alle labbra. Eragon ricambiò insieme all'infinita schiera di saluti nell'antica lingua. Tutti rivolsero al giovane alcune cortesi domande sulle sue avventure, ma riservarono a Saphira gran parte della conversazione.

Lì per lì Eragon fu lieto di lasciar parlare Saphira, dato che era la prima volta che qualcuno mostrava un interesse spiccato a conversare soltanto con lei; ma dopo un po' cominciò a irritarsi di essere ignorato, abituato com'era ad avere gente che lo ascoltava quando parlava. Sorrise fra sé, sconcertato al pensiero di essere diventato troppo dipendente dall'attenzione degli altri da quando si era unito ai Varden, e si sforzò di godersi i festeggiamenti. Poco dopo, l'aroma del cibo si diffuse nella radura e comparvero alcuni elfi con vassoi colmi di ogni prelibatezza. Oltre a grandi pagnotte calde e pile di frittelle al miele, le pietanze erano composte interamente da frutta, verdura e bacche. Queste ultime dominavano in quasi ogni portata, dalla zuppa di mirtilli alla salsa di lamponi alla gelatina di more. Una grande zuppiera di fettine di mele cosparse di sciroppo e spruzzate di fragoline di bosco troneggiava accanto a un pasticcio di funghi ripieno di spinaci, timo e uvetta.

Non c'era alcun tipo di carne, nemmeno pesce o pollame, cosa che ancora lasciava perplesso Eragon. A Carvahall e in tutto l'Impero, la carne era simbolo di lusso e agiatezza. Più oro possedevi, più spesso potevi permetterti bistecche e vitello. Perfino i nobili di rango inferiore mangiavano carne a ogni pasto. Se fosse mancata, avrebbe indicato penuria nei loro forzieri. Ma gli elfi non seguivano questa filosofia, malgrado la loro evidente ricchezza e la facilità con cui potevano cacciare grazie alla magia.

Gli elfi si disposero lungo il tavolo con un entusiasmo che sorprese Eragon. Presto furono tutti seduti: Islanzadi a capotavola insieme a Blagden, il corvo; Dàthedr alla sua sinistra; Arya ed Eragon alla sua destra; Orik di fronte a loro; e poi tutti gli altri, compresi Nari e Lifaen. Non c'era nessuna sedia all'altro capotavola; soltanto un enorme vassoio intagliato per Saphira.

A mano a mano che il pranzo si prolungava, Eragon si sentì trascinato in un nebuloso turbine di chiacchiere e ilarità; era così preso dai festeggiamenti da perdere il senso del tempo, consapevole soltanto delle risa e delle parole sconosciute che gli cinguettavano intorno e dal calore che il faelnirv gli lasciava nello stomaco. Il canto dell'arpa gli accarezzava lieve le orecchie, suscitandogli brividi di eccitazione lungo la schiena. Di tanto in tanto, si scopriva attratto dallo sguardo obliquo e indolente della vecchiabambina, che continuava a fissarlo anche mentre mangiava. Durante una pausa nella conversazione, Eragon si rivolse ad Arya, che non aveva pronunciato più di una decina di parole. Non disse niente, ma si limitò a guardarla, chiedendosi chi fosse in realtà.

Arya si riscosse. «Nemmeno Ajihad lo sapeva.»

«Cosa?»

«Al di fuori della Du Weldenvarden, non ho mai rivelato a nessuno la mia identità. Brom ne era a conoscenza - ci siamo incontrati qui la prima volta - ma lo pregai di mantenere il segreto.»

Eragon si domandò se gli stesse dando spiegazioni per senso del dovere o perché si sentiva in colpa di aver ingannato lui e Saphira. «Brom una volta mi disse che ciò che gli elfi non dicono spesso è più importante di quello che dicono.» «Ci conosceva bene.»

«Ma perché? Sarebbe stato grave se qualcuno avesse saputo?»

Questa volta Arya esitò. «Quando lasciai Ellesméra, non avevo alcun desiderio di ricordare il mio rango. Né mi sembrava rilevante ai fini della mia missione con i Varden e i nani. Non aveva niente a che vedere con chi sono diventata... con chi sono.» Scoccò un'occhiata alla regina.

«Almeno a me e a Saphira avresti potuto dirlo.»

Arya sembrò irritarsi per il tono di rimprovero nella sua voce. «Non avevo ragione di supporre che la mia posizione rispetto a Islanzadi fosse migliorata, e dirvelo non avrebbe cambiato niente. I miei pensieri restano miei e basta, Eragon.» Il giovane arrossì per il significato implicito nella frase: perché mai lei - una principessa elfica con incarichi diplomatici, più vecchia di quanto potevano esserlo suo padre e suo nonno, chiunque fossero - doveva confidarsi con lui, un umano di appena sedici anni?

«Se non altro» mormorò lui, «hai fatto pace con tua madre.»

Lei gli rivolse uno strano sorriso. «Avevo scelta?»

In quel momento, Blagden saltò dalla spalla di Islanzadi e trotterellò al centro del tavolo, facendo guizzare la testa a destra e a sinistra in una parodia di inchino. Si fermò davanti a Saphira, diede in un colpetto di tosse rauca, e gracchiò: I draghi, come le brocche,

Hanno ventri bombati.

I draghi, come i fiaschi,

Hanno colli allungati.

Ma i primi due portano birra da bere,

Gli altri sanno solo mangiare!

Gli elfi rimasero impietriti e mortificati, aspettando la reazione di Saphira. Dopo un lungo silenzio, la dragonessa alzò gli occhi dal pasticcio di mele cotogne ed esalò uno sbuffo di fumo che avvolse Blagden. Specie i pennuti, disse, proiettando i suoi pensieri affinchè tutti sentissero. Gli elfi si rilassarono con una sonora risata, mentre Blagden ondeggiava, gracchiando indignato e sbattendo le ali per dissipare il fumo. «Chiedo scusa per i versi impertinenti di Blagden» disse Islanzadi. «Ha sempre avuto la lingua tagliente, per quanto abbiamo provato a smussarla.» Scuse accettate, rispose Saphira con calma, e tornò al suo pasticcio. «Da dove viene?» chiese Eragon, desideroso di tornare a termini più cordiali con Arya, ma spinto anche da sincera curiosità. «Blagden» disse Arya «una volta salvò la vita di mio padre. Evandar stava combattendo contro un Urgali quando inciampò e perse la spada. Ma prima che l'Urgali avesse il tempo di colpire, un corvo si avventò su di lui e gli cavò gli occhi. Nessuno sa perché l'uccello compì quel gesto, ma la distrazione consentì a Evandar di recuperare il controllo e vincere la battaglia. Mio padre è sempre stato molto generoso: così ringraziò il corvo benedicendolo con un incantesimo di intelligenza e lunga vita. Tuttavia la magia ebbe due effetti che non aveva previsto: Blagden perse il colore del piumaggio e ottenne la facoltà di predire alcuni eventi.»

«Può vedere il futuro?» chiese Eragon, allibito. «Vedere? No. Diciamo che a volte può percepire cosa sta per accadere. A ogni buon conto, parla sempre per enigmi, la maggior parte dei quali sono soltanto un mucchio di sciocchezze. Ma ricorda, se Blagden viene da te e ti dice qualcosa che non è un indovinello o una battuta di spirito, allora sarà meglio che tu faccia tesoro delle sue parole.» Una volta concluso il pasto, Islanzadi si alzò - imitata subito dagli altri in un frastuono di sedie - e disse: «S'è fatto tardi. Sono stanca e desidero tornare nella mia alcova. Saphira, Eragon, accompagnatemi, così vi mostrerò dove potrete dormire per stanotte.» La regina fece un cenno con la mano ad Arya, poi lasciò la tavola. Arya la seguì.

Quando Eragon aggirò il tavolo insieme a Saphira, si fermò davanti alla vecchia-bambina, rapito dai suoi occhi felini. Ogni dettaglio del suo aspetto, dagli occhi e dai capelli ispidi ai candidi denti aguzzi, suscitò in Eragon un ricordo. «Sei una gatta mannara, non è vero?» Lei battè le palpebre una volta, poi scoprì i denti in un sorriso pericoloso. «Ho conosciuto uno della tua specie, Solembum. L'ho incontrato a Teirm e nel Farthen Dùr.»

Il suo ghigno si allargò. «Già. Un tipo in gamba. Gli umani mi annoiano, ma lui trova divertente viaggiare con Angela l'indovina.» Poi il suo sguardo si posò su Saphira, ed emise un borbottio di gola simile alle fusa per mostrare apprezzamento.

Come ti chiami? chiese Saphira.

«I nomi sono qualcosa di molto potente qui nella Du Weldenvarden, cara la mia dragonessa. Tuttavia... fra gli elfi, sono conosciuta come l'Osservatrice, oppure Zampalesta, o anche la Danzatrice dei Sogni, ma voi potete chiamarmi Maud.» Scrollò la criniera di ispide ciocche bianche. «Fareste meglio a raggiungere la regina, fanciullini; non ha simpatia per gli sciocchi o i pelandroni.»

«È stato un piacere conoscerti, Maud» disse Eragon con un inchino. Anche Saphira fece un cenno con la testa. Eragon guardò Orik, chiedendosi dove avrebbero alloggiato il nano, poi si affrettò a seguire Islanzadi. Raggiunsero la regina proprio mentre lei arrivava alla base di un albero. Il tronco era solcato da una delicata scala a chiocciola che risaliva a spirale verso una serie di stanze globulari sostenute sulla cima dell'albero da un ventaglio di rami.

Islanzadi alzò una mano elegante e indicò il nido. «Tu dovrai volare fin lassù, Saphira. Le nostre scale non sono state costruite pensando ai draghi.» Poi si rivolse a Eragon. «Questi sono gli alloggi destinati al capo dei Cavalieri dei Draghi in visita a Ellesméra. Li concedo a te adesso, poiché sei il legittimo erede di quel titolo... È la tua eredità.» Eragon non fece nemmeno in tempo a ringraziarla, perché la regina si voltò e si allontanò insieme ad Arya, che lo guardò per un lungo momento prima di venire inghiottita dalla città.

Andiamo a vedere come ci hanno sistemati? disse Saphira, e spiccò il volo, risalendo verso la cima dell'albero e girando intorno al tronco, con la punta di un'ala perpendicolare al suolo. Quando Eragon posò il piede sul primo scalino, capì che Islanzadi aveva detto il vero: la scala era un tutt'uno con l'albero. La corteccia era liscia e piatta per tutti i piedi elfici che l'avevano calpestata, ma faceva ancora parte del tronco, come le intricate colonnine a tortiglione della balaustra e il curvo corrimano che gli scivolava sotto il palmo.

Poiché la scala era stata costruita tenendo a mente la forza degli elfi, era più ripida di quanto Eragon fosse abituato, e ben presto cominciarono a bruciargli le cosce e i polpacci. La salita fu così faticosa che quando raggiunse la cima dopo aver varcato una botola sul pavimento di una delle stanze - si appoggiò le mani sulle ginocchia, piegato in due per riprendere fiato. Quando si riebbe, si raddrizzò ed esaminò l'ambiente.

Si trovava in un vestibolo circolare con un piedistallo al centro, su cui si ergeva una scultura raffigurante due braccia e due mani che si levavano al cielo avvolgendosi su se stesse senza toccarsi. Tre porte scorrevoli separavano il vestibolo da altrettante stanze: un'austera sala da pranzo che poteva contenere al massimo dieci persone, un camerino con un'ampia cavità al centro del pavimento che Eragon non capì a cosa servisse, e infine una camera da letto che si affacciava sull'immensa distesa della Du Weldenvarden.

Eragon sganciò una lanterna dal soffitto ed entrò nella camera da letto, proiettando una serie di ombre che saltavano e vorticavano come danzatori impazziti. Sulla parete esterna era stata ricavata un'apertura a forma di goccia, abbastanza grande da far passare un drago. Nella stanza c'erano un letto, disposto in modo da poter guardare il cielo e la luna stando distesi; un caminetto fatto di legno grigio, duro e freddo come l'acciaio al tatto, come se il legno fosse stato pressato fino a ottenere una densità inimmaginabile; e un'enorme pedana, rivestita di morbide coperte, dove avrebbe dormito Saphira.

Proprio in quel momento, la dragonessa piombò dal cielo per atterrare davanti all'apertura, le squame sfavillanti come una costellazione di astri azzurri. Dietro di lei, gli ultimi raggi di sole screziavano la foresta, tingendo le colline di una soffusa luce ambrata che faceva scintillare gli aghi di pino come fossero incandescenti e scacciava le ombre verso l'orizzonte violetto. Da quell'altezza, la città appariva come una serie di squarci nel fitto fogliame della foresta, isole di quiete in un oceano in movimento. Per la prima volta vedevano l'intera superficie di Ellesméra, che si estendeva per parecchie miglia a ovest e a nord.

Rispetto i Cavalieri ancora di più se così era solito vivere Vrael, disse Eragon. È molto più semplice di come mi aspettavo. L'intera struttura ondeggiò per una lieve raffica di vento.

Saphira annusò le coperte. Ma dobbiamo ancora vedere Vroengard, gli rammentò lei, anche se in fondo era d'accordo. Quando Eragon chiuse la porta della camera da letto, notò qualcosa in un angolo che in principio gli era sfuggito: una scala a chiocciola che si attoreigliava intorno a una canna fumaria di legno scuro. Tenendo la lanterna sospesa davanti a sé, cominciò a salire con cautela, un passo alla volta. A un'altezza di venti piedi, emerse in uno studio arredato con una scrivania - coperta di calami, inchiostro e carta, ma niente pergamena - e un altro posatoio imbottito per draghi. Anche lì, la parete di fondo aveva un varco di accesso.

Saphira, vieni a vedere.

Come faccio? disse lei.

Da fuori. Eragon sentì la corteccia gemere e scricchiolare sotto gli artigli, mentre Saphira si arrampicava dalla camera da letto fino allo studio. Soddisfatta? disse lui al suo arrivo. Saphira gli scoccò un'occhiata di zaffiro fiammeggiante, poi si accinse a esaminare le pareti e la mobilia.

Mi chiedo, disse lei, come fa uno a ripararsi dal freddo se tutte le stanze sono esposte agli elementi.

Non lo so. Eragon esaminò le pareti su entrambi i lati dell'apertura, facendo scorrere le mani su astratti disegni ricavati nell'albero grazie alle canzoni degli elfi. Si fermò quando avvertì una scanalatura verticale nella corteccia. La tirò, e una membrana diafana si srotolò dalla parete. Tendendola attraverso il varco, trovò una seconda scanalatura dove inserire il bordo del tessuto. Non appena l'ebbe chiusa, l'aria si fece più densa e notevolmente più calda. Ecco la risposta, disse. Lasciò andare la membrana, che si richiuse con uno schiocco nel suo alloggiamento.

Quando tornarono nella stanza da letto, Eragon disfece lo zaino, mentre Saphira si raggomitolava sulla pedana. Il giovane ripose con cura lo scudo, i bracciali, gli schinieri, la calotta e l'elmo, poi si sfilò la tunica e si tolse la cotta di maglia foderata di cuoio. Si sedette a torso nudo sul letto e studiò le maglie oliate, colpito dalla loro somiglianza con le squame di Saphira.

Ce l'abbiamo fatta, disse, assorto.

Un lungo viaggio... ma sì, ce l'abbiamo fatta. Siamo stati fortunati a non aver incontrato ostacoli sul cammino. Lui annuì. Ora scopriremo se ne è valsa la pena. A volte mi chiedo se non avremmo impiegato meglio il nostro tempo aiutando i Varden.

Eragon! Sai benissimo che devi approfondire la tua istruzione. Brom avrebbe voluto così. Per giunta, valeva la pena di fare tutto questo viaggio anche solo per vedere Ellesméra e Islanzadi.

Può darsi. Poi chiese: Che ne pensi di tutta quanta la situazione? Saphira schiuse appena le labbra sui denti aguzzi. Non lo so. Gli elfi hanno più segreti di Brom, e con la magia sanno fare cose che non avrei mai pensato possibili. Non ho idea di quali metodi usino per far crescere gli alberi con queste forme, o come Islanzadi abbia evocato la pioggia di fiori. Va oltre la mia comprensione.

Eragon si sentì sollevato nello scoprire che non era il solo a sentirsi intimidito. E Arya?

Che cosa vorresti dire?

Sai, ora che sappiamo chi è in realtà.

Non è cambiata lei, ma la percezione che tu hai di lei. Saphira emise una risatina gutturale che risuonò come pietre che sbatacchiano le une contro le altre, e appoggiò la testa sulle zampe davanti.

Ormai le stelle brillavano in cielo, e i bubbolii delle civette riecheggiavano per tutta Ellesméra. Il mondo era calmo e silenzioso mentre sprofondava nella notte liquida.

Eragon si infilò sotto le lenzuola lanuginose e allungò una mano per schermare la lanterna, poi si fermò, la mano a un soffio dal gancio. Era nella capitale degli elfi, a cento piedi da terra, disteso nel letto che un tempo era appartenuto a Vrael.

Era un pensiero sconvolgente.

Si alzò, prese la lanterna con una mano e Zar'roc con l'altra, e sorprese Saphira strisciando nel suo giaciglio e rannicchiandosi contro il suo fianco tiepido. Lei mormorò e lo coprì con un'ala vellutata, mentre il giovane spegneva la luce e chiudeva gli occhi.

Insieme si addormentarono profondamente nel cuore di Ellesméra.

Brandelli di memoria

Eragon si destò all'alba, fresco e riposato. Battè piano la mano sulle costole di Saphira, e lei sollevò l'ala. Eragon si passò una mano tra i capelli e si alzò per dirigersi all'apertura nella parete, dove si appoggiò a uno stipite, sentendo la corteccia ruvida contro la sua spalla. Sotto di lui, la foresta scintillava come un campo di diamanti, mentre ogni albero rifletteva la luce del mattino con milioni di goccioline di rugiada.

Trasalì di sorpresa quando Saphira lo superò di slancio, tuffandosi verso le chiome degli alberi, avvitandosi su se stessa come una trivella, prima di risalire e tracciare cerchi in aria, ruggendo di gioia. Buongiorno, piccolo mio. Lui sorrise, felice che lei fosse felice.

Eragon aprì la porta scorrevole della camera da letto e trovò due vassoi di cibo - perlopiù frutta - che erano stati lasciati sulla soglia durante la notte. Vicino ai vassoi c'era un cumulo di indumenti, con sopra un biglietto. Eragon ebbe difficoltà a decifrare la scrittura fluente, dato che era oltre un mese che non leggeva e aveva dimenticato alcune lettere, ma alla fine riuscì a capire.

Salute a voi, Saphira Bjartskular ed Eragon Ammazzaspettri.

Io, Bellaen del Casato di Miolandra, mi prostro e chiedo venia a te, Saphira, per questo misero pasto. Gli elfi non cacciano, e non si trova carne a Ellesméra, come in nessuna delle nostre città. Se desideri, potrai fare come facevano i draghi di un tempo, e andare a caccia nella Du Weldenvarden. Ti chiediamo soltanto di utilizzare le tue capacità predatorie nella foresta, affinchè la nostra aria e la nostra acqua restino incontaminate dal sangue. Eragon, questi abiti sono per te. Sono stati tessuti da Niduen della casa di Islanzadi, e sono il suo regalo per te. Che la fortuna vi assista,

che la pace regni nei vostri cuori,

e che le stelle vi proteggano.

Bellaen du Hljddhr

Quando Eragon riferì il messaggio a Saphira, lei disse: Non importa; non avrò bisogno di mangiare per parecchio tempo dopo la cena di ieri. Tuttavia divorò un paio di torte ai semi aromatici. Tanto per non sembrare scortese, spiegò. Dopo che Eragon ebbe finito di fare colazione, issò il fagotto di indumenti sul letto e lo aprì: scoprì due lunghe tuniche color ruggine bordate di verde acido, un paio di gambali color crema da legarsi ai polpacci, e tre paia di calze così morbide che quando se le fece scorrere fra le dita parvero liquide. La qualità dei tessuti era tale da far impallidire le filatrici di Carvahall e da far sembrare rozzi gli abiti dei nani che indossava.

Eragon fu contento dei nuovi vestiti. La sua tunica e i suoi calzoni erano logorati dal viaggio e dall'esposizione alla pioggia e al sole. S'infilò una delle lussuose tuniche e ne assaporò la serica leggerezza.

Si era appena allacciato gli stivali quando qualcuno bussò alla porta. «Avanti» disse, allungando una mano verso Zar'roc.

Orik fece capolino nella stanza, poi entrò con cautela, saggiando il pavimento a ogni passo. Alzò lo sguardo al soffitto. «Una grotta mi ci vuole, altro che questo nido di uccelli. Come hai passato la notte, Eragon? E tu, Saphira?» «Abbastanza bene. E tu?» disse Eragon.

«Ho dormito come un sasso.» Il nano ridacchiò tra sé, poi abbassò il mento e giocherellò con la testa della sua ascia. «Vedo che avete mangiato, perciò vi chiedo di accompagnarmi. Arya, la regina e un certo numero di elfi vi aspettano ai piedi dell'albero.» Scrutò Eragon con uno sguardo stizzito. «C'è qualcosa che bolle in pentola. Non ci hanno ancora detto tutto. Non so cosa vogliono da voi, ma dev'essere importante. Islanzadi è tesa come un lupo in trappola... ho pensato fosse il caso di avvisarti.»

Eragon lo ringraziò, poi i due scesero per le scale, mentre Saphira planava sul terreno sottostante. Furono accolti da Islanzadi, avvolta in un mantello di piume di cigno che la faceva assomigliare a un uccello cardinale sepolto dalla neve. Lei li salutò e disse: «Seguitemi.»

Il suo passo imperioso li condusse ai margini di Ellesméra, dove le case erano rade e i sentieri poco battuti. Ai piedi di un poggio alberato, Islanzadi si fermò e pronunciò con voce terribile: «Prima di proseguire oltre, voi tre dovrete giurare nell'antica lingua che non parlerete mai a estraneo di quanto state per vedere, non senza il permesso della sottoscritta, o di mia figlia, o di chiunque possa succederci al trono.»

«Perché dovrei giurare?» chiese Orik.

Già, perché? fece Saphira. Non ti fidi di noi?

«Qui non si tratta di fiducia, ma di sicurezza. Dobbiamo proteggere i nostri segreti a tutti i costi. È il nostro maggiore vantaggio su Galbatorix. Se sarete vincolati dall'antica lingua, non rivelerete mai volontariamente il nostro segreto. Tu sei venuto ad assistere all'addestramento di Eragon, Orik-vodhr, ma se non mi dai la tua parola adesso, sarà meglio che torni nel Farthen Dùr.»

Alla fine Orik disse: «Sono convinto che non hai cattive intenzioni contro i nani o i Varden, altrimenti non acconsentirei mai. E confido nell'onore del tuo casato e del tuo popolo, sapendo che questo non è un imbroglio per ingannarci. Dimmi cosa vuoi che dica.»

Mentre la regina insegnava a Orik la corretta pronuncia della frase desiderata, Eragon chiese a Saphira: Devo farlo? Abbiamo scelta? Eragon rammentò che Arya aveva detto la stessa cosa il giorno prima, e finalmente cominciò a capire che cosa aveva voluto dire: la regina non lasciava spazio a manovre diversive.

Quando Orik ebbe finito, Islanzadi rivolse un'occhiata interrogativa a Eragon. Lui esitò, poi pronunciò il giuramento, come anche Saphira. «Vi ringrazio» disse Islanzadi. «Ora possiamo proseguire.»

In cima al poggio, gli alberi lasciavano il posto a un tappeto di trifoglio rosso che si stendeva per diverse iarde fino ai margini di una rupe rocciosa. La rupe era larga una lega e precipitava per mille piedi nella foresta sottostante, che si allargava fino a raggiungere l'orizzonte. Si aveva la sensazione di trovarsi ai confini del mondo, affacciati su una sconfinata distesa di foresta.

Conosco questo posto, si disse Eragon, ripescando nella memoria brandelli della sua visione di Togira Ikonoka. Thud. L'aria fu scossa dal riverbero di un tonfo. Thud. Un altro colpo sordo fece battere i denti di Eragon. Thud. Si infilò le dita nelle orecchie, cercando di proteggerle dalle fitte procurate dalla pressione. Gli elfi restavano immobili. Thud. Il trifoglio ondeggiò sotto un improvviso refolo di vento.

Thud. Dall'orlo della rupe comparve un enorme drago dorato, con un Cavaliere sul dorso.

Persuasione

Roran guardò Horst con ferocia. Si trovavano nella stanza di Baldor. Roran era seduto sul letto, e ascoltava il fabbro che diceva: «Cosa ti aspettavi che facessi? Non potevamo più attaccare, dal momento che eri svenuto. E comunque gli uomini non se la sentivano di combattere. Non puoi biasimarli. Per poco non ci restavo secco, quando ho visto quei mostri.» Horst scosse la selvaggia massa di capelli. «Siamo stati catapultati in una di quelle vecchie leggende, Roran, e non mi piace per niente.» Roran mantenne l'espressione furente. «Senti, puoi uccidere i soldati, se ti va, ma devi prima recuperare le forze. Non ti mancheranno i volontari; la gente si fida di te in battaglia, specie dopo quanto ha visto la scorsa notte.» Quando Roran continuò nel suo ostinato silenzio, Horst sospirò e gli batte la mano sulla spalla sana. Poi uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Roran non battè ciglio. Fino a quel momento, soltanto tre cose avevano contato per lui: la sua famiglia, la sua casa nella Valle Palancar e Katrina. La sua famiglia era stata decimata l'anno prima. La fattoria distrutta e bruciata, anche se gli restava sempre la terra.

E adesso aveva perso Katrina.

Un singhiozzo soffocato sfuggì dalla morsa di ferro che gli serrava la gola. Si trovava ad affrontare un dilemma che gli dilaniava l'anima: l'unico modo per salvare Katrina era inseguire i Ra'zac e lasciare la Valle Palancar, ma non potèva abbandonare Carvahall ai soldati. E non poteva dimenticare Katrina.

Il mio cuore o la mia casa, pensò amareggiato. Nessuno aveva valore senza l'altro. Uccidere i soldati sarebbe servito soltanto a non far tornare i Ra'zac, e quindi Katrina. E comunque il massacro sarebbe stato inutile se stavano arrivando i rinforzi, perché avrebbe significato in ogni caso la fine di Carvahall.

Roran strinse i denti quando lo trafisse un nuovo accesso di dolore alla spalla. Chiuse gli occhi. Spero che divorino Sloan come hanno fatto con Quimby. Nessun destino era abbastanza orribile per quel traditore. Roran lo maledisse augurandogli le peggiori sciagure che conosceva.

Se anche fossi lìbero di lasciare Carvahall, come farei a trovare i Ra'zac? Chi può sapere dove vivono? Chi oserebbe dare informazioni sui servi di Galbatorix? La disperazione prese il sopravvento mentre cercava una soluzione al problema. Immaginò di trovarsi in una delle grandi città dell'Impero, alla vana ricerca, fra edifici sporchi e orde di stranieri, di un barlume, un anelito, un assaggio del suo amore.

Un fiume di lacrime gli sgorgò dagli occhi, mentre si piegava in due, gemendo per la sofferenza e la paura. Si dondolava avanti e indietro, cieco a tutto, se non alla desolazione del mondo...

Un incalcolabile periodo di tempo ridusse i singhiozzi di Roran a deboli rantoli di protesta. Si asciugò gli occhi e si costrinse a trarre un lungo, tremante respiro. Fece una smorfia. Aveva la sensazione che i suoi polmoni fossero pieni di schegge di vetro.

Devo pensare, si disse.

Si appoggiò alla parete, e a poco a poco - per pura forza di volontà - cominciò a domare le sue selvagge emozioni per sottometterle all'unica cosa che poteva salvarlo dalla pazzia: la ragione. Il collo e le spalle gli dolevano per la violenza dello sforzo.

Una volta recuperato il controllo, Roran mise ordine fra i suoi pensieri, come un abile artigiano che dispone con cura i suoi strumenti. Dev'esserci una soluzione nascosta fra le cose che so, se soltanto riuscirò ad avere abbastanza immaginazione.

Non poteva inseguire i Ra'zac per aria, e questo era un dato di fatto. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli dove rintracciarli, e fra tutte le persone a cui avrebbe potuto chiedere, i Varden probabilmente erano quelli che ne sapevano di più. Il problema era che trovarli sarebbe stato difficile quanto trovare i profanatori, e lui non poteva perdere tempo a cercarli. Anche se... Una vocina nella sua mente insisteva a ricordargli le storie che raccontavano i cacciatori di pellicce e i mercanti sul fatto che il Surda appoggiava in segreto i Varden.

Il Surda. Il paese si trovava a sud dell'Impero, o almeno così aveva sentito dire, dato che Roran non aveva mai visto una mappa di Alagaésia. In condizioni ideali, ci sarebbero volute parecchie settimane per raggiungerlo a cavallo, molte di più se avesse dovuto evitare i soldati. Ovviamente sarebbe stato più rapido navigare lungo la costa verso sud, ma questo avrebbe significato raggiungere il fiume Toark per proseguire fino a Teirm e trovare una nave. Ci sarebbe voluto troppo tempo. E restava sempre il problema dei soldati.

«Quanti sarebbe, avrebbe, potrebbe...» mormorò, aprendo e chiudendo più volte il pugno sinistro. A nord di Teirm, l'unico porto che conosceva era Narda, ma per raggiungerlo avrebbe dovuto valicare l'intera Grande Dorsale, un'impresa mai compiuta, nemmeno dai cacciatori di pellicce.

Roran imprecò sottovoce. Il progetto era irrealizzabile. Dovrei cercare di salvare Carvahall, non di abbandonarla. Il problema era che, in cuor suo, il villaggio e tutti i suoi abitanti erano già condannati. Di nuovo gli spuntarono le lacrime. Tutti i suoi abitanti...

E se... se tutti gli abitanti di Carvahall mi accompagnassero a Narda e da lì nel Sur dal In questo modo, avrebbe realizzato entrambi i suoi desideri a un tempo.

L'audacia dell'idea lo sconvolse.

Era un'eresia, una blasfemia, pensare di poter convincere i contadini ad abbandonare le loro fattorie o gli artigiani le loro botteghe... eppure... eppure qual era l'alternativa se non la schiavitù o la morte? I Varden erano l'unico popolo che ospitava i fuggiaschi dell'Impero, e Roran era sicuro che i ribelli avrebbero accolto con gioia un intero villaggio di forze fresche, che per di più avevano già dimostrato il loro valore in battaglia. Inoltre, portando il villaggio da loro, si sarebbe conquistato la fiducia dei Varden, che gli avrebbero così rivelato dove si trovavano i Ra'zac. Forse potranno spiegarmi perché Galbatorix mi vuole catturare a tutti i costi.

La riuscita del piano, però, dipendeva dalla sua attuazione prima dell'arrivo di nuove truppe a Carvahall. Gli restavano perciò soltanto un paio di giorni al massimo per organizzare la partenza di più di trecento persone. Un'impresa spaventosa.

Roran sapeva che la semplice ragione non sarebbe servita a persuadere nessuno; gli serviva un fervore profetico per infiammare gli animi della gente, per far sentire loro nel profondo del cuore che era necessario rinunciare alle pastoie delle loro vite e delle loro identità. Né sarebbe servito instillare soltanto paura, perché sapeva che la paura spesso induce coloro che si trovano in pericolo a opporre maggiore resistenza. Doveva piuttosto infondere un senso di missione, di destino, per convincere i compaesani che unirsi ai Varden e combattere Galbatorix era l'azione più nobile del mondo. Ci voleva una passione che la fatica non avrebbe potuto rallentare, la sofferenza trattenere o la morte estinguere.

Nella mente, Roran vide Katrina davanti a lui, pallida e spettrale con i suoi occhi ambrati. Rammentò il tepore della sua pelle, la fragranza dei suoi capelli, la sensazione che gli aveva dato stare con lei nel segreto del buio. Poi, in una lunga coda dietro di lei, comparvero la sua famiglia, i suoi amici, e tutti quelli che conosceva a Carvahall, sia i vivi che i morti. Se non fosse stato per Eragon, e per me, i Ra'zac non sarebbero mai venuti. Devo salvare il villaggio dalle grìnfie dell'Impero, così come devo salvare Katrina da quei profanatori.

Spronato dalla potenza della visione, Roran si alzò dal letto; la spalla protestò inviandogli una nuova fitta di dolore. Barcollò e si appoggiò alla parete. Recupererò mai l'uso del braccio destro? Aspettò che il dolore calasse. Ma questo non successe. Allora digrignò i denti, si costrinse a raddrizzare la schiena e uscì dalla stanza.

Elain stava piegando degli asciugamani nel corridòio e lanciò un'esclamazione sorpresa. «Roran! Che ci fai...» «Vieni» ringhiò lui, oltrepassandola.

Con espressione preoccupata, Baldor si affacciò da una porta. «Roran, non dovresti andartene in giro. Hai perso troppo sangue. Coraggio, ti aiuto a...»

«Vieni.»

Roran sentì che lo seguivano mentre scendeva le scale verso l'ingresso, dove c'erano Horst e Albriech che parlavano tra di loro. I due alzarono lo sguardo, allibiti.

«Venite.»

Roran ignorò la pioggia di domande che gli si riversarono addosso, aprì la porta d'ingresso e uscì nel crepuscolo. Sopra di lui torreggiava un'imponente massa di nubi orlata di oro e di porpora.

In testa al gruppetto, Roran marciò spedito verso il perimetro

di Carvahall ripetendo il suo ordine ogni volta che incontrava un uomo o una donna, strappò dal fango una pertica su cui era montata una torcia, girò sui tacchi e ripercorse lo stesso tragitto fino al centro del villaggio. Lì si fermò e conficcò la pertica nel terreno, poi alzò il braccio sinistro e ruggì: «VENITE!»

La sua voce riecheggiò in tutto il paese. Roran continuava a chiamare, mentre dalle case e dai vicoli bui la gente si riversava nello spiazzo per radunarsi intorno a lui. Per lo più erano curiosi, altri entusiasti, altri intimoriti, e alcuni arrabbiati. Loring arrivò con i tre figli al seguito, e dalla direzione opposta giunsero Brigit, Delwin, e Fisk con sua moglie, Isold. Morn e Tara lasciarono la taverna e si unirono alla folla di spettatori.

Quando vide che quasi tutta Carvahall era di fronte a lui, Roran fece silenzio, serrando il pugno sinistro fino a conficcarsi le unghie nel palmo. Katrina. Alzò la mano, l'aprì e mostrò a tutti le lacrime di sangue che gli gocciolavano lungo il braccio. «Questo» disse «è il mio dolore. Guardate bene, perché sarà anche il vostro, se non fermeremo la sventura che si è abbattuta su di noi. I vostri amici e i vostri parenti saranno ridotti in catene, destinati alla schiavitù in terre straniere, o uccisi davanti ai vostri occhi, sgozzati dalle lame spietate dei soldati. Galbatorix farà spargere sale sulla nostra terra perché non produca più frutti. Questo ho visto. Questo io so.» Cominciò a camminare in tondo, come un lupo in gabbia, guardando ciascuno con occhi fiammeggianti. Aveva conquistato la loro attenzione. Adesso doveva scuoterli e condurli dove voleva.

«Mio padre è stato ucciso dai profanatori. Mio cugino è fuggito. La mia fattoria è stata rasa al suolo. E la mia promessa sposa è stata rapita dal suo stesso padre, che ha ucciso Byrd e ci ha traditi tutti! Quimby divorato, il granaio del villaggio bruciato insieme alle case di Delwin e Fisk. Parr, Wyglif, Ged, Bardrick, Farold, Hale, Garner, Kelby, Melkolf, Albem ed Elmund: tutti morti. Molti di voi, come me, sono stati feriti e non sono più in grado di mantenere le proprie famiglie. Non bastava che dovessimo sgobbare ogni giorno della nostra vita per strappare un misero sostentamento alla terra, soggetti ai capricci della natura? Non bastava che dovessimo pagare le tasse onerose di Galbatorix senza vederci adesso costretti a subire questi insensati tormenti?» Roran scoppiò in una risata isterica, ululando al cielo e ascoltando la follia nella propria voce. Nessuno si mosse.

«Ora conosco la vera natura dell'Impero e di Galbatorix: essi sono il male. Galbatorix è una piaga purulenta sulla faccia della terra. Ha distrutto i Cavalieri e cancellato la pace e la prosperità. I suoi servi sono demoni ripugnanti generati da chissà quale nero abisso. Ma Galbatorix si contenta di schiacciarci sotto il suo tallone? No! Lui vuole avvelenare tutta Alagaésia, soffocarci sotto una coltre di miseria. I nostri figli e i loro discendenti dovranno vivere all'ombra delle sue tenebre fino alla fine dei tempi, ridotti in schiavitù come vermi, come insetti da torturare a suo piacimento. A meno che...»

Roran scrutò gli occhi sgranati dei compaesani, consapevole di tenerli tutti col fiato sospeso. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di dire quello che lui stava proclamando a gran voce. Abbassò il tono in un sussurro roco. «A meno che non decidiamo di opporci al male.

«Abbiamo combattuto contro i soldati e contro i Ra'zac, ma questo non avrà alcun significato se moriremo soli e dimenticati... o verremo condotti via in catene. Non possiamo restare qui, e non permetterò che Galbatorix distrugga tutto quello per cui vale la pena di vivere. Preferirei farmi cavare gli occhi e mozzare le mani piuttosto che vedere il suo trionfo! Io scelgo di combattere! Io scelgo di uscire dalla mia tomba e di lasciare che i miei nemici ci si seppelliscano dentro!

«Io scelgo di lasciare Carvahall.

«Attraverserò la Grande Dorsale fino a Narda, dove prenderò una nave fino al Surda. Lì mi unirò ai Varden, che da decenni combattono per liberarci dall'oppressione.» La curiosità e la sorpresa dei contadini si trasformarono in sgomento a quell'idea. «Ma non vorrei andare da solo. Venite con me. Venite con me e cogliete l'occasione di plasmare una nuova vita per voi stessi. Liberatevi dai vincoli che vi tengono inchiodati qui.» Roran puntò il dito verso la folla, facendolo scorrere da un individuo all'altro. «Fra cento anni a partire da adesso, quali nomi affioreranno sulle labbra dei bardi? Horst... Brigit... Kiselt... Thane; canteranno le nostre gesta. Canteranno La leggenda di Carvahall, poiché saremo stati l'unico villaggio abbastanza coraggioso da sfidare l'Impero.»

Lacrime di orgoglio colmarono gli occhi di Roran. «Cosa c'è di più nobile che cancellare la turpe macchia di Galbatorix dalle terre d'Alagaésia? Non vivremo più nel terrore che le nostre fattorie vengano distrutte, o di essere uccisi e divorati. Il grano che mieteremo sarà nostro, e quello che avanzerà lo manderemo in omaggio a un re giusto e misericordioso. I fiumi e i torrenti abbonderanno d'oro. Saremo per sempre felici e contenti!

«È il nostro destino!»

Roran alzò la mano davanti alla faccia e lentamente chiuse le dita sulle mezzelune sanguinanti. Rimase immobile, chino sotto il peso della spalla ferita e delle decine di sguardi, in attesa di una risposta al suo discorso. Nessuno parlò. Alla fine si rese conto che volevano che continuasse; volevano sentire ancora parlare della causa e del futuro che aveva tracciato.

Katrina.

Mentre le tenebre s'infittivano intorno al cono di luce della torcia, Roran raddrizzò le spalle e riprese a parlare. Non nascose niente, ma s'impegnò con tutte le sue forze per far capire loro i suoi pensieri e i suoi sentimenti, perché potessero condividere il senso di missione che lo spingeva. «La nostra epoca volge al termine. Dobbiamo compiere un nuovo passo e unirci ai Varden, se vogliamo vivere liberi, insieme ai nostri figli.» Parlava alternando toni dolci e rabbiosi, ma sempre con grande fervore, per tenere avvinto il suo pubblico.

Quando ebbe esaurito la sua scorta di immagini, Roran guardò i volti dei suoi amici e vicini, e disse: «Partirò fra due giorni. Venite con me, se volete, ma io andrò in ogni caso.» Chinò il capo e si allontanò dalla torcia. La luna calante si affacciò da dietro un banco di nubi. Una leggera brezza si levò a spazzare il villaggio. Un segnavento di ferro cigolò su un tetto nel seguire la direzione del refolo.

Dalla folla si staccò Brigit, che entrò nel cono di luce, tenendosi l'orlo della veste sollevato per non inciampare. Con espressione rapita, si sistemò lo scialle. «Oggi abbiamo visto un...» S'interruppe, scrollò il capo ed emise una risatina imbarazzata. «Mi è difficile parlare dopo Roran. Non mi piace il suo piano, ma lo ritengo necessario, anche se per ragioni diverse: voglio trovare i Ra'zac e vendicare la morte di mio marito. Andrò con lui. E porterò con me i miei figli.» E fece un passo indietro.

Passò un lungo minuto di silenzio, poi si fecero avanti Delwin e sua moglie Lenna, tenendosi abbracciati. Lenna guardò Brigit e disse: «Ti capisco, sorella. Anche noi vogliamo vendetta, ma più di tutto vogliamo che gli altri nostri figli sopravvivano. Per questa ragione andremo.» Molte altre vedove di mariti uccisi si fecero avanti ed espressero la volontà di partire.

I contadini mormorarono tra di loro, poi tacquero e restarono immobili. Nessun altro sembrava disposto ad affrontare l'argomento: era troppo. Roran li capiva. Anche lui stava ancora cercando di elaborare le implicazioni. Alla fine, Horst si avvicinò alla torcia e fissò le fiamme con uno sguardo severo. «Non serve parlare oltre... Ci occorre tempo per pensare. Ognuno di noi deve decidere da solo. Domani... domani sarà un altro giorno. Forse allora le cose saranno più chiare.» Scosse il capo e levò la torcia, poi la capovolse e la spense nel terreno, lasciando gli altri a ritrovare la strada di casa al chiaro di luna.

Roran si unì ad Albriech e Baldor, che camminavano dietro i genitori a una certa distanza, per lasciarli parlare indisturbati. Nessuno dei due fratelli guardò Roran. Turbato dalla loro mancanza di espressione, Roran domandò: «Credete che verrà qualcun altro? Sono stato abbastanza convincente?»

Albriech latrò una risata. «Abbastanza convincente!»

«Roran» disse Baldor con voce strana, «stanotte avresti convinto un Urgali a mettersi a fare il contadino!» «No!»

«Quando hai finito, ero pronto ad afferrare una lancia e a correre sulla Dorsale insieme a te. E non sarei stato il solo. La domanda non è chi verrà, ma chi non lo farà. Quello che hai detto... non ho mai sentito niente del genere prima d'ora.» Roran aggrottò la fronte. Il suo obiettivo era stato quello di persuadere il villaggio ad abbracciare il suo piano, non a seguirlo ciecamente. Se è questo che vogliono, si disse con una scrollata di spalle. Eppure la prospettiva lo aveva colto impreparato. Qualche tempo prima si sarebbe sentito turbato, ma adesso era disposto ad accettare qualunque cosa lo aiutasse a salvare Katrina e i suoi compaesani.

Baldor si avvicinò al fratello. «Papà perderà la maggior parte dei suoi attrezzi.» Albriech annuì con aria solenne. Roran sapeva che i fabbri si costruivano da soli gli strumenti necessari, e che quegli strumenti formavano un lascito che veniva tramandato di padre in figlio, o di padrone in apprendista. La ricchezza e la maestria di un fabbro si misuravano in base al numero dei suoi attrezzi. Per Horst abbandonare i suoi sarebbe stato... Non sarebbe stato più duro che per chiunque altro, pensò Roran. Il suo unico rammarico era che questo avrebbe significato privare Albriech e Baldor della loro eredità.

Quando arrivarono a casa, Roran si ritirò in camera di Baldor e si sdraiò sul letto. Attraverso le pareti, sentiva le voci di Horst ed Elain che parlavano piano. Si addormentò pensando che simili conversazioni si stavano svolgendo in ogni casa di Carvahall, decidendo il suo - e il loro

destino.

Preparativi

La mattina dopo il suo discorso, Roran guardò fuori dalla finestra e vide dodici uomini uscire da Carvahall, diretti verso le Cascate di Igualda. Sbadigliò e scese in cucina zoppicando.

Horst era seduto al tavolo, da solo, intento a rigirarsi un boccale di birra fra le mani, «'giorno» disse. Roran rispose con un cenno, staccò un pezzo di pane dalla pagnotta che c'era sul bancone e si sedette dall'altro lato del tavolo. Notò gli occhi iniettati di sangue e la barba incolta di Horst, e capì che il fabbro era rimasto sveglio tutta la notte. «Sai perché quel gruppo sta salendo...»

«Devono parlare con le famiglie» tagliò corto Horst. «È dall'alba che la gente continua ad andare sulla Grande Dorsale.» Sbatte il boccale sul tavolo con un sonoro crack. «Tu non hai idea di cosa hai fatto, Roran, chiedendoci di partire. Tutto il villaggio è in subbuglio. Ci hai messi con le spalle al muro, e con un'unica via di uscita: la tua. Certi ti odiano per questo. Be', un discreto numero di compaesani già ti odiava prima per essere stato la causa di tanta sventura.»

Il pane nella bocca di Roran prese il sapore della segatura e lui si sentì pervadere dal risentimento. È stato Eragon a portare qui la pietra, non io. «E gli altri?»

Horst bevve un sorso di birra e sogghignò. «Gli altri ti adorano. Non avrei mai creduto di vedere il giorno in cui il figlio di Garrow avrebbe infiammato il mio cuore con le sue parole, ma l'hai fatto, ragazzo, ah, se l'hai fatto!» Indicò la stanza con un ampio gesto della mano. «Vedi tutto questo? L'ho costruito per Elain e i nostri figli. Mi ci sono voluti sette anni per finirla! Vedi quella trave sulla porta? Mi sono rotto tre dita per metterla a posto. E sai una cosa? Sto per abbandonare tutto a causa di quello che hai detto ieri sera.»

Roran rimase in silenzio; era quello che voleva. Lasciare Carvahall era la cosa giusta da fare, e poiché si sarebbe dedicato anima e corpo a quell'impresa, non vedeva ragione di tormentarsi con sensi di colpa e rimpianti. La decisione è stata presa. Accetterò le conseguenze senza lamentarmi, anche se saranno durissime, perché questo è l'unico modo per sfuggire all'Impero.

«Ma» disse Horst, appoggiandosi su un gomito per rivolgere gli ardenti occhi neri su di lui, «ricorda che se la realtà non corrisponderà ai sogni di gloria che hai evocato, dovrai pagarne lo scotto. Se dai alle persone una speranza e poi gliela sottrai, ti distruggeranno.»

La prospettiva non turbava affatto Roran. Se riusciremo a raggiungere il Surda, saremo accolti come eroi dai ribelli. Quando capì che il fabbro aveva concluso, Roran gli chiese: «Dov'è Elain?»

Horst si accigliò per l'improvviso cambio d'argomento. «Fuori, sul retro.» Si alzò e si lisciò la tunica sulle spalle possenti. «Devo smantellare la fucina e decidere quali attrezzi portarmi dietro. Nasconderò o distruggerò il resto. L'Impero non approfitterà del mio lavoro.»

«Ti aiuto.» Roran spinse indietro la sedia.

«No» ribatte Horst in tono brusco. «Questo è un lavoro che posso fare soltanto con Albriech e Baldor. La fucina è tutta la mia vita, e la loro... E comunque, non mi saresti di grande aiuto con quel braccio. Resta qui. Puoi sempre dare una mano a Elain.»

Quando il fabbro se ne andò, Roran aprì la porta posteriore della cucina e trovò Elain che parlava con Gertrude vicino alla grande catasta di legna che Horst teneva alimentata tutto l'anno. La guaritrice si avvicinò a Roran e gli mise una mano sulla fronte. «Ah, temevo che ti venisse la febbre dopo tutti gli strapazzi di ieri. La tua famiglia ha una fibra straordinaria. Ancora ricordo come rimasi di stucco quando Eragon cominciò a camminare con quelle gambe tutte piagate dopo appena due giorni di letto.» Roran s'irrigidì sentendo nominare il cugino, ma lei parve non farci caso. «Vediamo coma va la spalla, d'accordo?»

Roran piegò il capo in avanti perché Gertrude potesse sciogliergli dietro al collo il nodo della benda che gli sosteneva il braccio. Abbassò adagio l'avambraccio destro immobilizzato con una stecca - fino a raddrizzare completamente l'arto. Gertrude infilò le dita nell'impiastro che gli aveva applicato sulla ferita e le tolse.

«Oh, santo cielo» disse lei.

Subito si diffuse un fetore acre e rancido. Roran strinse i denti per la nausea, poi abbassò lo sguardo verso la spalla. La pelle sotto l'impiastro era diventata bianca e spugnosa, come una gigantesca voglia del colore di una larva. Il morso era stato suturato mentre ancora era svenuto, perciò non vide altro che una linea rosa frastagliata incrostata di sangue. Per via del gonfiore e dell'infiammazione, il filo dei punti era affondato nella carne, che stillava gocce di siero. Gertrude fece schioccare la lingua mentre lo ispezionava, poi rifece la fasciatura e guardò Roran negli occhi. «Va abbastanza bene, ma i tessuti potrebbero infettarsi. Non so ancora dirlo con precisione. Se dovesse accadere, dovremo cauterizzare la ferita.»

Roran annuì. «Una volta guarito, il braccio tornerà come prima?»

«Purché il muscolo si rimargini a dovere. E dipende anche da quale uso vuoi farne. Tu...»

«Riuscirò a combattere?»

«Se vuoi combattere» disse Gertrude in tono sommesso, «ti suggerisco di usare la mano sinistra.» Gli diede un buffetto su una guancia, poi si avviò in fretta verso la sua capanna.

Il mio braccio. Roran fissò l'arto immobilizzato come se non gli appartenesse più. Fino a quel momento, non si era mai reso conto di quanto la sua identità fosse legata alle condizioni del suo corpo. Una ferita alla carne provocava una ferita alla psiche, e viceversa. Roran andava fiero del proprio fisico, e nel vederlo straziato ebbe paura, specie perché il danno era permanente. Se anche avesse recuperato l'uso del braccio, avrebbe per sempre portato una grossa cicatrice come memoria della ferita.

Prendendolo per mano, Elain lo ricondusse in casa, dove sminuzzò della menta in un bollitore che poi mise sulla stufa. «L'ami davvero, non è così?»

«Cosa?» Roran la guardò, confuso.

Elain si mise una mano sul pancione. «Katrina.» Sorrise. «Non sono cieca. Ho visto cos'hai fatto per lei, e sono orgogliosa di te. Non sono molti gli uomini che avrebbero fatto altrettanto.»

«Non conta niente, se non posso liberarla.»

Il bollitore cominciò a fischiare. «Lo farai, ne sono sicura... in un modo o nell'altro.» Elain versò l'infuso. «Sarà meglio cominciare a prepararci per il viaggio. Per prima cosa, mi occuperò della cucina. Tu, nel frattempo, va' di sopra e prendi tutta la biancheria e gli indumenti che pensi possano tornarci utili.»

«E dove li metto?» chiese Roran.

«In sala da pranzo andrà bene.»

Poiché le montagne erano troppo ripide e la foresta troppo fitta per i carri, Roran si rese conto che le provviste si dovevano limitare a quanto ciascuno poteva portare in spalla, o caricare sui due cavalli di Horst, anche se uno doveva restare abbastanza libero da lasciare spazio a Elain, quando il cammino le fosse diventato troppo difficoltoso, viste le sue condizioni.

A peggiorare la situazione, c'era il fatto che molte famiglie di Carvahall non avevano abbastanza animali da soma per trasportare sia le provviste che i bambini, i vecchi e i malati impossibilitati a tenere il passo a piedi. Tutti avrebbero dovuto condividere le risorse. Ma la domanda era: con chi? Ancora non sapevano chi sarebbe partito con loro, a parte Brigit e Delwin.

Quando Elain terminò di impacchettare tutti gli oggetti che riteneva necessari - soprattutto viveri e coperte - mandò Roran a chiedere se qualcuno aveva bisogno di altro spazio o, in caso contrario, se poteva chiederlo lei, perché aveva ancora tanti oggetti che avrebbe desiderato portare, ma che avrebbe altrimenti abbandonato.

Malgrado la gente che si affannava per le strade, Carvahall era immersa in un'immobilità forzata, una calma innaturale che smentiva le attività febbrili che fervevano all'interno delle case. Quasi tutti tacevano e camminavano a capo chino, immersi nei propri pensieri.

Quando Roran arrivò a casa di Orval, dovette picchiare il batacchio per quasi un minuto prima che il contadino andasse ad aprirgli. «Oh, sei tu, Fortemartello.» Orval uscì sul portico. «Scusami se ti ho fatto aspettare, ma ero occupato. In che cosa posso aiutarti?» Si batte la lunga pipa nera sul palmo, poi cominciò a rigirarsela nervosamente fra le dita. Dentro la casa, Roran sentì sedie spostate sul pavimento, e pentole e stoviglie che cozzavano fra loro. Roran spiegò in poche parole l'offerta di Elain e la sua richiesta. Orval alzò gli occhi al cielo e socchiuse le palpebre. «Credo di avere abbastanza spazio per la mia roba. Chiedi in giro, e se ancora vi serve spazio, ho una coppia di buoi che possono trasportare qualcosa in più.»

«Perciò tu verrai?»

Orval spostò il peso da un piede all'altro, con malcelato disagio. «Be', non ho detto questo. Ci stiamo solo... preparando, nel caso di un altro attacco.»

Perplesso, Roran si diresse a casa di Kiselt. Ben presto scoprì che nessuno voleva rivelare se aveva deciso di partire o meno, anche se i preparativi avvenivano alla luce del giorno.

Tutti trattavano Roran con una deferenza che il giovane trovò inquietante. Si manifestava in piccoli gesti: mormorii di cordoglio per la sua sventura, rispettosi silenzi quando parlava, cenni di assenso quando affermava qualcosa. Era come se le sue gesta avessero accresciuto la sua statura e intimidito le persone che conosceva fin da bambino, finendo per stabilire una grande distanza fra loro.

Sono marchiato, si disse, arrancando nel fango. Si fermò sull'orlo di una pozzanghera e si chinò per esaminare il suo riflesso, chiedendosi se poteva distinguere cosa lo rendeva così diverso.

Vide un uomo in abiti laceri e macchiati di sangue, con la schiena curva e un braccio appeso al collo. Il collo e le guance erano adombrati da una barba in crescita, mentre i capelli erano una matassa di ciocche aggrovigliate che gli circondavano la testa come un'aureola. Ma la cosa più spaventosa di tutte erano gli occhi, infossati nelle orbite, che gli davano l'aspetto di un fantasma. Da dentro quei due abissi torbidi, il suo sguardo ardeva come acciaio fuso, colmo di dolore, rabbia e ossessione.

Un sorriso malsano gli affiorò sulle labbra, rendendo il suo viso ancora più sconvolgente. Gli piaceva quello che vedeva. Era lo specchio di ciò che provava. Ora capiva com'era riuscito a convincere i compaesani. Scoprì i denti. Posso usare questa immagine. Posso usarla per distruggere i Ra'zac.

Rialzò la testa e s'incamminò, soddisfatto di sé. Proprio in quel momento arrivò Thane, trafelato, e gli afferrò il braccio sinistro in una stretta calorosa. «Fortemartello! Non sai quanto sono felice di vederti.»

«Sul serio?» Roran si chiese se per caso il mondo non si fosse rivoltato durante la notte.

Thane annuì con vigore. «Da quando abbiamo attaccato i soldati, tutto mi è parso privo di speranza. Mi addolora ammetterlo, ma era così. Mi batteva sempre il cuore, come se stessi per cadere in un pozzo senza fondo; mi tremavano le mani; mi sentivo malissimo. Credevo che qualcuno mi avesse avvelenato! Era peggio della morte. Ma quello che hai detto ieri mi ha guarito all'istante e mi ha lasciato intravvedere di nuovo uno scopo, un significato nel mondo! Io... io non so nemmeno spiegarti l'orrore da cui mi hai salvato. Ti sono debitore. Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, non esitare a chiedere e io ti aiuterò.»

Commosso, Roran ricambiò la stretta del contadino e disse: «Grazie, Thane. Ti ringrazio.» Thane chinò il capo con le lacrime agli occhi, poi allentò la stretta e lasciò Roran solo in mezzo alla strada.

Che cosa ho fatto?

L'esodo

Una cortina di aria densa e fumosa avvolse Roran non appena ebbe messo piede nei Sette Covoni, la taverna di Morn. Si fermò sotto le corna dell'Urgali inchiodate sulla porta e aspettò che gli occhi si abituassero alla scarsa illuminazione. «C'è nessuno?» chiamò.

La porta che dava sulle stanze sul retro si spalancò di colpo, e Tara piombò nella sala, seguita a ruota da Morn. Entrambi lo guardarono torvi. Tara si piantò le mani carnose sui fianchi e chiese brusca: «Che ci fai qui?» Roran la fissò per un momento, cercando di indovinare la causa di tanta animosità. «Avete deciso se mi accompagnerete sulla Grande Dorsale?»

«Non sono affari tuoi» ribattè Tara.

Oh, sì che lo sono, pensò Roran, ma si trattenne dall'esprimerlo a voce. Invece disse: «Quali che siano le vostre intenzioni, se avete deciso per il sì, Elain gradirebbe sapere se avete spazio nei vostri bagagli per qualche altro oggetto, o se per caso serve a voi dello spazio in più. Lei ha...»

«Spazio in più!» tuonò Morn. Indicò la parete alle sue spalle, dove attendeva una fila di botti di quercia. «Impacchettati nella paglia ho dodici barili della birra più chiara, che ho tenuto alla temperatura perfetta per gli ultimi cinque mesi. Sono l'ultima partita di Quimby! Che dovrei farci, secondo te? E le mie botti di birra forte e scura? Se le lascio qui, i soldati le finiranno nel giro di una settimana, oppure le spaccheranno e verseranno la birra sul terreno, dove le uniche creature che ne godranno saranno bruchi e vermi. Ah!» Morn si lasciò cadere su una sedia, torcendosi le mani e scuotendo la testa. «Dodici anni di lavoro! Dalla morte di mio padre, ho continuato a mandare avanti la taverna come faceva lui, giorno dopo giorno. Ma poi tu ed Eragon siete arrivati a rovinare tutto. Io...» S'interruppe, respirando a fatica, e si asciugò il volto contratto con la manica.

«Su, su, vieni qui.» Tara gli cinse le spalle con il braccio e puntò l'indice contro Roran. «Chi ti ha dato il diritto di sconvolgere Carvahall con le tue chiacchiere assurde? Se partiamo, come farà il mio povero marito a guadagnarsi da vivere? Non può portarsi dietro il mestiere, come Horst o Gedric. Non può chinarsi nei campi a zappare come voi! Impossibile! Se ne andranno tutti, e noi moriremo di fame. E se anche partissimo, moriremmo di fame lo stesso. Ci hai rovinati!»

Lo sguardo di Roran passò dalla faccia arrossata e furibonda della donna a quella sconsolata di Morn, poi si volse e aprì la porta. Si fermò sulla soglia, e in tono sommesso disse: «Vi ho sempre considerati amici. Non voglio che l'Impero vi uccida.» Si strinse la giacca intorno alle spalle e uscì dalla taverna, meditabondo.

Si fermò a bere al pozzo di Fisk, dove Brigit gli andò incontro. Lei lo vide affannarsi a girare la manovella con una mano sola; gli scostò il braccio sano e issò il secchio dell'acqua, che gli passò senza bere. Lui sorseggiò il liquido fresco e disse: «Sono lieto che venga anche tu.» Le restituì il secchio.

Brigit lo squadrò con occhi inflessibili. «Riconosco la forza che ti spinge, Roran, perché è la stessa che spinge me: entrambi vogliamo trovare i Ra'zac. Ma quando l'avremo fatto, esigerò da te il risarcimento per la morte di Quimby. Non dimenticarlo mai.» Lasciò cadere il secchio nel pozzo, senza frenare la manovella che girava vorticosamente. Un istante dopo, il pozzo risuonò di un tonfo sordo.

Roran sorrise nel vederla andar via. Era più compiaciuto che avvilito per la sua dichiarazione: sapeva che se anche tutto il resto di Carvahall avesse rinunciato alla causa o fosse morto, Brigit sarebbe rimasta ad aiutarlo a inseguire i Ra'zac. Dopo - se mai ci fosse stato un dopo avrebbe dovuto pagare il suo prezzo o ucciderla. Era l'unico modo per risolvere questioni del genere.

Al calar della sera, Horst e i figli erano tornati a casa, con due piccoli fagotti di tela cerata. «Tutto qui?» chiese Elain. Horst fece un brusco cenno di assenso, poi posò i fagotti sul tavolo della cucina e li aprì, rivelando quattro martelli, tre tenaglie, una morsa, un mantice di media grandezza e un'incudine da tre libbre.

Mentre tutti e cinque cenavano intorno al tavolo,

Albriech e Baldor raccontarono di aver visto parecchie persone fare preparativi di nascosto. Roran ascoltava con attenzione, cercando di tenere a mente chi aveva prestato i muli a chi, chi non dava cenni di voler partire, e chi poteva avere bisogno di aiuto.

«Il problema più grosso» disse Baldor «è il cibo. Non possiamo trasportarne molto, e sarà difficile cacciare sulla Grande Dorsale per sfamare due o trecento persone.»

«Mmm.» Horst agitò l'indice, la bocca piena di fagioli, poi deglutì. «No, cacciare non basterà. Dovremo portare il bestiame con noi. Nell'insieme, abbiamo abbastanza pecore e capre da sfamarci tutti per un mese e più.» Roran alzò il coltello. «E i lupi?»

«Mi preoccupa di più riuscire a impedire alle bestie di perdersi per la foresta» disse Horst. «Tenerle a bada sarà un'impresa.»

Roran passò il giorno dopo ad aiutare chiunque ne avesse bisogno, parlando poco e mostrando a tutti che lavorava per il bene del villaggio. A tarda notte, crollò a letto sfinito, ma pieno di speranza.

I raggi dell'alba penetrarono nei sogni di Roran e lo destarono con un senso di aspettativa incombente. Si alzò e scese in punta di piedi; uscì sotto il portico a contemplare le montagne avvolte dalla nebbia, assorto nel silenzio del mattino. Il suo fiato formava nuvolette nell'aria, ma lui aveva caldo, perché il suo cuore trepidava di timore e aspettative. Dopo una magra colazione, Horst portò i cavalli davanti alla casa, dove Roran aiutò Albriech e Baldor a caricarli di bisacce e altri pacchi di provviste. Poi Roran s'infilò lo zaino, facendo una smorfia quando lo spallaccio strusciò sulla ferita.

Horst chiuse la porta di casa. Indugiò qualche istante con la mano sul pomello d'acciaio, poi prese la mano di Elain e disse: «Andiamo.»

Mentre camminavano per Carvahall, Roran vide meste famiglie radunarsi davanti alle case con i loro bagagli e le greggi belanti. Vide pecore e cani con fagotti legati sui dorsi, bambini in lacrime seduti sui muli, e slitte improvvisate legate dietro ai cavalli con gabbie di galline svolazzanti appese ai lati. Vide il frutto del suo successo, e non sapeva se ridere o piangere.

Si fermarono ai confini settentrionali di Carvahall, aspettando di vedere chi si sarebbe unito a loro. Passò un minuto, poi arrivò Brigit, accompagnata da Nolfavrell e dai fratellini più piccoli. Brigit salutò Horst ed Elain, e si fermò al loro fianco.

Ridley e la sua famiglia arrivarono dall'esterno della cinta di alberi, guidando un centinaio di pecore dal versante est della Valle Palancar. «Ho pensato che era meglio portarle via da Carvahall» gridò Ridley per farsi sentire nonostante i lamenti del gregge.

«Hai pensato bene!» rispose Horst.

Poi arrivarono Delwin, Lenna e i loro cinque figli; Orval con la famiglia; Loring e i figli; Calitha e Thane, che rivolse a Roran un ampio sorriso; e infine il clan di Kiselt. Le donne rimaste vedove di recente, come Nolla, si strinsero intorno a Brigit. Ancor prima che il sole arrivasse a dissipare la nebbia sulle cime dei monti, la maggior parte del villaggio si era radunata presso lo sbarramento di alberi. Ma non tutti.

Morn, Tara e molti altri non si vedevano ancora, e quando arrivò Ivor, era senza bagagli. «Tu resti» osservò Roran, aggirando uno sparuto gruppo di capre che Gertrude stava cercando di trattenere.

«Sì» disse Ivor, pronunciando il monosillabo in tono mesto. Rabbrividì, si strinse le braccia intorno al corpo e rivolse lo sguardo al sole nascente, alzando il viso per coglierne i primi caldi raggi. «Svart non ne vuole sapere di partire. È testardo peggio di un mulo e si rifiuta di salire sulla Grande Dorsale. Qualcuno deve badare a lui, e io non ho figli, perciò...» Si strinse nelle spalle. «Dubito comunque che avrei mai lasciato la fattoria.»

«Cosa farete quando arriveranno i soldati?»

«Gli daremo una lezione che non si scorderanno.»

Roran emise una risata rauca e batte la mano sul braccio di Ivor, facendo del suo meglio per ignorare il destino che entrambi sapevano attendere chi sarebbe rimasto.

Ethlbert, un allampanato uomo di mezza età, marciò verso l'adunanza e gridò: «Siete un branco di idioti!» Con un cupo mormorio, la gente si volse a guardare il suo accusatore. «Sono rimasto zitto davanti a questa frenesia che vi è presa, ma ora vi dico che non seguirò quel pazzo ciarlatano! Se non vi foste fatti accecare delle sue parole, vedreste che vi sta portando verso la rovina! Ebbene, io non partirò! Correrò il rischio, e passerò oltre i soldati di nascosto per rifugiarmi a Therinsford. Almeno quelli sono come noi, non i barbari che troverete nel Surda!» Sputò in terra, poi girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi.

Temendo che Ethlbert potesse convincere altri a rinunciare, Roran scrutò la folla e rimase sollevato nel vedere soltanto volti imbronciati e teste scrollate. A ogni buon conto, non voleva indugiare oltre e dare tempo ai compaesani di cambiare idea. Sotto voce, chiese a Horst: «Quanto ancora dobbiamo aspettare?»

«Albriech, tu e Baldor correte a vedere se viene qualcun altro. Altrimenti, partiamo.» I fratelli si allontanarono di corsa in direzioni opposte.

Mezz'ora dopo, Baldor tornò con Fisk, Isold e il cavallo preso in prestito. Lasciando il fianco del marito, Isold corse verso Horst, facendosi largo a spintoni, ignara del fatto che i capelli le erano sfuggiti dalla crocchia e svolazzavano da tutte le parti. Si fermò, ansimando per riprendere fiato. «Mi dispiace tanto per il ritardo, ma Fisk non si decideva a chiudere bottega. Non sapeva quali pialle o scalpelli portarsi.» Proruppe in una risatina acuta che aveva dell'isterico. «Era come vedere un gatto circondato da topolini che non sa decidere quale acchiappare per primo. Quello, no, quell'altro.»

Un sorriso mesto affiorò sulle labbra di Horst. «Lo capisco perfettamente.»

Roran allungò il collo in cerca di Albriech, ma il giovane non tornava ancora. Digrignò i denti. «Ma che fine ha fatto?» Horst gli batte sulla spalla. «Laggiù, mi pare di vederlo.»

Albriech avanzava fra le case con tre barilotti di birra legati sulla schiena, e un'espressione afflitta così comica da far scoppiare a ridere Baldor e qualche altro. Ai lati di Albriech camminavano Morn e Tara, barcollanti sotto il peso degli enormi zaini, come anche il mulo e le due capre che si trascinavano dietro per la cavezza. Con grande stupore di Roran, gli animali erano carichi di altri barili.

«Non reggeranno più di un miglio» disse Roran, infuriandosi per la testardaggine della coppia. «E non hanno abbastanza viveri. Si aspettano che li sfamiamo noi, oppure...»

«Io non mi preoccuperei del cibo» lo interruppe Horst, ridacchiando sotto i baffi. «La birra di Morn ci servirà a tenere alto il morale, e vale molto più di qualche razione extra. Fidati.»

Non appena Albriech si fu liberato dai barili, Roran chiese a lui e al fratello: «Tutti qui?» Alla risposta affermativa di entrambi, Roran imprecò e si batte il pugno contro la coscia. Escludendo Ivor, altre tre famiglie erano decise a restare nella Valle Palancar: quella di Ethlbert, quella di Parr e quella di Knute. Non posso costrìngerli a venire. Sospirò. «D'accordo. Non ha senso aspettare ancora.»

Un brusìo di eccitazione si diffuse fra i presenti: il momento era arrivato. Horst e altri cinque uomini aprirono la cinta di alberi e gettarono delle tavole sulla trincea perché i paesani e gli animali ci passassero sopra.

Horst fece un cenno con la mano. «Credo che dovresti andare tu per primo, Roran.»

«Aspetta!» Fisk si fece avanti e, con palese orgoglio, porse a Roran un bastone lungo sei piedi, fatto di legno di cratego annerito, con una massa di radici in cima e una punta smussata di acciaio alla base. «L'ho fatto stanotte» disse il carpentiere. «Ho pensato che ne avresti avuto bisogno.»

Roran fece scorrere la mano sinistra sul legno, ammirandone la levigatezza. «Non avrei potuto chiedere niente di meglio. È un capolavoro... Ti ringrazio.» Fisk sorrise e si fece da parte.

Consapevole delle decine di occhi che lo fissavano, Roran si volse verso le montagne e le Cascate di Igualda. La ferita gli pulsava sotto lo spallaccio di cuoio. Dietro di lui giacevano le ossa di suo padre e tutto quello che conosceva. Davanti a lui i picchi frastagliati svettavano contro il cielo, come a sbarrargli la strada verso il raggiungimento della sua meta. Ma non si sarebbe sottratto. E non avrebbe guardato indietro.

Katrina.

Alzando il mento, Roran mosse il primo passo. Il bastone picchiò sulle tavole di legno mentre attraversava la trincea e usciva da Carvahall, guidando i suoi compaesani nella selvaggia natura della Grande Dorsale.

La rupe di Tel'naeìr

Fulgido come un sole abbagliante, il drago si librava davanti a Eragon e agli altri, radunati sulla rupe di Tel'naeir, investendoli con folate di vento sollevate dalle sue ali possenti. Il suo corpo sembrava sprigionare vampe di fuoco, mentre l'alba lucente illuminava le sue squame dorate che riflettevano sprazzi di luce abbagliante sul terreno e sugli alberi. Era molto più grande di Saphira, abbastanza da avere almeno parecchie centinaia di anni; il collo, gli arti e la coda erano in proporzione più massicci. Sul suo dorso era seduto il Cavaliere, i suoi abiti di un bianco abbacinante contro lo splendore delle squame.

Eragon cadde in ginocchio, con il volto alzato. Non sono solo... Timore reverenziale e sollievo lo pervasero. Non sarebbe più stato l'unico a sopportare il peso della responsabilità dei Varden e di Galbatorix. Davanti a lui c'era uno dei guardiani del remoto passato, risorto dagli abissi del tempo per guidarlo, un simbolo vivente, l'incarnazione delle leggende con cui era cresciuto. Davanti a lui c'era il suo maestro. Davanti a lui c'era una leggenda! Quando il drago virò per atterrare, Eragon trasalì: la zampa anteriore sinistra della creatura era stata mozzata da un colpo terribile, lasciando un inerte moncone bianco laddove un tempo c'era un arto possente. Gli si riempirono gli occhi di lacrime.

Un turbine di rametti secchi e di foglie si levò in cima alla rocca, quando il drago si posò sul tappeto di trifoglio e chiuse le ali. Il Cavaliere smontò con cautela usando la zampa destra del drago, quella sana, e si avvicinò a Eragon con le mani giunte. Era un elfo dai capelli argentei, vecchio oltre ogni dire, anche se l'unico segno di età era l'espressione di grande compassione e tristezza sul suo volto.

«Osthato Chetowà» mormorò Eragon. «Il Saggio Dolente. .. Come tu mi hai chiesto, sono venuto.» Con un sussulto, si ricordò delle buone maniere, e si toccò le labbra. «Atra esterni ono thelduin.»

Il Cavaliere sorrise. Gli posò le mani sulle spalle e lo invitò a rialzarsi, fissandolo con una tale tenerezza che Eragon non riusciva a distogliere lo sguardo; si sentiva consumato dagli sconfinati abissi degli occhi dell'elfo. «Oromis è il mio nome, Eragon Ammazzaspettri.»

«Lo sapevi» mormorò Islanzadi, con un'espressione ferita che presto si trasformò in una vampa di collera. «Sapevi dell'esistenza di Eragon e non mi hai detto niente? Perché mi hai tradita, Shur 'rugai?»

Oromis spostò lo sguardo da Eragon sulla regina. «Ho taciuto perché non sapevo se Eragon o Arya sarebbero vissuti abbastanza a lungo da arrivare fin qui. Non volevo darti una fragile speranza che avrebbe potuto infrangersi da un momento all'altro.»

Islanzadi si volse di scatto, con uno svolazzo del mantello di piume di cigno. «Non avevi il diritto di nascondermi questa notizia! Avrei potuto mandare dei guerrieri a proteggere Arya, Eragon e Saphira nel Farthen Dùr, e scortarli qui sani e salvi.»

Oromis sorrise mesto. «Non ti ho tenuto nascosto niente, Islanzadi, se non quello che avevi già deciso di non vedere. Se avessi divinato il territorio, com'era tuo dovere, avresti scoperto la fonte del caos che devasta Alagaésia, e appreso la verità su Arya ed Eragon. Che tu abbia potuto dimenticare i Varden e i nani, nel tuo dolore, è comprensibile, ma Brom? Vinr Àlfakyn? L'ultimo degli Amici degli Elfi? Hai chiuso il tuo cuore al mondo, Islanzadi, e ti sei rifugiata sul tuo trono nodoso. Non potevo rischiare di farti ancora più male procurandoti un altro lutto.»

La collera di Islanzadi sbollì, lasciandole il volto pallido e le spalle curve. «Sono mortificata» mormorò. Una folata d'aria umida e bollente investì Eragon quando il drago dorato si chinò per esaminarlo con occhi scintillanti. Finalmente ci incontriamo, Eragon Ammazzaspettri. Io sono Glaedr. La voce del drago - un maschio, senza ombra di dubbio - rimbombò nella mente di Eragon con il fragore di una valanga di montagna.

Eragon non potè far altro che portarsi le dita alle labbra e dire: «Sono onorato.»

Poi Glaedr spostò la sua attenzione su Saphira. La dragonessa rimase perfettamente immobile, con il collo rigido e inarcato, mentre Glaedr le annusava la guancia e il profilo dell'ala. Eragon vide i muscoli contratti di Saphira percorsi da un involontario tremore. Hai l'odore degli umani, disse Glaedr, e tutto quello che sai della tua razza è dovuto soltanto a quanto il tuo istinto ti ha insegnato, ma in te c'è il cuore di un vero drago.

Durante questo scambio silenzioso, Orik si presentò a Oromis. «In tutta sincerità, questo va ben oltre quanto avrei mai osato sperare. Rappresenti una lieta sorpresa in questi tempi bui, Cavaliere.» Si batte il pugno sul cuore. «Se non è troppo arrogante, vorrei chiederti un favore in nome del mio re e del mio clan, com'era usanza fra i nostri popoli.» Oromis annuì. «E io te lo concederò, se mi è possibile.»

«Allora dimmi: perché sei rimasto nascosto per tutti questi anni? Avevamo un grande bisogno di te, Argetlam.» «Ah» fece Oromis. «Esistono molti dispiaceri a questo mondo, e uno dei più grandi è non poter aiutare coloro che soffrono. Non potevo rischiare di abbandonare questo rifugio, perché se fossi morto prima che un uovo di Galbatorix si schiudesse, non sarebbe rimasto nessuno a tramandare i nostri segreti al nuovo Cavaliere, e sarebbe stato ancor più arduo sconfiggere il tiranno.»

«Era questo il motivo?» esclamò Orik, indignato. «Queste sono le parole di un codardo! Le uova avrebbero potuto non schiudersi mai.»

Calò un silenzio di tomba, interrotto soltanto da un cupo ringhio proveniente dalle zanne di Glaedr. «Se non fossi mio ospite» tuonò Islanzadi, «ti avrei colpito io stessa per questo insulto.»

Oromis tese le braccia. «Nessuna offesa. È una reazione comprensibile. Ma devi capire, Orik, che Glaedr e io non possiamo combattere. Glaedr ha la sua mutilazione, e anch'io...» si toccò un lato della testa, «anch'io sono menomato. I Rinnegati hanno spezzato qualcosa dentro di me, mentre ero loro prigioniero, e pur essendo ancora in grado di insegnare e apprendere, non posso più controllare la magia, a parte qualche incantesimo minore. I poteri mi sfuggono, per quanto io mi sforzi. Sarei più che inutile in battaglia; sarei un anello debole, un peso, qualcuno da catturare facilmente e usare contro di voi. Perciò mi sono sottratto all'influenza di Galbatorix, anche se desideravo combatterlo con tutto me stesso.»

«Lo Storpio Che è Sano» mormorò Eragon.

«Perdonami» disse Orik, con espressione contrita.

«Non c'è nulla da perdonare.» Oromis posò una mano sulla spalla di Eragon. «Islanzadi Dròttning, col tuo permesso...» «Andate» disse la regina con un filo di voce. «Andate e portate a compimento l'opera.»

Glaedr si accucciò sul terreno, e Oromis si arrampicò sulla sua zampa per poi montare in sella. «Venite, Eragon e Saphira. Abbiamo tante cose da dirci.» Il drago dorato spiccò il volo dalla rupe e girò in circolo, sollevando una corrente d'aria. Eragon e Orik si strinsero gli avambracci con aria solenne. «Fa' onore al tuo clan» disse il nano. Mentre saliva in groppa a Saphira, Eragon ebbe la sensazione di imbarcarsi per un lungo viaggio, e che avrebbe dovuto dire addio a coloro che restavano indietro. Tuttavia si limitò a guardare Arya e a sorridere, lasciando che fossero la gioia e la meraviglia a parlare per lui. Lei aggrottò la fronte, come preoccupata, ma lui era già in alto, trasportato verso il cielo dalla bramosìa del volo di Saphira.

I due draghi seguirono la bianca rupe verso nord per diverse miglia, accompagnati soltanto dal rumore delle loro ali. Saphira volava fianco a fianco con Glaedr. Il suo entusiasmo ribolliva nella mente di Eragon, acutizzando anche le sue emozioni.

Atterrarono in un'altra radura situata ai margini della rupe, appena prima che la parete di roccia nuda tornasse a sprofondare nella terra. Un sentiero brullo conduceva dal precipizio ai gradini di un basso capanno, cresciuto fra i tronchi di quattro alberi, uno dei quali si biforcava su un torrente che emergeva dagli oscuri recessi della foresta. Glaedr non poteva entrare nel rifugio; semmai, il capanno sarebbe entrato sotto il suo torace.

«Benvenuti a casa mia» disse Oromis nello smontare di sella con straordinaria agilità. «Io vivo qui, ai margini della rupe di Tel'naeir, perché questo luogo mi offre l'opportunità di pensare e studiare in pace. La mia mente funziona meglio, lontano da Ellesméra e dalle distrazioni degli altri individui.»

Scomparve all'interno del capanno, poi tornò con due sgabelli e boccali d'acqua pura e fresca. Fra un sorso e l'altro, Eragon ammirò il vasto panorama della Du Welden-varden nel tentativo di nascondere l'emozione e il nervosismo che provava, aspettando che l'elfo parlasse. Sono in presenza di un altro Cavaliere! Al suo fianco, Saphira si accucciò con gli occhi fissi su Glaedr, vangando distrattamente il terriccio con gli artigli.

La pausa nella conversazione si allungava sempre di più. Passarono dieci minuti, mezz'ora e poi un'ora. A un certo punto, Eragon cominciò a misurare lo scorrere del tempo in base ai progressi del sole. Al principio la sua mente era affollata di quesiti e pensieri, ma alla fine questi cedettero a una serena rassegnazione. Si limitò a godersi la giornata. Soltanto allora Oromis disse: «Conosci il valore della pazienza. Bene.»

Ci volle qualche istante perché Eragon recuperasse la voce. «Non puoi fare la posta a un cervo se vai di fretta.» Oromis posò il suo boccale. «Giusto. Fammi vedere le tue mani. Sai, le mani dicono molto di una persona.» Eragon si tolse i guanti e lasciò che l'elfo gli prendesse i polsi con le dita lunghe e scarne. Oromis esaminò i calli di Eragon e disse: «Correggimi se sbaglio. Hai impugnato falci e forconi molto più spesso di una spada, anche se sei abituato a maneggiare l'arco.»

«Giusto.»

«E hai scritto o disegnato assai poco.»

«Brom mi ha insegnato a leggere a Teirm.»

«Mmm. A parte la scelta degli attrezzi, mi sembra evidente che tendi a gettarti a capofitto nelle situazioni senza badare alla tua incolumità.»

«Cosa te lo fa credere, Oromis-elda?» chiese Eragon, usando l'appellativo più rispettoso e formale. «Non elda» lo corresse Oromis. «Puoi chiamarmi maestro in questa lingua, oppure ebrithil nell'antica lingua, sarà sufficiente. Porgerai la stessa cortesia a Glaedr. Noi siamo i tuoi insegnanti; e voi i nostri allievi. Vi comporterete con rispetto e deferenza.» Oromis usò un tono gentile, ma con l'autorità di chi si aspetta obbedienza incondizionata. «Sì, maestro Oromis.»

«Vale lo stesso per te, Saphira.»

Eragon percepì quanto fosse difficile per Saphira rinunciare al suo orgoglio abbastanza da dire Sì, maestro. Oromis annuì. «Ora a noi. Chiunque abbia una tale collezione di cicatrici è stato perseguitato dalla sfortuna o combatte come un demonio, oppure insegue deliberatamente il pericolo. Combatti come un demonio?»

«No.»

«Né mi sembri perseguitato dalla sfortuna, anzi, tutt'altro. Questo lascia spazio a un'unica spiegazione. A meno che non la pensi diversamente.»

Eragon ripercorse le esperienze avute a casa e durante i suoi viaggi, nel tentativo di catalogare il proprio comportamento. «Direi piuttosto che quando mi prefiggo un obiettivo, voglio realizzarlo a tutti i costi... specie se qualcuno che amo si trova in pericolo.» Il suo sguardo guizzò dalla parte di Saphira.

«Ti piace dunque intraprendere strade pericolose?»

«Mi piacciono le sfide.»

«Quindi provi il desiderio di cimentarti nelle avversità per mettere alla prova le tue capacità.»

«Mi piace vincere le sfide, ma ho affrontato abbastanza traversie da sapere che è sciocco rendere le cose più difficili di quanto già non siano. È quanto posso fare per sopravvivere.»

«Eppure hai scelto di inseguire i Ra'zac, quando sarebbe stato più facile restare nella Valle Palancar. E sei venuto qui.» «Era la cosa giusta da fare... maestro.»

Per lunghi minuti regnò il silenzio. Eragon provò a immaginare che cosa stesse pensando l'elfo, ma non riusciva a decifrare alcuna emozione sulla maschera impassibile del suo volto. Alla fine, Oromis si riscosse. «Per caso, ti hanno dato un monile di qualche tipo a Tarnag? Un gioiello, un ornamento, magari una moneta?»

«Sì.» Eragon s'infilò la mano nella tunica ed estrasse la catena con il piccolo martello d'argento. «L'ha fatto Gannel per me su ordine di Rothgar, per impedire a chiunque di divinare me o Saphira. Temevano che Galbatorix potesse scoprire il mio volto... Come lo sapevi?»

«Perché» disse Oromis «non riuscivo più a percepirti.»

«Qualcuno ha tentato di divinarmi vicino a Silthrim una settimana fa. Eri tu?»

Oromis fece no con la testa. «Dopo la prima volta che ti ho divinato con Arya, non ho più avuto bisogno di ricorrere a un metodo così incivile per trovarti. Potevo toccare la tua mente con la mia, come ho fatto quando eri ferito nel Farthen Dùr.» Prendendo l'amuleto, mormorò alcune frasi nell'antica lingua, poi glielo restituì. «Non contiene altri incantesimi occultati. Tienilo sempre con te; è un dono prezioso.» Unì i polpastrelli, le unghie chiare e rotonde come squame di pesce, e contemplò l'orizzonte. «Perché sei qui, Eragon?»

«Per completare il mio addestramento.»

«E cosa pensi che voglia dire?»

Eragon si agitò, a disagio. «Imparare altro sulla magia e sulle tecniche di combattimento. Brom non ha potuto finire di insegnarmi tutto quel che sapeva.»

«La magia, l'arte della scherma, e tutte le altre tecniche sono inutili se non sai come e quando applicarle. Questo ti insegnerò. Tuttavia, come ha dimostrato Galbatorix, il potere senza rigore morale è la forza più pericolosa del mondo. Il mio principale compito, pertanto, sarà aiutare voi, Eragon e Saphira, a comprendere quali principi debbano guidarvi, perché non facciate le scelte giuste per le ragioni sbagliate. Dovrete apprendere di più su voi stessi, chi siete e che cosa siete in grado di fare. Ecco perché siete qui.»

Quando cominciamo? domandò Saphira.

Oromis fece per rispondere, quando il suo corpo s'irrigidì e il boccale gli cadde di mano. Divenne rosso in volto e le sue dita si trasformarono in artigli che stringevano la veste come lappole. Il cambiamento fu spaventoso e repentino, ma Eragon non ebbe nemmeno il tempo di muovere un dito che l'elfo si era già calmato, anche se il suo corpo tradiva un'estrema debolezza.

Preoccupato, Eragon si arrischiò a chiedere: «Stai bene?»

Oromis sollevò un angolo della bocca in un sorriso ironico. «Meno di quanto vorrei. Noi elfi ci illudiamo di essere immortali, ma nemmeno noi possiamo sfuggire a certe malattie della carne. Con la nostra magia possiamo soltanto rallentarle. No, non temere... non è contagiosa, ma non posso guarirmi.» Sospirò. «Ho passato decenni a evocare su di me piccoli, deboli incantesimi che, strato dopo strato, raddoppiano l'effetto dei sortilegi che ormai sono fuori dalla mia portata. Mi sono protetto con essi per poter vivere abbastanza a lungo da vedere la nascita dell'ultimo drago e per contribuire alla resurrezione dei Cavalieri dalle rovine dei nostri errori.»

«Per quanto...»

Oromis inarcò un sopracciglio obliquo. «Per quanto vivrò ancora? Abbiamo tempo, ma per noi è poco e prezioso, specie se i Varden decidono di chiamarti in loro aiuto. Di conseguenza, per rispondere alla tua domanda, Saphira, cominceremo la vostra istruzione seduta stante, e ci alleneremo più in fretta di quanto abbia mai fatto o farà qualsiasi altro Cavaliere, perché sarò costretto a condensare secoli di conoscenze in mesi e settimane.»

«Tu sai» disse Eragon, lottando per vincere l'imbarazzo e la vergogna che gli avvampavano le guance «della mia... della mia infermità.» Pronunciò l'ultima parola a fatica, odiandola con tutto se stesso. «Sono storpio come te.» Negli occhi di Oromis balenò un lampo di compassione, ma la sua voce suonò severa. «Eragon, tu sei storpio soltanto se ti consideri tale. Capisco come ti senti, ma devi restare ottimista, perché un atteggiamento negativo è più limitante di qualunque ferita fisica. Ti parlo per esperienza personale. L'autocommiserazione non aiuterà né te né Saphira. Io e gli altri stregoni studieremo la tua menomazione per vedere di trovare un modo di alleviarla, ma nel frattempo, il tuo addestramento procederà come se niente fosse.»

Eragon si sentì torcere le viscere, e assaggiò il sapore della bile nel capire che cosa avrebbe significato per lui. Oromis non può davvero volere che io sopporti ancora quel tormento! «Il dolore è intollerabile» balbettò, in preda al panico. «Mi ucciderà. Io...»

«No, Eragon, non ti ucciderà. Conosco bene la tua sofferenza. Tuttavia abbiamo entrambi un dovere da compiere, tu nei riguardi dei Varden e io nei tuoi. Non possiamo eluderlo per paura del semplice dolore. La posta in gioco è troppo alta, e non possiamo permetterci di fallire.» Eragon non potè far altro che scuotere il capo, mentre il panico minacciava di sopraffarlo. Cercò di negare le parole di Oromis, ma la verità era adamantina. «Eragon. Devi accettare questo onere in piena coscienza. Non hai niente o nessuno per cui valga la pena di sacrificarsi?»

Il suo primo pensiero fu per Saphira, ma non faceva questo per lei. E non per Nasuada. E nemmeno per Arya. Che cosa lo spingeva, allora? Quando aveva giurato fedeltà a Nasuada, lo aveva fatto per il bene di Roran e dei popoli sottomessi all'Impero. Ma valevano tanto da indurlo a sottoporsi a quel supplizio? Sì, decise. Sì, perché io sono l'unico che possa aiutarli, e perché non sarò mai libero dall'ombra di Galbatorix finché non lo saranno anche loro. E perché è il mio unico scopo nella vita. Che cos'altro potrei fare? Rabbrividì nel pronunciare la frase solenne: «Accetto in nome di coloro per cui combatto: i popoli di Alagaésia, di tutte le razze, che hanno subito le brutalità di Galbatorix. Non m'importa del dolore. Giuro che mi allenerò più duramente di qualunque allievo tu abbia mai avuto.» Oromis annuì con aria grave. «Non chiedo niente di meno.» Guardò Glaedr per un momento, poi disse: «Alzati e togliti la tunica. Fammi vedere di cosa sei fatto.»

Aspetta, disse Saphira. Maestro, Brom sapeva della tua esistenza qui? Eragon si fermò, colpito da quella possibilità. «Naturalmente» disse Oromis. «Da ragazzo fu mio allievo a Ilirea. Sono lieto che gli abbiate dato una degna sepoltura, perché ha avuto una vita difficile e sono pochi coloro che si sono dimostrati gentili con lui. Spero che abbia trovato la pace prima di entrare nel vuoto.»

Eragon aggrottò la fronte. «Conoscevi anche Morzan?»

«Fu mio apprendista prima di Brom.»

«E Galbatorix?»

«Io fui uno degli Anziani che gli negarono un altro drago dopo che il suo primo rimase ucciso, ma no, non ebbi mai la sventura di insegnargli. Si incaricò personalmente di rintracciare e uccidere tutti i suoi mentori.» Eragon smaniava dalla voglia di fare altre domande, ma sapeva che era meglio aspettare, così si alzò e si slacciò il collo della tunica. A quanto pare, disse a Saphira, i segreti di Brom non finiscono mai di sorprenderei. Rabbrividì nel sentire l'aria fredda sulla pelle, poi drizzò le spalle e gonfiò il petto.

Oromis gli girò intorno, fermandosi con un'esclamazione attonita davanti alla cicatrice che gli solcava la schiena. «Perché Arya o qualcuno dei guaritori dei Varden non ti ha rimosso questo marchio? Non dovresti portarlo.» «Arya lo propose, ma...» Eragon s'interruppe, incapace di esprimere ciò che sentiva. Alla fine, disse semplicemente: «Fa parte di me, adesso, come la cicatrice di Murtagh era parte di lui.»

«La cicatrice di Murtagh?»

«Murtagh aveva un marchio simile. Gli fu inflitto dal padre, Morzan, che gli scagliò addosso Zar'roc quando era ancora un bambino.»

Oromis lo guardò serio per lunghi istanti, prima di annuire e ricominciare a camminare. «I tuoi muscoli sono abbastanza sviluppati, e non pendi da un fianco come la maggior parte degli spadaccini. Sei ambidestro?»

«Non proprio, ma ho dovuto imparare a combattere con la sinistra quando mi sono rotto il polso destro a Teirm.» «Bene. Questo ci farà risparmiare del tempo. Unisci le mani dietro la schiena e sollevale il più in alto possibile.» Eragon obbedì, ma la postura gli faceva dolere le spalle e a stento riusciva a far incontrare le mani. «Ora fletti il busto in avanti, tenendo le ginocchia dritte, e prova a toccare il terreno.» Questo fu ancora più difficile per Eragon, che si ritrovò curvo come un gobbo, con le braccia penzoloni oltre la testa, mentre i tendini delle ginocchia gli bruciavano da morire. Le sue dita erano ancora a un palmo dal suolo. «Se non altro ti sai allungare senza farti male. Non avrei mai sperato tanto. Sei in grado di eseguire un certo numero di esercizi di flessibilità senza strapparti. Bene.»

Poi Oromis si rivolse a Saphira. «Vorrei conoscere anche le tue capacità, dragonessa.» Le impartì una serie di comandi complessi che coinvolsero ogni muscolo della sua sinuosa lunghezza, per culminare in una sequenza di acrobazìe aeree quali Eragon non aveva mai visto. Soltanto un paio di cose superavano le sue capacità, come una rovesciata aerea con avvitamento.

Quando atterrò, fu Glaedr che disse: Ho paura che abbiamo viziato i Cavalieri. Se i nostri discendenti fossero stati costretti a sopravvivere allo stato selvatico, come lo sei stata tu o come lo furono i nostri antenati, forse allora avrebbero posseduto le tue capacità.

«No» ribatte Oromis. «Se anche Saphira fosse stata allevata a Vroengard seguendo i metodi tradizionali, sarebbe stata in ogni caso una volatrice straordinaria. Ho visto di rado un drago così naturalmente adatto al cielo.» Saphira battè le palpebre, poi arruffò le ali e si dedicò alla pulizia di un'unghia in maniera tale da nascondersi il muso. «Avrai modo di migliorare, come tutti noi, ma poco, molto poco.» L'elfo si sedette, con la schiena perfettamente diritta. Per le successive cinque ore, secondo la stima di Eragon, Oromis indagò ogni aspetto delle cognizioni di Eragon e di Saphira, dalla botanica alla lavorazione del legno, dalla metallurgia alla medicina, soffermandosi in particolar modo sulle loro conoscenze di storia e dell'antica lingua. L'interrogazione confortò Eragon, perché gli ricordava come Brom era solito esaminarlo durante i loro lunghi spostamenti verso Teirm e Dras-Leona.

Quando si interruppero per il pranzo, Oromis invitò Eragon in casa, lasciando i due draghi da soli. L'alloggio dell'elfo era spoglio, a parte gli oggetti necessari all'alimentazione, all'igiene e alla vita intellettuale. Due pareti erano disseminate di nicchie che ospitavano centinaia di rotoli di pergamena. Vicino al tavolo erano appesi un fodero dorato - dello stesso colore delle squame di Glaedr - e una spada dalla lama color bronzo iridescente.

Sul riquadro interno della porta, incassato nel cuore del legno, c'era un pannello alto una spanna e largo due, che raffigurava una splendida città ricca di torri, addossata a una scarpata e illuminata dalla luce rossa di una luna nascente. La faccia butterata della luna era tagliata a metà dall'orizzonte e sembrava poggiare sul suolo come una cupola screziata grande quanto una montagna. L'immagine era così nitida e ricca di dettagli che sulle prime Eragon la scambiò per una finestra magica; fu solo quando si accorse che l'immagine era assolutamente statica che riuscì ad accettarla come opera d'arte.

«Che luogo è?» domandò.

I lineamenti affilati di Oromis si contrassero per un istante. «Farai bene a mandare a memoria quel panorama, Eragon, poiché in esso risiede l'origine della tua miseria. Quella che vedi era un tempo la nostra città, Ilirea. Fu bruciata e abbandonata durante la Du Fyrn Skulblaka, e divenne la capitale del regno di Broddring, mentre adesso è la città nera di Urù'baen. Ho fatto questo fairth la notte in cui io e gli altri fummo costretti a fuggire prima dell'arrivo di Galbatorix.» «Tu hai dipinto questo... fairth?»

«No, niente del genere. Un fairth è un'immagine fissata per magia su una lastra di ardesia levigata, preparata in anticipo con strati di pigmenti. Il panorama su quella porta raffigura esattamente com'era Ilirea nel momento in cui pronunciai l'incantesimo.»

«E» disse Eragon, incapace di arrestare il flusso di domande «cos'era il regno di Broddring?»

Oromis sgranò gli occhi, allibito. «Non lo sai?» Eragon fece di no con la testa. «Come fai a non saperlo? Certo, considerando come hai vissuto fino a qualche tempo fa e la paura che Galbatorix incute nella tua gente, posso ben capire che tu sia stato cresciuto nelle tenebre dell'ignoranza della tua cultura. Ma non posso credere che Brom sia stato tanto negligente da trascurare argomenti che persino gli elfi o i nani più giovani conoscono. I bambini dei Varden saprebbero dirmi molte più cose sul passato.»

«Brom era più preoccupato di salvarmi la vita che di insegnarmi cose su gente ormai morta» ribattè Eragon. Dopo qualche istante di profondo silenzio, Oromis disse: «Perdonami. Non era mia intenzione dubitare del giudizio di Brom. Le mie parole sono state dettate dall'impazienza; abbiamo così poco tempo, e più cose nuove devi imparare, meno occasioni avremo di approfondire le altre durante la tua permanenza qui.» Aprì una serie di credenze, celate nella parete curva, e prese alcuni panini dolci e una ciotola di frutta. Posò il cibo sul tavolo e fece una breve pausa a occhi chiusi prima di cominciare a mangiare. «Il regno di Broddring era il paese degli umani prima della caduta dei Cavalieri. Dopo aver ucciso Vreal, Galbatorix volò a Ilirea con i Rinnegati e depose il re Angrenost, impadronendosi del trono e dei titoli. Il regno di Broddring formò quindi il nucleo delle conquiste di Galbatorix. In seguito, annesse Vroengard e le altre terre a est e a sud, creando l'impero che tu conosci. Tecnicamente, il regno di Broddring ancora esiste, anche se, a questo punto, dubito che rappresenti più di un nome sui decreti reali.»

Temendo di infastidire l'elfo con altre domande, Eragon si concentrò sul cibo. Il suo volto però dovette tradirlo, perché Oromis disse: «Mi ricordi Brom quando lo scelsi come mio apprendista. Era più giovane di te, aveva appena dieci anni, ma la sua curiosità era altrettanto grande. Per un anno non sentii altro da lui se non come, cosa, quando, e soprattutto, perché. Non trattenerti dal chiedere quel che il tuo cuore ti suggerisce.»

«Sono tante le cose che vorrei sapere» mormorò Eragon. «Chi sei? Da dove vieni? Da dove veniva Brom? Com'era Morzan? Come, cosa, quando, perché? E vorrei sapere tutto su Vroengard e sui Cavalieri. Forse allora avrò più chiaro il mio cammino.»

Calò il silenzio mentre Oromis piluccava una mora, staccandone un pallino succoso alla volta. Quando l'ultimo granello sparì fra le sue labbra tinte di viola, si strofinò le mani - o "si lucido i palmi", per usare le parole di Garrow e disse: «Su di me sappi questo: sono nato qualche secolo fa nella città di Luthìvira, che si trova nei boschi che orlano il lago Tùdosten. All'età di vent'anni, come tutti i bambini elfici, fui condotto davanti alle uova che i draghi avevano dato ai Cavalieri, e Glaedr nacque per me. Fummo addestrati, e per quasi un secolo viaggiammo per il mondo, facendo la volontà di Vrael. Alla fine arrivò il giorno in cui fu opportuno per noi ritirarci, per tramandare la nostra esperienza alla nuova generazione, e ci stabilimmo a Ilirea per insegnare ai nuovi Cavalieri, uno o due alla volta, finché Galbatorix non ci distrusse.»

«E Brom?»

«Brom veniva da una famiglia di miniaturisti di Kuasta. Sua madre si chiamava Nelda e suo padre Holcomb. La Grande Dorsale isolava così tanto Kuasta dal resto di Alagaésia che la città era diventata un luogo molto particolare, pieno di strane usanze e superstizioni. Pensa che quando Brom era ancora nuovo di Ilirea, bussava per tre volte sullo stipite di una porta prima di entrare o uscire da una stanza. Gli studenti umani lo deridevano per queste sue abitudini, finché non smise di farlo, insieme ad altre cose.

«Morzan fu il mio più grande fallimento. Brom lo idolatrava. Lo seguiva come un'ombra, non lo contraddiceva mai, e non credeva di poterlo mai superare in nessuna impresa. Morzan - mi vergogno ad ammetterlo, perché avrei potuto impedirlo - ne era consapevole e sfruttava la devozione di Brom in cento modi diversi. Divenne così arrogante e crudele che pensai di separarlo da Brom. Ma prima di poterlo fare, Morzan aiutò Galbatorix a rubare un cucciolo di drago, Shruikan, per rimpiazzare quello che aveva perso, e a ucciderne il Cavaliere. Morzan e Galbatorix allora fuggirono insieme, segnando la nostra condanna.

«Non puoi nemmeno lontanamente immaginare gli effetti del tradimento di Morzan su Brom se prima non comprendi quando profondo fosse il suo attaccamento a lui. E quando alla fine Galbatorix rivelò le sue intenzioni e i Rinnegati uccisero il drago di Brom, lui concentrò tutta la sua rabbia e il suo dolore su colui che riteneva responsabile della distruzione del suo mondo: Morzan.»

Oromis fece una pausa, con espressione grave. «Sai perché perdere il tuo drago, o viceversa, di solito uccide quello che sopravvive?»

«Posso immaginarlo» disse Eragon, tremando al solo pensiero.

«Il dolore è un colpo già abbastanza forte, anche se non sempre determinante, ma il vero danno è provocato dalla perdita di parte della tua mente. Parte della tua identità muore. Quando questo accadde a Brom, temetti che perdesse il senno. Poi fui catturato, ma riuscii a fuggire, e allora portai Brom a Ellesméra per sicurezza, ma lui si rifiutò di rimanere, e volle marciare con il nostro esercito nelle pianure di Ilirea, dove re Evandar fu ucciso.

«Il caos era indescrivibile. Galbatorix era impegnato a consolidare il suo potere, i nani erano in ritirata, il sudest era sconvolto dalla guerra mentre gli umani si ribellavano e combattevano per creare il Surda, e noi avevamo appena perso il nostro re. Spinto dal desiderio di vendetta, Brom cercò di sfruttare la confusione a proprio vantaggio. Riunì molti di coloro che erano stati esiliati, liberò alcuni che erano stati imprigionati, e con loro formò i Varden. Li guidò lui stesso per diversi anni, poi affidò l'incarico a un altro per essere libero di perseguire il proprio vero obiettivo, la distruzione di Morzan. Brom uccise personalmente tre Rinnegati, compreso Morzan, e fu responsabile della morte di altri cinque. Non ha avuto una vita facile o felice, ma era un buon Cavaliere e un buon uomo, e io sono onorato di averlo conosciuto.» «Non ho mai sentito il suo nome collegato alla morte dei Rinnegati» obiettò Eragon.

«Galbatorix non voleva rendere pubblico il fatto che esisteva ancora qualcuno in grado di sconfiggere i suoi servi. Gran parte del suo potere risiede nell'apparenza di invulnerabilità.»

Ancora una volta, Eragon si trovò costretto a rivedere l'idea che aveva di Brom: dal cantastorie di paese che Eragon aveva conosciuto da bambino al guerriero e stregone con cui aveva viaggiato al Cavaliere che aveva scoperto essere in realtà, e infine adesso l'agitatore di masse, la guida rivoluzionaria e l'assassino. Era difficile conciliare tanti ruoli diversi. Ho come la sensazione di non averlo conosciuto affatto. Vorrei tanto aver avuto il tempo di parlare con lui di tutto questo almeno una volta. «Era un buon uomo» convenne Eragon.

Guardò fuori da una delle finestre rotonde che si affacciavano sull'orlo della rocca e consentivano al calore pomeridiano di diffondersi nella stanza. Osservò Saphira, notando come si comportava con Glaedr, timida e vezzosa al tempo stesso. Un attimo prima si girava per esaminare le caratteristiche della radura, quello dopo arruffava le ali e faceva piccoli gesti per stuzzicare il drago, come dondolare la testa da un lato e dall'altro, o far guizzare la punta della coda quasi fosse pronta a balzare su un cervo. A Eragon sembrava una gattinà che cerchi di convincere un vecchio gatto a giocare con lei. Ma Glaedr restava impassibile.

Saphira, la chiamò. Lei rispose con un distratto baluginio di pensiero, senza quasi riconoscerlo. Saphira, rispondimi. Che cosa c'è?

So che sei eccitata, ma non renderti ridicola.

Tu ti sei reso ridicolo un sacco di volte, ribatte lei.

La sua risposta fu così inaspettata che lo lasciò di stucco.

Era quel tipo di crudele commento che usavano spesso gli umani, ma non si sarebbe mai aspettato di sentirlo da lei. Alla fine riuscì a dire: Già, ma questo non cambia le cose. Lei grugnì e gli chiuse la mente, anche se Eragon percepiva ancora strascichi di emozioni.

Il giovane tornò in sé per scoprire gli occhi grigi di Oromis fissi su di lui. Erano così perspicaci che Eragon era sicuro che Oromis avesse capìto che cosa era successo. Abbozzò un sorriso e fece un cenno verso Saphira. «Anche se siamo intimamente legati, non so mai predire cosa farà. Più imparo a conoscerla, più mi rendo conto di quanto siamo diversi.» Allora Oromis pronunciò una frase che colpì Eragon in tutta la sua straordinaria saggezza. «Coloro che amiamo spesso ci sono più estranei degli altri.» L'elfo fece una pausa. «Saphira è molto giovane, come te. A me e Glaedr ci sono voluti decenni per capirci a vicenda. Il legame di un Cavaliere con il suo drago è come qualunque altra relazione... ossia, un progresso continuo. Ti fidi di lei?»

«Con tutta l'anima.»

«E lei si fida di te?»

«Sì.»

«Allora assecondala. Tu sei stato allevato come un orfano. Lei è cresciuta credendo di essere l'unico individuo incorrotto della sua intera razza. E adesso ha visto che si sbagliava. Non sorprenderti se ci vorrà qualche mese prima che smetta di tormentare Glaedr e riporti la sua attenzione su di te.»

Eragon si rigirò una mora fra le dita; la fame gli era passata. «Perché gli elfi non mangiano carne?» «Perché dovremmo?» Oromis prese una fragola e la voltò perché la luce colpisse la sua buccia bucherellata e illuminasse la sottile peluria che la rivestiva. «Tutto quello che ci serve lo cantiamo dalle piante, compreso il cibo. Sarebbe barbaro far soffrire gli animali soltanto per avere qualche altra pietanza sulle nostre mense... La nostra scelta ti sarà più chiara ben presto.»

Eragon aggrottò la fronte. Aveva sempre mangiato carne e non lo solleticava la prospettiva di mangiare soltanto frutta e verdura finché restava a Ellesméra. «Non vi manca il gusto?»

«Non ti può mancare qualcosa che non hai mai avuto.» «E Glaedr? Non può vivere soltanto d'erba.» «No, ma non occorre nemmeno infliggere dolore inutile. Ciascuno di noi fa del suo meglio con quanto gli è stato dato. Non puoi ripudiare ciò che sei.»

«E Islanzadi? Il suo mantello era fatto di piume di cigno.» «Piume perdute dagli animali e raccolte nel corso di molti anni. Nessun uccello è stato ucciso per farle da ornamento.» Finirono di mangiare, ed Eragon aiutò Oromis a strofinare dispensa, gli domandò: «Hai fatto il bagno stamattina?» La domanda sconcertò Eragon, che tuttavia rispose che no, non l'aveva fatto. «Ti prego allora di farlo domattina. E per tutti i giorni a venire.»

«Tutti i giorni! L'acqua è troppo fredda. Mi verrà la febbre.»

Oromis lo guardò con occhi strani. «Allora riscaldala.» Fu il turno di Eragon di guardarlo di traverso. «Non sono abbastanza forte da riscaldare un intero torrente con la magia» protestò.

La casa riecheggiò delle risa di Oromis. Fuori, Glaedr voltò la testa verso la finestra per guardare l'elfo, poi riprese la sua posizione. «Immagino che tu abbia ispezionato i tuoi alloggi ieri sera.» Eragon annuì. «E non hai visto quella piccola stanza con una conca nel pavimento?» «Credevo che servisse a lavare i panni.»

«Serve a lavare te. Nella parete accanto alla cavità ci sono due cannelli nascosti. Aprili, e potrai fare il bagno nell'acqua della temperatura che preferisci. Inoltre» aggiunse, facendo un cenno verso il mento di Eragon, «finché sei mio allievo, mi aspetto che tu porti il volto rasato fintantoché non potrai farti crescere una vera barba, se così sceglierai, e non sembrare un albero con metà foglie cadute. Gli elfi non si radono, ma io possiedo un rasoio e uno specchio che ho trovato, e te li manderò.»

Fremendo per l'orgoglio ferito, Eragon annuì. Tornarono fuori, dove Oromis guardò Glaedr e il drago disse: Abbiamo deciso un programma di studi per Saphira e te.

L'elfo disse: «Comincerete...»

... un'ora dopo l'alba, domattina, al tempo del Giglio Rosso. Tornate qui allora.

«E porta la sella che Brom ha fatto per Saphira» continuò Oromis. «Nel frattempo, fai ciò che vuoi. Ellesméra offre molte meraviglie a uno straniero, se desideri vederle.»

«Lo terrò a mente» disse Eragon, con un inchino del capo. «Prima di andare, maestro, vorrei ringraziarti per avermi aiutato a Tronjheim, dopo che ho ucciso Durza. Dubito che ce l'avrei fatta senza il tuo intervento. Sono in debito con te.»

Siamo entrambi in debito, aggiunse Saphira.

Oromis sorrise e chinò il capo.

i piatti con la sabbia. Mentre l'elfo li riponeva in una

La vita segreta delle formiche

Nel momento in cui Oromis e Glaedr non si videro più, Saphira esclamò: Eragon, un altro drago! Ma è magnifico! Lui le diede una pacca sulla spalla. È meraviglioso. Volando alti sulla Du Weldenvarden, l'unico segno di vita che videro nella foresta era un occasionale pennacchio di fumo che risaliva dalla chioma di un albero e presto si dissipava nell'aria.

Non mi sarei mai aspettata di incontrare un altro drago, tranne Shruikan. Magari di sottrarre le nova a Galbatorix, questo sì, ma le mie speranze si limitavano a questo. E invece adesso! La dragonessa fremette di gioia sotto di lui. Glaedr è incredibile, non trovi? È così vecchio e forte, e le sue squame sono così brillanti. Dev'essere due, no, tre volte più grosso di me. Hai visto che artigli? Sono...

Continuò così per lunghi minuti, sperticandosi di lodi per le qualità di Glaedr. Ma più forti delle sue parole erano le emozioni che Eragon percepiva ribollire in lei: frenesia ed entusiasmo, mescolati a qualcosa che si poteva definire soltanto struggente adorazione.

Eragon tentò di raccontare a Saphira quanto aveva appreso da Oromis - poiché sapeva che lei non aveva prestato attenzione - ma scoprì che era impossibile farle cambiare argomento. Rimase seduto in silenzio sul suo dorso, il mondo un oceano di smeraldo, e si sentì la persona più sola dell'universo.

Tornati ai loro alloggi, Eragon decise di non andare a passeggio; era troppo stanco per gli eventi della giornata e le settimane di viaggio. E Saphira era più contenta di accucciarsi nel suo giaciglio e continuare a chiacchierare di Glaedr, mentre lui esplorava i misteri dello stanzino da bagno degli elfi.

Arrivò la mattina, e con essa un pacchetto avvolto in carta velina con il rasoio e lo specchio che Oromis gli aveva promesso. La lama era di fattura elfica, perciò non aveva bisogno di essere affilata. Sorridendo, Eragon prima fece un bagno nell'acqua calda e fumante, poi prese lo specchio e si studiò il volto.

Sembro più vecchio. Più vecchio e più sfibrato. Non era solo quello: i suoi lineamenti si erano fatti più affilati, dandogli un aspetto ascetico, da falco. Non era un elfo, ma nessuno lo avrebbe scambiato per un puro umano se lo avesse ispezionato da vicino. Tirandosi indietro i capelli, portò alla luce le orecchie, che ora terminavano con una leggera punta, ulteriore prova di quanto il suo legame con Saphira lo stesse cambiando. Si toccò un orecchio, seguendo il profilo inconsueto con le dita.

Gli era difficile accettare la trasformazione della carne. Pur sapendo che sarebbe successo - e a volte ne considerava la prospettiva con entusiasmo, come conferma definitiva del suo essere Cavaliere - la realtà del cambiamento lo riempiva di confusione. Si risentiva del fatto di non avere voce in capitolo su come il suo corpo veniva alterato, eppure allo stesso tempo era curioso di scoprire dove lo avrebbe condotto il processo. E poi sapeva di trovarsi nel pieno dell'adolescenza umana, e nel suo regno di misteri e difficoltà.

Quando finalmente capirò chi sono e che cosa sono?

Posò il filo del rasoio sulla guancia, come aveva visto fare a Garrow, e lo fece scorrere sulla pelle. I peli vennero via a chiazze, ma rimasero troppo lunghi in alcuni punti. Cambiò l'angolazione della lama e provò di nuovo, con un po' più di successo.

Quando raggiunse il mento, però, il rasoio gli sfuggì di mano e gli procurò un taglio dall'angolo della bocca fin sotto la mascella. Ululò di dolore e lasciò cadere il rasoio, premendosi la mano sulla ferita, da cui fiottava sangue sul collo. Sibilando le parole a denti stretti, disse: «Waise heill.» Il dolore scemò, mentre la magia gli ricuciva la pelle, anche se il cuore ancora gli batteva per lo shock.

Eragon! gridò Saphira. Infilò a forza la testa e le spalle nel vestibolo e aprì la porta del camerino con il muso, dilatando le narici all'odore del sangue.

Sopravviverò, la rassicurò lui.

Lei scoccò un'occhiata all'acqua tinta di rosso. Devi stare più attento. Ti preferisco con la peluria a chiazze come un cervo in periodo di muta, che non decapitato per una rasatura spinta troppo a fondo.

Anch'io. Adesso vai, sto bene.

Saphira brontolò e si ritrasse a malincuore.

Eragon restò seduto a guardare con odio il rasoio. Alla fine borbottò: «Al diavolo!» e si ricompose, ripassando il suo inventario di parole nell'antica lingua per scegliere quelle che gli servivano. Si fece rotolare sulla lingua l'incantesimo improvvisato, e una debole pioggia di polvere nera gli cadde dalla faccia, mentre la rada peluria svaniva, lasciandogli le guance perfettamente lisce.

Soddisfatto, Eragon andò a sellare Saphira, che subito si alzò in volo, diretta verso la rupe di Tel'naeìr. Atterrarono davanti al capanno dove trovarono Oromis e Glaedr ad attenderli.

Oromis esaminò la sella di Saphira. Seguì ogni cinghia con le dita, soffermandosi sulle cuciture e sulle fibbie, e poi lo dichiarò un lavoro discreto, considerato come e quando era stato eseguito. «Brom è sempre stato bravo con le mani. Usa questa sella quando vuoi viaggiare a gran velocità. Ma quando vuoi stare comodo...» rientrò nel capanno e ricomparve con una grossa sella ricurva, decorata da incisioni dorate sul sedile e sugli alloggiamenti per le gambe, «... usa questa. È stata fatta a Vroengard e dotata di potenti incantesimi perché non ti tradisca mai nel momento del bisogno.»

Eragon barcollò sotto il peso della sella ricevuta da Oromis. Per forma era simile a quella di Brom, con una serie di fibbie che servivano a immobilizzargli le gambe. Il cuoio del sedile era sagomato per consentirgli di volare per ore senza stancarsi, sia seduto eretto che proteso sul collo di Saphira. Inoltre le corregge che cingevano il petto di Saphira erano dotate di passanti e nodi per poterle allungare e adattarsi alla sua crescita. Una serie di lunghi legacci ai lati del pomo della sella catturarono l'attenzione di Eragon. Ne chiese lo scopo.

Glaedr borbottò: Servono a legarti i polsi e le braccia per non farti morire come un topo sballottato quando Saphira esegue una manovra complessa.

Oromis aiutò Eragon a liberare Saphira dalla sella. «Saphira, oggi tu andrai con Glaedr, mentre io lavorerò qui con Eragon.»

Come desideri, disse lei, vibrante di eccitazione. Sollevando la mole dorata dal suolo, Glaedr prese il volo verso nord, seguito a ruota da Saphira.

Oromis non diede tempo a Eragon di riflettere sull'eccessivo entusiasmo di Saphira, e lo condusse in un recinto quadrato di terra compatta, sotto un salice dall'altro lato della radura. Parandosi davanti a lui, Oromis disse: «Sto per mostrarti la Rimgar, la Danza del Serpente e della Gru. Si tratta di una serie di pose che sviluppammo per preparare i nostri guerrieri al combattimento, anche se adesso gli elfi la usano per mantenere la salute e la forma fisica. La Rimgar consiste in quattro livelli, ognuno più difficile del precedente. Cominceremo dal primo.»

L'apprensione per il compito che lo aspettava fece venire a Eragon una tale nausea che quasi non riusciva a muoversi. Strinse i pugni e incurvò le spalle, con la cicatrice che gli tirava la pelle della schiena, tenendo lo sguardo fisso a terra. «Rilassati» lo ammonì Oromis. Eragon aprì le mani e le lasciò pendere dalle braccia rigide. «Ti ho chiesto di rilassarti, Eragon. Non puoi eseguire la Rimgar se resti rigido come un ciocco di legno.»

«Sì, maestro.» Eragon fece una smorfia e a malincuore sciolse i muscoli e le articolazioni, anche se gli rimaneva un nodo di tensione nello stomaco.

«Tieni i piedi uniti e paralleli, e le braccia lungo i fianchi. Guarda dritto avanti a te. Ora fai un respiro profondo e alza le braccia sopra la testa, unendo i palmi... Sì, così. Espira e flettiti in avanti il più possibile, toccando il terreno con le mani. Fai un altro respiro... e torna indietro. Bene. Inspira, inarca il busto all'indietro e guarda verso il cielo... ed espira, alzando il bacino fino a formare un triangolo. Inspira con la gola... ed espira. Inspira... ed espira. Inspira...» Con sommo sollievo di Eragon, gli esercizi si dimostrarono abbastanza agevoli da non innescare il dolore alla schiena, pur essendo abbastanza difficili da farlo sudare e ansimare. Si ritrovò a sorridere di gioia. Svanita ogni traccia di diffidenza, Eragon passò fluidamente da una posizione all'altra - molte delle quali mettevano a dura prova la sua flessibilità - con più energia e sicurezza che prima della battaglia del Farthen Dùr. Forse sono guarito! Oromis eseguì la Rimgar insieme a lui, mostrando un livello di forza e flessibilità che sbalordì Eragon, soprattutto pensando all'età del maestro. L'elfo riusciva a toccarsi la punta dei piedi con la fronte. Durante tutta la seduta di allenamento, rimase impeccabile e composto, come se stesse facendo una semplice passeggiata nei prati. Impartiva gli ordini con più calma e pazienza di Brom, ma con inflessibile rigore. Non permetteva alcuna distrazione. «Laviamoci il sudore» disse Oromis, quando ebbero terminato.

Andarono al torrente che scorreva vicino alla casa e si spogliarono in fretta. Eragon scoccò un'occhiata furtiva all'elfo, curioso di vedere com'era senza vestiti. Oromis era molto magro, ma i suoi muscoli erano perfettamente delineati, guizzanti sotto la pelle con la perfezione di una scultura di legno. Non aveva peli sul torace e sulle gambe, e nemmeno all'inguine. Il suo corpo sembrava quasi grottesco, in confronto agli uomini che Eragon era abituato a vedere a Carvahall, anche se possedeva una certa raffinata eleganza, come quella di un gatto selvatico.

Quando si furono lavati, Oromis condusse Eragon nel folto della Du Weldenvarden, fino a una conca protetta da alberi cupi, inclinati verso il centro a oscurare il cielo con l'intrico di rami e brandelli penzolanti di licheni. I piedi gli affondavano nel muschio fino alle caviglie. Tutto era immerso nel silenzio.

Indicando un ceppo bianco dalla sommità liscia e piatta al centro della conca, Oromis disse: «Siediti lì.» Eragon obbedì. «Incrocia le gambe e chiudi gli occhi.» Il mondo intorno a lui piombò nell'oscurità. Alla sua destra, sentì Oromis bisbigliare: «Apri la mente, Eragon. Apri la mente e ascolta il mondo intorno a te, i pensieri di ogni essere di questa radura, dalle formiche negli alberi ai vermi nella terra. Ascolta finché non li sentirai tutti e comprenderai la loro natura e il loro scopo. Ascolta, e quando non sentirai più nulla, mi dirai che cosa hai imparato.»

Poi la foresta tacque.

Non sapendo se Oromis se ne fosse andato, Eragon provò ad abbassare le difese della mente per dilatare la coscienza, come faceva quando cercava di chiamare Saphira a grandi distanze. Al principio si ritrovò circondato dal vuoto, ma poi barlumi di luce e calore cominciarono a comparire nell'oscurità, crescendo d'intensità finché non si trovò al centro di una galassia di costellazioni vorticanti, e ciascun puntino brillante rappresentava una vita. Ogni volta che aveva chiamato altri esseri con la mente, come Cadoc, Fiammabianca o Solembum, il suo fuoco si era sempre concentrato su quello con cui voleva comunicare. Ma in quel momento... era come se fosse stato sordo in mezzo a una folla e all'improvviso potesse sentire i flussi di conversazione che scorrevano intorno a lui.

Di colpo si sentì vulnerabile; era completamente esposto al mondo. Chiunque o qualunque cosa volesse impadronirsi della sua mente e controllarlo, avrebbe potuto farlo in quell'istante. La tensione lo indusse a ritirarsi in se stesso, e la consapevolezza che aveva della conca scomparve. Ricordando una delle lezioni di Oromis, Eragon rallentò la respirazione e controllò l'espansione dei polmoni fino a rilassarsi abbastanza da riaprire la mente. Di tutte le vite che percepiva, la stragrande maggioranza appartenevano agli insetti. Rimase sbalordito dal loro numero immenso. Decine di migliaia di minuscoli esseri dimoravano in un fazzoletto di muschio, milioni e milioni nel resto della piccola conca, e chissà quanti oltre. Eragon ebbe quasi paura. Aveva sempre saputo che in Alagaésia gli umani erano pochi e isolati, ma non si sarebbe mai immaginato che fossero superati in numero perfino dagli scarafaggi. Poiché erano fra i pochi insetti che conosceva, e Oromis le aveva menzionate, Eragon si concentrò sulle colonne di formiche rosse che marciavano sul terreno e risalivano lungo gli steli di un cespuglio di rose selvatiche. Ciò che colse non furono tanto pensieri - i loro cervelli erano troppo primitivi - ma urgenze: l'urgenza di trovare cibo ed evitare pericoli, l'urgenza di difendere il territorio, l'urgenza di accoppiarsi. Studiando gli istinti delle formiche, cominciò a riconoscere i loro comportamenti.

Lo affascinò scoprire che - tranne i rari individui che si avventuravano in esplorazione fuori dai confini del loro territorio - le formiche sapevano esattamente dove stavano andando. Pur non riuscendo a individuare il meccanismo che le guidava, notò che seguivano precisi percorsi dai loro nidi al cibo e viceversa. La fonte di cibo fu un'altra sorpresa. Come si era aspettato, le formiche uccidevano altri insetti e si nutrivano di loro, ma la maggior parte dei loro sforzi era concentrata sulla coltivazione di... di qualcosa che punteggiava il cespuglio di rose. Qualunque forma di vita fosse, era appena percettibile. Si concentrò con tutte le sue forze per identificarla e soddisfare la propria curiosità. La risposta fu così semplice che gli venne da ridere quando comprese: afidi. Le formiche si comportavano come pastori di afidi, guidandoli e proteggendoli, ed estraevano da essi il nutrimento massaggiando le loro pance con la punta delle antenne. Eragon non riusciva quasi a crederci, ma più le guardava, più si convinceva di avere ragione. Seguì le formiche nel sottosuolo, nel complesso labirinto di cunicoli, e osservò come si prendevano cura di un particolare membro della loro specie, molto più grosso di una normale formica. Tuttavia il ruolo dell'insetto gli rimase oscuro; non vide altro che servitori che gli sciamavano intorno, ruotandolo e rimuovendo particelle di materia che produceva a intervalli regolari.

Dopo un po', Eragon decise che aveva tratto ogni informazione possibile dalle formiche - a meno che non volesse restare lì seduto per il resto della giornata - e stava per tornare nel suo corpo quando uno scoiattolo balzò nella radura. La sua comparsa fu come un lampo abbagliante per Eragon, che si era ormai abituato alle minuscole lucine delle formiche. Sconcertato, fu travolto da un'ondata di sensazioni e sentimenti che scaturivano dall'animale. Annusò la foresta col suo naso, sentì la corteccia cedere sotto le unghie curve e l'aria frusciare intorno alla coda eretta come un pennacchio. In confronto a una formica, lo scoiattolo ardeva di energia e possedeva un'indiscutibile intelligenza. Poi saltò su un altro ramo e si dileguò dalla sua coscienza.

La foresta sembrava molto più buia e silenziosa di prima, quando Eragon aprì gli occhi. Trasse un profondo respiro e si guardò intorno, apprezzando per la prima volta tutta la vita esistente al mondo. Allungando le gambe indolenzite, si avvicinò al cespuglio di rose. Si chinò a esaminarne i rametti, che infatti erano coperti di afidi e dei loro guardiani cremisi. E vicino alla base della pianta c'era il cumulo di aghi di pino che contrassegnava l'ingresso del formicaio. Era strano vederlo con i suoi propri occhi: nulla tradiva le numerose, sottili interazioni di cui adesso era consapevole. Assorto nei suoi pensieri, Eragon tornò nella radura, chiedendosi che cosa potesse mai calpestare a ogni passo. Quando emerse dal folto degli alberi, rimase di stucco nel vedere quanto si era spostato il sole. Devo essere rimasto seduto lì almeno tre ore.

Trovò Oromis nel capanno, intento a scrivere con un calamo di penna d'oca. L'elfo terminò la riga, poi pulì la punta del calamo, chiuse la boccetta dell'inchiostro e chiese: «Cos'hai sentito, Eragon?»

Eragon non vedeva l'ora di raccontare. Mentre descriveva l'esperienza, sentì la propria voce traboccare di entusiasmo nel soffermarsi sui dettagli della società delle formiche. Riferì tutto quanto riuscì a ricordare, fino alle più piccole e insignificanti osservazioni, orgoglioso delle informazioni che aveva raccolto.

Quando ebbe finito, Oromis inarcò un sopracciglio. «Tutto qui?»

«Ma...» Eragon cadde in preda allo sconforto nel rendersi conto che aveva in qualche modo mancato lo scopo dell'esercizio. «Sì, Ebrithil.»

«E che mi dici degli altri organismi nella terra e nell'aria? Sai dirmi cosa facevano mentre le tue formiche si occupavano delle loro greggi?»

«No, Ebrithil.»

«Ecco il tuo errore. Devi renderti consapevole di tutte le cose in eguai misura e non concentrarti su un particolare soggetto. Questa è una lezione essenziale, e finché non ci sarai riuscito, mediterai sul ceppo ogni giorno per un'ora.» «Come saprò quando ci sarò riuscito?»

«Quando potrai osservare uno e comprendere il tutto.»

Oromis fece cenno a Eragon di unirsi a lui a tavola, poi gli pose davanti un foglio di carta immacolato, insieme a un calamo e a una boccetta d'inchiostro. «Finora hai avuto una conoscenza incompleta dell'antica lingua. Nessuno sa riconoscere ogni singola parola di essa, ma devi familiarizzare con la grammatica e le strutture sintattiche, in modo da non tentare il suicidio per colpa di un verbo messo al posto sbagliato o errori del genere. Non mi aspetto che parli la nostra lingua come un elfo - ci vorrebbe una vita - ma mi aspetto che tu acquisisca una competenza inconscia. Voglio dire, devi essere in grado di usarla senza pensare.

«Inoltre devi imparare a leggere e scrivere nell'antica lingua. Ti aiuterà a memorizzare le parole, e in più è una capacità essenziale al fine di comporre un incantesimo particolarmente lungo se non ti fidi della tua memoria, o se trovi un incantesimo scritto e vuoi usarlo.

«Ogni razza ha sviluppato un proprio sistema per scrivere nell'antica lingua. I nani usano il loro alfabeto runico, come gli umani. Ma si tratta di metodi improvvisati che non sono in grado di esprimere le vere sottigliezze della lingua come fa la nostra Liduen Kvaedhi, la Poetica Scrittura. La Liduen Kvaedhi è stata creata per essere il più elegante, raffinata e precisa possibile. È composta da quarantadue forme diverse che rappresentano svariati suoni e si possono combinare in una gamma pressoché infinita di glifi che rappresentano sia parole individuali che intere frasi. Il simbolo sul tuo anello è uno di questi glifi. Il simbolo su Zar'roc un altro... Cominciamo: quali sono i principali suoni vocalici dell'antica lingua?»

«Cosa?»

L'ignoranza di Eragon sulle sfumature dell'antica lingua fu subito evidente. Quando aveva viaggiato con Brom, il vecchio cantastorie si era adoperato perché Eragon imparasse a memoria liste di parole che potevano essergli utili per sopravvivere, come anche a perfezionare la pronuncia. Se l'era cavata egregiamente in questi due campi, ma non sapeva nemmeno spiegare la differenza fra articolo determinativo e indeterminativo. Oromis non mostrò in alcun modo di essere irritato per le lacune nella sua istruzione, e invece cominciò a lavorare alacremente per colmarle. A un certo punto, durante la lezione, Eragon commentò: «Non ho mai avuto bisogno di molte parole per i miei incantesimi. Brom pensava che avessi un talento naturale, visto quello che riuscivo a fare solo con brisingr. Credo di aver usato l'antica lingua soprattutto quando parlavo con Arya nella sua mente, e quando ho benedetto un'orfana nel Farthen Dùr.»

«Hai benedetto una bambina nell'antica lingua?» disse Oromis, allarmato. «Ricordi come hai formulato la benedizione?» «Sicuro.»

«Recitala per me.» Eragon ripete le parole, e un'espressione di puro orrore si dipinse sul volto di Oromis, che esclamò: «Hai usato skòlirl Sei sicuro? Non era skoliro?»

Eragon si accigliò. «No, skolir. Perché non avrei dovuto usarla? Skolir significa protetta... "e che tu possa essere protetta dalla sventura". Era una benedizione.»

«Non è stata una benedizione, ma una maledizione.» Oromis era agitato come Eragon non l'aveva mai visto. «Il suffisso o forma il participio passato dei verbi che finiscono in rei. Skoliro significa protetto, ma skolir significa protezione. Quello che hai detto è: "Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere una protezione dalla sventura". Invece di preservare quella bambina dai capricci del fato, l'hai condannata a sacrificarsi per gli altri, ad assorbire le loro miserie e le loro sofferenze perché possano vivere in pace.»

No, no! Non può essere! Eragon tentò di negare la possibilità con tutte le sue forze. «Gli effetti di un incantesimo non sono determinati soltanto dal senso delle parole, ma anche dalle intenzioni, e io non avevo intenzione di farle del male...»

«Non puoi rinnegare la natura intrinseca di una parola. Piegarla, sì. Guidarla, certo. Ma non contraddire la sua definizione per implicare l'esatto contrario.» Oromis congiunse i polpastrelli, con lo sguardo fisso sul tavolo, la bocca ridotta a una sottile riga bianca. «So bene che non intendevi farle del male, altrimenti i miei insegnamenti finirebbero qui. Se eri sincero e il tuo cuore puro, allora questa benedizione causerà meno tribolazioni di quanto temo, pur restando fonte di più sofferenze di quante vorremmo.»

Eragon fu scosso da un tremito violento nel rendersi conto di quanto aveva fatto alla vita della bambina. «Magari non cancellerà il mio errore» mormorò, «ma forse potrà alleviarlo: Saphira ha marchiato la bambina sulla fronte, come marchiò il mio palmo con il gedwéy ignasia.»

Per la prima volta in vita sua, Eragon vide un elfo restare di stucco. Oromis spalancò gli occhi e strinse così forte i braccioli della sedia che il legno gemette. «Una persona che porta il segno dei Cavalieri, ma non è un Cavaliere» mormorò alla fine. «In tutta la mia lunga vita, non ho mai conosciuto qualcuno come voi due. Ogni decisione che prendete sembra avere conseguenze che superano di gran lunga ogni previsione. Cambiate il mondo con il vostro arbitrio.»

«Ed è un bene o un male?»

«Né l'uno, né l'altro. È così e basta. Dove si trova adesso la bambina?» Eragon impiegò qualche istante per rimettere ordine nei propri pensieri. «Con i Varden, quindi nel Farthen Dùr o nel Surda. Credi che il marchio di Saphira l'aiuterà?» «Non lo so» rispose Oromis. «Non esistono precedenti su cui basarmi per capirlo.»

«Devono esserci dei modi per cancellare la benedizione, per annullare un incantesimo.» Eragon stava quasi implorando.

«Ci sono. Ma perché siano efficaci, dovresti essere tu a utilizzarli, e per il momento non puoi allontanarti da qui. Perfino nelle migliori circostanze, residui della tua magia perseguiteranno la bambina per sempre. Questo è il potere dell'antica lingua.» Fece una pausa. «Vedo che hai compreso la gravita della situazione, perciò te lo dirò soltanto una volta: su di te pesa la totale responsabilità del destino di quella bambina e a causa del torto che le hai fatto sarà tuo compito aiutarla, se mai dovesse presentarsi questa necessità. Per la legge dei Cavalieri, lei rappresenta la tua vergogna, come se l'avessi generata fuori dal vincolo matrimoniale, un disonore fra gli umani, se ben ricordo.»

«Sì» mormorò Eragon. «Capisco.» Capisco che ho costretto una bambina indifesa a seguire un certo destino senza averle dato scelta. Può qualcuno essere davvero buono se non ha mai avuto l'opportunità di comportarsi male? Io l'ho resa schiava. E sapeva anche che se lo avessero vincolato in quel modo senza il suo consenso, avrebbe odiato il suo carceriere con ogni fibra del suo essere.

«Allora non ne parleremo mai più.»

«Sì, Ebrithil.»

Eragon era ancora sconvolto, addirittura depresso, alla fine della giornata. A stento alzò lo sguardo quando uscirono per andare incontro a Saphira e Glaedr che tornavano. Gli alberi ondeggiarono per la furia del vento che i due draghi crearono con le loro ali. Saphira sembrava orgogliosa di sé; inarcò il collo e avanzò fiera verso Eragon, schiudendo le fauci in un ghigno lupesco.

Una pietra si frantumò sotto il peso di Glaedr, quando il vecchio drago puntò un occhio gigantesco - grande quanto un vassoio da portata - su Eragon, e chiese: Quali sono le tre regole per individuare le correnti discendenti, e le cinque regole per sfuggirle?

Riscosso dai propri pensieri, Eragon potè soltanto battere le palpebre perplesso. «Non lo so.»

Allora Oromis si rivolse a Saphira e le domandò: «Quali creature allevano le formiche, e come estraggono nutrimento da esse?»

Non saprèi, dichiarò Saphira. Sembrava offesa.

Un lampo di collera illuminò lo sguardo di Oromis, che incrociò le braccia, pur conservando un'espressione calma. «Dopo tutte le cose che voi due avete fatto insieme, credevo che aveste imparato la lezione basilare di uno Shur'tugal: condividere tutto con il proprio compagno. Taglieresti il tuo braccio destro? Voleresti con un'ala soltanto? Mai. Allora perché ignorare il legame che vi unisce? Così facendo, rinnegate il vostro dono più grande e il vantaggio che avete sugli avversari. Badate che non si tratta di parlarsi con la mente, ma di fondere le vostre coscienze fino ad agire e pensare come un'entità unica. Mi aspetto che entrambi sappiate cosa viene insegnato all'altro.»

«E la nostra intimità?» obiettò Eragon.

Intimità? disse Glaedr. Tenete per voi i vostri pensieri quando siete lontani da qui, se così vi aggrada, ma finché siamo i vostri maestri, non ci sarà posto per le cose private.

Eragon guardò Saphira, sentendosi peggio di prima. Lei evitò il suo sguardo, poi pestò una zampa per terra e si voltò di scatto. Allora?

Hanno ragione. Siamo stati negligenti.

Non è colpa mia.

Non ho detto che lo fosse. Ma la dragonessa intuì la sua opinione: era geloso delle attenzioni che rivolgeva a Glaedr e di come questo la allontanasse da lui. Faremo del nostro meglio, vero?

Naturale! ribatte lei.

Tuttavia Saphira si rifiutò di porgere le proprie scuse a Oromis e Glaedr, lasciando il compito a Eragon. «Non vi deluderemo più.»

«Ci conto. Domani vi interrogheremo su ciò che ha imparato l'altro.» Oromis aprì il palmo e mostrò un ninnolo rotondo di legno. «Finché ti ricorderai di caricarlo regolarmente, questo congegno ti aiuterà a svegliarti a tempo debito ogni mattina. Torna non appena ti sarai lavato e avrai mangiato.»

Quando Eragon lo prese in mano, si accorse che l'oggetto aveva un peso sorprendente. Grande quanto una noce, recava incise profonde spirali che si annodavano intorno a una piccola manopola, intagliata a forma di bocciolo di rosa muschiata. Provò a girare la manopola e udì tre scatti, mentre un meccanismo nascosto cominciava ad avanzare. «Grazie» disse.

Sotto l'albero di Menoa

Dopo aver salutato i maestri, Eragon e Saphira tornarono in volo alla loro casa sull'albero, con la nuova sella che penzolava fra gli artigli della dragonessa. Senza nemmeno accorgersene, a poco a poco aprirono le menti e permisero al loro legame di ampliarsi e approfondirsi, anche se nessuno dei due chiamò l'altro consapevolmente. Tuttavia le emozioni di Eragon dovevano essere così tumultuose che Saphira le percepì comunque, perché domandò: Che cosa è successo?

Eragon avvertì un dolore pulsante dietro agli occhi mentre le spiegava il terribile crimine che aveva commesso nel Farthen Dùr. Saphira rimase sgomenta quanto lui. Eragon disse: Il tuo dono potrebbe aver aiutato quella bambina, ma ciò che ho fatto non ha scuse e le procurerà solo del male.

La colpa non è soltanto tua. Io condivido la tua conoscenza dell'antica lingua, e non ho individuato l'errore come te. Quando Eragon rimase in silenzio, aggiunse: Se non altro la schiena non ti ha fatto male, oggi. Rallegrati di questo. Lui borbottò un assenso, riluttante ad abbandonare il cattivo umore. £ tu cos'hai imparato in questa bella giornata? A identificare ed evitare elementi atmosferici pericolosi. Fece una pausa, pronta a condividere i suoi ricordi con lui, ma Eragon era troppo angosciato per la benedizione distorta per indagare oltre. Né poteva tollerare il pensiero di entrare in intimità così presto. Quando non la interrogò sulla materia, Saphira si ritirò nel silenzio.

Tornati agli alloggi, Eragon trovò un vassoio di cibo accanto alla porta scorrevole, come la sera prima. Portò il vassoio a letto - che era stato cambiato con lenzuola fresche di bucato - e cominciò a mangiare, contrariato dalla mancanza di carne. Indolenzito dalla Rimgar, si appoggiò con la schiena ai cuscini, e stava per addentare il primo boccone quando sentì un lieve picchiettio all'uscio. «Avanti» ringhiò. Bevve un sorso d'acqua.

Per poco non soffocò quando Arya entrò nella stanza. Si era spogliata dei soliti indumenti di pelle per indossare una leggera tunica verde stretta in vita da una cintura tempestata di pietre di luna. Si era anche tolta la fascia per capelli, che adesso le ricadevano in morbide onde intorno al viso e sulle spalle. Il cambiamento più evidente, tuttavia, non era tanto nell'abbigliamento, quanto nell'atteggiamento: la lieve tensione che la permeava da quando Eragon l'aveva conosciuta era scomparsa.

Finalmente sembrava tranquilla.

Lui si affannò a scendere dal letto, notando che lei era a piedi nudi. «Arya! Come mai sei venuta?» Sfiorandosi le labbra con le dita, lei disse: «Hai intenzione di passare un'altra serata in casa?»

«Io...»

«Sei a Ellesméra da tre giorni, e ancora non hai visto niente della città. Eppure so che hai sempre desiderato visitarla. Dimentica la stanchezza e vieni con me.» Avvicinandosi a lui, prese Zar'roc e gli fece cenno di seguirla. Passarono nel vestibolo, dove scesero attraverso la botola e lungo la ripida scala a chiocciola che circondava il tronco. In alto, banchi di nuvole rosseggiavano per gli ultimi raggi del sole, che presto scomparve oltre i confini del mondo. Un pezzo di corteccia cadde sulla testa di Eragon, che guardò in alto per vedere Saphira affacciata dalla camera da letto, aggrappata al legno con gli artigli. Senza dispiegare le ali, la dragonessa spiccò un balzo e atterrò cento piedi più in basso, sollevando un turbine di polvere. Vengo anch'io.

«Naturale» disse Arya, come se non si aspettasse altro. Eragon si accigliò; avrebbe voluto restare da solo con lei, ma evitò di lamentarsi.

Camminarono sotto gli alberi, dove le tenebre già allungavano i loro tentacoli dai tronchi cavi, dalle crepe nei massi e dalle grondaie nodose. Qua e là, una lanterna tremolava dal fianco di un albero o all'estremità di un ramo, proiettando coni di luce su entrambi i lati del sentiero.

Gli elfi illuminati dal raggio delle lanterne erano perlopiù individui solitari, tranne qualche sporadica coppia. Molti erano seduti in alto fra i rami e suonavano leggiadre melodie con le loro siringhe di canne, mentre altri contemplavano il cielo con espressione serena, né del tutto svegli, né del tutto addormentati. Un elfo era seduto a gambe incrociate davanti a un tornio da ceramista che ruotava a ritmo costante, mentre un vaso delicato prendeva forma sotto le sue mani. La gatta mannara, Maud, era accovacciata al suo fianco nell'ombra, intenta a guardare l'opera. I suoi occhi lampeggiarono d'argento quando vide Eragon e Saphira. L'elfo seguì il suo sguardo e li salutò con un cenno del capo senza fermarsi. Attraverso gli alberi, Eragon intravvide un elfo maschio o femmina, chissà - accovacciato su un masso al centro di un torrente, impegnato a mormorare un incantesimo sul globo di vetro che teneva stretto fra le mani. Eragon tese il collo nel tentativo di vedere meglio, ma lo spettacolo era già svanito nel buio.

«Cosa fanno gli elfi» domandò Eragon a bassa voce per non disturbare nessuno «per vivere o come professione?» Arya rispose in tono altrettanto pacato. «La nostra profonda conoscenza delle arti magiche ci garantisce tutto il tempo libero che vogliamo. Non andiamo a caccia e non coltiviamo, e di conseguenza passiamo le giornate ad approfondire i nostri interessi, quali che siano. Non esistono molte cose per cui dobbiamo sforzarci.»

Attraverso una galleria di sanguinella tappezzata di rampicanti, entrarono nell'atrio di una casa cresciuta da un anello di alberi. Un rifugio senza pareti occupava il centro dell'atrio, che ospitava una forgia e un assortimento di strumenti che Eragon sapeva avrebbe fatto felice Horst.

Un'elfa impugnava un paio di piccole tenaglie infilate in un cumulo di braci ardenti, azionando un mantice con la mano destra. Con rapidità sorprendente, estrasse le tenaglie dal fuoco - rivelando un anello d'acciaio incandescente stretto fra le ganasce - poi infilò l'anello nel bordo di un corsaletto di maglia incompleto appeso sull'incudine, prese un martello e saldò le estremità dell'anello con un colpo solo, in un'esplosione di scintille.

Soltanto allora Arya si avvicinò. «Atra esterni ono thelduin.»

L'elfa li guardò, il collo e le guance arrossati dalla luce violenta delle braci. Come una fitta filigrana incisa nella pelle, il suo volto era solcato da un delicato intrico di rughe, la più grande dimostrazione di età che Eragon avesse mai visto in un elfo. Non rispose ad Arya, un gesto che lui sapeva essere scortese e offensivo, specie dal momento che la figlia della regina l'aveva onorata parlando per prima.

«Rhunòn-elda, ti porto a conoscere il nuovo Cavaliere, Eragon Ammazzaspettri.»

«Ho sentito che eri morta» disse Rhunòn ad Arya. La sua voce era rauca, molto diversa da quella degli altri elfi. Ricordava a Eragon quella dei vecchi di Carvahall, seduti sotto il portico di casa a fumare la pipa e narrare storie. Arya sorrise. «Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita di casa, Rhunòn?»

«Dovresti saperlo. È stato per quella Festa di Mezza Estate dove mi hai trascinata a forza.»

«Tre anni fa.»

«Sul serio?» Rhunòn aggrottò la fronte, mentre premeva sulle braci e le copriva con una grata. «E allora? Trovo irritante la compagnia. Soltanto un mucchio di chiacchiere insulse che...» S'interruppe per rivolgere un'occhiata torva ad Arya. «Perché parliamo in questa stupida lingua? Immagino che tu voglia farmi forgiare una spada per lui. Lo sai che ho giurato di non creare mai più strumenti di morte, non dopo che quel Cavaliere traditore ha portato morte e distruzione con la mia lama.»

«Eragon possiede già una spada» disse Arya. Alzò la mano e mostrò Zar'roc all'elfa.

Rhunòn prese Zar'roc con espressione stupita. Accarezzò il fodero color vinaccia, indugiò sul simbolo nero inciso, tolse una piccola incrostazione di terra dall'elsa, poi chiuse le dita sull'impugnatura ed estrasse la spada con tutta l'autorità di un guerriero. Esaminò entrambi i fili della spada, e flette la lama fra le mani finché Eragon non ebbe paura che si spezzasse. Poi, con un unico movimento, Rhunòn fece roteare Zar'roc in alto e la calò con forza sulle tenaglie, spezzandole in due con un tintinnio sonoro.

«Zar'roc» mormorò Rhunòn. «Mi ricordo di te.» Cullò la spada come una madre avrebbe fatto con il suo primogenito. «Perfetta come il giorno in cui hai visto la luce.» Voltando la schiena, alzò lo sguardo ai rami nodosi, mentre seguiva con le dita i contorni del pomello. «L'intera vita ho trascorso a forgiare queste spade dal metallo grezzo. Poi arrivò lui e le distrusse. Secoli di fatica cancellati in un istante. Sapevo che soltanto quattro esemplari della mia arte erano sopravvissuti. La sua spada, quella di Oromis, e altre due custodite da famiglie che erano riuscite a sottrarle ai Wyrdfell.»

Wyrdfell? domandò Eragon ad Arya con la mente.

Un altro nome per chiamare i Rinnegati.

Rhunòn si rivolse a Eragon. «Ora Zar'roc è tornata da me. Di tutte le mie creazioni, questa è l'ultima che mi aspettavo di rivedere. Come sei entrato in possesso della spada di Morzan?»

«Mi è stata data da Brom.»

«Brom?» L'elfa soppesò la spada con aria distratta. «Brom... mi ricordo di Brom. Mi implorò di sostituire per lui la spada che aveva perduto. Avrei voluto aiutarlo con tutto il cuore, ma avevo già pronunciato il mio giuramento. Il mio rifiuto lo fece andare su tutte le furie. Oromis dovette stenderlo con un colpo perché non voleva andarsene.» Eragon accolse l'informazione con interesse. «La tua spada mi ha servito bene, Rhunòn-elda. Sarei morto da tempo se non fosse stato per Zar'roc. Con essa ho ucciso lo Spettro Durza.»

«Davvero? Allora un po' di bene l'ha fatto.» Rinfoderò la spada e la restituì a malincuore al giovane, poi rivolse lo sguardo a Saphira. «Ah, lieta di conoscerti, Skulblaka.»

Piacere mio, Rhunon-elda.

Senza nemmeno prendersi il disturbo di chiedere il permesso, Rhunòn si avvicinò alla spalla di Saphira e le sfiorò una squama con le unghie corte, inclinando la testa da un lato e dall'altro nel tentativo di esaminare la placca translucida. «Bel colore. Non come quei draghi marroni, tutti fangosi e scuri. A dire il vero, la spada di un Cavaliere dovrebbe essere dello stesso colore del suo drago, e questo azzurro sarebbe stato perfetto per una lama...» Il pensiero parve sottrarle energia. Tornò all'incudine e guardò avvilita le tenaglie spezzate, come se non le importasse più di sostituirle. Eragon aveva la sensazione che sarebbe stato un peccato chiudere la conversazione su quel mesto registro, ma non riusciva a pensare a un modo corretto per cambiare argomento. Il corsaletto scintillante catturò la sua attenzione e, mentre lo studiava, rimase sbalordito nel vedere che ogni anello era saldato. Poiché gli anelli così piccoli si raffreddavano rapidamente, di solito bisognava saldarli prima di unirli al pezzo di maglia principale, il che significava che anche la maglia più fine - come l'usbergo di Eragon - era composta da elementi alternativamente saldati e ribattuti. A meno che il fabbro non possedesse la rapidità e la precisione dell'elfa.

Eragon disse: «Non ho mai visto una maglia come la tua, nemmeno fra i nani. Dove trovi la pazienza di saldare ogni anello? Perché non usi la magia e ti risparmi la fatica?»

Non si sarebbe mai aspettato lo sfogo di passione che infiammò Rhunòn. L'elfa scrollò la testa dai corti capelli e disse: «E privarmi del piacere del lavoro? Certo, tutti noi elfi possiamo usare la magia per soddisfare i nostri desideri, e alcuni lo fanno, ma allora che significato ha la vita? Come riempiresti il tempo? Dimmelo.»

«Non lo so» ammise Eragon.

«Perseguendo ciò che più ami. Quando puoi ottenere tutto quello che vuoi pronunciando qualche parola, non ha più importanza la meta, ma il viaggio per raggiungerla. Una lezione che ti servirà. Ti troverai ad affrontare lo stesso dilemma, un giorno, se vivrai abbastanza... Ma ora andate! Sono stanca di queste chiacchiere.» A queste parole, Rhunòn tolse il coperchio dalla forgia, prese un nuovo paio di tenaglie e immerse un anello nelle braci, azionando il mantice con foga.

«Rhunòn-elda» disse Arya, «ricorda. Tornerò a prenderti alla vigilia di Agaetf Blòdhren.» Un borbottio fu l'unica risposta.

Il ritmico tintinnio dell'acciaio sull'acciaio, solitario come il verso di un allocco nella notte, li accompagnò mentre ripassavano nel tunnel di sanguinella e riprendevano il sentiero. Alle loro spalle, Rhunòn non era più che una sagoma nera china sul bagliore rosseggiante della forgia.

«Ha fabbricato tutte le spade dei Cavalieri?» chiese Eragon. «Fino all'ultima?»

«Questo e anche di più. È il più grande fabbro mai esistito. Ho pensato che sarebbe stato interessante incontrarvi, sia per lei che per te.»

«Grazie.»

È sempre così brusca? chiese Saphira.

Arya rise. «Sempre. Per lei nulla ha importanza tranne il suo lavoro, ed è famosa per non tollerare che qualcosa o qualcuno interferisca con esso. Tuttavia sopportiamo le sue stravaganze per le sue incredibili capacità.» Mentre parlava, Eragon cercò di trovare il significato di Agaeti Blodhren. Era sicuro che blodh stesse per sangue, e che blò'dhren significasse quindi giuramento di sangue, ma non aveva mai sentito la parola agaeti.

«Celebrazione» gli spiegò Arya. «La Celebrazione del Giuramento di Sangue si tiene una volta ogni secolo, per onorare il nostro patto con i draghi. Siete entrambi fortunati a trovarvi qui in questa occasione, perché siamo molto vicini...» Le sopracciglia oblique si incontrarono quando aggrottò la fronte. «Il fato ha predisposto la più augurale delle coincidenze.»

Continuò a condurre Eragon sempre più nel folto della Du Weldenvarden, lungo sentieri fiancheggiati da ortiche e cespugli di uvaspina, finché la luce intorno a loro svanì e si addentrarono nella natura selvaggia. Nel buio, Eragon dovette affidarsi all'acuta visione notturna di Saphira per non smarrirsi. Gli alberi nodosi e contorti diventarono sempre più grandi e fitti, minacciando di formare una barriera impenetrabile. Proprio quando sembrava che non fosse possibile proseguire oltre, la foresta terminò per aprirsi su una radura bagnata dal chiaro di luna della falce che splendeva nel cielo a oriente.

Un pino solitario svettava al centro della radura. Non più alto del resto dei suoi simili, era però largo quando un centinaio di tronchi messi insieme; in confronto, gli altri pini sembravano giovani alberelli in balia del vento. Un tappeto di radici si estendeva dal tronco massiccio, coprendo il terreno di venature legnose che davano l'impressione che l'intera foresta nascesse dall'albero, come se fosse il cuore della Du Weldenvarden stessa. L'albero troneggiava nel bosco come una matriarca benevola, proteggendo i suoi abitanti sotto il tetto dei suoi rami.

«Questo è l'albero di Menoa» sussurrò Arya. «Festeggiamo l'Agaeti Blòdhren nella sua ombra.» Un brivido gelido corse lungo la schiena di Eragon nel ricordare quel nome. Dopo che Angela gli aveva predetto la sorte a Teirm, Solembum gli si era avvicinato dicendo: Quando giungerà il momento e ti servirà un'arma, guarda sotto l'albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Eragon non riusciva a immaginare quale tipo di arma potesse nascondersi sotto l'albero, né come avrebbe potuto trovarla.

Vedi niente? chiese a Saphira.

No, ma dubito che le parole di Solembum avranno un senso finché non si presenterà l'occasione. Eragon riferì ad Arya l'ammonimento del gatto mannaro, anche se, come aveva fatto con Ajihad e Islanzadi, tenne per sé la profezìa di Angela a causa della sua natura personale, e perché temeva che potesse indurre Arya a indovinare la sua attrazione per lei.

Quando ebbe finito, Arya disse: «I gatti mannari di rado offrono aiuto, ma quando lo fanno non devono essere ignorati. Per quanto ne so, non c'è nessuna arma sepolta qui, e non ne parlano nemmeno i canti o le leggende. Per quanto riguarda la rocca di Kuthian... il nome mi riecheggia nella mente come una voce da un sogno dimenticato, familiare, eppure estraneo. L'ho già sentito, ma non ricordo dove.»

Mentre si avvicinavano all'albero di Menoa, l'attenzione di Eragon fu catturata dalla moltitudine di formiche che zampettavano sulle radici. Gli insetti non erano che minuscoli puntini neri, ma il compito che Oromis gli aveva affidato lo aveva reso più attento alle forme di vita che lo circondavano, e adesso riusciva a percepire la primitiva coscienza delle formiche nella mente. Abbassò le difese e consentì alla propria coscienza di fluire all'esterno, sfiorando Saphira e Arya per poi espandersi e vedere che cos'altro viveva nella radura.

All'improvviso incontrò un'immensa entità, un essere senziente di una natura così colossale da non poter trovare i confini della sua psiche. Persino il vasto intelletto di Oromis, con cui Eragon era entrato in contatto nel Farthen Dùr, era modesto in confronto a questa presenza. L'aria stessa sembrava ronzare di energia e forza emanata da... dall'albero? La fonte era inequivocabile.

Con deliberata e inesorabile volontà, i pensieri dell'albero si espansero a ritmo misurato, lento come l'avanzare del ghiaccio sul granito. Non si soffermò su Eragon, ne era certo, né sui singoli individui, ma abbracciò completamente tutte le cose che crescevano e prosperavano al sole, dall'apocino al giglio, dall'enagra alla serica digitale alla senape gialla che svettava alta dietro il melo selvatico dai boccioli purpurei.

«È sveglio!» esclamò Eragon, sbalordito. «Voglio dire... è intelligente.» Sapeva che anche Saphira lo percepiva; la dragonessa allungò la testa verso l'albero di Menoa, come in ascolto, poi volò su uno dei suoi rami, grosso quanto la strada che portava da Carvahall a Therinsford. Lì rimase appollaiata, facendo ondeggiare con grazia la coda penzoloni. Era uno spettacolo così inconsueto, un drago su un albero, che Eragon quasi scoppiò a ridere.

«Certo che è sveglia!» disse Arya. La sua voce era bassa e melodiosa nell'aria notturna. «Vorresti sentire la storia dell'albero di Menoa?»

«Volentieri.»

Una sagoma bianca sfrecciò nel cielo come un fantasma e si posò accanto a Saphira. Era Blagden. Le spallucce e il collo corto del corvo gli davano l'aspetto di uno spilorcio che si bea al fulgore dell'oro. Il corvo levò la pallida testa e lanciò il suo profetico grido: «Wyrda!»

«Ecco cosa accadde. Un tempo viveva una donna, Linnéa, negli anni delle spezie e del vino, prima della nostra guerra contro i draghi, e prima che diventassimo immortali, come lo può essere una creatura pur sempre fatta di carne vulnerabile. Linnéa era invecchiata senza il conforto di un compagno o dei figli, ma non ne aveva mai sentito la mancanza, poiché preferiva dedicarsi all'arte del cantare alle piante, di cui era maestra. Questo finché un giovane uomo non bussò alla sua porta e la circuì con parole d'amore. Il suo affetto risvegliò in lei una parte che non aveva mai sospettato di avere, un forte desiderio di sperimentare le cose che aveva inconsapevolmente sacrificato. L'offerta di una seconda opportunità era troppo allettante per ignorarla. Trascurò il suo lavoro e si dedicò al ragazzo, e per un certo periodo furono felici.

«Ma l'uomo era giovane, e cominciò a desiderare una compagna più vicina alla sua età. I suoi occhi caddero su una fanciulla, e lui la corteggiò e la conquistò. E per un certo periodo anche loro furono felici.

«Quando Linnéa scoprì di essere stata ripudiata, tradita e abbandonata, impazzì di dolore. Il giovane uomo aveva fatto la peggiore cosa possibile: le aveva dato un assaggio della pienezza della vita, per poi negargliela senza farsi il minimo scrupolo, come un galletto che passa da una gallina all'altra. Linnéa lo trovò con la donna e, in un accesso d'ira, lo pugnalò a morte.

«Linnéa sapeva di aver fatto una cosa terribile. Sapeva anche che se anche l'avessero perdonata per il delitto, non sarebbe mai potuta tornare alla sua esistenza precedente. La vita aveva perso ogni gioia per lei. Così andò vicino all'albero più antico della Du Weldenvarden, premette il suo corpo contro il tronco e si cantò dentro l'albero, recidendo ogni legame con la propria razza. Per tre giorni e tre notti cantò, e quando ebbe finito, era diventata tutt'uno con le sue adorate piante. E da allora, nel corso dei millenni, ha fatto la guardia alla foresta. Così nacque l'albero di Menoa.»

Al termine del racconto, Arya ed Eragon si sedettero fianco a fianco su di un'enorme radice sporgente. Eragon faceva rimbalzare i talloni contro il legno, domandandosi se Arya gli avesse raccontato quella storia come monito o soltanto come semplice aneddoto.

Il suo dubbio divenne certezza quando lei gli domandò: «Credi che la colpa della tragedia sia del giovane uomo?» «Credo» disse lui, sapendo che una risposta inadeguata l'avrebbe fatta infuriare «che quello che fece lui fu crudele, e che Linnéa reagì in maniera spropositata. Erano entrambi in torto.»

Arya continuò a fissarlo, finché lui non abbassò lo sguardo. «Non erano fatti l'uno per l'altra.»

Eragon fece per obiettare, ma si fermò. Arya aveva ragione. E lo aveva manipolato perché fosse lui a dirlo ad alta voce, perché fosse lui a dirlo a lei. «Può darsi» ammise.

Il silenzio crebbe fra di loro come sabbia che si accumula a formare una barriera, senza che nessuno dei due avesse intenzione di abbatterla. L'acuto frinire delle cicale riecheggiava dai margini della radura. Alla fine, lui disse: «Sembri felice di essere tornata a casa.»

«Lo sono.» Con estrema naturalezza, l'elfa si chinò a raccogliere un rametto che era caduto dall'albero di Menoa e cominciò a intrecciare un cestino con una manciata di aghi di pino.

Eragon si sentì affluire il sangue al viso mentre la guardava. Sperò che il debole chiarore della luna non bastasse a rivelare le chiazze rosse che gli imporporavano le guance. «Dove... dove vivi? Tu e Islanzadi avete un palazzo o un castello...?»

«Viviamo nel Palazzo di Tialdari, la residenza dei nostri antenati, nella zona ovest di Ellesméra. Mi piacerebbe mostrarti la nostra casa, un giorno.»

«Ah.» Una domanda tecnica s'intromise nei pensieri confusi di Eragon, scacciando l'imbarazzo. «Arya, tu hai dei fratelli o delle sorelle?» Lei fece di no con la testa. «Allora sei l'unica erede al trono degli elfi?»

«Naturalmente. Perché me lo chiedi?» Suonò perplessa per la sua curiosità.

«Non capisco come mai ti sia stato concesso di diventare ambasciatrice presso i Varden e i nani, come anche di portare l'uovo di Saphira avanti e indietro da qui a Tronjheim. È una missione troppo pericolosa per una principessa, ancor più per una futura regina.»

«Vuoi dire troppo pericoloso per una donna umana. Ti ho già detto che non sono una delle vostre femmine inermi. Quello che non riesci a capire è che noi consideriamo i nostri sovrani in maniera diversa da quella vostra o dei nani. Per noi, la più grande responsabilità di un re o di una regina è quella di servire il popolo comunque e dovunque. Se questo significa sacrificare la nostra vita, abbracciamo con gioia l'occasione di dimostrare la nostra devozione, come dicono i nani, alla patria, al clan e all'onore. Se fossi morta nello svolgimento del mio dovere, sarebbe stato scelto un successore negli altri vari casati. Perfino adesso non è detto che diventi regina, se trovassi sgradevole la prospettiva. Noi non scegliamo monarchi che non siano disposti a dedicarsi del tutto ai loro obblighi.» Esitò, poi si strinse le ginocchia al petto e ci posò sopra il mento. «Non sai quanti anni ho passato a discutere questo argomento con mia madre.» Per un minuto, il cri-cri delle cicale proseguì indisturbato nella radura. Poi lei gli domandò: «Come vanno gli studi con Oromis?»

Eragon borbottò nel sentir riaffiorare il malumore indotto dai brutti ricordi che avvelenarono il piacere di stare con Arya. In quel momento desiderò soltanto ficcarsi sotto le coperte, dormire e dimenticare tutto. «Oromis-elda» disse, facendo attenzione a ogni parola prima di pronunciarla «è alquanto meticoloso.»

Lui trasalì quando l'elfa gli strinse il braccio con forza. «Qualcosa è andato storto?»

Lui cercò di liberarsi dalla stretta. «Niente.»

«Ho viaggiato con te abbastanza a lungo da sapere quando sei felice, arrabbiato... o sofferente. È successo qualcosa fra te e Oromis? Se è così, devi dirmelo perché si possa rimediare il prima possibile. O è stata la schiena? Potremmo...» «Non si tratta dell'addestramento!» Malgrado l'irritazione, Eragon notò che l'elfa sembrava sinceramente preoccupata, e in cuor suo ne fu contento. «Chiedi a Saphira. Lei può dirtelo.»

«Voglio sentirlo da te» rispose lei in tono sommesso.

Eragon strinse i denti, con la mascella contratta percorsa dagli spasmi. A bassa voce, non più di un sussurro, prima le descrisse come aveva fallito nella meditazione nella conca, poi l'incidente che gli ammorbava il cuore come una vipera in seno: la benedizione.

Arya gli liberò il braccio e si afferrò alla radice dell'albero di Menoa, come se stesse per cadere. «Barzul.» L'imprecazione dei nani lo allarmò; non l'aveva mai sentita pronunciare blasfemie prima, e quella era particolarmente adatta, poiché significava sciagura. «Sapevo del tuo gesto nel Farthen Dùr, ma non avrei mai pensato... mai sospettato che fosse successo una cosa del genere. Imploro il tuo perdono, Eragon, per averti costretto a lasciare la tua stanza, questa notte. Non ho compreso la tua pena. Volevi restare da solo.»

«No» disse lui, «no. Apprezzo la compagnia e le cose che mi hai mostrato.» Le sorrise e, dopo un istante, lei ricambiò il sorriso. Insieme rimasero seduti alla base dell'antico albero e contemplarono la luna che tracciava un arco nel cielo sopra la foresta silenziosa, prima di essere nascosta da un banco di nubi. «Mi chiedo solo che ne è stato della bambina.»

In alto sopra le loro teste, Blagden arruffò le penne candide e gridò: «Wyrda!»

Nasuada incrociò le braccia senza preoccuparsi davanti a lei.

Quello a destra aveva il collo così grosso che la testa gli sporgeva dalle spalle quasi ad angolo retto, dandogli un'aria ottusa. Per giunta aveva la fronte sporgente solcata da due sopracciglia così cespugliose da nascondergli quasi gli occhi, e labbra carnose che teneva strette a formare un fungo rosa, anche quando parlava. Ma Nasuada sapeva bene di non doversi fidare di quell'apparenza ripugnante. Per quanto alloggiata in un muso da idiota, la lingua dell'uomo era tagliente come un rasoio.

L'unica nota distintiva dell'altro era la pelle pallida, che si rifiutava di scurirsi persino sotto il sole inclemente del Surda, anche se i Varden si trovavano ad Aberon, la capitale, ormai da settimane. Dal suo colorito, Nasuada capì che era nato nelle propaggini più settentrionali dell'Impero. Teneva in mano un berretto di lana che continuava a torcere come uno straccio.

«Tu» fece lei, puntandogli un dito contro. «Quante galline dici che ti ha ucciso?»

«Tredici, signora.»

Nasuada rivolse la sua attenzione a quello brutto. «Un numero sempre sfortunato, mastro Gamble. Così è stato per te. Sei colpevole di furto e distruzione di proprietà altrui, senza aver offerto la ricompensa adeguata.» «Non l'ho mai negata.»

«Mi chiedo soltanto come hai fatto a mangiare tredici galline in quattro giorni. Non ti senti mai pieno, mastro Gamble?» Lui le rivolse un ghigno scherzoso e si grattò una guancia. Il rumore prodotto dalle unghie sulla barba incolta la infastidì, e fu soltanto grazie a un immane sforzo di volontà che evitò di chiedergli di smettere. «Be', non per mancare di rispetto, signora, ma riempirmi lo stomaco non sarebbe un problema se tu ci nutrissi come si deve, con tutto il lavoro che facciamo. Io sono un uomo grande e grosso, e devo riempirmi la pancia dopo mezza giornata passata a spaccare pietre con una mazza. Ho fatto del mio meglio per resistere alla tentazione, davvero. Ma tre settimane di razionamento, passate a guardare questi contadini che allevano grasso bestiame senza volerlo condividere con un morto di fame... Be', devo ammetterlo, ho ceduto. Non sono forte quando si tratta di cibo. Mi piace caldo e in abbondanza. E non credo di essere l'unico a volersi servire da solo.»

È questo il problema, si disse Nasuada. I Varden non potevano permettersi di sfamare a dovere tutti i loro membri, nemmeno con l'aiuto di Orrin, il re del Surda. Orrin aveva spalancato i suoi forzieri, ma si rifiutava di comportarsi come faceva Galbatorix quando spostava l'esercito nell'Impero, ossia requisire le scorte alimentari dei suoi sudditi senza pagarli. Un nobile sentimento, che però rende più difficile il mio compito. Eppure sapeva che proprio quel comportamento era ciò che distingueva lei, Orrin, Rothgar e Islanzadi dalla tirannia di Galbatorix. Sarebbe così facile valicare questo confine senza darvi importanza.

«Comprendo le tue ragioni, mastro Gamble. Tuttavia, sebbene i Varden non siano una nazione e non rispondano a nessuna autorità se non la nostra, questo non autorizza né te né nessun altro a ignorare le leggi emanate dai miei predecessori o quelle osservate qui nel Surda. Pertanto ti ordino di pagare una moneta di rame per ogni gallina che hai rubato.»

Gamble la sorprese accettando senza protestare. «Come desideri, signora.»

«Tutto qui?» esclamò l'uomo pallido, torcendo ancora di più il berretto. «Non è un prezzo equo. Se le avessi vendute al mercato, avrei...»

Nasuada non riuscì più a trattenersi. «Sì! Avresti guadagnato di più. Ma si da il caso che io sappia che mastro Gamble non può permettersi di pagarti il prezzo pieno delle galline, perché sono io che gli pago il salario! Come il tuo. Dimentichi che se decidessi di acquistare i tuoi polli per il bene dei Varden, te li pagherei non più di una moneta di rame ciascuno, e saresti fortunato. Intesi?»

Contrasti

di nascondere la sua impazienza mentre esaminava i due uomini «Ma non può...»

«Intesi?»

Dopo un momento, l'uomo pallido si arrese e mormorò: «Sì, signora.»

«D'accordo. Con voi due ho finito.» Con un'espressione di sardonica ammirazione, Gamble si sfiorò la fronte e s'inchinò a Nasuada, prima di indietreggiare lungo la sala di pietra insieme al suo avversario avvilito. «Anche voi potete andare» disse lei alle guardie appostate sull'uscio.

Non appena fu rimasta sola, si accasciò nella sedia con un sospiro sconsolato e prese il ventaglio, sventolandosi in un inutile tentativo di dissipare le gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Il caldo afoso la privava di energia e le rendeva difficile anche il compito più semplice.

Ma aveva la sensazione che si sarebbe sentita esausta anche se fosse stato inverno. Per quanto informata sui segreti più intimi dei Varden, le era costato molto più del previsto spostare l'intera organizzazione dal Farthen Dùr, attraverso i Monti Beor, fino al Surda e Aberon. Rabbrividì

al ricordo dei lunghi e disagevoli giorni passati in sella. Pianificare la partenza e metterla in pratica era stato oltremodo difficile, come lo era adesso il compito di integrare i Varden nel nuovo ambiente, preparando al tempo stesso un attacco all'Impero. Le mie giornate sono troppo brevi per risolvere tutti questi problemi, si lamentò fra sé. Alla fine, lasciò il ventaglio e tirò il cordone della campanella per chiamare la sua ancella, Farica. Lo stendardo appeso alla destra della scrivania di ciliegio sventolò quando si aprì la porta nascosta dietro di esso. Farica entrò nella stanza e si affiancò a Nasuada, a occhi bassi.

«Ce ne sono altri?» chiese Nasuada.

«No, signora.»

Nasuada cercò di non mostrare troppo sollievo. Una volta la settimana, riceveva a porte aperte i Varden che avevano bisogno di risolvere le loro dispute. Chiunque pensasse di aver subito un torto poteva chiederle udienza per ottenere giustizia. Nasuada non sapeva immaginare un compito più difficile e ingrato. Come le diceva spesso suo padre, dopo uno dei tanti negoziati con Rothgar, "un buon compromesso lascia tutti insoddisfatti". E così pareva. Rivolgendo l'attenzione alla questione sul tappeto, disse a Farica: «Voglio che a quel Gamble sia affidato un nuovo incarico. Dategli un lavoro dove possa mettere a frutto il suo talento con le parole. Furiere, per esempio, purché sia un lavoro con il quale ottenga razioni complete. Non voglio più vederlo davanti a me per aver rubato ancora.» Farica annuì e andò alla scrivania, dove annotò le istruzioni di Nasuada su una pergamena. Già il fatto che sapesse scrivere la rendeva indispensabile. Farica chiese: «Dove posso trovarlo?»

«In una delle squadre che lavorano nella cava.»

«Sì, signora. Oh, mentre eri impegnata, re Orrin ha chiesto che andassi da lui nel suo laboratorio.» «Che ha fatto questa volta, si è accecato?» Nasuada si lavò i polsi e il collo con acqua di lavanda, poi controllò l'acconciatura nello specchio di argento lucido che Orrin le aveva dato e si assestò la sopravveste per lisciarsi le maniche.

Soddisfatta del suo aspetto, uscì dalle sue stanze con Farica al seguito. Il sole era così splendente quel giorno che non occorrevano torce per illuminare l'interno del Castello Farnaci, né il loro calore sarebbe stato tollerabile. Fasci di luce penetravano dalle feritoie a croce che si aprivano nella parete del corridòio a intervalli regolari, tagliando l'aria con sbarre di polvere dorata. Nasuada guardò fuori da una feritoia verso il barbacane, dove oltre trenta elementi della cavalleria di Orrin, in tuniche arancio, si apprestavano al solito giro di perlustrazione nelle campagne che circondavano Aberon.

Non potrebbero fare molto se Galbatorix decidesse di attaccare, pensò amareggiata. La loro unica difesa era l'orgoglio di Galbatorix e, sperava, la sua paura di Eragon. Tutti usurpatori stessi avevano doppiamente paura della rappresentare. Nasuada sapeva di giocare un gioco molto pericoloso con il più potente pazzo di Alagaésia. Se si fosse sbagliata nel calcolare fino a quanto poteva provocarlo, lei e i Varden sarebbero stati distrutti, e con loro la speranza di porre fine al regno di Galbatorix.

L'odore di pulito del castello le rammentava le volte che vi era stata da bambina, ai tempi in cui il padre di Orrin, re Larkin, regnava ancora. All'epoca non vedeva spesso Orrin. Lui era più grande di lei di cinque anni, ed era già impegnato con i suoi incarichi di principe. Adesso però aveva la sensazione di essere lei la più grande. Davanti alla porta del laboratorio di Orrin, fu costretta a fermarsi e ad aspettare che le sue guardie del corpo, schierate sulla soglia, annunciassero la sua presenza. La voce di Orrin rimbombò nell'androne. «ledy Nasuada! Sono così felice che sei venuta. Ho qualcosa da mostrarti.»

Facendosi forza, Nasuada entrò nel laboratorio con Farica. Un labirinto di tavoli carichi di uno spropositato numero di alambicchi, ampolle e storte le aspettava, come un bosco di vetro in attesa di afferrare un lembo dei loro vestiti con un fragile ramo. L'odore acre dei vapori metallici fece lacrimare gli occhi di Nasuada. Sollevando l'orlo delle vesti da terra, le due donne si fecero strada verso il fondo della sala, passando davanti a clessidre e bilance, arcani volumi rilegati di ferro nero, astrolabi minuscoli, e pile di prismi di cristallo fosforescente che producevano lampi di luce azzurra. Trovarono Orrin chino su un banco dal piano di marmo, dove rimestava in un crogiolo di mercurio con un tubo di vetro chiuso a un'estremità e aperto dall'altra, che doveva misurare almeno tre piedi di lunghezza, anche se era spesso soltanto un quarto di pollice.

«Sire» disse Nasuada. Come si conveniva a una persona di rango pari al re, lei rimase ferma, mentre Farica faceva la riverenza. «A quanto pare ti sei ripreso dall'esplosione della settimana scorsa.»

Orrin le rivolse un sorriso bonario. «Ho imparato che non è saggio mescolare fosforo e acqua in uno spazio chiuso. Il risultato può essere alquanto violento.»

i sovrani conoscevano il rischio dell'usurpazione, ma gli

minaccia che un singolo individuo determinato poteva «Ti è tornato l'udito?»

«Non del tutto, ma...» Sorridendo come un ragazzino davanti al suo primo pugnale, il re accese una sottile candela con i carboni di un braciere - Nasuada non riusciva a capire come potesse sopportarlo con quel clima torrido -, poi riportò la fiammella al banco di lavoro e la usò per accendere una pipa riempita di foglie di cardo.

«Non sapevo che fumassi.»

«Infatti» confessò lui. «Solo che, grazie al mio timpano non ancora del tutto rimarginato, ho scoperto di essere capace di fare questo...» Trasse una boccata dalla pipa e gonfiò le guance finché un sottile filo di fumo non gli uscì dall'orecchio sinistro, come un serpentello che lasciava la tana e risaliva a spirale al lato della testa. Fu una scena così inaspettata che Nasuada scoppiò a ridere. Dopo un momento, anche Orrin prese a ridere, liberando uno sbuffo di fumo dalla bocca. «È una sensazione molto particolare» le confidò. «Fa un solletico terribile mentre esce.» Tornando seria, Nasuada gli chiese: «C'è qualcos'altro di cui vuoi discutere con me, sire?»

Lui fece schioccare le dita. «Ma certo.» Intinse il lungo tubo di vetro nel crogiolo, lo riempì di mercurio, poi tappò con un dito l'estremità aperta e le mostrò il tubo. «Convieni che qui dentro c'è soltanto mercurio?»

«Convengo.» È per questo che mi ha mandata a chiamare?

«E adesso?» Con un rapido movimento, capovolse il tubo e infilò l'estremità aperta nel crogiolo, togliendo il dito. Invece di uscire tutto, come Nasuada si aspettava, il mercurio nel tubo calò fino alla metà, poi si fermò. Orrin indicò la sezione vuota sul metallo sospeso, e le chiese: «Cosa occupa questo spazio?»

«Dev'essere aria» dichiarò Nasuada.

Orrin sogghignò e scrollò il capo. «Se fosse così, come ha fatto l'aria a sorpassare il metallo liquido o a diffondersi nel vetro? Non ci sono vie possibili per cui l'atmosfera possa essere entrata.» Fece un cenno a Farica. «Qual è la tua opinione, ancella?»

Farica esaminò il tubo, poi si strinse nelle spalle e disse: «Non c'è niente, sire.»

«Ah, ma è esattamente quel che penso io: niente. Credo di aver risolto uno dei più antichi enigmi della filosofia naturale creando e dimostrando l'esistenza del vuoto! Questo invalida completamente le teorie di Vacher e significa che Làdin era un genio. Quei dannati elfi hanno sempre ragione.»

Nasuada si sforzò di mantenere un tono cortese nel chiedere: «Qual è il suo scopo?»

«Scopo?» Orrin la guardò con sincero stupore. «Nessuno, naturalmente. Almeno non uno che mi venga in mente. Tuttavia, questo ci aiuterà a comprendere la meccanica del nostro mondo, come e perché le cose accadono. È una scoperta meravigliosa. Chissà a cosa potrà condurci.» Mentre parlava, svuotò il tubo e lo depose con cura in un astuccio foderato di velluto che conteneva altri strumenti ugualmente delicati. «La prospettiva che mi eccita di più, devo ammettere, è quella di usare la magia per scoprire i segreti della natura. Sai, giusto ieri, con un solo incantesimo, Trianna mi ha aiutato a scoprire due nuovi gas. Immagina che cosa potremmo imparare se la magia venisse sistematicamente applicata alle discipline della filosofia naturale. Sto pensando di imparare io stesso la magia, ammesso che ne abbia il talento, e se riuscirò a convincere qualche stregone a divulgare le sue conoscenze. E un peccato che il tuo Cavaliere dei Draghi, Eragon, non ti abbia accompagnata qui; sono sicuro che avrebbe potuto aiutarmi.» Rivolgendosi a Farica, Nasuada disse: «Aspettami fuori.» La donna s'inchinò e uscì. Quando Nasuada sentì chiudersi la porta del laboratorio, esclamò: «Orrin, ti è andato di volta il cervello?»

«Che vuoi dire?»

«Mentre passi il tuo tempo rinchiuso qui dentro a condurre esperimenti che nessuno capisce, mettendo in pericolo la tua stessa salute, il tuo paese vacilla sull'orlo di una guerra. Una moltitudine di problemi aspetta una tua decisione, e tu te ne stai qui a soffiare fumo dalle orecchie e a giocare col mercurio?»

Il volto del sovrano s'indurì. «Sono più che consapevole dei miei dovéri, Nasuada. Tu sarai anche il capo dei Varden, ma io resto il re del Surda, e dovresti ricordartene prima di rivolgerti a me in modo così irriguardoso. Occorre forse rammentarti che la vostra permanenza qui dipende dalla mia benevolenza?»

Nasuada sapeva che si trattava di una minaccia futile: molti surdani avevano parenti fra i Varden, e viceversa. Erano troppo intimamente legati per abbandonarsi a vicenda. No, la vera ragione per cui Orrin si era offeso era la questione dell'autorità. Dato che era quasi impossibile mantenere cospicue truppe armate, pronte a combattere, per prolungati periodi di tempo - come Nasuada aveva imparato, sfamare tante bocche inattive era un incubo logistico - i Varden avevano cominciato a svolgere dei lavori, a impiantare fattorie e a integrarsi nel paese ospitante. Dove mi porterà tutto questo alla fine? Diventerò il capo di un esercito fantasma? Un generale o un consigliere sotto il governo di Orrin? La posizione di Nasuada era precaria. Se si fosse mossa troppo in fretta o avesse dimostrato troppa iniziativa, Orrin l'avrebbe potuta prendere come una minaccia e voltarle le spalle, specie ora che lei poteva vantare la gloriosa vittoria dei Varden nel Farthen Dùr. Ma se avesse indugiato troppo, avrebbero perso l'occasione di sfruttare la momentanea debolezza di Galbatorix. Il suo unico vantaggio in quel ginepraio era l'autorità che deteneva sull'unico elemento che aveva generato quell'atto del dramma: Eragon e Saphira.

Disse: «Non ho alcuna intenzione di minare la tua autorità, Orrin. Non ho mai voluto una cosa del genere, e ti chiedo scusa se il mio comportamento ti ha indotto a crederlo.» Lui chinò il capo con il collo rigido. Non sapendo bene come continuare, Nasuada appoggiò le dita sull'orlo del bancone. «È solo che... ci sono così tante cose da fare. Io lavoro giorno e notte, tengo una lavagnetta accanto al letto per scrivere appunti, e ancora non riesco a sbrogliare la matassa. Ho sempre la sensazione di essere in bilico sull'orlo del disastro.»

Orrin prese un pestello macchiato di nero e se lo fece rotolare fra i palmi a un ritmo costante e ipnotico. «Prima che tu venissi... no, non è corretto. Prima che il tuo Cavaliere si materializzasse dall'etere come Moratensis dalla fontana, mi aspettavo di vivere la mia vita come mio padre e mio nonno prima di me. Ossia opponendomi a Galbatorix in segreto. Devi capire che mi occorre del tempo per abituarmi a questa nuova realtà.»

Era quanto di più vicino a un atto di contrizione lei si potesse aspettare. «Capisco.»

Lui smise di rigirare il pestello per un momento. «Hai da poco preso il potere, mentre io conservo il mio da un certo numero di anni. Se posso permettermi di darti un consiglio, ho scoperto che è essenziale per la mia sanità mentale dedicare una certa frazione del giorno ai miei interessi personali.»

«Io non potrei mai farlo» obiettò Nasuada. «Ogni momento perso potrebbe essere il momento dello sforzo necessario a sconfiggere Galbatorix.»

Il pestello si fermò di nuovo. «Non fai che danneggiare i Varden se insisti a spremerti in questo modo. Nessuno può agire con lucidità senza un momento di pace e tranquillità. Non devono essere lunghi intervalli, bastano cinque o dieci minuti. Potresti allenarti con l'arco e continuare a perseguire i tuoi obiettivi, anche se in maniera diversa... Ecco perché ho allestito questo laboratorio. Perché quando soffio fumo dalle orecchie o gioco col mercurio, come dici tu, almeno non urlo di rabbia e delusione per il resto della giornata.»

Malgrado fosse ancora restìa a modificare la sua opinione di Orrin come un irresponsabile perdigiorno, Nasuada non potè fare a meno di riconoscere il valore delle sue argomentazioni. «Terrò a mente il tuo consiglio.» Quando Orrin sorrise, riaffiorò qualcosa della sua precedente bonarietà. «È tutto quello che ti chiedo.» Avvicinatasi alla finestra, Nasuada aprì le persiane e lasciò vagare lo sguardo su Aberon, con le grida dei suoi mercanti dalla lingua sciolta che imbonivano ingenui compratori, le nuvole di polvere gialla sollevate sulla via dalle carovane che si avvicinavano alle porte ovest della città, l'aria che tremolava di calura sulle tegole d'argilla dei tetti e portava l'odore dei cardi e dell'incenso dai templi di marmo, e i campi che circondavano Aberon come petali di un fiore. Senza voltarsi, Nasuada chiese: «Hai ricevuto le copie dei nostri ultimi rapporti dall'Impero?»

«Sì.» Orrin si avvicinò a lei davanti alla finestra.

«Qual è la tua opinione?»

«Sono troppo scarni e incompleti per trarre una qualsiasi conclusione.»

«Ma sono il meglio a nostra disposizione, al momento. Parlami dei tuoi sospetti e delle tue impressioni. Deduci dai fatti come faresti se fosse uno dei tuoi esperimenti.» Sorrise. «Ti prometto che non aggiungerò alcun significato a ciò che mi dirai.»

Aspettò a lungo una risposta, che arrivò con tutto il doloroso peso di una funesta profezìa. «Aumenti delle tasse, guarnigioni svuotate, cavalli e buoi confiscati in tutto l'Impero... Si direbbe che Galbatorix stia radunando le forze per combatterci, anche se non so stabilire se per offesa o per difesa.» Ombre fuggevoli passarono sui loro volti mentre una formazione di storni volteggiava davanti al sole. «La domanda che mi assilla è: quanto impiegherà per mobilitarsi? Perché questo determinerà il corso della nostra strategia.»

«Settimane. Mesi. Anni. Non posso prevedere le sue azioni.»

Il re annuì. «I tuoi agenti continuano a diffondere notizie su Eragon?»

«Sta diventando sempre più pericoloso, ma sì. La mia speranza è che se spargiamo la voce delle imprese di Eragon in città come Dras-Leona, quando alla fine raggiungeremo la città e gli abitanti lo vedranno, si uniranno a noi di loro spontanea volontà, dandoci modo di evitare un assedio.»

«Di rado la guerra è così facile.»

Lei lasciò cadere il commento. «E che cosa mi dici del tuo esercito? I Varden sono pronti a combattere, come sempre.» Orrin allargò le braccia in un gesto conciliante. «È difficile sollevare una nazione, Nasuada. Ci sono nobili che devo convincere a sostenermi, armature e armi da fabbricare, provviste da accumulare...»

«E nel frattempo, come sfamerò la mia gente? Abbiamo bisogno di più terra di quanta ce ne hai concessa...» «Sì, lo so» disse lui.

«... e la otterremo soltanto invadendo l'Impero, a meno che tu non voglia fare dei Varden un'appendice permanente del Surda. Se è così, dovrai trovare una casa alle migliaia di persone che ho portato con me dal Farthen Dùr, il che non piacerà ai tuoi sudditi. Qualunque sia la tua scelta, decidi in fretta, perché temo che se continui ad aspettare, i Varden si disintegreranno in un'orda incontrollabile.» Cercò di non farla suonare come una minaccia.

Tuttavia Orrin non apprezzò l'insinuazione. Arricciò il labbro superiore e disse: «Tuo padre non si sarebbe mai lasciato sfuggire di mano i suoi uomini. Confido che nemmeno tu lo farai, se hai intenzione di restare capo dei Varden. Quanto ai nostri preparativi, c'è un limite a quel che si può fare in così breve tempo: dovrai aspettare finché non saremo pronti.»

Lei strinse con forza il davanzale tanto che le si gonfiarono le vene dei polsi e le unghie affondarono nelle fessure fra le pietre, ma non permise alla collera di alterare il suo tono. «In questo caso, presterai ai Varden altro oro per comprare il cibo?»

«No. Vi ho già dato tutto quello che potevo.»

«Come mangeremo, allora?»

«Ti suggerisco di trovare voi stessi i fondi.»

Furibonda, gli rivolse il più ampio e luminoso dei sorrisi - mantenendolo abbastanza a lungo da farlo sentire a disagio poi fece una riverenza profonda, come la più umile delle cameriere, senza mai abbandonare quel falso sorriso. «Ti saluto, mio sire. Spero che il resto della tua giornata sia gradevole come lo è stata la nostra conversazione.» Orrin borbottò una risposta incomprensibile mentre lei imboccava la porta del laboratorio. Nella foga, Nasuada urtò un flacone di giada con la manica e lo rovesciò; il flacone si ruppe e del liquido giallastro le schizzò sulla manica e le colò sulla veste. Fece un gesto stizzito, ma non si fermò.

Farica la incontrò in cima alle scale, e insieme riattraversarono il dedalo di corridoi fino alle stanze di Nasuada.

Appesi a un filo

Nasuada spalancò di colpo la porta dei suoi appartamenti, marciò verso la scrivania e si lasciò cadere su una sedia, cieca a tutto il resto. La sua schiena era così rigida che le spalle non toccavano nemmeno lo schienale. Si sentiva paralizzata dall'irrisolvibile dilemma che i Varden dovevano affrontare. Il suo respiro affannato rallentò fino a diventare quasi impercettibile. Ho fallito, continuava a ripetersi.

«Signora, la tua manica!»

Riscossa dai propri pensieri, Nasuada girò lo sguardo e vide Farica che le batteva il braccio destro con uno straccio. Un filo di fumo si levava dalla manica ricamata. Allarmata, Nasuada si alzò dalla sedia e ruotò il braccio, in cerca dell'origine del fumo. La manica e parte della gonna si stavano disintegrando in una sorta di ragnatela gessosa che emetteva acri vapori.

«Aiutami a levarlo» disse.

Si costrinse a restare immobile, con il braccio contaminato proteso lontano dal corpo, mentre Farica le slacciava la sopravveste. Le dita dell'ancella annasparono frenetiche sulla schiena di Nasuada, impigliandosi nei nodi, poi finalmente liberò il busto di Nasuada dal corsetto di lana. Non appena l'abito si afflosciò, Nasuada sfilò le braccia dalle maniche e si liberò della stoffa.

Ansante, rimase accanto alla scrivania, vestita soltanto della lunga camiciòla di lino e delle pantofoline ricamate. Con suo sollievo, la costosa sottoveste non era rimasta danneggiata, anche se aveva assunto un odore nauseabondo. «Ti sei bruciata?» chiese Farica. Nasuada scosse la testa, incapace di muovere la lingua. Farica spinse la sopravveste con la punta del piede. «Che diavoleria è mai questa?»

«Uno di quegli orribili intrugli di Orrin» gracchiò Nasuada. «L'ho fatto cadere nel suo laboratorio.» Cercando di calmarsi con lunghi respiri, esaminò sgomenta l'abito rovinato. Era stato tessuto dalle nane del Dùrgrimst Ingietum come dono per il suo ultimo compleanno, ed era uno dei pezzi più eleganti del suo guardaroba. Non aveva niente per sostituirlo, né poteva commissionare un altro abito, viste le difficoltà finanziarie dei Varden. In qualche modo dovrò farne a meno.

Farica scosse il capo. «Che peccato, perdere un vestito così bello.» Girò intorno alla scrivania per prendere un cestino da lavoro e tornò con un paio di forbici. «Cercherò di salvare quanta più stoffa possibile. Il resto lo faremo bruciare.» Nasuada s'incupì e cominciò a misurare la stanza a grandi passi, schiumante di collera per la propria sbadataggine e per l'ennesimo problema che si aggiungeva alla sua già lunga lista di preoccupazioni. «Cosa indosserò a corte, adesso?» si lamentò.

Le forbici penetrarono nella morbida lana con vivace autorità. «Magari il vestito di lino.»

«È troppo semplice per comparire davanti a Orrin e ai suoi nobili.»

«Fammi provare, signora. Sono sicura di poterlo sistemare in qualche modo. Quando avrò finito, sembrerà due volte più elegante di questo.»

«No, no. Non funzionerebbe. Riderebbero di me. Già è difficile ottenere il loro rispetto quando sono ben vestita, figurati se indossassi una veste rattoppata che dichiara ai quattro venti la nostra povertà.»

La donna fissò Nasuada con uno sguardo tenace. «Funzionerà, purché tu non chieda scusa per il tuo aspetto. Non solo, ti garantisco che le altre signore rimarranno così colpite dal tuo nuovo abito che vorranno imitarti. Aspetta e vedrai.» Farica andò alla porta e la socchiuse quel tanto da infilarci il braccio teso che reggeva il tessuto danneggiato. «Tieni» disse rivolta a una guardia. «La tua signora vuole che lo bruci. Fallo in segreto e non dire una parola ad anima viva, altrimenti ne risponderai a me.» La guardia battè i tacchi e si allontanò.

Nasuada non potè fare a meno di sorridere. «Come farei senza di te, Farica?»

«Te la sapresti cavare egregiamente, mia signora.»

Dopo aver indossato la tenuta da caccia verde - ideale, con la sua gonna leggera, per la calura opprimente della giornata - Nasuada decise che, malgrado la sua irritazione verso Orrin, avrebbe seguito il suo consiglio e interrotto le febbrili attività quotidiane con qualcosa che la distraesse, niente di più importante che aiutare Farica a togliere i punti dalla sopravveste. Trovò il lavoro ripetitivo un eccellente modo per chiamare a raccolta i pensieri. Mentre tirava i fili, discusse della situazione dei Varden con Farica, nella speranza che lei potesse intuire una soluzione che a lei era sfuggita.

Alla fine, l'unico aiuto di Farica fu un'osservazione: «A quanto pare, le cose che più contano a questo mondo hanno a che fare con l'oro. Se ne avessimo abbastanza, potremmo comprare il trono nero di Galbatorix, senza nemmeno dover combattere contro i suoi uomini.»

Davvero mi aspettavo che qualcuno facesse il mio lavoro per me? si disse Nasuada. lo ho condotto i Varden in questo vicolo cieco, e io devo trovare il modo di uscirne.

Con l'intenzione di tagliare un punto, tese troppo il braccio e infilò la punta delle forbicine in una guarnizione di merletto, strappandola in due. Contemplò lo squarcio frastagliato nel merletto, le estremità sfrangiate color pergamena che pendevano sulla stoffa come vermi contorti, e si sentì afferrare la gola da una risata isterica, mentre le affioravano le lacrime agli occhi. Poteva essere più sfortunata?

Il merletto era la parte più preziosa dell'abito. Anche se richiedeva estrema perizia per essere realizzato, la sua rarità e il suo prezzo erano dovuti principalmente al suo più cospicuo ingrediente: una grande, enorme, gigantesca quantità di tempo. Ci voleva così tanto tempo per produrlo che volendo farsi un velo di merletto da sola, i progressi si sarebbero misurati in mesi, non in settimane. Calcolandolo a peso, il merletto valeva più dell'oro o dell'argento. Fece scorrere le dita sull'intreccio di fili, soffermandosi sullo squarcio che aveva aperto. È come se il merletto non richiedesse tanto energia, quanto tempo... Si odiò per essere stata lei la causa dello scempio. Energia... energia... In quel momento, una serie di immagini le balenarono nella mente: Orrin che parlava di usare la magia per le sue ricerche; Trianna, la donna che aveva guidato il Du Vrangr Gata dalla morte dei Gemelli; uno dei guaritori dei Varden che spiegava i principi della magia a Nasuada quando aveva soltanto cinque o sei anni. Le diverse esperienze si collegarono in una catena di ragionamento così improbabile e sfrontata che alla fine liberò la risata prigioniera della sua gola.

Farica la guardò con aria perplessa. Nasuada si alzò, facendo cadere la sua metà di sopravveste sul pavimento. «Vai a cercare subito Trianna» disse. «Non m'importa quello che sta facendo; falla venire qui subito.»

Le piccole rughe intorno agli occhi di Farica si incresparono, ma l'ancella si limitò a fare un inchino e a dire: «Come desideri, signora.» Uscì dalla porticina nascosta.

«Grazie» mormorò Nasuada alla stanza vuota.

Comprendeva la riluttanza della cameriera; anche lei si sentiva a disagio ogni volta che aveva a che fare con gli stregoni. In effetti, lei si fidava di Eragon soltanto perché era un Cavaliere - anche se non era una prova di virtù, come aveva dimostrato Galbatorix - e per via del suo giuramento di fedeltà: sapeva che lui non lo avrebbe mai infranto. La spaventavano i poteri dei maghi e degli stregoni. Il pensiero che una persona dall'apparenza innocua potesse uccidere con una sola parola; invadere la tua mente come voleva; ingannare, mentire e rubare senza essere scoperta; e sfidare la società in ogni maniera possibile restando impunita...

Il suo cuore accelerò i battiti.

Come poteva far rispettare la legge quando una parte importante della popolazione possedeva poteri speciali? In buona sostanza, la guerra dei Varden contro l'Impero non era altro che il tentativo di restaurare la giustizia laddove un uomo aveva abusato delle proprie arti magiche, e di impedirgli di commettere altri crimini. Tutte queste sofferenze e queste devastazioni solo perché nessuno ha avuto la forza di sconfiggere Galbatorix. E potrebbe non morire dopo un normale ciclo vitale!

Sebbene non le piacesse la magia, sapeva che avrebbe svolto un ruolo cruciale nello sconfiggere Galbatorix, e che non poteva permettersi di alienarsi coloro che la praticavano, almeno fino a vittoria ottenuta. A quel punto, avrebbe trovato il modo di risolvere il problema.

Un rintocco metallico alla porta della sua camera la distolse dai suoi pensieri. Stampandosi un sorriso cordiale sul volto e difendendo la mente come le era stato insegnato, Nasuada rispose: «Avanti!» Era importante che si mostrasse cortese, dopo aver convocato Trianna in maniera tanto rude.

La porta si aprì e la maga entrò nella stanza, i folti riccioli neri ravviati sulla testa con fretta evidente. Sembrava che si fosse appena alzata dal letto. Facendo un inchino alla maniera dei nani, disse: «Hai chiesto di me, signora?» «Sì.» Nasuada si rilassò sulla sedia e scrutò Trianna da capo a piedi. La maga alzò il mento, fiera, sotto lo sguardo intenso di Nasuada. «Devo sapere una cosa: qual è la regola più importante della magia?»

Trianna aggrottò la fronte. «Qualunque cosa si faccia con la magia richiede la stessa quantità di energia che ci vorrebbe per farla altrimenti.»

«E quello che si può fare è limitato soltanto dal grado di creatività e dalla conoscenza dell'antica lingua?» «Ci sono altre limitazioni, ma in generale, sì. Signora, perché me lo chiedi? Questi sono i principi cardine della magia che, sebbene non familiari a tutti, sono sicura tu conosca bene.»

«Infatti. Volevo soltanto essere sicura di averli compresi bene.» Senza muoversi dalla sedia, Nasuada raccolse la sopravveste da terra per mostrare a Trianna il merletto strappato. «Quindi, entro questi limiti, tu dovresti essere in grado di formulare un incantesimo che ti consenta di fabbricare il merletto con la magia.»

Un sorriso di condiscendenza deformò le labbra scure della maga. «Il Du Vrangr Gata ha compiti molto più importanti che riparare i tuoi vestiti, signora. La nostra arte non è così banale da impiegarla per simili capricci. Sono sicura che troverai delle ricamatrici in grado di esaudire la tua richiesta. Ora, se vuoi scusarmi, ho...» «Calma, donna» disse Nasuada con voce atona. Lo stupore interruppe Trianna a metà frase. «Mi vedo costretta a insegnare al Du Vrangr Gata la stessa lezione che ho impartito al Consiglio degli Anziani. Sarò anche giovane, ma non sono più una bambina da redarguire. Ti ho chiesto del merletto perché se puoi fabbricarlo rapidamente e facilmente con la magia, allora potremo sostenere i Varden vendendo merletti a poco prezzo in tutto l'Impero. Sarà lo stesso popolo di Galbatorix a fornirci i fondi necessari alla nostra sussistenza.»

«Ma è ridicolo» protestò Trianna. Perfino Farica sembrava scettica. «Non si può sovvenzionare una guerra con i merletti.»

Nasuada inarcò un sopracciglio. «Perché no? Le donne che altrimenti non potrebbero permettersi di possedere costosi merletti coglieranno al volo l'occasione di comprare i tuoi. Tutte le mogli di contadini che desiderano apparire più ricche li vorranno. Perfino i mercanti facoltosi e i nobili ci daranno il loro oro per i nostri merletti, perché saranno più fini e delicati di qualunque merletto fabbricato da mani umane. Guadagneremo una fortuna che competerà con quella dei nani. Sempre che tu sia in grado di eseguire con la magia ciò che voglio.»

Trianna alzò la testa di scatto. «Dubiti delle mie capacità?»

«Sei capace?»

Trianna esitò, poi prese la sopravveste dalle mani di Nasuada e ne studiò il merletto a lungo. Alla fine, disse: «Credo che sia possibile, ma devo prima effettuare qualche prova per averne la certezza.»

«Comincia subito. Da questo momento in poi, sarà il tuo più importante incarico. E trova un'esperta merlettaia che ti dia consigli sui disegni.»

«Sì, ledy Nasuada.»

Nasuada addolcì i toni. «Bene. Vorrei anche che scegliessi i membri più brillanti del Du Vrangr Gata per elaborare con loro altre tecniche magiche per aiutare i Varden. Questa è una tua responsabilità, non mia.»

«Sì, ledy Nasuada.»

«Adesso sei scusata. Torna domattina a riferirmi.»

«Sì, ledy Nasuada.»

Soddisfatta, Nasuada guardò la maga allontanarsi, poi chiuse gli occhi e si concesse il lusso di godersi un momento di orgoglio per quanto aveva fatto. Sapeva che nessun uomo, nemmeno suo padre, avrebbe mai pensato a quella soluzione. Questo è il mio contributo ai Varden, si disse, desiderando che Ajihad fosse lì a vederla. Ad alta voce, chiese: «Ti ho sorpresa, Farica?»

«Come sempre, signora.»

Elva

"Signora?... Sei desiderata, signora.» «Cosa?» Riluttante a muoversi, Nasuada aprì gli occhi e vide Jòrmundur che entrava nella stanza. Il coriaceo veterano si tolse l'elmo e se lo mise nell'incavo del gomito destro, avanzando con la sinistra poggiata sul pomo della spada.

Gli anelli metallici del suo usbergo tintinnarono quando s'inchinò. «Mia signora.»

«Benvenuto, Jòrmundur. Come sta oggi tuo figlio?» Nasuada era contenta di vederlo. Di tutti i membri del Consiglio degli Anziani, era l'unico ad aver accettato di buon grado la sua guida, servendola con la stessa determinazione e lealtà canina che aveva per Ajihad. Se tutti i miei guerrieri fossero come lui, non ci fermerebbe nessuno. «La tosse gli è passata.»

«Sono lieta di sentirlo. Che cosa ti porta da me?»

Rughe profonde solcarono la fronte di Jòrmundur. Si passò la mano libera tra i capelli, legati indietro in una coda, poi riprese un contegno e abbassò la mano lungo il fianco. «Magia, del genere più inusuale.»

«Oh.»

«Ricordi la bambina benedetta da Eragon?»

«Sì.» Nasuada l'aveva vista soltanto una volta, ma era al corrente delle voci esagerate che circolavano fra i Varden sul suo conto, come anche delle speranze che i Varden nutrivano per i suoi futuri successi una volta cresciuta. Nasuada era più pragmatica sull'argomento. Qualunque cosa fosse diventata, non sarebbe successo ancora per molti anni, e nel frattempo la battaglia contro Galbatorix sarebbe stata vinta, o persa.

«Mi è stato chiesto di portarla da te.»

«Chiesto? Chi? E perché?»

«Sul campo di addestramento un ragazzo mi ha detto che dovresti vedere la bambina. Dice che la troveresti interessante. Il ragazzo si è rifiutato di dirmi come si chiamava, ma assomigliava parecchio a quello in cui si trasforma il gatto mannaro dell'indovina, così ho pensato... Be', ho pensato che forse era il caso di vedere la bambina.» Jòrmundur aveva l'aria imbarazzata. «Ho chiesto ai miei uomini di fare qualche domanda sul suo conto, e a quanto pare lei... è diversa.»

«In che senso?»

Jòrmundur si strinse nelle spalle. «Abbastanza da credere che dovresti fare quel che dice il gatto mannaro.» Nasuada aggrottò la fronte. Sapeva dalle vecchie storie che ignorare quel che diceva un gatto mannaro era la più stolida delle follie, e spesso conduceva alla morte. Tuttavia la sua compagna - Angela l'erborista - era un'altra specie di strega di cui Nasuada non si fidava del tutto; era troppo indipendente e imprevedibile. «Magia» disse, come se fosse una parolaccia.

«Magia» ripete Jòrmundur, anche se lui usò la parola con un certo timore reverenziale.

«D'accordo, vediamo questa bambina. Si trova nel castello?»

«Orrin ha dato a lei e alla sua domestica un alloggio nell'ala ovest del maschio.»

«Portami da lei.»

Raccogliendo le gonne, Nasuada ordinò a Farica di posticipare gli altri appuntamenti della giornata, poi lasciò le sue stanze. Dietro di sé, sentì Jòrmundur che schioccava le dita per ordinare a quattro guardie di schierarsi intorno a lei. Un momento dopo, si pose al suo fianco per indicarle la strada.

Il caldo all'interno del Castello Farnaci era aumentato al punto da dare la sensazione di trovarsi in una gigantesca fornace. L'aria tremolava come vetro liquido lungo i davanzali.

Pur a disagio, Nasuada sapeva di sopportare meglio di tanta gente quel caldo terribile, grazie alla pelle scura. Chi aveva seri problemi a resistere alle alte temperature erano quelli come Jòrmundur e le guardie, che indossavano l'armatura tutto il giorno, anche sotto i raggi impietosi del sole.

Nasuada osservava i cinque uomini, mentre il sudore gli imperlava le parti di pelle esposta e il loro respiro si faceva sempre più affannato. Da quando erano arrivati ad Aberon, un certo numero di Varden erano svenuti per un colpo di calore - due erano addirittura morti un paio d'ore più tardi - e lei non aveva alcuna intenzione di perderne altri spingendoli oltre i loro limiti fisici.

Quando le parve che avessero bisogno di riposare, ordinò loro di fermarsi - ignorando le loro obiezioni - e chiese ai servitori acqua da bere. «Non voglio vedervi cadere come birilli.»

Dovettero fare altre due soste prima di raggiungere la loro destinazione, una porta quasi invisibile, incassata nella parete interna del corridòio. Il pavimento davanti alla soglia era disseminato di regali.

Jòrmundur bussò, e una voce tremula dall'interno chiese: «Chi è?»

«ledy Nasuada, venuta a far visita alla bambina» rispose lui.

«Sei di cuore sincero e di solida volontà?»

Questa volta rispose Nasuada. «Il mio cuore è puro e la mia volontà di ferro.»

«Varca la soglia, dunque, e sii la benvenuta.»

La porta si aprì su un ingresso illuminato da una sola lanterna rossa, tipica dei nani. Non c'era nessuno alla porta. Nasuada entrò e vide che le pareti e il soffitto erano coperti da strati di tessuto scuro, dando all'ambiente l'aspetto di una grotta o di una tana. Con sua sorpresa, l'aria era abbastanza fresca, quasi fredda, come una frizzante notte autunnale. L'apprensione affondò i suoi artigli velenosi nel suo ventre. Magia.

Una tenda di rete nera ostruiva il cammino. Scostandola, si ritrovò in quello che un tempo doveva essere un salottino. I mobili erano stati tolti, a parte una fila di sedie addossate alle pareti rivestite. Un grappolo di lanterne rosse era appeso in una piega del tessuto increspato, proiettando strane ombre multicolori in ogni direzione.

Una vecchia dalla schiena curva la osservava dai recessi di un angolo, affiancata da Angela l'erborista e dal gatto mannaro, che aveva i peli del collo ritti. Al centro della stanza era inginocchiata una bambina pallida che Nasuada calcolò dovesse avere tre o quattro anni. La bambina piluccava da un piatto di cibo che teneva in grembo. Nessuno parlava.

Confusa, Nasuada domandò: «Dov'è la neonata?»

La bambina alzò lo sguardo.

Nasuada trasalì nel vedere il marchio del drago splendere sulla fronte della bambina, che la scrutava con profondi occhi viola. La bimba le rivolse un terribile, saggio sorriso. «Io sono Elva.»

Nasuada indietreggiò d'istinto, stringendo l'elsa del pugnale che teneva legato all'avambraccio sinistro. Era una voce da adulta, ed emanava l'esperienza e il cinismo di un'adulta. Suonava profana emessa dalla bocca di una bambina. «Non temere» disse Elva. «Sono tua amica.» Mise da parte il piatto; adesso era vuoto. Si rivolse alla vecchia: «Ancora.» La vecchia si affrettò a uscire dalla stanza. Elva batte il palmo sul pavimento accanto a sé. «Prego, siediti. Ti aspettavo da quando ho imparato a parlare.»

Continuando a stringere il pugnale, Nasuada si accomodò sul pavimento di pietra. «Quando è stato?» «La settimana scorsa.» Elva s'intrecciò le dita in grembo. Fissava Nasuada con i suoi occhi spettrali, inchiodandola con la forza innaturale del suo sguardo. Nasuada aveva la sensazione che una lancia violetta le avesse trafitto il cranio per rimestare nella sua mente, fra pensieri e ricordi. Si sforzò di non mettersi a urlare.

Elva si protese verso di lei e le posò una mano delicata su una guancia. «Sai, Ajihad non avrebbe saputo guidare i Varden meglio di te. Hai scelto la via giusta. Il tuo nome sarà ricordato nei secoli per aver avuto il coraggio e la saggezza di spostare i Varden nel Surda, e di attaccare l'Impero quando tutti gli altri pensavano che fosse una pazzia.» Nasuada rimase a bocca aperta, sbalordita. Come una chiave giusta per la sua serratura, le parole di Elva aderivano perfettamente alle sue primordiali paure, ai dubbi che la tenevano sveglia di notte, a sudare freddo nel buio. Si sentì pervadere da un'intensa emozione, un senso di fiducia e di pace che non aveva mai più provato dalla morte di Ajihad. Lacrime di sollievo le sgorgarono dagli occhi, rotolando giù per le guance. Era come se Elva avesse saputo esattamente che cosa dire per confortarla.

Nasuada la odiò per questo.

La sua euforia lottava contro la repulsione per quel momento di debolezza, per come era stato indotto e da chi. Né si fidava delle ragioni della bambina.

«Cosa sei?» le disse.

«Sono ciò che Eragon mi ha fatto.»

«Ti ha benedetta.»

I terribili occhi saggi si oscurarono per un momento. «Lui non ha capìto le sue azioni. Da quando Eragon mi ha stregata, ogni volta che vedo una persona avverto tutte le sofferenze che l'affliggono o che l'affliggeranno. Quando ero più piccola non potevo farci niente. Perciò sono cresciuta.»

«Perché avresti...»

«La magia che scorre nel mio sangue mi costringe a proteggere le persone dal dolore... indipendentemente dal male che infliggo a me stessa, o dal fatto che voglia aiutarle o meno.» Il suo sorriso prese una piega amara. «Mi costa caro resistere a quest'impulso.»

Mentre Nasuada rifletteva sulle implicazioni, si rese conto che l'inquietante aspetto sofferenze a cui era stata esposta. Nasuada rabbrividì al pensiero di quello che Dev'essere stato terribile provare questo impulso e non essere capace di controllarlo. Ancora una volta, malgrado la propria diffidenza, cominciò a provare una certa compassione per Elva.

«Perché mi dici questo?»

«Pensavo che avresti dovuto sapere chi sono e cosa sono.» Elva fece una pausa, e il fuoco del suo sguardo divampò come un incendio. «E che combatterò per te a ogni costo. Usami come faresti con un sicario... nel buio, in incognito, senza pietà.» Rise con voce acuta e agghiacciante. «Ti domandi perché; lo vedo. Perché se questa guerra non finirà, prima o poi - piuttosto prima che poi - diventerò pazza. Già mi è difficile avere a che fare con le sofferenze della vita di tutti i giorni, senza dovermi anche confrontare con le atrocità di una battaglia. Usami per porre fine a questa guerra, e io ti garantisco che la tua vita sarà lunga e felice quanto un umano ha avuto il privilegio di sperimentare.» In quel momento tornò la vecchia, trafelata. S'inchinò davanti a Elva e le porse un nuovo vassoio di cibo. Fu un sollievo fisico per Nasuada quando Elva distolse lo sguardo per addentare un cosciotto di montone, spingendosi la carne in bocca con le mani. Mangiava con la voracità di un lupo affamato, senza un briciolo di decoro. Con gli occhi violetti nascosti, e la frangetta scura che le copriva il marchio del drago, parve di nuovo una qualunque bimbetta innocente.

di Elva era un prodotto delle

la bambina aveva sopportato. Nasuada aspettò finché non comprese che Elva aveva detto tutto quanto aveva in mente. Poi, richiamata da un cenno di Angela, accompagnò l'erborista attraverso una porta laterale, lasciando la bimba pallida al centro della stanza oscurata dai tendaggi, come un piccolo feto annidato nell'utero, che aspetta il momento di emergere. Angela si assicurò di aver chiuso bene la porta, poi disse: «Non fa altro che mangiare e mangiare. Non riusciamo a saziare il suo appetito con le razioni concesse. Puoi...» «Sarà nutrita. Non devi preoccuparti di questo.» Nasuada si massaggiò le braccia, cercando di sradicare il ricordo di quei terribili occhi...

«Grazie.»

«È mai successo a qualcun altro?»

Angela fece di no con il capo; i riccioli neri le rimbalzarono sulle spalle. «Mai, nell'intera storia della magia. Ho cercato di vedere il suo futuro, ma è un guazzabuglio insondabile - bella parola, guazzabuglio - perché la sua vita s'intreccia con moltissime altre.»

«È pericolosa?»

«Siamo tutti pericolosi.»

«Sai che cosa voglio dire.»

Angela fece spallucce. «È più pericolosa di alcuni, e meno di altri. Ma la persona che è più probabile che uccida è se stessa. Se incontrasse qualcuno che sta per morire e l'incantesimo di Eragon la cogliesse impreparata, prenderebbe il posto della persona predestinata. Ecco perché resta chiusa qui tutto il tempo.»

«Con che ampiezza riesce a prevedere gli eventi?»

«Due o tre ore al massimo.»

Appoggiandosi al muro, Nasuada riflettè su questa nuova complicazione nella sua vita. Elva poteva rivelarsi un'arma potente, se guidata nella maniera corretta. Attraverso di lei potrei scoprire i crucci e le debolezze dei miei avversari, come anche i loro desideri, e piegarli ai miei voléri. In caso di emergenza, la bambina avrebbe potuto anche agire come infallibile guardia del corpo, se uno dei Varden, come Eragon o Saphira, avesse avuto bisogno di protezione. Non la si può lasciare senza controllo. Ho bisogno di qualcuno che la sorvegli. Qualcuno che capisca la magia e abbia abbastanza fiducia nella propria identità da resistere all'influenza di Elva... e di cui io mi possa fidare. Subito scartò Trianna. Poi guardò Angela. Anche se diffidava dell'erborista, sapeva che Angela aveva aiutato i Varden in questioni della più delicata importanza - come la guarigione di Eragon - e non aveva chiesto nulla in cambio. Nasuada non riusciva a pensare a nessun altro che avesse il tempo, la disposizione e l'esperienza per badare a Elva. «Mi rendo conto» disse Nasuada «che è presuntuoso da parte mia, poiché non sei sotto il mio comando e so poco della tua vita e dei tuoi impegni, ma ho un favore da chiederti.»

Angela fece un cenno con la mano. «Va' avanti.»

Nasuada esitò, sconcertata, poi proseguì. «Vorresti tenere d'occhio Elva per me? Ho bisogno...» «Ma certo! Terrò tutti e due gli occhi su di lei, se potrò. Mi attira l'idea di studiarla.»

«Dovrai riferirmi tutto» l'ammonì Nasuada.

«Già, la ciliegina avvelenata sulla torta di panna montata. Oh, be', d'accordo, immagino di poterlo fare.» «Ho la tua parola, dunque?»

«Hai la mia parola.»

Sollevata, Nasuada gemette e si accasciò su una sedia lì accanto. «Oh, che disastro. Che guazzabuglio. Come signora di Eragon, sono responsabile dei suoi atti, ma non avrei mai pensato che avrebbe fatto una cosa terribile come questa. È una macchia sul mio onore, oltre che sul suo.»

Una sequela di lievi scoppiettii risuonò nella stanza, quando Angela si fece schioccare le nocche. «Già. Intendo parlargli quando tornerà da Ellesméra.»

La sua espressione era così feroce che Nasuada si allarmò. «Non avrai intenzione di fargli del male, spero. Abbiamo bisogno di lui.»

«Non gliene farò... nulla di permanente.»

Ritorno di fiamma

Una violenta raffica di vento strappò Eragon dal sonno.

Le coperte gli svolazzavano intorno, mentre una tempesta infuriava nella sua stanza, scagliando gli oggetti per aria e facendo cozzare le lanterne contro le pareti. Fuori, il cielo era fosco di nubi.

Saphira guardò Eragon alzarsi a fatica, barcollando per mantenere l'equilibrio sull'albero che oscillava come una nave in balia delle onde. Abbassò la testa contro la furia del vento e camminò a tentoni lungo la parete fino a trovare l'apertura a forma di goccia da cui entrava il fortunale.

Eragon fece capolino per guardare il terreno sottostante; l'impressione era che ondeggiasse da un lato e dall'altro. Deglutì e cercò di ignorare la nausea.

Sempre a tentoni, trovò il bordo della membrana di tessuto che si poteva srotolare dal muro per coprire l'apertura. Si preparò a lanciarsi dall'altro lato, sapendo che se fosse scivolato, niente gli avrebbe impedito di schiantarsi ai piedi dell'albero.

Aspetta, disse Saphira.

Si spostò dalla pedana su cui dormiva e distese la coda accanto a lui perché potesse usarla come corrimano. Tenendo la stoffa soltanto con la mano destra, Eragon usò le punte cornee della coda di Saphira per spostarsi dall'altro lato del portale. Non appena lo raggiunse, afferrò la stoffa con tutte e due le mani e ne spinse il bordò nella scanalatura che la bloccava.

Nella stanza scese il silenzio.

La membrana si gonfiava verso l'interno sotto la furia degli elementi, ma non dava cenni di cedimento. Eragon premette un dito contro la stoffa: era tesa come la pelle di un tamburo.

È sorprendente ciò che gli elfi riescono a fare, disse.

Saphira tese il collo, poi sollevò la testa fino ad appiattirla contro il soffitto, in ascolto. Faresti meglio a chiudere anche lo studio; il vento sta mandando tutto a soqquadro.

Mentre Eragon saliva le scale, l'albero sussultò, e lui barcollò urtando un ginocchio.

«Maledizione» ringhiò.

Lo studio era un tornado di fogli e penne, che volavano da tutte le parti come dotati di volontà propria. Eragon si tuffò nel caos con le braccia intorno alla testa e la sensazione di trovarsi sotto una sassaiola quando le punte delle penne lo colpivano.

Lottò con tutte le sue forze per chiudere il portale superiore senza l'aiuto di Saphira. Nel momento in cui ci riuscì, il dolore - uno smisurato, devastante dolore - gli spezzò la schiena.

Lanciò un grido straziato che gli bruciò la gola. La vista gli si annebbiò di macchie rosse e gialle, poi sfumò nel nero più assoluto, mentre cadeva di fianco. Sentì Saphira di sotto che ululava di frustrazione; la scala era troppo piccola e, fuori il vento era troppo violento perché lei tentasse di raggiungerlo. Il suo legame con lei si assottigliò. Eragon si arrese alle tenebre come una liberazione dalla sua agonia.

Si ridestò con un sapore amaro in bocca. Non sapeva quanto tempo era rimasto raggomitolato sul pavimento, ma i muscoli delle braccia e delle gambe gli dolevano per essere stati troppo a lungo contratti. La tempesta squassava ancora l'albero, accompagnata da una pioggia battente che andava di pari passo con il martellare che gli pulsava nella testa.

Saphira...?

Sono qui. Vieni giù?

Ci provo.

Si sentiva troppo debole per alzarsi sul pavimento ondeggiante, così strisciò fino alle scale e si lasciò scivolare un gradino alla volta, fremendo a ogni contraccolpo. A metà strada, incontrò Saphira, che aveva infilato la testa e il collo nella tromba delle scale, scheggiando il legno nella fretta.

Piccolo mio. La dragonessa fece guizzare la lingua e gli sfiorò la mano con la punta ruvida. Lui sorrise. Allora lei inarcò il collo per ritrarsi, ma non ci riuscì.

Che succede?

Sono incastrata.

Sei... Eragon non riuscì a trattenersi; scoppiò a ridere anche se gli faceva male. La situazione era troppo assurda. Lei ringhiò e inarcò tutto il corpo, scuotendo l'albero con i suoi sforzi e mandando Eragon a gambe all'aria. Alla fine crollò sfinita. Be', non startene seduto lì a sogghignare come una volpe idiota. Aiutami!

Combattendo contro l'impulso di ridacchiare, Eragon le mise un piede sul naso e cominciò a spingere il più forte possibile, mentre Saphira si torceva e si dimenava nel tentativo di liberarsi.

Ci vollero dieci minuti buoni perché il tentativo riuscisse. Soltanto allora Eragon si accorse dell'entità del danno alle scale. Si lasciò sfuggire un gemito. Le squame della dragonessa avevano inciso profondamente la corteccia e cancellato i delicati disegni che crescevano dal legno.

Oops, disse Saphira.

Se non altro sei stata tu, non io. Gli elfi ti perdoneranno. Canterebbero ballate d'amore dei nani notte e giorno, se solo tu glielo chiedessi.

Si sistemò con Saphira sulla pedana e si accoccolò contro le squame lisce del suo ventre, ascoltando la tempesta che infuriava intorno a loro. La grande membrana diventava translucida ogni volta che un fulmine illuminava la notte con la sua traiettoria serpeggiante.

Secondo te che ore sono?

Manca ancora parecchio al nostro appuntamento con Oromis. Coraggio, dormi e riprenditi. Veglierò su di te. Lui non si fece pregare due volte e si addormentò, nonostante i sussulti dell'albero.

Perché combatti?

Il segnatempo di Oromis squillò come un corno gigantesco, assordando le orecchie di Eragon, finché lui non si decise a prenderlo e a caricare di nuovo il meccanismo. Il ginocchio gli era diventato viola, ma gli doleva tutto il corpo, sia per la crisi che lo aveva aggredito, sia per la Danza del Serpente e della Gru; per giunta, non riusciva a emettere che suoni gracchianti con la gola irritata. Ma la cosa peggiore era il terribile presentimento che non sarebbe stata l'ultima volta che la ferita di Durza lo avrebbe tormentato.

Sono passate tante settimane dall'ultima crisi, disse, e cominciavo a sperare, soltanto sperare, di essere guarito... Immagino che solo per un puro caso io sia stato risparmiato così a lungo.

Allungando il collo, Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Sai di non essere solo, piccolo mio. Farò qualsiasi cosa per aiutarti. Lui rispose con un flebile sorriso. Lei gli leccò la faccia e aggiunse: Dovresti prepararti per uscire. Lo so. Eragon guardò il pavimento, senza alcuna voglia di alzarsi, poi si trascinò nel camerino da bagno, dove si lavò e usò la magia per radersi.

Si stava asciugando, quando sentì una presenza toccargli la mente. Senza soffermarsi a riflettere, Eragon cominciò a innalzare barriere mentali, concentrandosi sull'immagine del suo alluce con l'esclusione di tutto il resto. Poi sentì Oromis che diceva: Ammirevole, ma inutile. Porta con te Zar'roc, oggi. La presenza svanì.

Eragon si rilassò con un sospiro tremante. Devo stare più attento, disse a Saphira. Se fosse stato un nemico, sarei stato alla sua mercé.

Non con me nei dintorni.

Quando ebbe finito le sue abluzioni, Eragon sganciò la membrana dalla parete e montò su Saphira, tenendo Zar'roc stretta nell'incavo del gomito.

Saphira spiccò il volo e puntò subito verso la rupe di Tel'naeir. Dall'alto videro i danni che la tempesta aveva provocato nella Du Weldenvarden. A Ellesméra non era caduto alcun albero, ma in lontananza, dove la magia degli elfi era più debole, numerosi pini erano stati abbattuti. Il vento residuo faceva cozzare i rami e i tronchi, producendo un sonoro coro di gemiti e scricchiolii. Nuvole di polline dorato, denso come polvere, scorrevano dagli alberi e dai fiori. Mentre volavano, Eragon e Saphira si scambiarono ricordi delle lezioni separate del giorno prima. Lui le raccontò quello che aveva imparato sulle formiche e sull'antica lingua, e lei gli parlò delle correnti discendenti e degli altri fenomeni meteorologici pericolosi, e di come evitarli.

Così, quando atterrarono e Oromis interrogò Eragon sulle lezioni di Saphira, e Glaedr interrogò Saphira su quelle di Eragon, riuscirono entrambi a rispondere correttamente a ogni domanda.

«Molto bene, Eragon-vodhr.»

Già. Benfatto, Bjartskular, disse Glaedr a Saphira.

Ancora una volta, Saphira volò via insieme a Glaedr, mentre Eragon rimase sulla rupe, anche se questa volta lui e Saphira badarono a mantenere il contatto per assorbire le lezioni dell'altro.

Quando i draghi si allontanarono, Oromis osservò: «Oggi hai la voce roca, Eragon. Sei ammalato?» «La schiena mi ha fatto di nuovo male, stamattina.»

«Ah. Hai tutta la mia compassione.» Gli fece un cenno con l'indice. «Aspetta qui.»

Eragon guardò Oromis entrare nel capanno e tornare con aria fiera e guerresca, la capigliatura d'argento che fluttuava nel vento, e la spada color bronzo in mano. «Oggi» disse «metteremo da parte la Rimgar e incroceremo le nostre due lame, Naegling e Zar'roc. Sfodera la tua spada e smussa la lama come ti ha insegnato il tuo primo maestro.» Eragon avrebbe voluto rifiutarsi, ma non aveva alcuna intenzione di infrangere la promessa o di mostrarsi timoroso davanti a Oromis. Inghiottì la sua trepidazione. Questo significa essere un Cavaliere, pensò.

Attingendo alle sue riserve, localizzò nel profondo della mente il nucleo che lo collegava al selvaggio flusso della magia. Vi entrò, e l'energia lo soffuse. «Géuloth du knìfr» disse, e una tremolante stella azzurra gli guizzò fra il pollice e l'indice, saltando dall'uno all'altro mentre lui li faceva scorrere lungo il filo pericoloso di Zar'roc.

Nell'istante in cui le due spade s'incrociarono, Eragon capì di essere inferiore a Oromis, come lo era stato rispetto a Durza e ad Arya. Era uno spadaccino umano straordinario, ma non poteva competere con guerrieri dal sangue denso di magia. Il suo braccio era troppo debole, i suoi riflessi troppo lenti. Eppure questo non gli impedì di provare a vincere. Si battè ai limiti delle sue possibilità, anche se alla fine si rivelò un futile tentativo.

Oromis lo mise alla prova in ogni modo possibile, costringendolo a utilizzare il suo intero arsenale di colpi, reazioni e finte. Tutto inutile. Non riuscì mai nemmeno a toccare l'elfo. Come ultima risorsa, cercò di variare il suo stile di combattimento, perché questo poteva disorientare anche il più incallito dei veterani. Non ottenne altro che una violenta botta su una coscia.

«Muovi i piedi più in fretta» gridò Oromis. «Chi resta fermo come un pilastro, muore in battaglia. Chi si piega come una canna, trionfa!»

L'elfo in azione era uno spettacolo, una perfetta miscela di controllo e violenza. Saltava come un gatto, colpiva come un airone e si destreggiava per schivare gli attacchi con la grazia di un furetto.

Si stavano allenando da una ventina di minuti quando Oromis esitò, i lineamenti affilati contratti in una smorfia fugace. Eragon riconobbe i sintomi della misteriosa malattia di Oromis e roteò Zar'roc per colpire. Sapeva che era una cosa meschina, ma si sentiva così frustrato da voler approfittare di quell'occasione, per quanto scorretta, solo per avere la soddisfazione di toccare Oromis almeno una volta.

Zar'roc non raggiunse mai il suo bersaglio. Nel voltarsi, Eragon si stirò la schiena.

Il dolore lo aggredì senza preavviso. L'ultima cosa che sentì fu Saphira che gridava: Eragon!

Nonostante l'intensità del dolore, Eragon rimase cosciente durante tutta la crisi. Non era consapevole di quanto aveva intorno, ma soltanto del fuoco che gli bruciava le carni e prolungava ogni secondo in un'eternità. La cosa peggiore era che non poteva far niente per porre fine a quello strazio, se non aspettare...

... e aspettare...

Eragon giaceva ansante nel fango. Battè le palpebre per rimettere a fuoco la vista e vide Oromis seduto su uno sgabello accanto a lui. Alzandosi su un ginocchio, si guardò la tunica nuova con un misto di rammarico e disgusto: la raffinata stoffa color ruggine era incrostata di sudiciume per le sue convulsioni sul terreno. Aveva perfino i capelli insozzati.

Percepì Saphira nella sua mente, che irradiava angoscia nell'attesa che lui la notasse. Come puoi continuare così? gli disse. Ti distruggerà.

La sua apprensione minò gli ultimi residui di fermezza di Eragon. Saphira non aveva mai dubitato del suo successo, non a Dras-Leona, non a Gil'ead o nel Farthen Dùr, né davanti ad alcun pericolo che avevano incontrato. La sua fiducia gli aveva infuso coraggio. Senza di essa, Eragon ebbe davvero paura.

Dovresti concentrati sulla tua lezione, le disse.

Devo concentrarmi su di te.

Lasciami in pace! Il suo tono brusco era quello di un animale ferito che desidera leccarsi le ferite nel silenzio e nel buio. Lei tacque, mantenendo un labile contatto mentale sufficiente perché lui potesse vagamente sentire Glaedr che le parlava dell'epilobio, una pianta utile da masticare per facilitare la digestione.

Eragon si tolse frammenti di fango secco dai capelli, poi sputò un grumo di sangue. «Mi sono morso la lingua.» Oromis annuì come se già lo sapesse. «Hai bisogno di guarirti?»

«No.»

«Molto bene. Recupera la spada, poi lavati e vai al ceppo nella conca, per ascoltare i pensieri della foresta. Ascolta, e quando non sentirai più niente, torna da me a raccontarmi cosa hai imparato.»

«Sì, maestro.»

Seduto sul ceppo, Eragon scoprì che il groviglio turbolento di pensieri ed emozioni gli impediva di concentrarsi abbastanza da aprire la mente e percepire le creature della conca. Né aveva voglia di farlo.

Tuttavia, la pace che regnava intorno a lui a poco a poco placò il suo risentimento, la sua confusione e la testarda rabbia. Non lo rendeva felice, ma gli donava una sorta di accettazione fatalista. Questo è quanto mi è toccato nella vita, e farò meglio ad abituarmici perché non andrà migliorando nel prevedibile futuro.

Dopo un quarto d'ora, le sue facoltà riacquistarono la loro consueta acutezza, così ricominciò a studiare la colonia di formiche rosse che aveva scoperto il giorno prima. Cercò anche di percepire tutto il resto che viveva nella conca, come Oromis gli aveva detto.

Eragon riscontrò un limitato successo. Se si rilassava per assorbire informazioni da tutte le coscienze attorno a sé, migliaia di immagini e sensazioni gli scorrevano nella testa, accumulandosi in fulminei sprazzi di suoni e colori, contatti e odori, piaceri e dolori. La quantità di informazioni era impressionante. Per abitudine, la sua mente balzava da un soggetto all'altro del flusso, escludendo tutto il resto prima che lui si rendesse conto di averlo fatto, e allora si concentrava per tornare in uno stato di passiva ricettività. Il ciclo si ripeteva ogni qualche secondo. Eppure fu in grado di approfondire la sua comprensione del mondo delle formiche. Scoprì il primo indizio sulla loro specie quando dedusse che l'enorme formica al centro della loro tana stava deponendo le uova, uno ogni minuto, il che significava che era una femmina. E quando accompagnò un gruppo di formiche rosse su per lo stelo di una rosa, ebbe una vivida dimostrazione del tipo di nemici che dovevano affrontare: qualcosa sbucò da sotto una foglia e uccise una delle formiche che stava seguendo. Non riuscì a determinare che tipo di creatura fosse, poiché le formiche ne vedevano soltanto frammenti, e si affidavano più all'olfatto che non alla vista. Se fossero state persone, avrebbe detto che erano aggredite da un mostro terrificante delle dimensioni di un drago, con mascelle potenti quanto le saracinesche acuminate di Teirm, in grado di muoversi alla velocità del lampo.

Le formiche circondarono il mostro come garzoni di stalla che cercano di catturare un cavallo imbizzarrito. Gli saltavano addosso senza paura, mordendogli le zampe articolate e facendosi indietro un istante prima di essere colpite dalle ganasce di ferro del mostro. Sempre più formiche si aggiungevano alla battaglia. Lavoravano insieme per sconfiggere l'intruso, senza mai esitare, anche quando due furono catturate e uccise, e quando parecchie sorelle caddero dallo stelo sul terreno.

Era una battaglia disperata; nessuna delle due parti aveva intenzione di cedere. Soltanto la fuga o la vittoria avrebbe impedito ai combattenti di salvarsi da una morte orribile. Eragon seguiva la scena col fiato sospeso, ammirato dal coraggio delle formiche che continuavano a combattere nonostante le ferite che avrebbero fermato un umano. Era così assorbito dalla battaglia che quando alla fine le formiche prevalsero, si lasciò sfuggire un grido di sollievo così forte da spaventare gli uccelli sui rami.

Incuriosito, tornò nel suo corpo e si avvicinò al cespuglio di rose per osservare il mostro con i suoi occhi. Quello che vide fu un normalissimo ragno marrone, con le zampe rannicchiate, trasportato dalle formiche nella loro tana come cibo. Stupefacente.

Fece per andarsene quando si rese conto di aver trascurato ancora una volta di osservare la miriade di altri insetti e ammali della conca. Chiuse gli occhi e vagò nella mente di decine e decine di altre creature, facendo del suo meglio per trattenere quanti più dettagli possibile. Era un magro surrogato della prolungata osservazione, ma aveva fame e aveva già esaurito l'ora a disposizione.

Quando tornò da Oromis nel capanno, l'elfo gli chiese: «Com'è andata?»

«Maestro, potrei ascoltare giorno e notte per i prossimi vent'anni e tuttavia non conoscere ancora tutto quello che accade nella foresta.»

Oromis inarcò un sopracciglio. «Hai fatto progressi.» Dopo che Eragon gli ebbe descritto cosa aveva visto, Oromis disse: «Non è abbastanza, temo. Devi impegnarti di più, Eragon. So che puoi farcela. Sei intelligente e tenace, e hai il potenziale per essere un grande Cavaliere. Per quanto sia difficile, devi imparare a mettere da parte i tuoi crucci e concentrarti soltanto sul compito assegnato. Trova la pace dentro di te e lascia che le tue azioni scaturiscano da lì.» «Faccio del mio meglio.»

«No, questo non è il tuo meglio. Riconosceremo il tuo meglio quando verrà.» Fece una pausa meditabonda. «Forse ti sarebbe utile avere un compagno di studi con cui competere. Forse allora vedremmo il tuo meglio... Ci penserò.» Dalla credenza, Oromis prese una pagnotta di pane fresco, un barattolo di legno colmo di burro di nocciole - che gli elfi usavano al posto del vero burro - e un paio di scodelle che riempì di minestrone di verdure che sobbolliva in una pentola appesa su un letto di carbone nel caminetto ad angolo.

Eragon guardò il minestrone con disgusto: era stufo del cibo elfico. Aveva voglia di carne, pesce, pollame, qualcosa di solido in cui affondare i denti. «Maestro» chiese per distrarsi, «perché devo meditare? Solo per comprendere la vita degli animali o degli insetti, o c'è dell'altro?»

«Non ti viene in mente nessun altro motivo?» Oromis sospirò quando Eragon scosse il capo. «Sempre così, i miei nuovi allievi, specie quelli umani. La mente è l'ultimo muscolo che allenano o usano, e quello che tengono in rninor considerazione. Fa' loro una domanda sull'arte della scherma, e ti sapranno elencare ogni singola mossa di un duello vecchio di un mese, ma chiedi di risolvere un problema o di fare un'affermazione coerente e... be', sei fortunato se ottieni più di uno sguardo smarrito in risposta. Sei ancora nuovo al mondo della negromanzia, la magia propriamente detta, ma devi cominciare a considerarne tutte le implicazioni.»

«Ossia?»

«Immagina per un momento di essere Galbatorix, con tutte le sue vaste risorse a tua disposizione. I Varden hanno distrutto il tuo esercito di Urgali con l'aiuto di un Cavaliere dei Draghi rivàle, che tu sai di essere stato istruito, almeno in parte, da uno dei tuoi più pericolosi e implacabili nemici, Brom. Sai anche che i tuoi avversari si stanno ammassando nel Surda per una possibile invasione. Con queste premesse, qual è la maniera più semplice di affrontare tutte queste minacce, a meno di non volare tu stesso in battaglia?»

Eragon rimestò il minestrone per raffreddarlo, mentre rifletteva sulla domanda. «Secondo me» disse lentamente «la cosa più semplice da fare sarebbe addestrare un gruppo di stregoni... non è necessario che siano nemmeno tanto potenti... e costringerli a giurarmi fedeltà nell'antica lingua, per poi infiltrarli nel Surda allo scopo di sabotare gli sforzi dei Varden, avvelenare i pozzi, e assassinare Nasuada, re Orrin e gli altri membri importanti della resistenza.» «E perché Galbatorix non l'ha ancora fatto?»

«Perché finora il Surda non gli ha dato grossi problemi, e perché i Varden sono rimasti nascosti nel Farthen Dùr per decenni, dove erano in grado di esaminare la mente di ogni nuovo arrivato in cerca di mistificatori, cosa che non possono fare nel Surda, poiché i suoi confini e la sua popolazione sono troppo vasti.»

«Sei arrivato alle mie stesse conclusioni» disse Oromis. «A meno che Galbatorix non lasci il suo covo a Urù'baen, il maggiore pericolo che ti troverai ad affrontare durante la campagna dei Varden verrà da altri stregoni. Sai bene quanto me come sia difficile guardarsi dalla magia, specie se il tuo avversario ha giurato nell'antica lingua di ucciderti, a qualunque costo. Invece di tentare di conquistare la tua mente, un nemico del genere si limiterà a evocare un incantesimo per distruggerti, anche se un momento prima di morire sarai ancora in grado di contrattaccare. Tuttavia non puoi abbattere un nemico simile se non sai chi o dove è.»

«Perciò a volte non serve assumere il controllo della mente del tuo avversario?»

«A volte, ma è un rischio da evitare.» Oromis fece una pausa per sorbire qualche cucchiaio di minestrone. «Ora per arrivare al cuore del problema, come puoi difenderti da nemici anonimi che possono tralasciare qualunque precauzione fisica e uccidere con una parola?»

«Non lo so, a meno che...» Eragon esitò, poi sorrise. «A meno che io non sia consapevole di tutte le coscienze che mi circondano. Allora potrei percepire le loro intenzioni.»

Oromis parve compiaciuto della risposta. «Esatto, Eragon-finiarel. E questa è la risposta alla tua domanda. La meditazione condiziona la tua mente al fine di trovare ed esplorare brecce nell'armatura mentale del nemico, non importa quanto siano piccole.»

«Ma un altro stregone non capirà se lo tocco con la mente?»

«Sì, lo capirà, ma la maggior parte della gente no. Quanto agli stregoni, sì, loro lo sapranno, avranno paura e schermeranno le loro menti per proteggersi, e tu li riconoscerai proprio per questo.»

«Ma non è pericoloso abbassare le difese della coscienza? Se vieni attaccato mentalmente, è facile restare preda del nemico.»

«È meno pericoloso che restare insensibile al mondo.»

Eragon annuì. Tamburellò con il cucchiaio contro il bordo della scodella, immerso nei propri pensieri, poi disse: «Non mi sembra giusto.»

«Oh? Spiegati meglio.»

«E l'intimità delle persone? Brom mi ha insegnato a non intrufolarmi mai nella mente di qualcuno, a meno che non sia assolutamente necessario... Mi sentirei a disagio, se spiassi nei segreti della gente... segreti che gli altri hanno tutto il diritto di tenere per sé.» Inclinò la testa da un lato. «Perché Brom non me ne ha parlato se era così importante? Perché non mi ha addestrato lui?»

«Brom ti ha detto» replicò Oromis «quello che era giusto dirti in quelle circostanze. Sondare le profondità della mente può essere una droga allettante per una personalità distorta o per coloro che aspirano al potere. Non veniva insegnato ai futuri Cavalieri - anche se li facevamo meditare come te durante l'addestramento - finché non eravamo convinti che fossero maturi abbastanza da resistere alla tentazione.

«Sì, è un'invasione dell'intimità, e apprenderai molte cose che non avresti mai voluto sapere. Ma è per il tuo bene, e per il bene dei Varden. Per esperienza personale, come anche secondo quella di altri Cavalieri, posso dirti che ti aiuterà soprattutto a comprendere che cosa muove le persone. E la comprensione genera compassione, anche per l'ultimo dei mendicanti dell'ultimo villaggio sperduto di Alagaésia.»

Restarono in silenzio a mangiare per qualche minuto, poi Oromis chiese: «Sai dirmi qual è lo strumento mentale più importante che una persona possa avere?»

Era una domanda seria, ed Eragon riflettè a lungo prima di osare rispondere. «La determinazione.» Oromis spezzò il pane in due con le lunghe dita pallide. «Posso capire perché sei arrivato a questa conclusione... la determinazione ti è servita spesso nelle tue avventure... ma no. Quello che intendo io è lo strumento più necessario a scegliere la strategia migliore in ogni circostanza. La determinazione è comune fra le persone di scarso intelletto quanto fra le menti brillanti. Perciò no, la determinazione non è quello che stiamo cercando.»

Questa volta Eragon considerò la domanda come se fosse un indovinello, contando il numero di parole, sussurrandole a bassa voce per scoprire quali facevano rima ed esplorando i significati nascosti. Il problema era che non era mai stato un grande solutore di enigmi, e non si era mai piazzato tra i primi posti nella gara annuale di indovinelli di Carvahall. Pensava in maniera troppo letterale per scoprire le risposte a indovinelli che non aveva mai sentito, un retaggio dell'educazione pragmatica di Garrow.

«La saggezza» disse alla fine. «La saggezza è lo strumento più importante per una persona.» «Un buon tentativo, ma ancora non ci siamo. La risposta è la logica. O per meglio dire, la capacità di ragionare in maniera analitica. Applicata a dovere, può compensare qualunque mancanza di saggezza, che si ottiene soltanto con l'età e l'esperienza.» Eragon si accigliò. «Sì, ma avere un cuore puro non è più importante della logica? La sola logica può condurti a conclusioni eticamente sbagliate, mentre se sei una persona retta e giusta non compirai azioni vergognose.» Un sorriso sottile increspò le labbra di Oromis. «Tu confondi la questione. Io voglio sapere qual è lo strumento più utile a una persona, indipendentemente dalla sua natura buona o malvagia. Sono d'accordo che è importante essere di indole virtuosa, ma credo che se dovessi scegliere fra dare a un uomo un'indole nobile e insegnargli a pensare lucidamente, sarebbe di gran lunga preferibile insegnargli a pensare lucidamente. Troppi problemi a questo mondo sono causati da uomini di indole nobile e mente annebbiata.

«La storia è fitta di esempi di soggetti convinti di fare la cosa giusta, mentre commettono crimini proprio per questo. Ricorda, Eragon, che nessuno ritiene di essere cattivo, e pochi prendono decisioni che ritengono sbagliate. Una persona può non apprezzare la propria scelta, ma la sosterrà anche nelle peggiori circostanze, perché crede che sia la migliore possibile in quel momento.

«Di per sé, essere una persona rispettabile non garantisce che si agisca sempre nel modo migliore, il che ci conduce all'unica protezione che abbiamo contro i demagoghi, i mistificatori e la follia del popolo, e la nostra guida più sicura attraverso gli incerti della vita: il pensiero lucido e razionale. La logica non ti tradisce mai, purché tu non sia inconsapevole, né ignori deliberatamente le conseguendo ze delle tue azioni.»

«Se gli elfi sono tanti logici» disse Eragon, «allora vi trovate sempre d'accordo su quello che fate.» «Di rado» sentenziò Oromis. «Come ogni altra razza, anche noi ci atteniamo a una vasta conseguenza spesso arriviamo a conclusioni diverse, anche se in identiche situazioni. aggiungere, hanno un senso logico dal punto di vista di ciascuno. E vorrei che fosse altrimenti, ma non tutti gli elfi hanno allenato la propria mente in maniera adeguata.»

«Come intendi insegnarmi questa logica?»

Il sorriso di Oromis si allargò. «Col metodo più antico ed efficace: il dibattito. Ti farò una domanda, e tu risponderai difendendo la tua posizione.» Attese che Eragon gli riempisse di nuovo la scodella di minestrone. «Per esempio, perché combatti l'Impero?»

L'improvviso cambio di argomento colse Eragon alla sprovvista. Aveva la sensazione che Oromis avesse appena centrato l'obiettivo verso cui lo stava attirando. «Come ho già detto, per aiutare coloro che soffrono sotto il dominio di Galbatorix e, in minor misura, per una vendetta personale.»

«Quindi combatti per ragioni umanitarie?»

«Che cosa vuoi dire?»

«Che combatti per aiutare coloro che subiscono le angherie di Galbatorix e per impedirgli di fare ancora del male.» «Esatto» disse Eragon.

«Ah, ma rispondi a questo, mio giovane Cavaliere. Non è possibile che la tua guerra contro Galbatorix provochi più sofferenze di quante tu ne intenda prevenire? La maggior parte della popolazione dell'Impero conduce una vita normale, produttiva, incontaminata dalla follia del re. Come giustificheresti l'invasione delle loro terre, la distruzione delle loro case, l'uccisione dei loro figli?»

Eragon rimase a bocca aperta, sconcertato da una simile domanda - Galbatorix era il male - e dal fatto di non riuscire a trovare una facile risposta. Sapeva di avere ragione, ma come provarlo? «Tu non credi che Galbatorix debba essere deposto?»

«Non è questo il punto.»

«Ma devi crederci» insistette Eragon. «Guarda che cosa ha fatto ai Cavalieri.»

Chinando il capo sul piatto, Oromis ricominciò a mangiare, lasciando che Eragon schiumasse in silenzio. Quando ebbe finito, si intrecciò le mani in grembo e gli chiese: «Ti ho turbato?»

«Sì.»

«Bene. Allora continua a riflettere sulla domanda finché non troverai una risposta. E mi aspetto che sia una risposta convincente.»

gamma di principi, e di Conclusioni che, vorrei

Il convolvolo nero

Riordinarono la tavola e portarono fuori i piatti per strofinarli con la sabbia. Oromis sbriciolò gli avanzi di pane intorno alla casa per sfamare gli uccelli, poi tornarono dentro.

Oromis prese calami e inchiostro per Eragon, e ricominciarono le lezioni di Liduen Kvaedhi, la scrittura dell'antica lingua, che era molto più elegante delle rune dei nani e degli umani. Eragon si smarrì negli arcani glifi, lieto di avere un compito che non richiedesse nulla di più arduo che una memoria meccanica.

Dopo ore trascorse chino sui fogli, Oromis gli fece un cenno con la mano e disse: «Basta così. Continueremo domattina.» Eragon inarcò la schiena e si sciolse le spalle, mentre Oromis sceglieva cinque rotoli di pergamena dalle loro nicchie nella parete. «Due di questi sono nell'antica lingua, tre nella tua lingua madre. Ti aiuteranno a destreggiarti con entrambi gli alfabeti, e ti forniranno preziose informazioni che per me sarebbe troppo tedioso vocare.» «Vocare?»

Con precisione infallibile, la mano di Oromis saettò verso la parete, da cui estrasse un sesto rotolo, che aggiunse alla piramide fra le braccia di Eragon. «Questo è un dizionario. Dubito che ci riuscirai, ma prova a leggerlo tutto.» Quando l'elfo aprì la porta per farlo uscire, Eragon gli disse: «Maestro.»

«Sì, Eragon?»

«Quando cominceremo a lavorare con la magia?»

Oromis si appoggiò con un braccio allo stipite della porta, come se non avesse più la forza di restare in piedi. Poi sospirò e disse: «Devi fidarti di come conduco la tua istruzione, Eragon. Tuttavia immagino sarebbe sciocco da parte mia indugiare oltre. Vieni, lascia i rotoli sul tavolo, e andiamo a esplorare i misteri della negromanzia.» Sul prato davanti alla casa, Oromis si fermò a contemplare il panorama dalla rupe di Tel'naeir, le spalle rivolte a Eragon, i piedi divaricati, le mani intrecciate dietro la schiena. Senza voltarsi, chiese: «Cos'è la magia?»

«La manipolazione di energia mediante l'uso dell'antica lingua.»

Ci fu una lunga pausa prima della risposta di Oromis. «Tecnicamente hai ragione, e molti stregoni non sono mai andati più in là di così. Ma la tua descrizione non riesce a catturare l'essenza della magia. La magia è l'arte del pensare, e non riguarda soltanto la forza o il linguaggio. Anche tu sai che un vocabolario limitato non rappresenta un ostacolo all'impiego della magia. Come tutte le altre cose che andrai a imparare, la magia si basa su un intelletto disciplinato. «Brom ha sorvolato sul normale regime di addestramento e ha ignorato le sottigliezze della negromanzia per assicurarsi che tu avessi le capacità che ti servivano per sopravvivere. Anch'io dovrò deviare dal normale corso di addestramento per concentrarci sulle capacità che più ti serviranno nella guerra incombente. Ma mentre Brom ti ha insegnato la nuda meccanica della magia, io ti insegnerò le sue più sottili applicazioni, i segreti che erano riservati ai Cavalieri più saggi: come uccidere muovendo appena un dito, come trasportare istantaneamente un oggetto da un luogo all'altro, una formula che ti consenta di individuare i veleni nel cibo o nelle bevande, una variazione della cristallomanzia che ti farà ascoltare, oltre che vedere, il mondo per estrarre energia dall'ambiente circostante per preservare la tua, e come sfruttare al massimo la tua forza in ogni situazione.

«Queste tecniche sono così potenti e pericolose che non sono mai state insegnate a un Cavaliere novizio come te, ma le circostanze mi impongono di rivelartele e di confidare nel fatto che non ne abuserai.» Alzando il braccio destro, la mano chiusa ad artiglio, Oromis esclamò: «Adurna!»

Eragon guardò una sfera d'acqua levarsi dal ruscello che scorreva vicino al capanno, e fluttuare nell'aria fino a restare sospesa fra le dita aperte di Oromis.

Il ruscello era scuro e fangoso sotto il fogliame della foresta, ma la sfera estratta da esso era incolore come il vetro. Frammenti di muschio, terriccio e altri detriti galleggiavano nel globo trasparente.

Con lo sguardo ancora rivolto all'orizzonte, Oromis disse: «Prendi.» Scagliò la sfera all'indietro verso Eragon. Eragon cercò di afferrare la palla, ma non appena toccò la sua pelle, l'acqua perse coesione e gli schizzò sul petto. «Prendila con la magia» disse Oromis. Poi di nuovo gridò: «Adurna!» e una sfera d'acqua si materializzò sulla superficie del ruscello e volò sulla sua mano come un falco addestrato obbedisce al suo padrone. Questa volta Oromis scagliò il globo senza preavviso. Tuttavia Eragon era preparato, e disse: «Reisa du adurna» mentre allungava la mano. La sfera rallentò fino a fermarsi a un soffio dalla sua pelle.

«Una pessima scelta di parole» disse Oromis, «ma tuttavia accettabile.»

Eragon sorrise e mormorò: «Thrysta.»

La sfera invertì la rotta e sfrecciò verso la nuca argentata di Oromis, ma invece di finire dove Eragon avrebbe voluto, oltrepassò l'elfo, gli girò intorno e tornò da Eragon a velocità raddoppiata.

L'acqua rimase solida come il marmo quando urtò il cranio di Eragon, con un tonfo sordo. Il colpo lo mandò riverso sull'erba, dove rimase intontito, battendo le palpebre, mentre sciami di puntini luminosi gli danzavano davanti agli occhi.

«Già» disse Oromis. «Sarebbe stato meglio dire letta o kodthr.» Finalmente si volse per guardare Eragon e inarcò un sopracciglio con evidente sorpresa. «Che cosa stai facendo? Alzati. Non possiamo restare qui tutto il giorno.» «Sì, maestro» borbottò Eragon.

Quando si fu rimesso in piedi, Oromis gli fece manipolare l'acqua in diversi modi - fare dei nodi, cambiare il colore della luce che assorbiva o rifletteva, congelarla secondo una sequenza precisa - nessuno dei quali si rivelò difficile per lui. Gli esercizi continuarono così a lungo che l'iniziale interesse di Eragon cominciò a sfumare, rimpiazzato da impazienza e sconcerto. Non voleva rischiare di offendere Oromis, ma non capiva il punto di quello che stava facendo l'elfo; era come se Oromis stesse evitando qualunque incantesimo che richiedesse un minimo di impegno in più da parte sua. Ho sempre dimostrato la portata delle mie capacità. Perché insiste a farmi ripassare questi trucchetti da principiante? Ad alta voce, disse: «Maestro, queste cose le so già. Non possiamo fare qualcos'altro?»

I muscoli del collo di Oromis si tesero, e le sue spalle divennero di granito; persino il respiro dell'elfo si fermò, prima che esclamasse, indignato: «Non imparerai mai il rispetto, Eragon-vodhr? E sia!» Pronunciò quattro parole nell'antica lingua a voce così bassa che Eragon non riuscì a capirle.

Il giovane lanciò un grido allarmato quando le sue gambe subirono una pressione che gli strizzava i polpacci tanto da rendergli impossibile camminare. Le cosce e il torso erano liberi di muoversi, ma per il resto era come avviluppato in un blocco di malta rappresa.

«Liberati» disse Oromis.

Era una sfida con cui Eragon non si era mai cimentato prima: reagire all'incantesimo di un altro. C'erano due modi per recidere gli invisibili legacci che lo paralizzavano. Il più efficace sarebbe stato sapere come Oromis lo aveva immobilizzato - se agendo direttamente sul suo corpo o usando una fonte esterna - perché in questo modo avrebbe potuto indirizzare l'elemento o la forza per disperdere il potere di Oromis. Oppure poteva usare un incantesimo vago e generico per bloccare qualunque cosa Oromis stesse facendo. Lo svantaggio di questa tattica era che avrebbe portato a uno scontro diretto di potenza fra di loro. Doveva succedere, prima o poi, pensò Eragon. Non aveva alcuna speranza di prevalere su un elfo.

Mettendo insieme la frase necessaria, disse: «Losna kalfya iet.» Libera i miei polpacci.

La quantità di energia che abbandonò il suo corpo fu più grande di quanto avesse previsto; dalla moderata stanchezza per la crisi della mattina e gli esercizi della giornata passò alla sensazione di aver camminato su un terreno accidentato fin dall'alba. Poi la pressione svanì all'improvviso, facendolo barcollare mentre recuperava l'equilibrio. Oromis scrollò il capo. «Sciocco» disse, «molto sciocco. Se mi fossi impegnato davvero a mantenere l'incantesimo, ti saresti ucciso. Non usare mai gli assoluti.»

«Gli assoluti?»

«Non formulare mai un incantesimo che abbia soltanto due risultati: successo o morte. Se un nemico ti avesse intrappolato le gambe e fosse stato più forte di te, avresti speso tutte le tue energie per rompere il suo incantesimo. Saresti morto senza alcuna possibilità di interrompere il tentativo quando ti fossi accorto che era inutile.» «Come faccio a evitarlo?» chiese Eragon.

«È più sicuro fare dell'incantesimo un processo che puoi concludere a tua discrezione. Invece di dire lìbera i miei polpacci, che è un assoluto, avresti potuto dire riduci la magia che mi blocca i polpacci. Un po' prolisso, lo ammetto, ma in questo modo avresti potuto stabilire la quantità di incantesimo da ridurre per poi decidere se era sicuro eliminarlo del tutto. Proviamo di nuovo.»

Nell'istante in cui Oromis mormorò la sua inafferrabile invocazione, la pressione tornò a serrare le gambe di Eragon. Si sentiva così stanco che dubitava di poter opporre resistenza, ma provò ugualmente a evocare la magia. Prima ancora che l'antica lingua lasciasse la bocca di Eragon, si accorse di una curiosa sensazione mentre il peso che gli bloccava le gambe diminuiva a ritmo costante: un formicolio che gli dava l'impressione di essere estratto da una palude di freddo e denso fango. Scoccò un'occhiata a Oromis e vide che la faccia dell'elfo era contratta dallo sforzo, come se si aggrappasse a qualcosa di prezioso che non sopportava di perdere. Una vena gli pulsava su una tempia. Quando gli arcani ceppi si dissolsero, Oromis sussultò come se fosse stato punto da una vespa e rimase impalato a fissarsi le mani, il torace minuto che ansimava. Per forse un minuto non si mosse, poi raddrizzò le spalle e camminò fino all'orlo della rupe di Tel'naeir, una figura solitària che si stagliava contro il cielo pallido.

Eragon si sentì pervadere da rammarico e compassione, le stesse emozioni che aveva provato nel vedere per la prima volta la zampa mutilata di Glaedr. Si maledisse per essere stato così arrogante con Oromis, così dimentico della sua infermità, e per non aver riposto più fiducia nel giudizio dell'elfo. Non sono l'unico a dover convivere con le ferite del passato. Eragon non aveva pienamente compreso quando Oromis aveva detto che, tranne qualche semplice esempio, la magia sfuggiva al suo controllo. Ora capiva la gravità delle condizioni di Oromis e la sofferenza che dovevano causare, specie per uno della sua razza, nato e cresciuto nella magia.

Eragon si avvicinò a Oromis, s'inginocchiò e si prostrò alla maniera dei nani, premendo la fronte livida sul terreno. «Ebrithil, ti chiedo perdono.»

L'elfo non diede segni di aver sentito.

I due rimasero immobili, mentre il sole calava davanti a loro, gli uccelli cantavano le loro canzoni notturne, e l'aria diventava sempre più fredda e umida. Da nord provenivano i deboli tonfi delle ali di Saphira e Glaedr che tornavano. Con voce atona e distante, Oromis disse: «Cominceremo

daccapo domani, con questo e altri argomenti.» Dal suo profilo, Eragon intuì che Oromis aveva riacquistato il consueto contegno impassibile. «È accettabile per te?»

«Sì, maestro» disse Eragon, grato per la domanda.

«Credo sia meglio, d'ora in poi, se ti sforzerai di parlare soltanto nell'antica lingua. Abbiamo poco tempo a disposizione, e questo è il metodo più rapido per imparare.»

«Anche quando parlo con Saphira?»

«Anche allora.»

Adottando la lingua degli elfi, Eragon promise: «Allora m'impegnerò con tutte le mie forze, finché non soltanto penserò, ma sognerò nella tua lingua.»

«Se ci riuscirai» disse Oromis, usando a sua volta l'antica lingua, «la nostra missione potrà avere qualche speranza di successo.» Fece una pausa. «Invece di volare qui, domattina, accompagnerai l'elfo che manderò da te. Ti condurrà dove gli abitanti di Ellesméra si esercitano alla scherma. Resta là per un'ora, poi continua come di consueto.» «Non mi insegnerai tu?» chiese Eragon, sentendosi respinto.

«Non ho niente da insegnarti. Tu sei fra i migliori spadaccini che abbia mai conosciuto. Di scherma non ne so più di te, e quello che io possiedo e tu no non posso dartelo. A te non resta che preservare il tuo attuale livello di abilità.» «Perché non posso farlo con te... maestro?»

«Perché non mi piace cominciare la giornata con agitazione e conflitto.» Guardò Eragon, poi addolcì i toni e aggiunse: «E perché sarà un bene per te conoscere altri individui che vivono qui. Io non sono l'espressione della mia razza. Ma adesso basta. Guarda, arrivano.»

I due draghi planarono passando davanti al disco solare. Prima arrivò Glaedr con un ruggito di vento, oscurando il cielo con la sua mole imponente prima di atterrare sull'erba e ripiegare le ali dorate, poi Saphira, agile e svelta come un passerotto in confronto a un'aquila.

Come quella mattina, Oromis e Glaedr fecero alcune domande per assicurarsi che Eragon e Saphira avessero prestato attenzione alle reciproche lezioni. Non l'avevano fatto sempre, ma collaborando e condividendo informazioni fra di loro, riuscirono a rispondere a tutte le domande. L'unico punto debole fu la lingua straniera con cui avrebbero dovuto comunicare d'ora in avanti.

Meglio, brontolò Glaedr. Molto meglio. Rivolse lo sguardo su Eragon. Tu e io ci alleneremo insieme molto presto. «Certo, Skulblaka.»

Il vecchio drago sbuffò e arrancò verso Oromis, saltellando sulla zampa sana per compensare quella mancante. Saphira si protese e afferrò con le labbra la punta della coda di Glaedr, lanciandola in aria con uno scatto della testa, come se volesse spezzare il collo di un cervo. Sussultò sorpresa

quando Glaedr si volse di scatto e fece schioccare le fauci a un soffio dal suo collo.

Anche Eragon trasalì e troppo tardi si coprì le orecchie per proteggerle dal ruggito di Glaedr. Dalla rapidità e dall'intensità della reazione di Glaedr, arguì che non era la prima volta quel giorno che Saphira lo importunava. Invece di rimorso, Eragon individuò in lei un'eccitata gaiezza - come una bimba con un nuovo giocattolo - e una cieca devozione verso l'altro drago.

«Contieniti, Saphira!» le intimò Oromis. Saphira indietreggiò e si accovacciò in silenzio, anche se niente del suo atteggiamento esprimeva contrizione. Eragon mormorò una flebile scusa; Oromis agitò una mano e disse: «Filate, tutti e due!»

Senza protestare, Eragon salì in groppa a Saphira.

Dovette spronarla per prendere il volo, e una volta in aria, la dragonessa volò per tre volte in circolo sulla radura prima che lui la costringesse a prendere la rotta per Ellesméra.

Ma che cosa ti è venuto in mente? Dargli quel morso! disse lui. Pensava di saperlo, ma voleva una conferma da lei. Stavo solo giocando.

Era la verità, dato che parlavano nell'antica lingua, eppure Eragon sospettava che si trattasse soltanto di una piccola parte di una verità più ampia. Già, ma a che gioco? La sentì irrigidirsi sotto di lui. Dimentichi il tuo dovere. Continuando a... Cercò la parola giusta. Continuando a provocare Glaedr, distrai lui, Oromis e me... pregiudicando la riuscita dei nostri sforzi. Non sei mai stata così sventata prima d'ora.

Non credere di essere la mia coscienza.

Eragon scoppiò a ridere, per un momento dimentico di dove era seduto, gettando la testa all'indietro col rischio di cadere di sella. Oh, ma quale ironia, dopo tutte le volte che sei stata tu a dirmi che cosa fare. Io sono la tua coscienza, Saphira, come tu sei la mia. Hai avuto ragione a rimproverarmi e ad ammonirmi in passato, e adesso mi vedo costretto a fare lo stesso con te. Smettila di infastidire Glaedr con le tue attenzioni.

La dragonessa rimase in silenzio.

Saphira?

Ti sento.

Lo spero.

Dopo un minuto di volo tranquillo, lei disse: Due crisi in un giorno solo. Come stai adesso?

Ammaccato e indolenzito. Fece una smorfia. In parte per la Rimgar e l'allenamento di scherma, ma soprattutto per i postumi della crisi. È come un veleno, che mi indebolisce i muscoli e mi annebbia la mente. Spero soltanto di restare sano abbastanza a lungo da vedere la fine di questo addestramento. In seguito, però... non so cosa farò. Di sicuro non posso combattere per i Varden in questo stato. Non pensarci, gli suggerì lei. Non puoi farci niente, e rimuginarci sopra ti fa soltanto sentire peggio. Vivi nel presente, ricorda il passato, e non temere il futuro, perché il futuro non esiste e mai esisterà. C'è soltanto il momento presente.

Lui le diede una pacca sulla spalla e sorrise con rassegnata gratitudine. Alla loro destra, un astore cavalcava una corrente d'aria calda mentre pattugliava la foresta in cerca di prede pennute o pelose. Eragon lo osservava, riflettendo sul quesito che Oromis gli aveva posto: come poteva giustificare la sua guerra contro l'Impero, sapendo che avrebbe causato tante morti e sofferenze?

Ho la risposta, disse Saphira.

Ossia?

Galbatorix ha... La dragonessa esitò, poi disse: No, non te lo dico. Dovrai scoprirlo da solo.

Saphira! Sii ragionevole.

Lo sono. Se non sai perché quello che facciamo è la cosa giusta, tanto vale arrenderti a Galbatorix. Nonostante le sue insistenti suppliche, Eragon non riuscì a cavarle più nulla, perché lo aveva escluso da quella parte della sua mente. Tornati sull'albero, Eragon consumò una cena leggera, e stava per aprire uno dei rotoli di Oromis quando qualcuno disturbò la sua quiete bussando alla porta scorrevole.

«Avanti» disse lui, sperando che fosse Arya.

Era lei.

Arya salutò Eragon e Saphira, poi disse: «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto visitare il Palazzo di Tialdarì e i suoi giardini, dato che hai espresso questo interesse ieri. Se non sei troppo stanco.» Indossava una lunga, morbida tunica rossa, orlata da preziosi ricami neri. L'abbinamento di colori ricordava i mantelli della regina ed enfatizzava la forte somiglianza fra madre e figlia.

Eragon spinse da parte i rotoli. «Mi piacerebbe moltissimo.»

Vuole dire ci piacerebbe moltissimo, intervenne Saphira.

Arya rimase sorpresa quando entrambi parlarono nell'antica lingua; perciò Eragon le spiegò la volontà di Oromis. «Un'idea eccellente» commentò lei, nella stessa lingua. «E molto più appropriata, finché resterete qui.» Quando tutti e tre furono scesi dall'albero, Arya li guidò verso ovest, in una zona sconosciuta di Ellesméra. Incontrarono molti elfi lungo la strada, e tutti si fermarono per inchinarsi a Saphira.

Eragon notò ancora una volta che non si scorgevano bambini. Lo disse ad Arya, che rispose: «Sì, abbiamo pochi bambini. Al momento ce ne sono soltanto due a Ellesméra, Dusan e Alanna. Per noi i bambini sono la cosa più preziosa del mondo perché sono la più rara. Avere un figlio è il più grande fra gli onori e le responsabilità che un essere vivente possa ricevere.»

Alla fine giunsero davanti a un arco acuto costolato cresciuto fra due alberi - da cui si accedeva a un vasto complesso. Sempre nell'antica lingua, Arya intonò: «Radice di albero, frutto di tasso, in nome del mio sangue lasciami il passo.» I due battenti della porta ogivale tremarono, poi si aprirono verso l'esterno, liberando cinque farfalle monarca che volarono verso il cielo violetto. L'arco si affacciava su un vasto giardino floreale che era stato creato per dare l'impressione di un campo selvatico naturale e incontaminato. L'unico elemento che tradiva l'artificio era la grande varietà di piante: molte specie erano in fiore fuori stagione, o erano originarie di climi più caldi o più freddi e non avrebbero potuto prosperare senza la magia degli elfi. Il giardino era illuminato dalle lanterne senza fiamma a foggia di gemma, con l'aggiunta di sciami di lucciole.

Arya si rivolse a Saphira. «Attenta alla coda, non farla strisciare sulle aiuole.»

S'inoltrarono nel giardino, diretti verso una linea di alberi radi. Prima ancora di capire dove fosse, Eragon vide gli alberi che si infittivano fino a diventare compatti come una parete. Si ritrovò sulla soglia di un palazzo di lucido legno, senza essersi nemmeno reso conto di essere entrato.

La sala era calda e accogliente: un luogo di pace, riflessione e conforto. La sua forma era definita dai tronchi degli alberi, che nella parte interna erano stati scortecciati, lucidati e strofinati con olio fino a far risplendere il legno come ambra. Ampie fessure regolari fra i tronchi fungevano da finestre. L'aroma di aghi di pino sminuzzati profumava l'aria. Nella sala c'erano molti elfi, intenti a leggere, scrivere e, in un angolo più buio, a suonare siringhe di canne. Tutti si fermarono per chinare la testa verso Saphira.

«Stareste qui» disse Arya, «se non foste Cavaliere e drago.»

«È magnifico» commentò Eragon, estasiato.

Arya guidò lui e Saphira in ogni luogo del palazzo accessibile ai draghi. Ogni nuova stanza era una sorpresa: non ce n'erano due uguali, e in ogni camera erano stati trovati nuovi modi per incorporare la foresta nella costruzione. In una, un ruscello limpido scorreva lungo la parete rugosa e proseguiva sul pavimento di sassi per dileguarsi sotto il cielo notturno. In un'altra, le pareti erano ricoperte di rampicanti, un arazzo verde ininterrotto ornato di fiori dall'ampia corolla rosa e bianca. Arya la chiamò Lianì Vine.

Videro molte opere d'arte, da fairth e dipinti a sculture e splendenti mosaici di vetro colorato, tutte basate sulle forme curve di piante e animali.

Islanzadi li incontrò per qualche minuto in un padiglione aperto collegato agli altri due edifici da passaggi coperti. S'informò sui progressi di Eragon nell'addestramento e sulle condizioni della sua schiena, e lui rispose con brevi frasi cortesi che parvero soddisfare la regina, che scambiò qualche parola con Saphira e poi se ne andò. Alla fine tornarono in giardino. Eragon camminava al fianco di Arya - con Saphira alle loro spalle - incantato dal suono della sua voce, mentre lei gli parlava delle varietà di fiori, del loro luogo di origine, di come si coltivavano e di come, in molti casi, erano stati alterati con la magia. Indicò anche i fiori che schiudevano i petali soltanto di notte, come una datura bianca.

«Qual è il tuo preferito?» chiese Eragon.

Arya sorrise e lo scortò verso un albero ai margini del giardino, accanto a un laghetto circondato di giunchi. Intorno al ramo più basso dell'albero era avvinghiato un convolvolo con tre piccoli, vellutati boccioli neri.

Soffiando su di loro, Arya sussurrò: «Apritevi.»

I petali frusciarono nello schiudersi, rivelando un cuore colmo di nettare. La gola dei fiori campanulati era di un intenso blu che sfumava nell'inchiostro della corolla come le vestigia del giorno nella notte.

«Non è il più perfetto e adorabile dei fiori?» chiese Arya.

Eragon la guardò, squisitamente consapevole di quanto fossero vicini, e disse: «Sì...» e prima che il coraggio lo abbandonasse, aggiunse: «Come te.»

Eragon! esclamò Saphira.

Arya ricambiò il suo sguardo con un'intensità che lo costrinse ad abbassare gli occhi. Quando osò guardarla di nuovo, rimase mortificato nel vederla sorridere, come divertita dalla sua reazione. «Sei troppo gentile» mormorò lei. Tese una mano e sfiorò il bordo di una corolla; poi tornò a guardare Eragon. «Fàolin l'ha creato apposta per me, un solstizio d'estate di tanto tempo fa.»

Il giovane si sentì a disagio e borbottò qualche parola incomprensibile, ferito e offeso dal fatto che lei non avesse preso sul serio il complimento. Avrebbe voluto diventare invisibile, e per un attimo pensò addirittura di evocare un incantesimo che gli consentisse di farlo.

Alla fine drizzò le spalle e disse: «Ti prego di scusarci, Arya Svit-kona, ma è tardi, e dobbiamo tornare al nostro albero.»

Il sorriso di lei si allargò. «Ma certo, Eragon. Capisco.» Li accompagnò all'arco principale, aprì le porte per loro, e disse: «Buonanotte, Saphira. Buonanotte, Eragon.»

Buonanotte a te, Arya, rispose Saphira.

Malgrado l'imbarazzo, Eragon non potè fare a meno di chiederle: «Ci vedremo domani?»

Arya inclinò la testa da un lato. «Temo di essere impegnata domani.» Poi le porte si chiusero, lasciandogli intrawedere un'ultima immagine di lei che si allontanava per tornare al palazzo.

Accovacciandosi sul sentiero, Saphira sospinse Eragon con il muso. Smettila di sognare a occhi aperti e salimi in groppa. Arrampicandosi sulla sua zampa sinistra, Eragon prese posto come al solito sulle spalle della dragonessa e si aggrappò alla punta del collo più vicina a lui, mentre Saphira si ergeva in tutta la sua altezza. Dopo qualche passo, lei disse: Come puoi criticare il mio comportamento con Glaedr e poi fare tu stesso una cosa del genere? Che cosa stavi pensando?

Tu lo sai quello che provo per lei, bofonchiò Eragon.

Bah! Se tu sei la mia coscienza e io la tua, allora è mio dovere dirti che ti stai comportando come un povero corteggiatore goffo e lezioso. Non stai usando la logica, come Oromis ci ha detto di fare. Cosa ti aspetti che succeda fra te e Arya? Lei è una principessa!

E io un Cavaliere.

Lei è un'elfa, tu un umano!

Sembro sempre più un elfo ogni giorno che passa.

Eragon, lei ha più di cent'anni!

Potrei vivere a lungo quanto lei o qualsiasi altro elfo.

Già, ma non ancora, ed è questo il problema. Non colmerai mai questo divario. Lei è una donna adulta con un secolo di esperienza, mentre tu sei...

Avanti, cosa sono? ringhiò lui. Un bambino? È questo che vuoi dire?

No, non un bambino. Non dopo quello che hai visto e fatto da quando ci siamo incontrati. Ma sei giovane, perfino secondo i criteri della tua razza dalla breve vita... figuriamoci per i nani, i draghi, e gli elfi!

Come te.

La sua brusca replica la fece tacere per un minuto. Poi: Sto solo cercando di proteggerti, Eragon. Tutto qui. Voglio che tu sia felice, e temo che non lo sarai se insisti a desiderare Arya.

I due stavano per coricarsi quando udirono sbattere la botola nel vestibolo, e il tintinnio di una cotta di maglia di qualcuno che entrava. Con Zar'roc in pugno, Eragon aprì la porta scorrevole, pronto ad affrontare l'intruso. Abbassò il braccio quando vide Orik sul pavimento. Il nano bevve un lungo sorso da una bottiglia che stringeva nella sinistra, poi guardò Eragon con gli occhi socchiusi. «Ehi, sciacco d'ossa, dove scei? Eccoti lì. Mi chiedevo che fine avevi fatto. Non riuscivo a trovarti... così mi sono detto che in questa bella scierata malinconica magari potevo farti una visitina... Di che vogliamo parlare, tu e io, ora che sciamo insciente in questo bel nido di uccelli?» Prendendolo per il braccio libero, Eragon lo aiutò ad alzarsi, sorpreso da quanto fosse pesante e massiccio il nano, come un macigno in miniatura. Quando Eragon gli lasciò il braccio, Orik cominciò a ondeggiare da un lato e dall'altro, col rischio di cadere al minimo gesto.

«Entra» disse Eragon nella sua lingua. Chiuse la botola. «Ti prenderai un malanno lì fuori.»

Orik guardò Eragon con occhi rotondi e infossati. «Non ti ho mai visto nel mio eremo frondoscio, mai, dico. Mi hai abbandonato in compagnia degli elfi... una compagnia avvilente e noioscia, credi a me.»

Eragon nascose una punta di rimorso dietro un sorriso goffo. Vero, si era dimenticato del nano, con tutte le cose che aveva avuto da fare. «Mi dispiace di non essere venuto a cercarti, Orik, ma i miei studi mi tengono molto occupato. Coraggio, dammi il mantello.» Mentre aiutava il nano a liberarsi dal mantello marrone, gli chiese: «Che cosa stai bevendo?»

«Faelnirv» dichiarò il nano. «Che pozione meraviglioscia e corroborante. La migliore e più grande delle invenzioni elfiche; ti da il dono della favella. Le parole ti scorrono dalla lingua come banchi di alìci argentee, come stormi di leggiadri colibrì, come fiumi di scierpenti scinuosi.» Fece una pausa, sorpreso anche lui dalla magnificenza delle proprie similitudini. Quando Eragon lo sospinse in camera da letto, Orik salutò Saphira levando la bottiglia e disse: «Scialute a te, Zannediferro. Che le tue squame posciano brillare come i carboni della forgia di Morgothal.»

Salute a te, Orik, disse Saphira, appoggiando la testa sul bordo della pedana. Cosa ti ha ridotto in questo stato? Non è da te. Eragon ripetè la domanda ad alta voce.

«Coscia mi ha ridotto in questo stato?» disse Orik. Si lasciò cadere sulla sedia che Eragon gli offrì - i suoi piedi dondolavano a due palmi da terra - e cominciò a scuotere il capo. «Questo si fa, quest'altro non si fa, elfi qui ed elfi là. Sto annegando in un mare di elfi e nella loro stramaledetta cortescia. Non hanno sciangue nelle vene. Non parlano mai. Sci, scignore. No, scignore. Tre sciacchetti, scignore. Ma questo è il massimo che sciono riuscito a cavargli.» Guardò Eragon con un'espressione afflitta. «Che devo fare mentre tu gei occupato con quel tuo addestramento? Restare sceduto a rigirarmi i pollisci mentre divento pietra e raggiungo gli spiriti dei miei antenati? Dimmelo, sciaggio Cavaliere.»

Non hai qualche passatempo o interesse con cui tenerti occupato? chiese Saphira.

«Sì» rispose Orik, «non me la cavo male come fabbro, ma a chi vuoi che interesci? Perché dovrei fabbricare armi e armature per gente che non le scia apprezzare? Sciono inutile, qui. Inutile come una Feldùnost senza una zampa.» Eragon tese una mano verso la bottiglia. «Posso?» Orik fece guizzare gli occhi fra lui e la bottiglia, poi sogghignò e gliela diede. Il faelnirv era freddo come il ghiaccio mentre scorreva lungo la gola di Eragon, pungente e vivificante. Dopo una seconda sorsata, restituì la bottiglia a Orik, contrariato per quanto poco ne era rimasto. «E quali trucchetti» chiese Orik, «sciete riusciti a imparare da Oromisc nei vostri bucolici incontri?» Il nano alternò sonore risate e cupi borbottii mentre Eragon gli descriveva l'addestramento, la benedizione sbagliata nel Farthen Dùr, l'albero di Menoa, il dolore alla schiena, e tutto quello che era successo negli ultimi giorni. Eragon terminò con l'argomento che gli stava più a cuore: Arya. Reso audace dal liquore, confessò il suo affetto per lei e gli descrisse come l'elfa aveva ignorato le sue avance.

Agitando un dito sotto il naso di Eragon, Orik disse: «La roccia sotto i tuoi piedi è argilloscia, ragazzo. Non sfidare il destino. Arya...» S'interruppe, poi brontolò e bevve un altro sorso di faelnirv. «Ah, è troppo tardi per queste cosce. Chi sciono io per dire coscia è giusto e coscia no?»

Saphira aveva già chiuso gli occhi da un pezzo. Senza aprirli, domandò: Sei sposato, Orik? La domanda sorprese Eragon; lui non si era mai soffermato sugli aspetti personali della vita di Orik.

«Età» rispose il nano. «Anche se sciono promescio alla bella Vedrà, figlia di Thorgerd Monocolo e Himinglada. Dovevamo sposciarci in primavera, ma poi gli Urgali ci hanno attaccati e Rothgar mi ha spedito in questo maledetto viaggio.»

«Appartiene al Dùrgrimst Ingietum?» chiese Eragon.

«Naturale!» ruggì Orik, picchiando un pugno sul bracciolo della sedia. «Pensi che sposcerei una che non è del mio clan? È la nipote di mia zia Vardrùn, cugina di scecondo grado di Rothgar, con polpacci bianchi e rotondi e lisci come la scieta, guance roscie come mele. È la più bella nana che scia mai escistita.»

Senza dubbio, commentò Saphira.

«Sono sicuro che la rivedrai presto» disse Eragon.

«Hmf.» Orik fissò Eragon. «Credi nei giganti? Giganti alti, giganti forti, giganti grosci e barbuti con dita come badili?» «Non li ho mai visti» disse Eragon. «Ne ho sentito parlare solo nelle leggende. Se esistono, non sono in Alagaésia.» «Invece escistono, eccome!» esclamò Orik, scuotendo la bottiglia. «Dimmi, Cavaliere. See un terribile gigante ti incontrasele per strada, come ti chiamerebbe, see non cena?»

«Eragon, suppongo.»

«No. No. Ti chiamerebbe nano, perché un nano sciaresti per lui.» Orik ridacchiò e diede di gomito a Eragon nelle costole. «Capisci? Gli umani e gli elfi sciono i giganti. La terra pullula di giganti, che calpestano tutto con i loro enormi piedi, oscurandoci con le loro ombre sconfinate.» Continuò a ridere, dondolandosi sulla sedia fino a perdere l'equilibrio. Cadde sul pavimento con un tonfo sonoro.

Aiutandolo ad alzarsi, Eragon disse: «Credo che sia meglio se resti qui per stanotte. Non sei in condizioni di scendere le scale nel buio.»

Orik accettò con allegra indifferenza. Permise a Eragon di sfilargli la cotta di maglia e di farlo rotolare su un lato del letto. Infine Eragon sospirò, schermò le luci e si distese sul suo lato del materasso.

Si addormentò con la voce del nano che borbottava in sottofondo: «... Vedrà... Vedrà... Vedrà...»

La natura del male

Il radioso mattino arrivò troppo presto. Strappato al sonno dall'improvviso ronzio del segna tempo, Eragon balzò dal letto col pugnale in mano, pronto a sventare un attacco. Boccheggiò di dolore quando il corpo protestò per gli abusi che aveva subito negli ultimi due giorni.

Ricacciando indietro le lacrime, Eragon ricaricò il segnatempo. Orik non c'era; il nano doveva essersene andato alla chetichella alle prime luci dell'alba. Gemendo come un vecchio afflitto dai reumatismi, Eragon si avviò riluttante verso lo stanzino da bagno.

Lui e Saphira aspettarono per dieci minuti ai piedi dell'albero prima di veder arrivare un elfo con l'aria solenne e lunghi capelli neri. L'elfo s'inchinò e si portò due dita alle labbra - gesto che Eragon ricambiò - poi lo anticipò dicendo: «Che la fortuna vi assista.»

«E che le stelle ti proteggano» rispose Eragon. «Ti manda Oromis?»

L'elfo lo ignorò e si rivolse a Saphira. «Piacere di conoscerti, dragonessa. Io sono Vanir del Casato di Haldthin.» Eragon si accigliò, irritato.

Il piacere è mio, Vanir.

Soltanto allora l'elfo si rivolse a Eragon. «Ti mostrerò dove allenarti con la spada.» S'incamminò a grandi passi, senza aspettare che Eragon lo raggiungesse.

Il campo di allenamento era gremito di elfi di entrambi i sessi che combattevano a coppie o in gruppo. Le loro straordinarie capacità fisiche si manifestavano in un turbinio di colpi così fluidi e scattanti da risuonare come una pioggia di grandine su una campana di ferro. Sotto gli alberi che orlavano il campo, elfi solitari eseguivano la Rimgar con più grazia e flessibilità di quanta Eragon avrebbe mai potuto sperare di ottenere.

Dopo che tutti si furono fermati per inchinarsi a Saphira, Vanir estrasse la sua spada sottile e disse: «Se vuoi smussare la tua lama, Mano d'Argento, possiamo cominciare.»

Eragon osservava con trepidazione la prodigiosa maestria degli altri elfi con la spada. Perché devo farlo? disse. Sarò umiliato.

Andrà tutto bene, lo rassicurò Saphira, anche se il giovane avvertì la sua apprensione.

Giusto.

Mentre preparava Zar'roc, le sue mani tremavano di paura. Invece di gettarsi a capofitto nel duello, combattè contro Vanir a distanza, schivando, scartando di lato e facendo il possibile per evitare un'altra crisi. Malgrado le manovre diversive di Eragon, Vanir lo toccò quattro volte in rapida successione: sul torace, su uno stinco e su tutte e due le spalle.

L'iniziale espressione di impassibile stoicismo di Vanir si trasformò ben presto in manifesto disprezzo. Con un movimento dei piedi simile a un passo di danza, fece scivolare la sua lama sulla lunghezza di Zar'roc, poi la fece roteare torcendo il polso di Eragon. Eragon preferì lasciare la presa piuttosto che resistere alla forza superiore dell'elfo. Vanir calò la sua spada sul collo di Eragon e disse: «Morto.» Liberandosi dalla lama con una scrollata di spalle, Eragon si chinò a raccogliere Zar'roc. «Sei morto» ripetè Vanir. «Come pensi di sconfiggere Galbatorix in questo modo? Mi aspettavo di meglio, anche se da un umano debosciato.»

«Perché non vai tu a combattere Galbatorix, invece di nasconderti nella Du Weldenvarden?»

Vanir s'irrigidì, oltraggiato. «Perché» rispose, gelido e sprezzante, «non sono un Cavaliere. Se lo fossi, non sarei un codardo come te.»

Nessuno si mosse o parlò sul campo.

Con la schiena rivolta a Vanir, Eragon raccolse Zar'roc e alzò la testa al cielo. Non sa niente. Questa è soltanto un'altra prova da superare.

«Codardo, ho detto. Il tuo sangue è annacquato come nel resto della tua razza. Credo che Saphira sia stata sviata dalle astuzie di Galbatorix e abbia fatto la scelta sbagliata per il suo Cavaliere.» Gli altri elfi trasalirono alle parole di Vanir, e borbottarono fra loro per quella gravissima infrazione di etichetta. Eragon digrignò i denti. Poteva sopportare gli insulti diretti a lui, ma non a Saphira. La dragonessa si stava già muovendo quando le frustrazioni, la paura e la rabbia represse esplosero dentro di lui. Eragon si volse di scatto, fendendo l'aria con la punta di Zar'roc. Il colpo avrebbe ucciso Vanir, se questi non lo avesse parato all'ultimo istante. Parve sorpreso dalla ferocia dell'attacco. Senza risparmiarsi, Eragon spinse Vanir al centro del campo, menando affondi e fendenti come un ossesso, deciso a ferire l'elfo a ogni costo. Colpì il fianco di Vanir abbastanza da fargli uscire il sangue, nonostante la lama smussata di Zar'roc.

In quel preciso istante, la schiena di Eragon si spezzò in un'esplosione di dolore che lui sperimentò con tutti e cinque i sensi: una scrosciante cascata che gli assordò le orecchie; un sapore metallico che gli ricoprì la lingua; un odore acido e pungente che gli riempì le narici, acre come l'aceto; una galassia di colori pulsanti; e soprattutto la sensazione che Durza gli avesse appena squarciato la schiena.

Vide Vanir torreggiare su di lui con un sorriso di scherno. Un istante prima di sprofondare nel buio, pensò che Vanir era molto giovane.

Ripresosi dall'attacco, Eragon si asciugò il sangue dalla bocca con la mano e lo mostrò a Vanir, dicendo: «Ti sembra abbastanza annacquato?» Vanir non si degnò di rispondere, ma rinfoderò la spada e fece per allontanarsi. «Dove credi di andare?» lo chiamò Eragon. «Non abbiamo ancora finito, tu e io.»

«Non sei in condizioni di duellare» sbuffò l'elfo.

«Mettimi alla prova.» Eragon poteva essere inferiore agli elfi, ma si rifiutava di dar loro la soddisfazione di confermare le loro scarse aspettative su di lui. Si sarebbe guadagnato il loro rispetto con la perseveranza, se non altro. Insistette per completare l'ora di allenamento che Oromis gli aveva assegnato, poi Saphira marciò minacciosa verso Vanir e lo toccò sul petto con la punta di un artiglio d'avorio. Morto, disse. Vanir impallidì. Gli altri elfi si scostarono da lui.

Una volta in aria, Saphira disse: Oromis aveva ragione.

Su cosa?

Che ti saresti impegnato al massimo con un degno avversario.

Giunti al capanno di Oromis, la giornata si svolse come al solito: Saphira accompagnò Glaedr per la sua lezione, mentre Eragon rimase con Oromis.

Eragon rimase sgomento quando Oromis pretese che eseguisse la Rimgar dopo l'estenuante esercizio cui era stato sottoposto. Ci volle tutto il suo coraggio per obbedire. La sua apprensione si rivelò inutile, poiché la Danza del Serpente e della Gru era troppo delicata per fargli male.

Inoltre la meditazione nella conca isolata gli fornì la prima occasione della giornata per mettere ordine nei propri pensieri e riflettere sulla domanda che Oromis gli aveva posto.

Nel frattempo osservò le formiche rosse invadere un piccolo formicaio rivàle, travolgendo i suoi abitanti e depredandoli delle loro risorse. Alla fine del massacro, soltanto un pugno di formiche avversarie erano rimaste in vita, sole e smarrite nella vasta e ostile landa di aghi di pino.

Come i draghi in Alagaèsia, pensò Eragon. Il suo legame con le formiche si dissolse mentre rifletteva sull'infelice destino dei draghi; e a poco a poco gli si rivelò la risposta al quesito, una risposta che riteneva più che valida, una risposta in cui sentiva di credere profondamente.

Concluse la seduta di meditazione e tornò al capanno. Questa volta Oromis parve piuttosto soddisfatto di quello che Eragon era riuscito a compiere. Mentre Oromis serviva il pranzo, Eragon disse: «So perché è giusto combattere Galbatorix, anche se potrebbe significare la morte di migliaia di persone.»

«Davvero?» Oromis si sedette. «Dimmi pure.»

«Perché Galbatorix ha causato più sofferenze negli ultimi cento anni di quante ne potremmo mai vedere in una sola generazione. E diversamente da un qualsiasi tiranno, non possiamo aspettare che muoia. Potrebbe governare per secoli, o millenni, continuando a perseguitare e tormentare il popolo, se non lo fermiamo. Se diventasse abbastanza forte, potrebbe marciare sui nani, o persino qui nella Du Weldenvarden, e uccidere o sottomettere entrambe le razze. E...» Eragon strofinò la base del palmo contro il bordo del tavolo, «... perché sottrargli le due uova che possiede è l'unico modo per salvare i draghi.»

Il bollitore cominciò a fischiare, sempre più stridente, tanto che a Eragon ronzavano le orecchie. Oromis si alzò per togliere il bollitore dal fuoco e versò l'acqua per l'infuso di more. Le rughe intorno ai suoi occhi si addolcirono. «Adesso» disse «hai capìto.»

«Ho capìto, ma non mi da alcuna gioia.»

«Ed è giusto che sia così. Ma adesso avremo la garanzia che non ti ritirerai dalla lotta, quando assisterai alle ingiustizie e alle atrocità che i Varden inevitabilmente commetteranno. Non possiamo permetterci che ti lacerino i dubbi nel momento in cui la tua forza e la tua concentrazione sono più necessari.» Oromis appoggiò i gomiti sul tavolo e giunse i polpastrelli, con lo sguardo fisso sullo specchio ;' scuro del suo infuso, contemplando chissà cosa nei suoi tenebrosi riflessi. «Tu credi che Galbatorix sia malvagio?» •

«Assolutamente!» «E credi che lui si consideri malvagio?» «No, ne dubito.»

Oromis tamburellò le dita fra loro. «Quindi credi anche che Durza fosse malvagio.»

Gli tornarono in mente i frammenti di memorie che aveva intravvisto nella mente di Durza mentre combattevano a Tronjheim, ricordandogli come il giovane Spettro Carsaib, all'epoca - era stato ridotto in schiavitù dagli spiriti che aveva evocato per vendicare la morte del suo mentore, Haeg. «Non era malvagio lui, ma gli spiriti che lo controllavano.»

«E gli Urgali?» continuò Oromis, bevendo un sorso di té. «Sono malvagi?»

Le nocche di Eragon sbiancarono quando strinse il cucchiaio. «Quando penso alla morte, vedo il muso di un Urgali. Sono peggio delle bestie. Le cose che hanno fatto...» Scrollò il capo, incapace di proseguire. «Eragon, che opinione ti faresti degli umani se li dovessi giudicare soltanto dalle azioni dei guerrieri sul campo di battaglia?» «Non è...» Trasse un profondo respiro. «È diverso. Gli Urgali meritano di essere spazzati via, fino all'ultimo.» «Anche le donne e i bambini? Quelli che non ti hanno mai fatto del male e mai te ne farebbero? Gli innocenti? Li stermineresti, condannando l'intera razza all'estinzione?»

«Loro non ci risparmierebbero mai, se ne avessero l'occasione.»

«Eragon!» esclamò Oromis, in tono aspro. «Non voglio mai più sentirti usare una simile scusa, che siccome qualcuno ha fatto o farebbe una cosa, tu puoi fare altrettanto. È spregevole, meschino, indizio di una mente inferiore. Sono stato chiaro?»

«Sì, maestro.»

L'elfo si portò la tazza alle labbra e bevve, continuando a tenere lo sguardo fisso su Eragon. «Cosa sai degli Urgali in realtà?»

«Conosco le loro forze e le loro debolezze, e so come ucciderli. So quanto mi basta di sapere.»

«Perché odiano e combattono gli umani, secondo te? Cosa sai della loro storia e delle loro leggende, o della loro vita quotidiana?»

«Che importanza ha?»

Oromis sospirò. «Ricorda solo» disse in tono sommesso «che a un certo punto, i tuoi nemici potrebbero diventare tuoi alleati. Così va la vita.»

Eragon resistette all'impulso di protestare. Rimestò l'infuso nella tazza, facendo accelerare il liquido fino a formare un vortice scuro con una macchia di schiuma bianca sul fondo. «È per questo che Galbatorix ha arruolato gli Urgali?» «Non è l'esempio che avrei scelto io, ma sì.»

«Mi sembra strano che si fidi di loro. In fin dei conti furono gli Urgali a uccidergli il drago. Guarda che cosa ha fatto a noi, ai Cavalieri, e non eravamo nemmeno responsabili della sua disgrazia.»

«Ah» disse Oromis, «Galbatorix sarà anche un pazzo, ma resta pur sempre astuto come una volpe. Immagino che volesse usare gli Urgali per distruggere i Varden e i nani... e altri ancora, se avesse trionfato nel Farthen Dùr... per sbarazzarsi di due nemici e al contempo indebolire gli Urgali per poi liberarsene in un secondo momento.» Lo studio dell'antica lingua si portò via tutto il pomeriggio; alla fine ripresero a esercitarsi con la magia. La maggior parte delle lezioni di Oromis vertevano sulla maniera più adeguata di controllare le varie forme di energia, come la luce, il calore, l'elettricità e persino la gravità. Spiegò che, dato che questi elementi consumavano energia più in fretta di qualsiasi incantesimo, era più prudente trovarli già in natura, per poi plasmarli con la negromanzia, piuttosto che tentare di crearli dal nulla.

Abbandonando l'argomento, Oromis chiese: «Come uccideresti

con la magia?»

«L'ho già fatto in molti modi» rispose Eragon. «Ho cacciato con un sasso, spostandolo e prendendo la mira con la magia. Ho usato la parola jierda per spezzare le gambe e il collo degli Urgali. Una volta, con thrysta, ho fermato il cuore di un uomo.»

«Ci sono metodi più efficaci» gli rivelò Oromis. «Cosa occorre per uccidere un uomo, Eragon? Una spada nel petto? Un collo rotto? Un'emorragia? Sappi che basta spezzare una singola arteria nel cervello, o recidere determinati nervi. Con il giusto incantesimo, potresti annientare un esercito.»

«Avrei dovuto pensarci nel Farthen Dùr» disse Eragon, arrabbiato con se stesso. Non soltanto nel Farthen Dùr, ma anche quando i Kull ci inseguivano nel Deserto di Hadarac. «Perché Brom non me l'ha detto?»

«Perché non si aspettava che dovessi affrontare un esercito nel giro di pochi mesi; non è una cosa che si insegna a un Cavaliere ancora inesperto.»

«Ma se è così facile uccidere la gente, perché noi, o lo stesso Galbatorix, ci affanniamo a radunare un esercito?» «Per dirla in una parola, è tattica. Gli stregoni sono vulnerabili agli attacchi fisici quando sono impegnati nelle loro schermaglie mentali. Perciò hanno bisogno di soldati che li proteggano. E i soldati devono essere protetti, almeno in parte, dagli attacchi magici, altrimenti verrebbero sterminati in pochi minuti. Questa duplice limitazione comporta che quando due eserciti si affrontano, i loro rispettivi maghi si sparpagliano fra le truppe, vicini alla prima linea, ma non abbastanza da rischiare la vita. Gli stregoni di entrambi i fronti aprono la mente e tentando di percepire se qualcuno sta usando o sta per usare la magia. Poiché i loro nemici potrebbero trovarsi al di là della loro portata, gli stregoni evocano incantesimi di difesa intorno a se stessi e ai propri soldati per fermare o rallentare attacchi a lunga gittata, come un sasso scagliato contro di loro da un miglio di distanza.»

«Ma un solo uomo non può difendere un intero esercito» obiettò Eragon.

«Da solo no, ma un numero sufficiente di stregoni è in grado di fornire una ragionevole dose di protezione. Il maggior pericolo in questo genere di conflitto è che uno stregone astuto può escogitare un attacco che possa superare le tue difese senza abbatterle. Solo questo basta a decidere le sorti di una battaglia.

«Inoltre» proseguì Oromis «devi tenere a mente che l'abilità nell'uso della magia è straordinariamente rara fra le razze. Noi elfi non facciamo eccezione, anche se vantiamo più maghi di tutti gli altri, grazie ai giuramenti con i quali ci siamo vincolati secoli fa. La maggior parte di coloro che hanno il dono della magia non hanno però il talento per usarla: faticano perfino a guarire un livido.»

Eragon annuì. Aveva incontrato stregoni simili fra i Varden. «Ma la quantità di energia necessaria a compiere qualcosa resta sempre la stessa.»

«Certo, ma rispetto a te o a me, gli stregoni mediocri hanno difficoltà a percepire il flusso dell'energia e immergersi in esso. Sono pochi i maghi abbastanza potenti da rappresentare una minaccia per un esercito. E quelli che lo sono, di solito passano la maggior parte della battaglia a eludere, rintracciare o combattere i propri avversari, una circostanza fortunata dal punto di vista dei soldati, che altrimenti verrebbero uccisi subito.»

Sconcertato, Eragon disse: «I Varden non hanno molti stregoni.»

«È una delle ragioni per cui tu sei così importante.»

Passò un momento, mentre Eragon rifletteva sulle parole di Oromis. «Questi incantesimi di difesa ti sottraggono energia soltanto quando sono attivati?»

«Sì.»

«Allora, avendo tempo a disposizione, si potrebbero accumulare infiniti strati di protezione. Uno potrebbe rendersi. ..» si sforzò di trovare la parola adatta nell'antica lingua, «... invulnerabile?... refrattario?... refrattario a qualsiasi attacco, fisico o mentale.»

«Gli incantesimi di difesa» disse Oromis «si basano sulla forza del proprio corpo. Non è importante quanti riesci a evocarne; sarai in grado di bloccare un attacco soltanto finché il tuo corpo resisterà al dispendio di energia.» «Ma la forza di Galbatorix cresce di anno in anno... Com'è possibile?»

Era una domanda retorica, ma quando Oromis rimase in silenzio, i suoi occhi a mandorla fissi su un terzetto di passeri che piroettavano nel cielo, Eragon capì che stava riflettendo su come dargli la risposta più adeguata. Gli uccellini s'inseguirono per alcuni minuti. Quando scomparvero dalla visuale, Oromis disse: «Non è opportuno discutere di questo aspetto al momento.»

«Allora lo sai?» esclamò Eragon, sbalordito.

«Sì. Ma questa informazione dovrà aspettare che tu abbia approfondito il tuo addestramento. Non sei ancora pronto.» Oromis lo guardò, come se si aspettasse una protesta.

Eragon chinò il capo. «Come vuoi tu, maestro.» Non avrebbe mai estorto l'informazione a Oromis finché l'elfo non avesse voluto rivelarla, quindi che senso aveva insistere? Eppure non poteva fare a meno di domandarsi che cosa ci fosse di tanto pericoloso da imporre il silenzio, e perché gli elfi avessero tenuto il segreto perfino con i Varden. Lo attraversò un altro pensiero, e lo espresse ad alta voce. «Se le battaglie con i maghi vengono condotte come dici, allora perché Ajihad mi ha fatto combattere nel Farthen Dùr senza incantesimi di protezione? Non sapevo nemmeno di dover tenere la mente aperta in cerca di nemici. E perché Arya non ha ucciso gran parte degli Urgali, se non tutti? Non c'era nessuno stregone in grado di resisterle, tranne Durza, e lui non poteva difendere le sue truppe da sottoterra.» «Ajihad non ti ha fatto proteggere da Arya o da qualcuno del Du Vrangr Gata?» chiese Oromis.

«No, maestro.»

«E tu hai combattuto così?»

«Sì, maestro.»

Gli occhi di Oromis si oscurarono, mentre si chiudeva in se stesso, restando immobile sul prato. Riprese a parlare di getto. «Mi sono consultato con Arya, e lei sostiene che i Gemelli dei Varden avevano ricevuto l'ordine di esaminare le tue capacità. Hanno detto ad Ajihad che eri esperto in ogni sorta di incantesimo, compresi quelli di protezione. Né Ajihad né Arya hanno dubitato del loro giudizio.»

«Quei luridi vermi, cani rognosi, serpi dalla lingua biforcuta» imprecò Eragon. «Hanno cercato di farmi uccidere!» Passando alla propria lingua, proseguì con altri insulti più coloriti.

«Non appestare l'aria» lo ammonì Oromis. «Non serve... A ogni buon conto, sospetto che i Gemelli ti abbiano fatto scendere in battaglia senza difese non per farti uccidere, ma perché Durza ti catturasse vivo.»

«Cosa?»

«Secondo il tuo racconto, Ajihad sospettava che i Varden fossero stati traditi quando Galbatorix cominciò a colpire i loro alleati nell'Impero con mira infallibile. I Gemelli erano a conoscenza dell'identità dei collaboratori dei Varden. Inoltre ti hanno attirato nel cuore di Tronjheim, separandoti da Saphira, per spingerti tra le grinfie di Durza. Che fossero loro i traditori è l'unica spiegazione logica.»

«Che fossero i traditori» disse Eragon «ormai non conta più: sono morti e sepolti.»

Oromis inclinò il capo da un lato. «E sia. Arya sostiene che gli Urgali avevano degli stregoni nel Farthen Dùr e che ne ha combattuti molti. Nessuno di loro ti ha attaccato?»

«No, maestro.»

«Prova ulteriore del fatto che tu e Saphira dovevate essere catturati da Durza per essere portati da Galbatorix. Una trappola ben congegnata.»

Durante l'ora seguente, Oromis insegnò a Eragon una dozzina di metodi per uccidere, nessuno dei quali richiedeva più energia di quanta ne occorresse per sollevare una penna. Quando ebbe finito di memorizzare l'ultimo, a Eragon sovvenne un pensiero che lo fece sogghignare. «La prossima volta che incroceranno la mia strada, i Ra'zac non avranno scampo.»

«Non devi sottovalutarli» lo ammonì Oromis.

«Perché? Tre parole, e saranno morti stecchiti.» «Che cosa mangiano i martin pescatori?» Eragon lo guardò stupito. «Pesce, naturalmente.» «E se un pesce fosse più svelto e più intelligente dei suoi simili, riuscirebbe a sfuggire a un martin pescatore?» «Ne dubito» disse Eragon. «Almeno non per molto.» «Proprio come i martin pescatori sono fatti per essere i migliori cacciatori di pesce, i lupi sono i migliori cacciatori di cervi e altra selvaggina, e ogni animale possiede i requisiti più idonei a perseguire il suo obiettivo, anche i Ra'zac sono perfetti per predare gli umani. Sono i mostri annidati nel buio, i viscidi incubi che tormentano le notti della vostra razza.»

Eragon si sentì formicolare la nuca dall'orrore. «Che razza di creature sono?»

«Non sono elfi, né umani, né nani, né draghi, né bestie di terra, di cielo o di mare, né rettili, né insetti, né qualsiasi altra categoria di animali.»

Eragon emise una risatina nervosa. «Sono piante, allora?» «Nemmeno questo. Si riproducono deponendo le uova, come i draghi. Quando queste si schiudono, i piccoli, detti pupe, sviluppano un esoscheletro nero che ricorda vagamente le sembianze umane. È un'imitazione grottesca, ma sufficiente a convincere le vittime a farsi avvicinare dai Ra'zac senza destare allarme. In tutti gli aspetti in cui gli umani sono deboli, i Ra'zac sono forti. Riescono a vedere in una notte nuvolosa, a fiutare una traccia come un segugio, a saltare più in alto e a muoversi più in fretta. Tuttavia la luce forte li infastidisce e hanno una paura morbosa dell'acqua, perché non sanno nuotare. La loro arma più potente è il loro fiato pestilenziale, che annebbia la mente degli umani, rendendoli incapaci di reagire, anche se ha meno effetto sui nani e gli elfi ne sono immuni.»

Eragon rabbrividì al ricordo di quando aveva visto per la prima volta i Ra'zac a Carvahall, e di come era stato incapace di fuggire quando lo avevano scorto. «Mi sembrava di trovarmi dentro un incubo in cui volevo fuggire, ma non riuscivo a muovermi, per quanto mi sforzassi.»

«Una buona descrizione» disse Oromis. «Sebbene i Ra'zac non sappiano usare la magia, non bisogna sottovalutarli. Se sapessero che dai loro la caccia, non si mostrerebbero, ma rimarrebbero nell'ombra, dove sono più potenti, in attesa di tenderti un agguato come hanno fatto a Dras-Leona. Persino l'esperienza di Brom non è riuscita a proteggerlo da essi. Non essere mai troppo sicuro di te, Eragon. Non diventare arrogante, perché compiresti azioni avventate, e i tuoi nemici approfitterebbero della tua debolezza.»

«Sì, maestro.»

Oromis piantò i suoi occhi severi su di lui. «I Ra'zac restano pupe per vent'anni, finché maturano. Al sorgere della prima luna piena del loro ventesimo anno, si liberano dall'esoscheletro, dispiegano le ali ed emergono come adulti pronti a cacciare tutte le creature, non soltanto gli umani.»

«Perciò le cavalcature dei Ra'zac, quei mostri su cui volano, sono...»

«Sì, i loro genitori.»

Immagine di perfezione

finalmente ho capìto la natura dei miei nemici, pensò Eragon. Temeva i Ra'zac da quando erano comparsi a Carvahall, non soltanto per le loro azioni scellerate, ma perché sapeva ben poco di quelle creature. Nella sua ignoranza, aveva attribuito ai Ra'zac molti più poteri di quanti ne possedevano in realtà, e li aveva considerati con un timore quasi superstizioso. Incubi. Ma adesso che la spiegazione di Oromis li aveva spogliati della loro aura di mistero, non gli sembravano più così formidabili. Il fatto che fossero vulnerabili alla luce e all'acqua lo portava all'assoluta convinzione che al loro prossimo incontro avrebbe distrutto i mostri responsabili dell'uccisione di Garrow e di Brom. «Anche i loro genitori si chiamano Ra'zac?» domandò.

Oromis fece no con la testa. «Lethrblaka, li chiamiamo. E laddove la loro progenie è di mente limitata, sebbene astuta, i Lethrblaka possiedono l'intelligenza di un drago. Un drago crudele, malvagio e perverso.»

«Da dove vengono?»

«Con ogni probabilità, dai territori che i tuoi antenati abbandonarono. È facile supporre che siano state le loro scorrerie a costringere re Palancar a emigrare. Quando noi Cavalieri ci accorgemmo della nefanda presenza dei Ra'zac in Alagaèsia, facemmo del nostro meglio per estirparli, come facciamo con la ruggine delle foglie. Purtroppo il nostro successo fu parziale. Due Lethrblaka riuscirono a fuggire, e sono stati loro, insieme alle pupe, la causa delle tue sofferenze. Dopo aver ucciso Vrael, Galbatorix li rintracciò e strinse con loro un patto perché lo servissero in cambio di protezione e del permesso di servirsi a volontà del loro cibo preferito. Ecco perché Galbatorix consente loro di vivere vicino a Dras-Leona, una delle maggiori città dell'Impero.»

Eragon serrò la mascella. «La pagheranno.» E la pagheranno cara, se andrà come dico io.

«Già» convenne Oromis. Tornando al capanno, varcò il vano oscuro della porta e ricomparve portando una mezza dozzina di tavolette di ardesia, larghe mezzo piede e lunghe uno. Ne porse una a Eragon. «Lasciamo stare questi argomenti sgradevoli per un po'. Ho pensato che forse ti va d'imparare a realizzare un fairth. È un eccellente metodo per focalizzare i pensieri. La tavoletta è abbastanza impregnata di inchiostro per coprirla con qualsiasi combinazione di colori. Ti basta quindi concentrarti sull'immagine che desideri catturare e dire "Quello che vedo con l'occhio della mente sia replicato sulla superficie di questa tavoletta".» Mentre Eragon osservava la lastra, Oromis indicò la radura. «Guardati intorno, Eragon, e trova qualcosa che valga la pena di preservare.»

I primi soggetti che Eragon notò gli parvero troppo ovvi, troppo banali: un giglio giallo vicino ai suoi piedi, il capanno di Oromis, il ruscello, e il panorama. Non c'era niente di particolare. Non c'era niente che avrebbe fornito all'osservatore un'introspezione del soggetto del fairth o di chi lo aveva creato. Le cose che cambiano e vanno perdute, ecco cosa vale la pena di preservare, pensò. Il suo sguardo si posò sui germogli verde pallido che crescevano sulla punta dei rami di un albero, e poi sulla profonda, stretta ferita che marchiava il tronco dove una tempesta aveva spezzato un ramo, portando via un pezzo di corteccia. Gocce di resina trasparente incrostavano la cicatrice, catturando e rifrangendo la luce.

Eragon si dispose a fianco del tronco, perché le galle rotonde della linfa rappresa dell'albero sporgessero di profilo, incorniciate da un ventaglio di nuovi aghi. Poi fissò la scena nella sua mente meglio che potè e mormorò la formula magica.

La superficie della tavoletta grigia s'illuminò di lampi di colore, che si mescolavano per produrre la giusta gamma di sfumature. Quando alla fine i pigmenti cessarono di muoversi, Eragon si ritrovò a guardare una strana copia di quanto aveva voluto riprodurre. La linfa e gli aghi erano resi con vibranti e precisi dettagli, mentre tutto il resto era sfuocato e scuro, come visto attraverso le palpebre socchiuse. Era lontano mille miglia dalla limpidezza universale del fairth di Ilirea che aveva realizzato Oromis.

A un cenno dell'elfo, Eragon gli porse la tavoletta. Oromis la studiò per un minuto, poi disse: «Hai un insolito modo di pensare, Eragon-finiarel. La maggior parte degli umani ha difficoltà a raggiungere la giusta concentrazione per creare un'immagine riconoscibile. Tu, d'altro canto, osservi con attenzione minuziosa tutto quello che ti interessa, ma il tuo fuoco è ristretto. È lo stesso problema che hai con la meditazione. Devi rilassarti, allargare il campo della tua visuale, e lasciarti assorbire da tutto quello che ti circonda senza giudicare che cosa è importante e che cosa no.» Mettendo da parte la lastra, Oromis ne raccolse una seconda da terra e la porse a Eragon. «Riprova...»

«Salve, Cavaliere!»

Sorpreso, Eragon si volse e vide Orik e Arya sbucare fianco a fianco dalla foresta. Il nano sventolò il braccio per salutarlo. La sua barba era rasata di fresco e intrecciata, i capelli tirati indietro in una coda ordinata, e indossava una nuova tunica - dono degli elfiche era rossa e marrone, e ricamata con fili d'oro. Il suo aspetto non conservava alcuna traccia delle miserevoli condizioni della notte precedente.

Eragon, Oromis e Arya si scambiarono il saluto tradizionale, poi, abbandonando l'antica lingua, Oromis chiese: «A cosa devo l'onore di questa visita? Siete entrambi i benvenuti nella mia dimora, ma come potete vedere sono impegnato con Eragon in una lezione, ed è molto importante.»

«Ti porgo le mie scuse per averti importunato, Oromiselda» disse Arya, «ma...»

«La colpa è mia» intervenne Orik. Scoccò una rapida occhiata a Eragon prima di continuare. «Sono stato mandato qui da Rothgar per assicurarmi che Eragon riceva la dovuta istruzione. Non ho dubbi al riguardo, ma sono obbligato ad assistere con i miei stessi occhi, affinchè, quando tornerò a Tronjheim, io possa riferire al re quanto e avvenuto.» Oromis disse: «Ciò che insegno a Eragon non dev'essere divulgato ad altri. I segreti dei Cavalieri riguardano lui soltanto.»

«Comprendo benissimo. Tuttavia viviamo in tempi incerti; la pietra che un tempo era salda e solida, adesso è instabile. Dobbiamo adattarci per sopravvivere. Molto dipende da Eragon, e pertanto noi nani abbiamo il diritto di verificare che il suo addestramento proceda come promesso. Non ritieni che la nostra richiesta sia ragionevole?» «Ben detto, mastro nano» disse Oromis. Si tamburellò le dita fra loro, imperscrutabile come sempre. «Presumo quindi che sia una questione di dovere per te.»

«Dovere e onore.»

«E niente ti farà recedere dalla tua posizione?»

«Temo di no, Oromis-elda» disse Orik.

«E sia. Puoi restare a guardare per tutta la durata di questa lezione. Dopo ti riterrai soddisfatto?» Orik aggrottò la fronte. «Lavorate da molto?»

«Abbiamo appena iniziato.»

«In questo caso sì, mi riterrò soddisfatto. Per il momento, almeno.»

Mentre i due parlavano, Eragon cercava di incrociare lo sguardo di Arya, ma lei aveva occhi soltanto per Oromis. «... Eragon!»

Il giovane trasalì, immerso com'era nelle proprie fantasticherie. «Sì, maestro?»

«Non ti distrarre, Eragon. Voglio che tu faccia un altro fairth. Tieni la mente aperta, come ti ho detto prima.» «Sì, maestro.» Eragon prese la tavoletta, le mani un po' sudate al pensiero che Orik e Arya avrebbero giudicato il suo lavoro. Voleva fare qualcosa di bello per dimostrare che Oromis era un buon maestro. Tuttavia non riusciva a concentrarsi sugli aghi di pino e sulla linfa; Arya lo attirava come una calamita, rubandogli l'attenzione ogni volta che tentava di pensare a qualcos'altro.

Alla fine si rese conto che era inutile resistere all'attrazione. Compose un'immagine di lei nella mente - che gli richiese non più tempo di un battito di cuore, poiché conosceva i suoi lineamenti meglio dei proprie formulò l'incantesimo nell'antica lingua, riversando tutta la sua adorazione, il suo amore, e la sua paura nel flusso della magia. Il risultato lo lasciò esterrefatto.

Il fairth ritraeva la testa e le spalle di Arya su uno sfondo nero e indistinto. Un raggio di luce la colpiva da destra, e lei guardava l'osservatore con occhi saggi; appariva non come era, ma come lui la pensava: misteriosa, esotica, la più bella donna che avesse mai visto. Ancora una volta era un fairth imperfetto, con troppe zone d'ombra, ma possedeva una tale intensità e una tale passione che turbò Eragon nel profondo. È così che la vedo? Chiunque fosse quella donna, era così saggia, così potente, così affascinante da consumare qualunque uomo di minore fermezza.

Da una grande distanza, sentì Saphira sussurrare: Sta' attento...

«Cos'hai fatto, Eragon?» gli chiese Oromis.

«Io... non lo so.» Eragon esitò quando Oromis tese la mano per prendere il fairth, riluttante a lasciare che gli altri esaminassero il suo lavoro, specie Arya. Dopo una lunga, terrificante pausa, Eragon aprì le dita dalla tavoletta e la lasciò a Oromis.

L'espressione dell'elfo si fece sempre più severa con il passare dei minuti, mentre esaminava il fairth. Poi guardò Eragon, che tremò sotto il peso del suo sguardo. Infine, senza dire una parola, Oromis passò la lastra ad Arya. I capelli le piovvero sul viso quando chinò il capo sulla tavoletta, ma Eragon vide i nervi e le vene gonfiarsi sulle sue mani nello stringere la lastra. Tremava nella sua stretta. «Be', cos'è?» chiese Orik.

Alzando il fairth sopra la testa, Arya lo scagliò sul terreno, fracassando il ritratto in mille pezzi. Poi raddrizzò le spalle e con grande dignità oltrepassò Eragon, percorse la radura e si allontanò nel cuore aggrovigliato della Du Weldenvarden.

Orik raccolse uno dei frammenti di ardesia. Era grigio. L'immagine era svanita quando la lastra si era infranta. Il nano si lisciò la barba. «In tutti gli anni che la conosco, Arya non si è mai arrabbiata così. Mai. Cos'hai fatto, Eragon?» Confuso, Eragon rispose: «Un suo ritratto.» Orik si accigliò, perplesso. «Un ritratto? E perché mai...» «Credo sia meglio che tu te ne vada, a questo punto» disse Oromis. «La lezione è finita, comunque. Torna domani, o il giorno dopo ancora, se vuoi farti un'idea migliore dei progressi di Eragon.»

Il nano guardò Eragon, poi annuì e si spazzolò il terriccio dalle mani. «Sì, credo che lo farò. Ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato, Oromis-elda. L'ho apprezzato molto.» Mentre tornava a Ellesméra, si rivolse a Eragon da sopra una spalla. «Sarò nella sala comune del Palazzo di Tialdari, se vorrai parlarmi.»

Quando Orik se ne fu andato, Oromis si sollevò l'orlo della tunica, s'inginocchiò e cominciò a raccogliere i pezzi della tavoletta. Eragon lo guardava, incapace di muoversi.

«Perché?» chiese nell'antica lingua.

«Può darsi» rispose Oromis «che Arya si sia spaventata.»

«Spaventata? Lei non si spaventa mai.» Nello stesso momento in cui pronunciava quelle parole, Eragon si accorse che non era del tutto vero. Arya era soltanto capace di nascondere la paura meglio degli altri. Cadde in ginocchio, prese un pezzo del fairth e lo mise nel palmo di Oromis. «Perché l'avrei spaventata?» chiese. «Ti prego, dimmelo.» Oromis si alzò e si avvicinò alla sponda del ruscello, dove sparse i frammenti di ardesia sui sassi, lasciando che la polvere grigia gli scorresse via dalle dita. «I fairth mostrano soltanto quello che tu vuoi che mostrino. È possibile mentire, con essi, creare una falsa immagine, ma per farlo è necessaria un'abilità che tu ancora non possiedi. Arya lo sa. E perciò sa anche che il tuo fairth era una fedele rappresentazione dei tuoi sentimenti per lei.»

«Ma perché questo dovrebbe spaventarla?»

Oromis sorrise mesto. «Perché rivela l'intensità della tua infatuazione per lei.» Congiunse le mani, portandosi gli indici alle labbra. «Analizziamo insieme la situazione, Eragon. Sebbene tu sia abbastanza grande da essere considerato un uomo fra la tua gente, ai nostri occhi tu non sei che un bambino.» Eragon si adombrò, ripensando alle parole di Saphira la sera prima. «Di norma, non metterei mai a confronto l'età di un umano con quella di un elfo, ma poiché tu condividi la nostra longevità, devi essere giudicato anche secondo i nostri criteri.

«E sei un Cavaliere. Noi contiamo su di te per sconfiggere Galbatorix; potrebbe essere una catastrofe per ogni abitante di Alagaésia se venissi distratto dai tuoi studi.

«Quindi» proseguì Oromis «come avrebbe dovuto reagire Arya davanti al tuo fairth? È più che evidente che tu la consideri in una luce romantica, ma, per quanto non abbia dubbi che Arya ti sia affezionata, una relazione fra voi due è impossibile, a causa della tua giovane età, della tua cultura, della tua razza e delle tue responsabilità. Il tuo interesse ha posto Arya in una posizione imbarazzante. Non osa affrontarti a cuore aperto, per paura di distrarti dal tuo addestramento. Ma come figlia della regina, non può nemmeno ignorarti e rischiare di offendere un Cavaliere, specie uno da cui tanto dipende... Anche se fossi un compagno adatto, Arya si asterrebbe dall'incoraggiarti, affinchè tu possa dedicare tutte le tue energie al compito che ti attende. Sacrificherebbe la propria felicità per il bene supremo.» La voce di Oromis si fece più profonda. «Devi capire, Eragon, che eliminare Galbatorix è più importante di qualsiasi persona. Nient'altro conta.» Fece una pausa, il suo sguardo si addolcì, poi aggiunse: «Date le circostanze, è così strano che Arya abbia paura che i tuoi sentimenti per lei possano mettere a repentaglio tutto quello per cui abbiamo lavorato?» Eragon scosse il capo. Si vergognava del proprio comportamento, che aveva messo a disagio Arya e si era dimostrato sventato e infantile. Avrei potuto evitare tutto questo pasticcio se mi fossi saputo controllare.

Sfiorandogli una spalla, Oromis lo guidò nel capanno. «Non pensare che io sia privo di compassione, Eragon. Prima o poi, nella vita, tutti sperimentano ardori come i tuoi. Fa parte della crescita. So anche che ti è difficile rinunciare ai consueti piaceri della vita, ma è necessario, per vincere.»

«Sì, maestro.»

Si sedettero al tavolo della cucina, e Oromis cominciò a disporre il materiale per scrivere perché Eragon si esercitasse con la Liduen Kvaedhi. «Sarebbe irragionevole da parte mia aspettarmi che tu dimentichi la tua infatuazione per Arya, ma mi aspetto che tu le impedisca di interferire di nuovo con i miei insegnamenti. Me lo prometti?» «Sì, maestro, te lo prometto.»

«E quanto ad Arya? Secondo te qual è la cosa più onorevole da fare in merito alla situazione?»

Eragon esitò. «Non voglio perdere la sua amicizia.»

«No.»

«Perciò... andrò da lei, le porgerò le mie scuse, e le garantirò che un episodio del genere non si ripeterà mai più.» Gli fu difficile pronunciare quelle parole, ma quando lo ebbe fatto, provò sollievo, come se aver riconosciuto il proprio errore lo avesse liberato.

Oromis parve compiaciuto. «Già questo dimostra che sei maturato.»

I fogli di carta erano lisci al tatto mentre Eragon li appiattiva sul tavolo. Fissò la bianca distesa, poi intinse un calamo nell'inchiostro e cominciò a trascrivere una colonna di glifi. Ogni linea intricata era come un raggio notturno sulla carta, un abisso nero in cui avrebbe desiderato perdersi per tentare di dimenticare i suoi confusi sentimenti.

L'Obliatore

Il mattino seguente, Eragon andò in cerca di Arya per scusarsi. La cercò per oltre un'ora, senza esito. Era come se fosse svanita in uno dei tanti anfratti nascosti di Ellesméra. La intravvide per un attimo mentre sostava davanti all'ingresso del Palazzo di Tialdari e la chiamò, ma lei sgusciò via prima che lui avesse il tempo di raggiungerla. Mi sta evitando, si rese conto, alla fine.

Col passare dei giorni, Eragon si dedicò alle lezioni di Oromis con uno zelo che l'anziano Cavaliere trovò encomiabile, impegnandosi negli studi al fine di distrarsi dal pensiero di Arya.

Notte e giorno si sforzava di fare del suo meglio. Mandò a memoria le parole del fare, del legare e dell'evocare; apprese i veri nomi delle piante e degli animali; studiò i pericoli della transmutazione; imparò a richiamare il vento e il mare; e si impegnò a sviluppare le miriadi di altre capacità necessarie a comprendere le forze del mondo. Negli incantesimi che riguardavano grandi energie - come la luce, il calore e il magnetismo - eccelleva, poiché possedeva il talento per giudicare con precisione quanta forza richiedesse una determinata azione e se superasse quella del suo corpo. Di tanto in tanto, Orik veniva ad assistere, restando in disparte senza commentare, mentre Oromis insegnava a Eragon, oppure Eragon si esercitava da solo in un incantesimo particolarmente difficile.

Oromis gli propose diverse sfide. Lo costrinse a cucinare con la magia, per insegnarli un più sottile controllo della negromanzia; i primi tentativi di Eragon ebbero come risultato una poltiglia bruciacchiata. L'elfo mostrò a Eragon come individuare e neutralizzare veleni di ogni sorta e, da quel momento in poi, Eragon dovette ispezionare ogni volta il cibo in cerca dei diversi veleni che Oromis avrebbe potuto propinargli. Capitò che Eragon restasse senza mangiare per non essere stato in grado di trovare il veleno o, non essendo riuscito a neutralizzarlo, per ben due volte ebbe male allo stomaco e il vecchio elfo dovette guarirlo. Oromis gli fece formulare diversi incantesimi simultaneamente; era necessario un enorme sforzo di concentrazione per dirigere gli incantesimi verso i rispettivi bersagli e impedir loro di spostarsi fra i diversi oggetti che Eragon voleva influenzare.

Oromis dedicò lunghe ore all'arte d'impregnare la materia di energia, per liberarla al momento opportuno o per conferire a un oggetto particolari attributi. Disse: «È in questo modo che Rhunòn stregò le spade dei Cavalieri perché non perdessero mai il filo o si rompessero; che facciamo crescere le piante cantando; che una trappola può essere messa in una scatola, per scattare solo quando la scatola viene aperta; che noi e i nani fabbrichiamo le Erisdar, le nostre lanterne; che puoi guarire un ferito... solo per citare alcuni esempi. Questi sono gli incantesimi più potenti, perché possono giacere dormienti per mille anni e oltre, e sono difficili da percepire o deviare.»

Eragon chiese: «Si può usare questa tecnica per alterare il corpo, o è troppo pericoloso?»

Le labbra di Oromis si arcuarono in un debole sorriso. «Ahimè, hai toccato la più grande debolezza degli elfi: la nostra vanità. Noi amiamo la bellezza in tutte le sue forme, e cerchiamo di rappresentare quell'ideale nel nostro aspetto. Per questo siamo chiamati il Leggiadro Popolo. Ogni elfo appare esattamente come desidera. Quando gli elfi imparano le formule per far crescere e plasmare la materia vivente, spesso scelgono di modificare il proprio aspetto per meglio riflettere la propria personalità. Alcuni elfi sono andati oltre i meri cambiamenti estetici e hanno alterato la propria anatomia per adattarsi ai diversi ambienti, come vedrai durante la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Spesso sono più animali che elfi.

«Tuttavia, trasferire il potere a una creatura vivente è diverso che farlo con un oggetto inanimato. Sono pochi i materiali adatti a immagazzinare energia; la maggior parte o la disperdono troppo presto o si caricano di una tale forza che alla minima sollecitazione sprigionano un fulmine. I materiali migliori che abbiamo trovato a questo scopo sono le pietre preziose. I quarzi, le agate e le altre pietre semipreziose non sono efficienti quanto, diciamo, un diamante, ma qualunque gemma va bene. Ecco perché le spade dei Cavalieri hanno sempre una gemma incastonata nel pomo. Ed ecco perché la catena che ti hanno dato i nani, fatta interamente di metallo, deve attingere alla tua energia per alimentare il suo incantesimo, poiché non può conservare energia da sé.»

Quando non era con Oromis, Eragon integrava la sua istruzione leggendo i molti rotoli che l'elfo gli aveva dato, abitudine che ben presto gli divenne irrinunciabile. Era cresciuto con Garrow, che gli aveva insegnato quel tanto che bastava a mandare avanti una fattoria. Le informazioni che scoprì sulle sconfinate distese di carta lo impregnarono come la pioggia impregna un arido deserto, saziando una sete prima sconosciuta. Divorò testi di geografia, biologia, anatomia, filosofia e matematica, e poi memoriali, biografie e storie. Più importante dell'assimilazione dei fatti nudi e crudi fu la scoperta di modi alternativi di pensare, che sfidavano le sue convinzioni e lo costringevano a riesaminare le sue certezze su ogni argomento, dai diritti dell'individuo in seno alla società a ciò che fa muovere il sole nel cielo. Notò che un certo numero di rotoli riguardavano gli Urgali e la loro cultura. Li lesse, ma non ne fece parola, né Oromis accennò all'argomento.

Grazie ai suoi studi, Eragon imparò molto anche sugli elfi, oggetto che lo interessava particolarmente perché avrebbe potuto aiutarlo a comprendere meglio Arya. Rimase sorpreso nell'apprendere che gli elfi non si univano in matrimonio, ma sceglievano un compagno per il tempo desiderato, che fosse un giorno oppure un secolo. I figli erano rari, e avere un bambino era considerato dagli elfi il più grande pegno d'amore.

Eragon imparò anche che da quando le due razze si erano incontrate, erano esistite soltanto pochissime coppie miste, composte soprattutto da Cavalieri umani che avevano trovato un compagno adeguato fra gli elfi. Tuttavia, da quanto riuscì a capire dai criptici archivi, la maggior parte delle relazioni era finita in tragedia, o perché gli amanti non erano riusciti a continuare la relazione, o perché gli umani invecchiavano e morivano mentre gli elfi erano immuni dalle devastazioni del tempo.

Oltre ai testi di carattere non narrativo, Oromis gli fornì copie delle più grandi ballate, poesie e composizioni epiche degli elfi, che catturarono l'immaginazione di Eragon. Le uniche storie che conosceva erano quelle che Brom recitava a Carvahall: perciò assaporò l'epica come un pasto prelibato, gustando a poco a poco Le Gesta di Cèda o La Ballata di Umhodan per prolungare il piacere.

L'addestramento di Saphira procedeva di pari passo. Grazie al loro legame mentale, Eragon vide come Glaedr la sottoponeva a un regime di allenamento duro quanto il suo: decolli con l'impaccio di un peso, scatti di potenza, voli in picchiata e altre acrobazìe. Allo scopo di sviluppare la resistenza, per ore intere Glaedr la costrinse a sputare fuoco contro un pilastro di roccia naturale, nel tentativo di scioglierlo. All'inizio Saphira riusciva a mantenere le fiamme soltanto per qualche minuto di seguito, ma ben presto la lunga vampa di fuoco ruggì dalle sue fauci per mezz'ora ininterrotta, arroventando il pilastro. Eragon apprese anche le tradizioni orali dei draghi che Glaedr insegnò a Saphira, dettagli sulla vita e sulla storia dei draghi che integravano la sua conoscenza istintiva. La maggior parte era incomprensibile per Eragon, e sospettava che Saphira gli nascondesse qualcosa, segreti della sua razza che i draghi non condividevano con nessuno. Una cosa riuscì ad afferrare, una cosa che Saphira riteneva molto preziosa, ossia il nome di suo padre, Iormùngr, e di sua madre, Vervada, che significa Squarciatempeste. Mentre Iormùngr era legato a un Cavaliere, Vervada era una dragonessa selvatica che aveva deposto molte uova, ma ne aveva affidato soltanto uno ai Cavalieri: Saphira. Entrambi erano morti durante la caduta dei Cavalieri.

Certi giorni Eragon e Saphira volavano con Oromis e Glaedr, allenandosi in combattimenti aerei o visitando rovine nascoste nel cuore della Du Weldenvarden. Altri giorni invertivano i ruoli, ed Eragon accompagnava Glaedr, mentre Saphira restava sulla rupe di Tel'naeir con Oromis.

Ogni mattina Eragon si allenava alla scherma con Vanir, e ogni mattina, senza eccezione, subiva uno o più attacchi alla schiena. Per colmo di misura, l'elfo continuava a trattare Eragon con sprezzante condiscendenza; gli scoccava occhiate oblique che in apparenza non eccedevano mai i confini della cortesia, e si rifiutava di arrabbiarsi, per quanto Eragon lo provocasse. Eragon odiava lui e le sue maniere gelide e controllate. Sembrava che Vanir lo insultasse con ogni movimento. E i compagni di Vanir - che, a un primo giudizio, erano di una generazione più giovane di elfi - condividevano il suo velato disprezzo per Eragon, anche se non mostrarono mai altro che rispetto per Saphira. La loro rivalità raggiunse il culmine quando, dopo aver sconfitto Eragon sei volte di fila, Vanir abbassò la spada e disse: «Sei ancora morto, Ammazzaspettri. Che noia. Vuoi davvero continuare?» Il suo tono indicava che sarebbe stato inutile.

«Certo» grugnì Eragon. Aveva già sofferto di un attacco alla schiena, e non aveva voglia di chiacchiere. Eppure quando Vanir disse: «Dimmi, sono curioso: come hai fatto a uccidere Durza quando sei così lento? Non riesco proprio a capirlo» Eragon si sentì costretto a rispondere: «L'ho colto di sorpresa.»

«Perdonami; avrei dovuto immaginare che c'era qualche trucco.»

Eragon strinse i denti. «Se io fossi un elfo e tu un umano, non avresti scampo con la mia lama.»

«Può darsi» ribatte Vanir. Riprese la posizione e nel giro di tre secondi e due fendenti disarmò Eragon. «Ma non credo. Non dovresti vantarti davanti a uno spadaccino migliore di te, altrimenti potrebbe decidere di punirti per la tua impudenza.»

Eragon perse le staffe e attìnse al torrente di magia che scorreva nel suo profondo. Liberò l'energia repressa con una delle dodici parole minori del legare, gridando: «Malthinae!» per incatenare le gambe e le braccia di Vanir e chiudergli la bocca perché non potesse pronunciare un controincantesimo. L'elfo sgranò gli occhi, offeso.

Eragon disse: «E tu non dovresti vantarti con uno che è più esperto di te nelle arti magiche.»

Le sopracciglia scure di Vanir s'incresparono.

Senza una mossa o un sussurro, una forza invisibile colpì Eragon al petto, mandandolo a finire sul prato, a dieci iarde di distanza. Il brusco impatto col terreno lo lasciò senza fiato, e turbò il controllo che Eragon esercitava sull'incantesimo, liberando Vanir. Come ha fatto?

Marciando verso di lui, Vanir disse: «La tua ignoranza ti tradisce, umano. Non sai di cosa stai parlando. E pensare che sei stato scelto per succedere a Vrael, che ti sono stati concessi i suoi alloggi, che hai avuto l'onore di servire il Saggio Dolente...» Scosse il capo. «Mi viene la nausea al pensiero che tali privilegi siano stati concessi a una persona così indegna. Non capisci nemmeno che cosa sia o come funzioni la magia.»

La collera di Eragon montò come una marea cremisi. «Ma cosa ti ho fatto?» esclamò. «Perché mi disprezzi tanto? Preferiresti che non ci fosse nessun Cavaliere a opporsi a Galbatorix?»

«La mia opinione non ha importanza.» «Sono d'accordo, ma vorrei ascoltarla lo stesso.» «Ascoltare, come scrisse Nuala nelle Convocazioni, è il sentiero che conduce alla saggezza soltanto quando è il risultato di una decisione consapevole e non un vuoto di percezioni.»

«Parla chiaro, Vanir, e dammi una risposta onesta!» Vanir sorrise, freddo. «Ai tuoi ordini, Cavaliere.» Avvicinandosi perché soltanto Eragon potesse sentire la sua voce sommessa, l'elfo disse: «Per ottant'anni dopo la caduta dei Cavalieri, non abbiamo avuto speranze di vittoria. Siamo sopravvissuti nascondendoci con l'inganno e la magia, una misura temporanea, perché alla fine Galbatorix sarà abbastanza forte da marciare su di noi e spazzare via le nostre difese. Poi, quando ormai ci eravamo rassegnati al nostro fato, Brom e Jeod salvarono l'uovo di Saphira, e si ripresentò l'occasione di sconfiggere il folle usurpature. Immagina la nostra gioia e il nostro giubilo. Sapevamo che per resistere a Galbatorix, il nuovo Cavaliere avrebbe dovuto essere più potente di qualunque suo predecessore, più potente persino di Vrael. E come fu ricompensata la nostra pazienza? Con un altro umano come Galbatorix. E per di più... storpio. Ci hai condannati tutti, Eragon, nell'istante in cui hai toccato l'uovo di Saphira. Non aspettarti di essere il benvenuto.» Vanir si toccò le labbra con l'indice e il medio, poi passò di fianco a Eragon e si allontanò dal campo di addestramento, lasciandolo riverso a terra.

Ha ragione, pensò Eragon. Non sono adatto a questo compito. Qualunque elfo, persino Vanir, sarebbe un Cavaliere migliore di me.

In un impeto di collera, Saphira dilatò il contatto fra di loro. Credi che io abbia così poco senno, Eragon? Dimentichi che mentre ero nell'uovo, Arya mi presentò a ognuno di questi elfi, come anche a molti bambini Varden, e che io li rifiutai tutti. Non avrei scelto nessuno come mio Cavaliere che non potesse aiutare la tua razza, la mia e quella degli elfi, poiché tutti e tre condividiamo un destino comune. Tu eri la persona giusta, al posto giusto, nel momento giusto. Non scordarlo mai.

Se anche fosse vero, disse lui, era prima che Durza mi ferisse. Adesso non vedo altro che tenebre e male nel nostro futuro. Non mi arrenderò, ma temo che non riusciremo a vincere. Forse la nostra missione non è sconfiggere Galbatorix, ma preparare la strada al prossimo Cavaliere scelto dalle uova rimaste.

Sulla rupe di Tel'naeir, Eragon trovò Oromis seduto al tavolo del capanno, intento a dipingere un panorama con inchiostro nero in fondo al rotolo di pergamena che aveva finito di scrivere.

S'inginocchiò chinando il capo. «Maestro.»

Passarono quindici minuti prima che Oromis finisse di delineare i ciuffi di aghi su un contorto cespuglio di ginepro, mettesse da parte l'inchiostro, ripulisse il pennello intingendolo in un vaso di terracotta colmo d'acqua e si rivolgesse a Eragon, dicendo: «Perché sei venuto così presto?»

«Scusa se ti disturbo, ma Vanir se n'è andato prima di concludere la nostra sessione di allenamento, e non sapevo che altro fare.»

«E perché mai Vanir se ne sarebbe andato, Eragonvodhr?»

Oromis si strinse le mani in grembo, mentre Eragon gli descriveva l'episodio, concludendo: «Non avrei dovuto perdere il controllo, ma l'ho fatto, e sono sembrato ancora più sciocco per questo. Ti ho deluso, maestro.» «Sì» disse Oromis. «Vanir può anche averti provocato, ma non c'era ragione di rispondere a tono. Devi saper controllare meglio le tue emozioni, Eragon. Ti potrebbe costare la vita, se consentissi al tuo temperamento di offuscare il tuo giudizio durante un combattimento. Inoltre questi comportamenti infantili non fanno altro che rafforzare gli elfi che ti si oppongono. Le nostre macchinazioni sono sottili e non lasciano margine a errori.»

«Mi dispiace, maestro. Non accadrà più.»

Mentre Oromis sembrava disposto ad aspettare seduto in attesa dell'ora consueta per eseguire la Rimgar, Eragon colse l'occasione per domandare: «Come ha fatto Vanir a evocare la magia senza parlare?»

«Sei certo che lo abbia fatto davvero? Magari è stato aiutato da un altro elfo.»

Eragon scosse il capo. «Durante il mio primo giorno a Ellesméra, ho visto Islanzadi creare una pioggia di petali col solo battito delle mani. E Vanir ha detto che non capivo come funziona la magia. Che voleva dire?»

«Ancora una volta» disse Oromis, rassegnato, «mi chiedi informazioni per cui non sei ancora pronto. Tuttavia, date le circostanze, non posso rifiutarmi. Sappi soltanto questo: quello che chiedi non era insegnato ai Cavalieri, e non viene insegnato ai nostri maghi, finché non avevano e non hanno padroneggiato ogni altro aspetto della magia, perché è il segreto della vera natura della magia e dell'antica lingua. Coloro che lo conoscono acquisiscono grande potere, certo, ma corrono anche un terribile rischio.» Fece una breve pausa. «Com'è collegata l'antica lingua alla magia, Eragon-vodhr?»

«Le parole dell'antica lingua possono liberare l'energia racchiusa nel tuo corpo e attivare un incantesimo.» «Ah. Questo vuoi dire che certi suoni, certe vibrazioni nell'aria, in qualche modo attingono a questa energia? Suoni che possono essere prodotti per caso da qualunque creatura o cosa?»

«Sì, maestro.»

«E non lo trovi assurdo?»

Confuso, Eragon disse: «Non importa se pare assurdo, maestro; è così. Dovrei forse pensare che è assurdo che la luna cresca o decresca, o che le stagioni cambino, o che gli uccelli volino a sud d'inverno?»

«Naturalmente no. Ma come può il semplice suono realizzare così tanto? Secondo te, particolari combinazioni di tono e volume possono davvero innescare reazioni che ci consentono di manipolare l'energia?»

«Ma è così.»

«Il suono non ha alcun controllo sulla magia. Dire una parola o una frase in questa lingua non conta, l'essenziale è pensarle.» Con un guizzo del polso, una fiammella dorata comparve sul palmo di Oromis, poi scomparve. «Tuttavia, a meno che le circostanze non lo richiedano, pronunciamo ancora i nostri incantesimi ad alta voce per impedire a pensieri raminghi di spezzarli, un pericolo che corre anche il mago più esperto.»

Le implicazioni sconcertarono Eragon. Rammentò quando era quasi annegato sotto le cascate del lago Kóstha-mérna ed era stato incapace di ricorrere alla magia perché l'acqua lo circondava. Se lo avessi saputo allora, avrei potuto salvarmi da solo, pensò. «Maestro» disse, «se il suono non influisce sulla magia, perché il pensiero sì?» Oromis sorrise. «Già, perché? Innanzitutto occorre sottolineare il fatto che noi non siamo la fonte della magia. La magia esiste di per sé, indipendentemente da qualsiasi incantesimo, come i fuochi fatui nelle paludi di Arughia, il pozzo dei sogni nelle grotte di Mani fra i Monti Beor e il cristallo galleggiante di Eoam. La magia allo stato naturale è più insidiosa, imprevedibile e spesso più forte di quella che possiamo evocare.

«Tanti eoni fa, tutta la magia era così. Per usarla, bastava la capacità di percepirla con la mente, una capacità che ogni mago deve possedere, oltre al desiderio e alla forza di usarla. Tuttavia senza la struttura dell'antica lingua gli stregoni non riuscivano a controllare il proprio talento e di conseguenza sconvolsero la terra, uccidendo migliaia di persone. Col tempo scoprirono che esprimere ad alta voce le proprie intenzioni nella loro lingua li aiutava a ordinare i pensieri e a evitare errori fatali. Ma non era un metodo infallibile. Alla fine si verificò un incidente così grave che per poco non distrusse ogni forma di vita nel mondo. Abbiamo notizia dell'evento da frammenti di manoscritti che sopravvissero all'epoca, ma chi o cosa formulò l'incantesimo fatàle ci è ignoto. I manoscritti dicono che in seguito una razza chiamata il Popolo Grigio - non gli elfi, poiché eravamo giovani all'epoca - fece appello a tutte le sue risorse ed evocò un incantesimo, forse il più grande che sia mai esistito o esisterà. Tutti insieme, i membri del Popolo Grigio cambiarono la natura stessa della magia. Fecero in modo che la loro lingua, l'antica lingua, potesse controllare il risultato di un incantesimo, ossia circoscrivere la magia, così che, se uno avesse detto brucia quella porta e per caso avesse guardato verso di me e pensato a me, la magia avrebbe comunque bruciato la porta e non me. E conferirono all'antica lingua le sue due principali caratteristiche: la capacità di impedire a chiunque la parli di mentire e quella di descrivere la vera natura delle cose. Come ci riuscirono, resta un mistero.

«I manoscritti non concordano su ciò che accadde a quelli del Popolo Grigio quando portarono a compimento l'opera, ma a quanto pare l'incantesimo li prosciugò di tutte le energie e li lasciò l'ombra di se stessi. Si ritirarono nell'anonimato, scegliendo di vivere nelle loro città finché le pietre non divennero polvere, o di prendere un compagno fra le razze più giovani e passare quindi nell'oblio.»

«Allora» disse Eragon «è ancora possibile usare la magia senza l'antica lingua?»

«Come pensi che Saphira sputi fuoco? A quanto dici, non usò alcuna parola quando trasformò la tomba di Brom in diamante, né quando benedisse la bambina nel Farthen Dùr. La mente di un drago è diversa dalla nostra; non hanno bisogno di protezione dalla magia. Non possono usarla consapevolmente, a parte il fuoco, ma quando il dono li tocca, la loro forza è ineguagliabile... Sembri preoccupato, Eragon. Perché?»

Eragon si guardò le mani. «Che cosa significa questo per me, maestro?»

«Significa che continuerai a studiare l'antica lingua, perché con essa puoi realizzare molte cose che altrimenti sarebbero troppo complesse o troppo pericolose. Significa che se vieni catturato e imbavagliato, potrai ancora evocare la magia per liberarti, come ha fatto Vanir. Significa che se vieni catturato e drogato e non riesci a ricordare l'antica lingua, sì, anche allora potrai formulare un incantesimo, se le circostanze lo imporranno. E significa che se vorrai evocare un incantesimo per qualcosa che non ha nome nell'antica lingua, potrai farlo.» Fece una pausa. «Ma guardati dalla tentazione di usare questi poteri. Perfino il più saggio fra di noi non li usa a cuor leggero, per paura della morte, o di peggio.»

La mattina dopo, e per tutte le mattine che rimase a Ellesméra, Eragon duellò con Vanir, ma non perse mai più la pazienza, per quanto potesse fare o dire l'elio.

Né Eragon si sentiva in vena di sacrificare energie a quella rivalità. La schiena lo tormentava sempre più di frequente, spingendolo ai limiti della sopportazione. I violenti attacchi lo resero più sensibile: semplici azioni che prima non gli davano alcun problema adesso lo lasciavano a contorcersi a terra. Perfino la Rimgar cominciò a scatenare le crisi, via via che progrediva nelle posizioni più difficili. Non era raro che soffrisse di tre o quattro attacchi al giorno. Il volto di Eragon si fece scavato; camminava lento e si muoveva con cautela per preservare le forze. Trovava sempre più difficile pensare con lucidità o prestare attenzione alle lezioni di Oromis, e cominciò ad avere vuoti di memoria. Nel tempo libero, riprendeva in mano il rompicapo di Orik, preferendo concentrarsi sugli anelli incatenati piuttosto che sulle proprie condizioni. Quando erano insieme, Saphira insisteva perché le salisse in groppa e si adoperava in ogni modo per farlo stare comodo e risparmiargli la fatica.

Una mattina, mentre si teneva stretto a una delle punte sul suo collo, Eragon disse: Ho trovato un nuovo nome per il dolore.

Quale sarebbe?

L'Obliatore. Perché quando soffri, non esiste nient'altro. Nessun pensiero. Nessuna emozione. Soltanto il bisogno di sfuggire al dolore. Quando è abbastanza forte, l'Obliatore ci priva di tutto ciò che ci rende quello che siamo, finché non siamo ridotti a creature inferiori agli animali, creature con un solo desiderio e un solo scopo: fuggire. Un nome appropriato.

Sto crollando, Saphira, come un vecchio cavallo che ha arato troppi campi. Devi sostenermi con la tua mente, altrimenti rischio di perdermi e dimenticare chi sono.

Non ti lascerò mai.

Quel giorno, Eragon fu colto da tre attacchi consecutivi mentre duellava con Vanir, e altri due durante la Rimgar. Mentre si scioglieva dal gomitolo in cui si era contratto, Oromis disse: «Di nuovo, Eragon. Devi perfezionare l'equilibrio.»

Eragon scosse il capo e sottovoce ringhiò: «No.» Incrociò le braccia per nascondere il tremito.

«Cosa?»

«No.»

«Alzati, Eragon, e riprova.»

«No! Fallo tu, se vuoi. Io ci rinuncio.»

Oromis s'inginocchiò al suo fianco e gli posò una mano fresca sulla guancia. Lo guardò con tanta tenerezza che Eragon capì la profonda compassione che l'elfo nutriva per lui e seppe che, se possibile, Oromis si sarebbe volentieri fatto carico del suo dolore per alleviargli il tormento. «Non abbandonare la speranza» gli disse. «Mai.» A un tratto, Eragon ebbe la sensazione di ricevere un flusso di energia da parte del vecchio elfo. «Siamo Cavalieri. Ci troviamo fra la luce e la tenebra, e siamo noi a mantenere l'equilibrio fra le due. L'ignoranza, la paura, l'odio: sono questi i nostri nemici. Respingili con tutte le tue forze, Eragon, altrimenti perderemo.» Si alzò e tese una mano a Eragon. «Ora alzati, Ammazzaspettri, e dimostra di saper controllare gli istinti della carne!»

Eragon trasse un profondo respiro e si appoggiò su un braccio per alzarsi, facendo una smorfia. Piegò le gambe sotto di sé, fece una pausa, poi si erse in tutta la sua statura e guardò Oromis negli occhi.

L'elfo annuì.

Eragon rimase in silenzio finché non ebbero completato la Rimgar, e mentre si lavava nel ruscello, disse: «Maestro.» «Sì, Eragon?»

«Perché devo sopportare questa tortura? Tu potresti usare la magia per darmi le capacità che mi servono, per plasmare il mio corpo come fai con gli alberi e le piante.»

«Potrei, ma se lo facessi, tu non capiresti come possiedi il corpo che hai e le tue capacità, né come mantenerle. Non esistono scorciatoie per il cammino che hai intrapreso, Eragon.»

L'acqua fredda si chiuse intorno al corpo di Eragon quando si immerse nella corrente. Infilò la testa sotto la superficie, aggrappandosi a uno scoglio per non farsi trasportare via, e rimase a fare il morto a galla, sentendosi come una freccia che fila nell'acqua.

Narda

Roran si appoggiò su un ginocchio e si grattò la nuova barba, intento a osservare Narda sotto di lui. La cittadina era scura e compatta, come una crosta di pane di segala incastrata in una rientranza della costa. Più in là, il mare violetto scintillava sotto gli ultimi raggi del sole morente. L'acqua lo affascinava; era così diversa dal panorama a cui era abituato.

Ce l'abbiamo fatta.

Scendendo dal promontorio, Roran tornò verso la sua tenda, inspirando l'aria salmastra a pieni polmoni. Si erano accampati in alto, sulle colline ai piedi della Grande Dorsale, per evitare di essere scorti da chiunque potesse allertare l'Impero.

Mentre camminava fra i gruppi di compaesani assiepati sotto gli alberi, Roran studiò le loro condizioni con dolore e rabbia. Il lungo viaggio dalla Valle Palancar li aveva lasciati esausti, laceri e malati; i loro volti erano scavati per la carenza di cibo; i loro vestiti erano ridotti a brandelli. Molti si erano fasciati le mani di stracci per proteggerle dal gelo delle dure notti montane. Settimane di trasporto di carichi pesanti avevano incurvato schiene un tempo orgogliosamente diritte. La vista peggiore erano i bambini: magri, e tranquilli in modo innaturale. Meritano di meglio, pensò Roran. Sarei nelle grinfie dei Ra'zac, ora, se non mi avessero protetto. Erano molti quelli che si avvicinavano a lui, in cerca soltanto

di una pacca sulle spalle o una parola di conforto. Alcuni gli offrivano avanzi di cibo, che lui rifiutava o che, quando insistevano, prendeva per dare a qualcun altro. Quelli che si tenevano a distanza, lo fissavano con occhi spenti e infossati. Sapeva quello che dicevano di lui, che era pazzo, che era posseduto dagli spiriti, che nemmeno i Ra'zac avrebbero potuto sconfiggerlo in battaglia.

Valicare la Grande Dorsale si era rivelato più arduo di quanto si era aspettato. Gli unici sentieri nella foresta erano piste di caccia, troppo strette, ripide e tortuose per il folto gruppo. Così si erano visti costretti ad aprirsi la strada a colpi di accetta fra alberi e cespugli, un compito gravoso che non piaceva a nessuno, se non altro perché rendeva più facile all'Impero rintracciarli. L'unico vantaggio della situazione fu che l'esercizio fisico aiutò Roran a recuperare l'uso della spalla ferita, anche se aveva ancora qualche problema ad alzare completamente il braccio.

Altri ostacoli si erano presentati lungo il percorso. Una bufera improvvisa li aveva sorpresi su un valico brullo, troppo alto perché vi crescesse la vegetazione. Tre persone erano morte assiderate nella neve: Hida, Brenna e Nesbit, tutti piuttosto avanti negli anni. Quella notte, per la prima volta, Roran aveva avuto la certezza che tutto il villaggio sarebbe morto per averlo seguito. Subito dopo, un ragazzo si era fratturato un braccio in una caduta, e poi Southwell era annegato in un torrente di montagna. Lupi e orsi avevano attaccato regolarmente il bestiame, incuranti dei falò che i contadini avevano cominciato ad accendere una volta lontani dalla Valle Palancar e dai maledetti soldati di Galbatorix. La fame li aveva tormentati come un parassita tenace, artigliando le loro viscere, divorando la loro forza ed erodendo la loro volontà di proseguire.

Eppure erano sopravvissuti, mostrando la stessa ostinazione e la stessa tenacia dei loro antenati, che erano rimasti nella Valle Palancar nonostante le carestìe, le guerre e le pestilenze. La gente di Carvahall poteva anche impiegare un secolo a prendere una decisione, ma quando lo faceva, niente poteva fermarla.

Ora che avevano raggiunto Narda, l'accampamento era pervaso da un senso di realizzazione e di speranza. Nessuno sapeva cosa li aspettava, ma il fatto di essere arrivati così lontano ispirava loro fiducia.

Non saremo al sicuro finché non lasceremo l'Impero, pensò Roran. E dipende da me garantire l'incolumità di ciascuno di noi. Sono diventato responsàbile dell'intera comunità... Una responsabilità che accettava volentieri, perché gli permetteva sia di proteggere i compaesani da Galbatorix, sia di perseguire il suo obiettivo: 'salvare Katrina. È passato tanto tempo da quando è stata catturata. Sarà ancora viva? Rabbrividì e scacciò quel pensiero terribile. Sarebbe impazzito sul serio se si fosse permesso di indugiare sulla sorte di Katrina.

All'alba, Roran, Horst, Baldor, i tre figli di Loring e Gertrude si avviarono verso Narda. Scesero dalle colline sulla strada maestra, attenti non farsi vedere finché l'impressione di respirare sott'acqua. Roran strinse la presa sul martello che sorvegliavano l'ingresso. Esaminarono il gruppo di Roran con sguardi severi, indugiando sui loro abiti laceri, poi

non emersero sul viale. In pianura, l'aria era più densa; Roran aveva

portava alla cintura avvicinandosi ai cancelli della città. Due soldati abbassarono le asce da guerra e sbarrarono l'accesso.

«Da dove venite?» chiese l'uomo a destra. Non poteva avere più di venticinque anni, ma i suoi capelli erano completamente bianchi.

Gonfiando il petto, Horst incrociò le braccia e disse: «Dalle parti di Teirm, se non ti dispiace.»

«Che cosa siete venuti a fare?»

«Commercio. Siamo stati mandati dai bottegai che vogliono comprare merci direttamente da Narda, invece che attraverso i soliti mercanti.»

«Tu dici, eh? E che tipo di merci?»

Quando Horst esitò, Gertrude disse: «Erbe e medicine, per quanto mi riguarda. Le piante che ho ricevuto da qui o erano troppo vecchie, o ammuffite. Ho bisogno di scorte fresche.»

«I miei fratelli e io» intervenne Darmen «siamo venuti a trattare con i vostri calzolai. Le scarpe fatte in stile nordico vanno di moda a Dras-Leona e Urù'baen.» Sogghignò. «Almeno lo erano quando ci siamo messi in marcia.» Horst annuì con rinnovata fiducia. «Già. E io sono qui per comprare ferro vecchio per il mio padrone.» «Capisco. E quello lì? Tu perché sei venuto?» chiese il soldato, indicando Roran con l'ascia.

«Ceramiche» rispose Roran.

«Ceramiche?»

«Ceramiche.»

«A che ti serve il martello, allora?»

«Come pensi che si ottenga l'effetto screpolato su una bottiglia o su un vaso? Non viene mica da solo. Devi colpirli.» Roran ricambiò lo sguardo incredulo dell'uomo canuto con un'espressione l'affermazione.

Il soldato borbottò e fece di nuovo scorrere lo sguardo su tutti loro. «Sarà pure, commercianti. Gatti randagi morti di fame, direi piuttosto.»

«Abbiamo avuto difficoltà per la strada» disse Gertrude.

«Può darsi. Ma se venite da Teirm, dove sono i vostri cavalli?»

«Li abbiamo lasciati all'accampamento» rispose Hamund, facendo un vago cenno verso sud, la direzione opposta rispetto a dove si erano nascosti gli abitanti del villaggio.

«Non avete soldi per alloggiare in città, eh?» Con una risatina di scherno, il soldato alzò l'ascia e fece cenno al compagno di fare altrettanto. «D'accordo, passate pure, ma non voglio problemi, altrimenti vi rispediamo da dove siete venuti, o peggio.»

Una volta superato il cancello, Horst spinse Roran contro un muro e gli ringhiò nell'orecchio: «Ma che razza di stupidaggini vai dicendo? Fare le screpolature a furia di martellate! Cerchi rogne? Non possiamo...» S'interruppe quando Gertrude lo tirò per una manica.

«Guardate» mormorò la guaritrice.

A sinistra dell'ingresso c'era un tabellone per gli avvisi largo sei piedi, con una piccola tettoia a spiovente per proteggere la pergamena ingiallita. Metà del tabellone era dedicato ad avvisi ufficiali e proclami. Sull'altra metà erano affissi manifesti che ritraevano la faccia di vari criminali. In primo piano campeggiava un disegno di Roran senza barba. Sconvolto, Roran si guardò intorno per assicurarsi che nessuno per la strada fosse abbastanza vicino da confrontare la sua faccia con l'illustrazione, poi rivolse la sua attenzione alla pergamena. Si era aspettato che l'Impero li inseguisse, ma fu lo stesso terribile averne la prova. Galbatorix sta spendendo una fortuna nel tentativo di acciuffarci. Quando erano sulla Grande Dorsale, era stato facile dimenticare che esisteva il mondo esterno. Scommetto che manifesti del genere sono affissi in tutto l'Impero. Sogghignò, contento di essersi fatto crescere la barba, e che lui e gli altri avessero deciso di adottare nomi fittizi finché restavano a Narda.

In fondo al manifesto era scritta la ricompensa. Garrow non aveva mai insegnato a leggere a Roran ed Eragon, ma aveva insegnato loro i numeri perché, diceva: "Dovete sapere quanto avete, quanto vale, e quanto vi viene pagato, per non farvi imbrogliare da qualche furfante senza scrupoli". Così Roran vide che l'Impero offriva diecimila corone per la sua cattura, abbastanza per vivere comodamente per diversi decenni. In un certo senso perverso, l'entità della ricompensa lo inorgoglì, facendolo sentire importante.

Poi il suo sguardo si spostò sul manifesto accanto.

Eragon.

Roran si sentì attanagliare le viscere come se lo avessero colpito, e per qualche secondo si dimenticò di respirare. Allora è vivo!

Dopo un primo momento di sollievo, Roran sentì montare l'antica rabbia per il ruolo che Eragon aveva avuto nella morte di Garrow e nella distruzione della fattoria, accompagnata da un cocente desiderio di sapere perché l'Impero dava la caccia a Eragon. Deve avere a che fare con quella pietra blu e la prima visita dei Ra'zac a Carvàhall. Ancora una volta, Roran si domandò in quale tipo di oscura macchinazione lui e il resto del villaggio erano rimasti implicati. Invece di una ricompensa, sul poster di Eragon c'erano due righe di rune. «Di quale crimine è accusato?» chiese Roran a Gertrude.

La pelle intorno agli occhi di Gertrude s'increspò, mentre aguzzava la vista per leggere. «Alto tradimento, per tutti e due. Dice che Galbatorix assegnerà una contea a chiunque catturi Eragon, ma coloro che ci proveranno devono stare attenti perché è molto pericoloso.»

Roran sbattè le palpebre, incredulo. Eragon? Gli sembrava inconcepibile, finché Roran non considerò come lui stesso era cambiato nelle ultime settimane. Lo stesso sangue scorre nelle nostre vene. Eragon potrebbe aver compiuto chissà quali imprese da quando è fuggito.

vacua, sfidandolo a confutare

ma a me non sembrate proprio A bassa voce, Baldor disse: «Se uccidere gli uomini di Galbatorix e sconfiggere i Ra'zac ti fa valere appena diecimila corone, cosa può aver fatto per valere una contea?»

«Forse ha fregato il re in persona» suggerì Lame.

«Basta così» disse Horst. «Tenete a freno la lingua, o finiremo nei guai. E tu, Roran, non attirare l'attenzione su di te. Con una ricompensa del genere, la gente non farà altro che osservare gli stranieri per trovare qualcuno che corrisponda alla tua descrizione.» Passandosi una mano fra i capelli, Horst si tirò su la cinta e aggiunse: «Bene. Abbiamo del lavoro da fare. Tornate qui a mezzogiorno a riferire.»

A quel punto, il gruppo si divise in tre. Darmen, Lame e Hamund andarono in cerca di cibo per i compagni, sia per l'immediato consumo che per il prossimo tratto di viaggio. Gertrude - come aveva detto alla guardia - andò a rifornirsi di erbe, unguenti ed essenze. Roran, Horst e Baldor presero la via del porto, dove speravano di poter noleggiare una nave per trasportare il villaggio nel Surda, o almeno fino a Teirm.

Quando raggiunsero la banchina di legno stagionato che copriva la spiaggia, Roran si fermò per ammirare l'oceano, che era grigio per le nuvole basse e costellato di increspature bianche sollevate da raffiche di vento. Non avrebbe mai immaginato che l'orizzonte potesse essere tanto piatto. Il rimbombo sordo dell'acqua contro i piloni della banchina gli dava la sensazione di stare su un enorme tamburo. L'odore del pesce - fresco, eviscerato, o marcio - sovrastava qualsiasi altro odore.

Spostando lo sguardo da Roran a Baldor, che era ugualmente ammutolito dallo stupore, Horst disse: «Che vista magnifica, eh?»

«Sì» disse Roran.

«Ti fa sentire piccolo, non trovi?»

«Già» disse Baldor.

Horst annuì. «Ricordo che la prima volta che vidi l'oceano mi fece lo stesso effetto.»

«Quando fu?» chiese Roran. Oltre agli stormi di gabbiani che volteggiavano sulla baia, notò uno strano uccello appollaiato sul molo. L'animale aveva il corpo sgraziato e un lungo becco dritto che teneva aderente al petto come un vecchio pomposo, la testa e il collo bianchi, e il torso scuro. Uno degli uccelli alzò il becco, rivelando una borsa di pelle sotto.

«Bartram, il fabbro che c'era prima di me» disse Horst, «morì quando avevo quindici anni, un anno prima della fine del mio apprendistato. Dovevo trovare un fabbro che terminasse il lavoro di un altro, così andai a Ceunon, che si trova sulle rive del Mare del Nord. Lì conobbi Kelton, un vecchio che però sapeva il fatto suo. Acconsentì a insegnarmi.» Horst rise. «Il tempo di finire il mio apprendistato, e non sapevo se dovevo ringraziarlo o mandarlo al diavolo.» «Ringraziarlo, direi» fece Baldor. «Altrimenti, non avresti mai sposato la mamma.»

Roran s'incupì mentre scrutava il lungomare. «Non ci sono molte navi» osservò. Due imbarcazioni erano ormeggiate all'estremità sud del molo, e una terza dalla parte opposta, senza altro in mezzo se non pescherecci e piccoli battelli. Della coppia a sud, una aveva l'albero spezzato. Roran non aveva esperienza di navi, ma a suo avviso nessuna delle imbarcazioni era abbastanza grande da trasportare quasi trecento passeggeri.

Passando da una nave all'altra, i tre scoprirono che erano già tutte ingaggiate. E ci sarebbe voluto oltre un mese per riparare quella con l'albero rotto. L'imbarcazione a fianco, la Solcaonde, era armata di vele di pelle, pronta ad avventurarsi verso nord, diretta alle infide isole dove cresceva la Seithr. E YAlbatros, l'altra nave, era appena arrivata dalla lontana Feinster e doveva aspettare un nuovo calafataggio prima di partire col suo carico di lana. Un portuale rise alle domande di Horst. «Siete arrivati troppo tardi, o troppo presto, dipende dai punti di vista. Le navi che viaggiano in primavera sono arrivate e partite due, tre settimane fa. Fra un altro mese, cominceranno a soffiare i venti da nordovest, e allora torneranno i cacciatori di foche e balene e arriveranno navi da Teirm e dal resto dell'Impero per caricare pelli, carne e olio. Forse allora vi capiterà di ingaggiare un capitano con la stiva vuota. Nel frattempo, non si vede molto traffico da queste parti.»

Disperato, Roran chiese: «Non c'è un altro modo per trasportare merci da qui a Teirm? Non dev'essere necessariamente qualcosa di comodo o veloce.»

«Be'» disse l'uomo, spostando il peso della cassa che portava sulle spalle, «se non dev'essere qualcosa di veloce e dovete arrivare soltanto a Teirm, provate a chiedere a Clovis, laggiù.» Indicò una serie di rimesse fra due moli dove si custodivano le barche. «Possiede alcune chiatte con cui trasporta il grano in autunno. Il resto dell'anno, Clovis fa il pescatore per vivere, come quasi tutti qui a Narda.» Poi si accigliò. «Che tipo di merci avete? Le pecore sono state già tosate, e non ci sono ancora raccolti pronti.»

«Un po' di questo, un po' di quello» disse Horst, lanciando una moneta di rame al lavoratore.

L'uomo intascò la moneta con una strizzatina d'occhio. «Ben detto, signore. Un po' di questo, un po' di quello. Sento puzza di bruciato, ma non dovete aver timore del vecchio Ulric: acqua in bocca! Ci vediamo, signori.» E si allontanò fischiettando.

Continuando a fare domande, scoprirono che Clovis non era al porto. Grazie alle indicazioni ottenute, si diressero verso casa sua, all'altro capo di Narda, dove arrivarono dopo una buona mezz'ora e trovarono Clovis intento a piantare bulbi di iris sul vialetto di accesso. Era un uomo tarchiato con le guance bruciate dal sole e la barba sale e pepe. Impiegarono un'altra ora per convincere il marinaio di essere seriamente interessati alle sue chiatte, malgrado la stagione, e infine tornarono tutti alle rimesse, dove l'uomo aprì il lucchetto delle porte e mostrò loro tre barconi identici, la Merrybell, la Edeline e la Cinghiale Rosso.

Ogni chiatta era lunga settantacinque piedi e larga venti, verniciata di rosso ruggine. Avevano i ponti scoperti che si potevano coprire con la tela cerata, un albero che si poteva innalzare al centro con una singola vela quadra, e una tuga con le cabine sulla parte posteriore dell'imbarcazione, o poppa, come la chiamò Clovis.

«Hanno un pescaggio maggiore rispetto alle chiatte fluviali» spiegò Clovis, «perciò non dovete temere di capovolgervi col mare grosso, anche se sarà meglio evitare una vera tempesta. Queste chiatte non sono fatte per il mare aperto, ma per navigare sotto costa. E questo è il periodo peggiore per prendere il mare. Parola mia, è un mese ormai che scoppia un temporale ogni pomeriggio.»

«Hai un equipaggio per tutte e tre?» chiese Roran.

«Be', sapete... c'è un problema. La maggior parte degli uomini che di solito ingaggio sono partiti settimane fa per la caccia alle foche. Dato che mi servono soltanto dopo il raccolto, sono liberi di andare e venire come vogliono per il resto dell'anno... Sono sicuro che voi gentiluomini comprenderete la mia posizione.» Clovis abbozzò un sorriso, poi fece scorrere lo sguardo da Roran a Horst e a Baldor, come se non sapesse a chi rivolgersi.

Roran percorse tutta la lunghezza della Edeline, in cerca di danni. La chiatta era vecchia, ma il legno era sano e la vernice fresca. «Se rimpiazziamo gli uomini dell'equipaggio che mancano, quanto ci verrà a costare arrivare a Teirm con tutte e tre le chiatte?»

«Dipende» rispose Clovis. «I marinai guadagnano quindici monete di rame al giorno, più il cibo e una razione di whisky. Quello che guadagnano i vostri uomini è affar vostro. Non li metto sulla mia lista paga. Di norma, assumo anche delle guardie per ciascuna chiatta,

ma sono...»

«Andati a caccia di foche, certo» tagliò corto Roran. «Penseremo noi anche alle guardie.»

Il pomo della gola abbronzata di Clovis sussultò. «Questo mi sembra ragionevole... perciò, vediamo... oltre alla paga dell'equipaggio, chiedo duecento corone, più un indennizzo per eventuali danni alle chiatte da parte dei vostri uomini, più... come armatore e capitano... il dodici percento dei proventi della vendita del carico.»

«Non ci saranno proventi.»

Questo, più di ogni altra cosa, parve innervosire Clovis. Si massaggiò la fossetta del mento con il pollice sinistro, fece per parlare due volte, s'interruppe, e alla fine disse: «In questo caso, altre quattrocento corone alla fine del viaggio. Se posso permettermi... cosa trasportate?»

L'abbiamo spaventato, pensò Roran. «Bestiame.»

«Ossia pecore, mucche, cavalli, capre, buoi...»

«Abbiamo un vasto assortimento di animali.»

«E perché volete portarli a Teirm?»

«Abbiamo le nostre buone ragioni.» Roran quasi sorrise davanti alla confusione di Clovis. «Prenderesti in considerazione l'idea di navigare oltre Teirm?»

«No! Teirm è il limite massimo. Non conosco le acque più avanti, né voglio stare troppo tempo lontano da mia moglie e mia figlia.»

«Quando potresti essere pronto?»

Clovis esitò e spostò il peso da un piede all'altro. «Direi fra cinque, sei giorni... No, meglio fra una settimana; ho degli affari da sbrigare prima di partire.»

«Ti pagheremo altre dieci corone se partiremo dopodomani.»

«Non...»

«Dodici corone.»

«E sia. Dopodomani» accettò Clovis. «In un modo o nell'altro, sarò pronto.»

Facendo scorrere la mano sul parapetto della chiatta, Roran annuì senza guardare Clovis e disse: «Posso avere un minuto per discutere con i miei soci da solo?»

«Ma certo. Andrò a fare una camminata sul molo finché non avrete finito.» Clovis si affrettò verso la porta della rimessa. Sulla soglia si fermò a chiedere: «Devi scusarmi, ma come hai detto che ti chiami? Temo mi sia sfuggito prima, e la mia memoria a volte è terribile.»

«Fortemartello. Mi chiamo Fortemartello.»

«Ah, certo. Bel nome.»

Quando la porta si chiuse, Horst e Baldor si avvicinarono a Roran. Baldor disse: «Non possiamo permetterci di ingaggiarlo.»

«Non possiamo permetterci di non ingaggiarlo» replicò Roran. «Non abbiamo l'oro per comprarci le chiatte, né mi sognerei di imparare a governarle da solo quando la vita di tutti dipende da questo. Sarà più rapido e più sicuro pagare un equipaggio.»

«Resta sempre troppo costoso» disse Horst.

Roran tamburellò con le dita sul parapetto. «Possiamo pagare la cifra iniziale di duecento corone. Una volta raggiunta Teirm, suggerisco o di rubare le chiatte e sfruttare quanto avremo imparato durante il viaggio, o di neutralizzare Clovis e i suoi uomini finché non saremo in grado di fuggire con altri mezzi. In questo modo, eviteremo di pagare le altre quattrocento corone e le paghe dei marinai.»

«Mi ripugna l'idea di ingannare un uomo onesto» disse Horst. «Mi si rivolta lo stomaco.»

«Nemmeno a me va a genio, ma quale alternativa abbiamo?»

«Come farai a imbarcare tutto il villaggio sulle chiatte?»

«Diremo a Clovis di fermarsi un miglio più a sud, lungo la costa, lontano da Narda.»

Horst sospirò. «D'accordo, faremo così, ma mi resta l'amaro in bocca. Baldor, va' a chiamare Clovis, e concludiamo questo accordo.»

Quella sera gli abitanti del villaggio si radunarono intorno a un piccolo falò per Accovacciato a terra, Roran fissava le braci pulsanti mentre ascoltava Gertrude e ascoltare le novità da Narda. i tre fratelli raccontare le loro avventure separate. La notizia dei manifesti di Roran ed Eragon suscitò mormorii di apprensione nel gruppo. Quando Darmen ebbe finito, Horst prese il suo posto e, con frasi brevi e concise, riferì della mancanza di navi adeguate a Narda, di come il portuale li avesse indirizzati verso un certo Clovis, e dell'accordo che avevano stretto con quest'ultimo. Ma nel momento in cui pronunciò la parola chiatte, le voci irate e scontente dei compaesani si levarono a coprire la sua.

Facendosi largo fino alla prima fila, Loring alzò le braccia per richiamare l'attenzione. «Chiatte?» disse il calzolaio. «Chiatte? Non vogliamo delle schifosissime chiatte!» Sputò per terra, mentre gli altri approvavano a gran voce. «Silenzio, tutti quanti!» esclamò Delwin. «Ci sentiranno, se continuiamo così.» Quando il crepitio delle fiamme fu l'unico suono udibile, continuò con voce più sommessa: «Sono d'accordo con Loring. Le chiatte sono inaccettabili. Sono lente e vulnerabili. E staremo pigiati come sardine, senza un minimo di intimità, ed esposti alle intemperie per chissà quanto tempo. Horst, Elain è incinta di sei mesi. Non puoi aspettarti che lei e i malati restino sotto il sole cocente per settimane e settimane.»

«Possiamo stendere tele cerate sui ponti» replicò Horst. «Non sarà molto, ma servirà a proteggerci dal sole e dalla pioggia.»

La voce di Brigit si levò sul brusìo della folla. «A me preoccupa qualcos'altro.» La gente si fece da parte per farla passare. «Con le duecento corone che dobbiamo a Clovis, e il denaro che Darmen e i suoi fratelli hanno speso, saremo praticamente al verde. Al contrario di quelli che abitano in città, la nostra ricchezza non consiste in oro, ma in proprietà e bestiame. Le nostre proprietà le abbiamo perdute, e ci restano pochi animali. Se anche diventassimo pirati e rubassimo quelle chiatte, come potremo rifornirci di altri viveri a Teirm o comprarci un passaggio per il sud?» «La cosa importante» borbottò Horst «è arrivare a Teirm. Una volta lì, ci preoccuperemo di come fare... Forse dovremo ricorrere a misure più drastiche.»

Il volto ossuto di Loring si trasformò in una massa di rughe. «Drastiche? Che intendi per drastiche? Siamo già stati drastici. Tutta questa avventura è drastica. Non m'importa quello che dici; non salirò su quelle dannate chiatte, non dopo quello che abbiamo passato sulla Grande Dorsale. Le chiatte sono fatte per trasportare granaglie e animali. Noi vogliamo una nave con cabine e cuccette dove dormire comodi. Perché non aspettiamo un'altra settimana e vediamo se arriva una vera nave da ingaggiare per il viaggio? Che male c'è? Oppure, perché non...» Continuò a concionare per altri quindici minuti, ammassando una quantità di obiezioni prima di cedere a Thane e Ridley, che esposero i loro argomenti. La conversazione si interruppe quando Roran allungò le gambe e si erse in tutta la sua statura, riducendo il villaggio al silenzio con la sua presenza soltanto. I compaesani attesero, col fiato sospeso, sperando in un altro dei suoi discorsi visionari.

«O così, o proseguiamo a piedi» disse.

Poi andò a dormire.

Il martello torna a colpire

La luna era alta nel firmamento stellato quando Roran uscì dalla tenda che condivideva con Baldor, camminò fino ai margini dell'accampamento e diede il cambio ad Albriech.

«Niente da riferire» sussurrò Albriech, poi si allontanò.

Roran incordò l'arco e piantò tre frecce nel terreno molle, a portata di mano, poi si avvolse in una coperta e si rannicchiò appoggiato a un masso lì vicino. La posizione gli consentiva una visuale completa delle colline buie. Com'era sua abitudine, Roran suddivise il panorama in quadranti, esaminando ciascuno per un minuto intero, attento a qualsiasi movimento o sprazzo di luce che potesse tradire la presenza del nemico. Ma la sua mente cominciò a vagare, saltando da un soggetto all'altro con la logica appannata dei sogni, distraendolo dal suo compito. Si morse l'interno della guancia per costringersi a recuperare la concentrazione. Restare sveglio era difficile, con quel clima mite... Roran era contento che la sorte non gli avesse assegnato uno dei due turni di guardia che precedevano l'alba, perché non davano l'opportunità di recuperare il sonno perduto e ci si sentiva stanchi per tutto il giorno. Un'improvvisa folata di vento lo fece rabbrividire; si sentì formicolare le orecchie e rizzare i capelli sul collo, pervaso da un presagio di malvagità che lo spaventò, cancellando ogni altro pensiero, tranne la convinzione che lui e il resto del villaggio erano in mortale pericolo. Tremava come

se avesse la febbre, il cuore gli martellava nel petto, e dovette resistere all'impulso di mettersi a correre. Che cosa mi succede? Gli costò uno sforzo immane persino incoccare una freccia.

A est, un'ombra si staccò dall'orizzonte. Visibile soltanto come uno spazio vuoto fra le stelle, si spostò lenta come un velo strappato fino a coprire la luna, dove si fermò, librandosi sospesa. Illuminate da dietro, Roran riconobbe le ali translucide di una delle cavalcature dei Ra'zac.

La nera creatura aprì il becco ed emise un lungo, lacerante strido. Roran trasalì di dolore per l'acutezza e la frequenza del grido. Gli feriva i timpani, raggelandogli il sangue nelle vene, e sostituì la speranza e la gioia con l'angoscia più cupa. L'ululato svegliò tutta la foresta. Gli uccelli e gli animali nel raggio di miglia esplosero in un coro di schiamazzi terrorizzati, compresi - notò Roran sgomento i pochi capi superstiti del bestiame del villaggio.

Correndo a testa bassa di albero in albero, Roran tornò all'accampamento, sussurrando a chiunque incontrasse: «I Ra'zac sono qui. Non fiatare e resta dove sei.» Vide le altre sentinelle muoversi fra i contadini spaventati, diffondendo lo stesso messaggio.

Fisk emerse in fretta e furia dalla sua tenda con una lancia in mano e ruggì: «Ci attaccano? Chi ha suonato quei maledetti...» Roran lo placcò per farlo tacere, lasciandosi sfuggire un lamento soffocato quando caddero a terra e lui urtò la spalla destra ferita contro il carpentiere.

«Ra'zac» mormorò Roran a Fisk.

Fisk rimase immobile e domandò con un filo di voce: «Che cosa posso fare?»

«Aiutami a calmare gli animali.»

Insieme attraversarono l'accampamento fino al campo vicino, dove erano stati radunati i muli, i cavalli, le pecore e le capre. I contadini proprietari del grosso del bestiame dormivano con loro, ed erano già svegli e impegnati ad ammansire le bestie. Roran ringraziò la cautela che lo aveva spinto a suggerire di tenere gli animali disseminati lungo i margini del campo, dove gli alberi e i cespugli li nascondevano da occhi ostili.

Mentre cercava di tranquillizzare un gruppo di pecore, Roran alzò lo sguardo verso la terribile ombra nera che ancora oscurava la luna, come un gigantesco pipistrello. Con orrore, si accorse che cominciava a spostarsi verso di loro. Se quella creatura grida ancora, siamo spacciati.

Quando il Ra'zac volò in cerchio su di loro, gli animali si zittirono, tranne un mulo che insisteva a emettere un rauco hi-ho. Senza un attimo di esitazione, Roran si calò su un ginocchio, incoccò una freccia e colpì l'asino fra le costole. La sua mira fu precisa e l'animale stramazzò senza emettere un suono.

Troppo tardi, però; il raglio aveva già insospettito il Ra'zac. Il mostro voltò la testa verso la radura e cominciò a scendere con gli artigli distesi, preceduto dal suo alito fetido.

Questo è il momento di vedere se si può uccidere un incubo, pensò Roran. Fisk, accovacciato accanto a lui nell'erba, alzò la lancia, preparandosi a scagliarla non appena il mostro fosse arrivato a tiro.

Proprio mentre Roran tendeva l'arco, nel tentativo di cominciare e finire la battaglia con un'unica freccia ben diretta, fu distratto da un clamore nella foresta.

Un branco di cervi sbucò dalla vegetazione, piombando in massa nel campo, ignorando uomini e animali nella frenetica fuga dai Ra'zac. Per quasi un minuto, i cervi balzarono intorno a Roran, calpestando il terreno molle con gli zoccoli, il chiaro di luna che si rifletteva nel bianco dei loro occhi rotondi. Erano così vicini che riusciva a sentire i tiepidi ansiti del loro respiro affannato.

La moltitudine di cervi doveva aver nascosto gli abitanti del villaggio, perché, dopo un ultimo giro di ricognizione sul campo, il mostro alato virò verso sud e si allontanò lungo la Grande Dorsale, perdendosi nella notte. Roran e i suoi compagni rimasero immobili come conigli braccati, nel timore che il Ra'zac si fosse allontanato solo per farli uscire allo scoperto, o che il gemello della creatura fosse nascosto nei paraggi. Aspettarono per ore, tesi e angosciati, senza osare muoversi se non per incordare un arco.

Quando la luna fu per tramontare, lo strido agghiacciante del Ra'zac risuonò in lontananza. Poi più nulla. Siamo stati fortunati, si disse Roran, quando si destò il mattino dopo. Ma non possiamo contare sulla fortuna per salvarci, la prossima volta.

Dopo la comparsa dei Ra'zac, nessuno dei contadini osò più protestare contro le chiatte. Al contrario, erano così smaniosi di partire, che molti chiesero a Roran se non fosse possibile prendere il mare quel giorno stesso invece di aspettare l'indomani.

«Lo vorrei anch'io» disse, «ma c'è ancora molto da fare.»

Rinunciando alla colazione, lui, Horst e un gruppo di altri uomini scesero a Narda. Roran sapeva che rischiava di essere riconosciuto, ma la loro missione era troppo importante perché lui non ci fosse. Inoltre era convinto che il suo attuale aspetto fosse molto diverso dal ritratto sul manifesto dell'Impero, e che nessuno avrebbe accostato l'uno all'altro. Non ebbero difficoltà a entrare, poiché c'erano due sentinelle diverse alle porte della città, e andarono al molo per consegnare duecento corone a Clovis, impegnato a supervisionare una squadra di uomini che approntavano le chiatte per il mare.

«Grazie, Fortemartello» disse, legandosi il sacchetto di monete alla cintura. «Non c'è niente di meglio che il giallo dell'oro per illuminare la giornata di un uomo.» Li condusse a un tavolo da lavoro dove srotolò una mappa delle acque che circondavano Narda, completa di appunti sulla forza delle diverse correnti; segnalazioni di scogli, banchi di sabbia e altri pericoli; e misure annotate in decenni di scandagli. Tracciando una riga con l'indice da Narda fino a una piccola insenatura poco più a sud, Clovis disse: «Qui imbarcheremo il bestiame. Le maree sono deboli in questo periodo dell'anno, ma dobbiamo pur sempre evitare di combatterle, perciò partiremo subito dopo l'alta marea.»

«Alta marea?» disse Roran. «Non sarebbe più facile aspettare la bassa, e poi lasciare che ci porti al largo?» Clovis si massaggiò un lato del naso, con uno scintillio negli occhi. «Già, sarebbe più facile, e molto spesso comincio un viaggio così. Ma quello che non voglio è arrivare sulla spiaggia, caricare gli animali, e trovarmi col riflusso dell'alta marea che spinge verso terra. Non correremo questo rischio, così, ma dovremo muoverci in fretta, per non restare all'asciutto quando la marea si ritirerà. Se ce la faremo, il mare lavorerà per noi.»

Roran annuì; si fidava dell'esperienza di Clovis. «Quanti uomini ti servono per integrare gli equipaggi?» «Be', sono riuscito a scovare sette giovanotti, forti, onesti, e marinai in gamba, che hanno accettato di imbarcarsi in questa avventura, per quanto suoni strana. Bada bene, la maggior parte di loro erano ubriachi fradici quando li ho incastrati ieri notte; si erano scolati fino all'ultima goccia delle loro ultime paghe, ma domattina saranno sobri come zitelle, te lo garantisco. Siccome ne ho trovati soltanto sette, me ne servirebbero altri quattro.»

«Quattro, d'accordo» disse Roran. «I miei uomini non sanno niente di mare, ma sono sani, robusti, e disposti a imparare.»

Clovis borbottò. «Di solito prendo a bordo qualche giovane mozzo inesperto nei miei viaggi. Perciò, purché obbediscano agli ordini, per me va bene; altrimenti si beccheranno un calcio sulla zucca, te lo assicuro. Quanto alle guardie, me ne occorrono nove, tre per ciascuna barca. E sarà meglio che non siano acerbi come i tuoi marinai, o non mi stacco dalla banchina, neppure per tutto il whisky del mondo.»

Roran gli rivolse un sorriso duro. «Ogni uomo che mi accompagna si è dimostrato capace in più di una battaglia.» «E rispondono tutti quanti a te, Fortemartello, eh?» disse Clovis. Si grattò il mento, adocchiando Gedric, Delwin e gli altri che erano nuovi di Narda. «Di quanti uomini puoi disporre?»

«Abbastanza.»

«Abbastanza, dici. Chissà se è vero.» Agitò una mano. «Non fare caso alle mie parole; la mia lingua precede il mio buonsenso di un miglio, come diceva mio padre. Il mio primo ufficiale, Torson, è dal droghiere adesso, a comprare provviste e attrezzature. Mi è parso di capire che hai viveri per il tuo bestiame.»

«Fra le altre cose.»

«Allora sarà meglio che tu vada a prenderli. Li caricheremo nelle stive dopo aver alzato gli alberi.» Per il resto della mattinata e nel pomeriggio, Roran e i suoi compagni fecero la spola per trasportare le provviste - che i figli di Loring avevano procurato - dal magazzino dov'erano conservate alle rimesse delle chiatte. Mentre Roran arrancava sulla passerella della Edeline e passava il sacco di farina al marinaio che aspettava nella stiva, Clovis osservò: «La maggior parte non è cibo, Fortemartello.»

«No» disse Roran. «Ma ci serve.» Fu lieto che Clovis avesse il buonsenso di non indagare oltre. Quando anche l'ultimo pacco fu stivato, Clovis fece cenno a Roran di avvicinarsi. «Voi potete andare. Io e i ragazzi ci occuperemo del resto. Ricorda soltanto questo: in banchina tre ore dopo l'alba con ogni uomo che mi hai promesso, altrimenti perderemo la marea.»

«Ci saremo.»

Tornati sulle colline, Roran aiutò Elain e gli altri a prepararsi per la partenza. Non ci volle molto, dato che erano abituati a levare le tende ogni mattina. Poi scelse dodici uomini per accompagnarlo a Narda la mattina dopo. Erano tutti bravi combattenti, ma lui voleva che i migliori, come Horst e Delwin, restassero con il villaggio nel caso che venissero scoperti dai soldati, o tornassero i Ra'zac.

Quando calò la notte, i due gruppi si separarono. Roran

si accovacciò su un masso e guardò Horst guidare la colonna di persone giù per la collina, verso l'insenatura dove avrebbero atteso le chiatte.

Orval lo raggiunse e incrociò le braccia. «Credi che saranno al sicuro, Fortemartello?» L'ansietà venava la sua voce, tesa come la corda di un arco.

Anche se a sua volta era preoccupato, Roran disse: «Certo. Scommetto un barile di sidro che staranno ancora dormendo quando arriveremo domattina. Tu potrai avere il piacere di svegliare Nolla. Che te ne pare dell'idea?» Orval sorrise al pensiero di sua moglie e annuì, rassicurato.

Spero di non sbagliarmi. Roran rimase sul masso, appollaiato come un oscuro gargoyle, finché la linea scura di contadini non scomparve dalla visuale.

Si svegliarono un'ora prima dell'alba, quando il cielo aveva appena cominciato a rischiararsi e l'aria umida della notte gli intorpidiva le dita. Roran si spruzzò acqua sul viso e si equipaggiò con l'arco e la faretra, l'onnipresente martello, uno degli scudi di Fisk e una delle lance di Horst. Gli altri fecero altrettanto, con l'aggiunta di spade conquistate durante gli scontri a Carvahall.

Correndo il più in fretta possibile giù dalle colline accidentate, i tredici uomini arrivarono sulla strada per Narda e poco dopo furono davanti ai cancelli della città. Con suo sgomento, all'ingresso erano appostate le due guardie che gli avevano dato problemi qualche giorno prima. I due abbassarono le asce da guerra per sbarrargli il passo. «Siete un po' di più, questa volta» osservò l'uomo canuto. «E nemmeno gli stessi. Tranne te.» Indicò Roran. «Immagino che ti aspetti che creda che la lancia e lo scudo servono per la ceramica, vero?»

«No. Siamo stati ingaggiati da Clovis per proteggere le sue chiatte da un attacco durante il viaggio per Teirm.» «Voi? Mercenari?» Il soldato scoppiò a ridere. «Hai detto che eravate commercianti.»

«Così si guadagna di più.»

L'uomo dai capelli bianchi si accigliò. «Tu menti. Ho provato a fare il soldato di ventura, una volta, e ho patito la fame come non mai. Ma quanti siete comunque? L'altro giorno sette, oggi dodici... tredici, contando te. Non siete un po' troppi per essere una spedizione di commercianti?» I suoi occhi si ridussero a due fessure mentre scrutava il volto di Roran. «Hai una faccia familiare. Come ti chiami?»

«Fortemartello. »

«Non ti chiami per caso Roran...»

Con mossa fulminea, Roran affondò la lancia nella gola dell'uomo. Il sangue scarlatto sgorgò a fiotti. Mollando la presa sulla lancia, Roran estrasse il martello, parando l'ascia del secondo soldato con lo scudo. Roteò in alto il martello e lo abbattè sull'elmo dell'uomo, che stramazzò in terra. Ansimante fra i due cadaveri, Roran pensò: Ora ne ho uccisi dieci. Orval e gli altri uomini lo fissavano sgomenti. Incapace di sopportare quegli sguardi, Roran volse loro la schiena e indicò il canale di scolo che correva alle spalle della strada. «Nascondete i corpi, prima che qualcuno li veda» ordinò con asprezza. Mentre si affrettavano a obbedire, esaminò il parapetto sul muro di cinta per scorgere eventuali sentinelle. Per fortuna non c'era nessuno in cima, e nessuno sulla strada oltre il cancello. Si chinò a raccogliere la lancia, che pulì con una manciata d'erba.

«Fatto» disse Mandel, risalendo dalla scarpata. Malgrado la barba, il giovane aveva il viso pallido. Roran annuì e, facendosi forza, affrontò il gruppo. «Ascoltate. Ci dirigeremo al molo con passo deciso, ma tranquillo. Non corriamo. Quando verrà suonato l'allarme - qualcuno potrebbe aver sentito il rumore - assumete un'aria sorpresa e curiosa, ma non spaventata. Qualunque cosa, pur di non attirare sospetti su di noi. La vita delle vostre famiglie e dei vostri amici dipende da questo. Se veniamo attaccati, il vostro unico dovere è assicurarvi che le chiatte prendano il mare. Nient'altro conta. Sono stato chiaro?»

«Sì, Fortemartello» risposero all'unisono.

«Allora seguitemi.»

Mentre attraversavano Narda, Roran si sentiva così teso che temeva di spezzarsi ed esplodere in mille pezzi. Che cosa sono diventato? si chiese. Il suo sguardo guizzava furtivo da uomo a donna, da bambino a uomo, da uomo a cane, nel tentativo di individuare potenziali nemici. Tutto intorno a lui gli appariva innaturalmente vivido e ricco di dettagli; era come se potesse vedere ogni singolo filo di trama negli abiti della gente.

Raggiunsero la banchina senza intoppi, e lì trovarono Clovis, che disse: «Sei in anticipo, Fortemartello. Una cosa che apprezzo. Ci darà l'opportunità di organizzare meglio la partenza.»

«Non possiamo partire subito?» chiese Roran.

«Dovresti già conoscere la risposta. Bisogna aspettare che la marea abbia finito di alzarsi.» Clovis fece una pausa, guardando bene per la prima volta i tredici uomini, e disse: «Perché, cosa succede, Fortemartello? Avete l'aria di chi ha visto il fantasma del vecchio Galbatorix in persona.»

«Niente che un po' d'aria di mare non possa curare» disse Roran. Nelle sue attuali condizioni, sorridere era l'ultima cosa che voleva, ma si costrinse ad assumere un'espressione più distesa per rassicurare il capitano.

Con un fischio, Clovis richiamò due marinai dai barconi. Entrambi avevano la pelle abbronzata, del colore delle nocciole. «Lui è Torson, il mio primo ufficiale» disse Clovis, indicando l'uomo alla sua destra. Le spalle nude di Torson erano decorate dal tatuaggio serpentesco di un drago volante. «Sarà lui a governare la Merrybell. E questo cagnaccio nero è Flint. Lui comanda la Edeline. Finché sarete a bordo, la loro parola sarà legge, come la mia sulla Cinghiale Rosso. Risponderete a loro e a me, non a Fortemartello... Be', fatemi sentire un bel signorsì, signore, se avete inteso.» «Signorsì, signore» dissero gli uomini.

«Allora, quali di voi saranno i miei marinai e quali le mie guardie? In fede mia, non so distinguere gli uni dagli altri.» Ignorando l'ammonimento di Clovis, secondo cui era lui il loro comandante e non Roran, gli uomini guardarono quest'ultimo come in attesa di un ordine. Roran annuì, e gli altri si divisero in due gruppi, che Clovis suddivise a sua volta per assegnarli alle tre imbarcazioni.

Nella mezz'ora che seguì, Roran lavorò fianco a fianco con i marinai per finire di approntare la Cinghiale Rosso per la partenza, con le orecchie tese al minimo cenno di allarme. Saremo catturati o uccisi se restiamo ancora a lungo, pensò, controllando il livello dell'acqua intorno ai piloni. Si asciugò il sudore dalla fronte.

Roran trasalì quando Clovis lo afferrò per il braccio.

Prima di riuscire a trattenersi, aveva già estratto per metà il martello dalla cintura. Si sentì stringere la gola da un groppo d'aria densa.

Clovis inarcò un sopracciglio davanti alla sua reazione. «Ti osservavo, Fortemartello, e mi chiedevo come hai fatto a guadagnarti una simile lealtà dai tuoi uomini. Sono stato al servizio di molti più comandanti di quanti riesca a ricordare, ma nessuno riusciva a ottenere questa cieca obbedienza senza alzare la voce.»

Roran non potè fare a meno di scoppiare a ridere. «Te lo dico come ho fatto: li ho salvati dalla schiavitù e dall'essere divorati.»

Le sopracciglia di Clovis si inarcarono ancora di più. «Davvero? Questa è una storia che mi piacerebbe ascoltare.» «No, non credo.»

Dopo qualche istante, Clovis disse: «No, forse no.» Scoccò un'occhiata fuori bordo. «Be', che io sia impiccato. Pare proprio che sia giunto il momento di salpare. Ah, ecco la mia piccola Galina, puntuale come sempre.» Il massiccio capitano saltò sulla passerella e da lì sulla banchina, dove abbracciò una ragazzina dai capelli scuri che doveva avere all'inarca tredici anni, e una donna che Roran immaginò fosse sua madre. Clovis scompigliò i capelli della ragazza e disse: «Galina, farai la brava mentre sono via, non è vero?»

«Sì, papà.»

Mentre guardava Clovis congedarsi dalla famiglia, Roran

ripensò ai due soldati morti. Magari anche loro avevano famiglia. Mogli e figli che li amavano e una casa a cui tornare ogni giorno... Sentì il sapore della bile in bocca e dovette concentrarsi sulla scena che si svolgeva sul molo per non vomitare.

Sulle chiatte, gli uomini avevano l'aria nervosa. Temendo che potessero perdere il controllo, Roran si mostrò mentre camminava sulla banchina, stiracchiandosi e facendo di tutto per sembrare tranquillo. Alla fine, Clovis balzò di nuovo a bordo della Cinghiale Rosso e gridò: «Ai posti di manovra, ragazzi! Il mare ci attende.»

Le passerelle furono tirate a bordo, i cavi di ormeggio slegati, e le vele issate sulle tre chiatte. L'aria risuonava di ordini, mentre i marinai cantilenavano issa tirando le cime.

Sulla banchina, Galina e sua madre rimasero a guardare le chiatte che si allontanavano, immobili e silenziose, i volti tristi sotto i cappucci. «Siamo fortunati, Fortemartello» disse Clovis, dandogli una pacca sulla spalla. «C'è anche un po' di vento a sospingerci, oggi; potremmo non essere costretti a remare per arrivare all'insenatura prima che la marea cambi!» Quando la Cinghiale Rosso si trovò al centro della baia di Narda e ad ancora una decina di minuti dalla salvezza del mare aperto, quello che Roran temeva accadde: il suono delle campane e delle trombe echeggiò sull'acqua dagli edifici di pietra.

«Che cosa succede?» chiese.

«Non lo so proprio» rispose Clovis. Aggrottò la fronte mentre scrutava la cittadina, «Potrebbe essere un incendio, ma non vedo fumo da nessuna parte. Forse hanno le mani piazzate sui fianchi. scoperto qualche Urgali nei paraggi...» Il suo volto esprimeva grande preoccupazione. «Per caso avete visto qualcuno di losco sulla strada stamattina?»

Roran si limitò a fare no con la testa, perché non si fidava abbastanza della propria voce.

Flint si accostò con la Edeline e gridò dal ponte: «Torniamo indietro, capitano?» Roran strinse così forte il parapetto da conficcarsi schegge di legno sotto le unghie, pronto a intervenire, ma temendo di apparire troppo ansioso. Distogliendo lo sguardo da Narda, Clovis gridò in risposta: «No. Perderemmo la marea.»

«Signorsì, signore. Ma darei un giorno di paga per scoprire cosa ha scatenato quel putiferio.»

«Anch'io» borbottò Clovis.

Mentre le case e gli altri edifici rimpicciolivano alle sue spalle, Roran si sedette per terra sul lato sinistro della chiatta, si strinse le ginocchia al petto e appoggiò la schiena alla tuga. Guardò in alto, colpito dall'immensità, dalla trasparenza e dal colore del cielo, poi la scia verde della Cinghiale Rosso, dove fluttuavano lunghi nastri di alghe. Il dondolio della chiatta lo cullava come un bambino. Che bella giornata, si disse, lieto di essere vivo per osservarla. Dopo essere usciti dalla baia - con suo sollievo - Roran salì la scala del cassero di poppa dietro la tuga, dove c'era Clovis con le mani sul timone a governare la rotta. Il capitano disse: «Ah, c'è qualcosa di esaltante nel primo giorno di viaggio, prima di rendersi conto di quanto è pessimo il cibo e cominciare a sentire nostalgia di casa.» Memore della necessità di imparare il più possibile sul governo delle chiatte, Roran chiese a Clovis i nomi e le funzioni di vari oggetti a bordo. Il capitano si lanciò in un'entusiastica lezione sul funzionamento delle chiatte, delle navi e dell'arte della navigazione in generale.

Due ore più tardi, Clovis indicò una stretta penisola avanti a loro. «L'insenatura è dall'altra parte» annunciò. Roran si protese, stringendo le sartie, e tese il collo, non vedendo l'ora di avere la conferma che i compaesani erano salvi. Quando la Cinghiale Rosso doppiò la punta rocciosa, in fondo all'insenatura comparve una spiaggia bianca, su cui erano radunati i rifugiati della Valle Palancar. La folla lanciò grida di esultanza e sventolò le mani, mentre le chiatte emergevano da dietro gli scogli.

Roran si tranquillizzò.

Al suo fianco, Clovis lanciò un'imprecazione terribile. «Sapevo che c'era qualcosa che puzzava nel momento stesso in cui ti ho visto, Fortemartello. Bestiame, certo. Bah! Mi hai ingannato.»

«Ti sbagli» replicò Roran. «Non ti ho mentito: quello è il mio gregge e io sono il loro pastore. Non è mio diritto chiamarli "bestiame", se voglio?»

«Chiamali come ti pare, ma io non porto persone a Teirm. Perché non mi hai rivelato la vera natura del carico, vorrei sapere, e l'unica risposta è che qualunque sia la vostra missione significa guai... guai per voi e guai per me. Dovrei scaraventarvi tutti in mare e tornare a Narda.»

«Ma non lo farai» disse Roran, mortalmente calmo.

«Oh? E perché no?»

«Perché ho bisogno delle tue chiatte, Clovis, e farò di tutto per tenerle. Di tutto. Tieni fede al nostro accordo e il viaggio sarà tranquillo, e potrai rivedere Galina. Altrimenti...» L'implicita minaccia andò oltre le sue intenzioni; non voleva uccidere Clovis, ma, se messo alle strette, lo avrebbe sbarcato da qualche parte lungo la costa. Clovis si fece tutto rosso, ma con sorpresa di Roran brontolò: «Come vuoi, Fortemartello.» Soddisfatto, Roran riportò la sua attenzione sulla spiaggia.

Dietro di lui sentì un fruscìo.

Agendo d'istinto, Roran si scansò, si abbassò e si girò, coprendosi la testa con lo scudo. Il suo braccio tremò quando una caviglia colpì il legno. Abbassò lo scudo e guardò un Clovis sgomento che indietreggiava sul ponte. Roran scrollò il capo, senza mai staccare gli occhi dall'aggressore. «Non puoi battermi, Clovis. Te lo chiedo di nuovo: terrai fede all'accordo? Se non lo farai, ti sbarcherò sulla costa, assumerò il comando delle chiatte e costringerò il tuo equipaggio a obbedirmi. Non voglio rovinarti la vita, ma se mi costringi... Coraggio. Questo può essere un viaggio normale e tranquillo, se scegli di aiutarci. Ricorda che sei già stato pagato.»

Drizzando le spalle per darsi un contegno, Clovis disse: «Se accetto, dovrai usarmi la cortesia di spiegarmi perché è stato necessario questo stratagemma, e perché questa gente si trova qui, e da dove viene. Puoi offrirmi tutto l'oro del mondo, ma non ti aiuterò in qualcosa che va contro i miei principi. Mai e poi mai. Siete banditi? O siete al servizio del nostro dannato re?»

«Saperlo potrebbe metterti in grave pericolo.»

«Insisto.»

«Hai mai sentito parlare di Carvahall, nella Valle Palancar?» chiese Roran.

Clovis fece un vago gesto con la mano. «Una o due volte. Perché?»

«Perché adesso la vedi su quella spiaggia. I soldati di Galbatorix ci hanno attaccati senza motivo. Noi abbiamo reagito e quando la nostra posizione è diventata insostenibile siamo fuggiti superando la Grande Dorsale e abbiamo seguito la costa fino a Narda. Galbatorix ha promesso che ogni uomo, donna e bambino di Carvahall sarà ucciso o ridotto in schiavitù. Raggiungere il Surda è la nostra unica speranza di sopravvivere.» Roran evitò di menzionare i Ra'zac, per non spaventare ancora di più il capitano.

La pelle abbronzata del lupo di mare divenne grigia. «Vi inseguono ancora?»

«Sì, ma l'Impero deve ancora trovarci.»

«È per causa vostra che sono state suonate le campane?»

In tono sommesso, Roran disse: «Ho ucciso due soldati che mi avevano riconosciuto.» La rivelazione lasciò Clovis sbigottito: sgranò gli occhi, indietreggiò e i muscoli delle sue braccia si contrassero mentre serrava i pugni. «Fai la tua scelta, capitano. La spiaggia è vicina.»

Capì di aver vinto quando Clovis incurvò le spalle e la spavalderia abbandonò il suo volto. «Che la peste ti porti, Fortemartello. Non sono amico del re. Vi porterò fino a Teirm. Ma poi non voglio avere più niente a che fare con voi.» «Mi dai la tua parola che non cercherai di svignartela durante la notte e non ricorrerai ad altri simili inganni?» «Sì. Hai la mia parola.»

Sabbia e rocce grattarono contro il fondo della Cinghiale Rosso mentre la chiatta si arenava sulla spiaggia, seguita su entrambi i lati dalle sue compagne. L'incessante, ritmico riflusso dell'acqua che bagnava la terra suonava come il respiro di un mostro gigantesco. Una volta imbrogliate le vele e calate le passerelle, Torson e Flint salirono a bordo della Cinghiale Rosso e si avvicinarono a Clovis per chiedere lumi.

«C'è stato un cambiamento di programma» disse Clovis.

Roran lasciò che fosse lui a cavarsela con le spiegazioni - tralasciando i veri motivi per cui i contadini avevano lasciato la Valle Palancar - e balzò sulla sabbia, dove andò in cerca di Horst fra i gruppi agitati di persone. Quando alla fine individuò il fabbro, Roran lo prese da parte e gli raccontò dei morti a Narda. «Se scoprono che sono partito con Clovis, manderanno soldati a cavallo a cercarmi. Dobbiamo far imbarcare la gente il più in fretta possibile.» Horst lo guardò fisso per almeno un minuto. «Sei diventato

un uomo spietato, Roran, più duro di quanto lo sia mai stato io.»

«Ho dovuto.»

«Sta' solo attento a non dimenticare chi sei.»

Roran passò le tre ore successive trasportando e sistemando le vettovaglie dei compaesani sulla Cinghiale Rosso, finché Clovis non espresse la sua soddisfazione. I fagotti furono assicurati perché non rotolassero durante il viaggio, col rischio di ferire qualcuno, e distribuiti uniformemente perché la chiatta galleggiasse dritta, un compito non facile, dato che i bagagli erano diversi per forma e pesantezza. Poi gli animali vennero guidati a bordo, con loro disappunto, e immobilizzati mediante cavezze legate ad anelli di ferro nella stiva.

Infine venne il turno delle persone che, come il resto del carico, furono organizzate in gruppi simmetrici per impedire alla chiatta di capovolgersi. Clovis, Torson e Flint si misero a prua delle rispettive imbarcazioni a gridare ordini alla massa di rifugiati in colonna.

E adesso che cosa succede? si chiese Roran, nel sentire voci concitate sulla spiaggia. Facendosi largo verso l'origine del chiasso, trovò Calitha inginocchiata accanto al suo patrigno, Wayland, intenta a calmare il vecchio. «No! Io non ci salgo, su quella bestia! Non puoi costringermi» gridava Wayland. Agitò le braccia scarne e piantò i tacchi nella sabbia nel tentativo di liberarsi dalla stretta di Calitha. Schizzi di saliva gli uscirono dalle labbra. «Lasciami, ho detto. Lasciami!»

Chinando il capo sotto i suoi colpi, Calitha disse: «Ha perso il senno da quando ci siamo accampati la scorsa notte.» Sarebbe stato meglio se fosse morto sulla Grande Dorsale, visti i problemi che continua a darci, pensò Roran. Si inginocchio accanto a Calitha, e insieme riuscirono a placare il vecchio perché non gridasse e scalciasse più. Come ricompensa per il buon comportamento, Calitha gli diede un pezzo di carne secca, che occupò tutta la sua attenzione. Mentre Wayland si concentrava a masticare la carne, lei e Roran lo guidarono sulla Edeline, dove lo misero in un cantuccio vuoto perché non desse fastidio a nessuno.

«Muovete le chiappe, lumaconi» gridò Clovis. «La marea sta cambiando. Forza, su!»

Dopo un ultimo sussulto di attività, le passerelle furono ritirate, lasciando un gruppo di venti uomini sulla spiaggia davanti a ciascuna chiatta. I tre gruppi si radunarono intorno alle prue e si prepararono a spingerle in acqua. Roran guidava il gruppo della Cinghiale Rosso. Cantando all'unisono, lui e i suoi uomini spinsero l'enorme peso della chiatta, con la sabbia grigia che cedeva sotto i loro piedi, i legni e le cime che gemevano, e il lezzo di sudore nell'aria. Per un momento, i loro sforzi parvero inutili, poi la Cinghiale Rosso sobbalzò e scivolò di un passo. «Ancora!» gridò Roran. Passo dopo passo, avanzarono nel mare, fino a ritrovarsi con l'acqua gelida all'altezza della cintola. Un'onda si infranse su Roran, riempiendogli la bocca di acqua salata; lui sputò, disgustato dal sapore del sale, molto più intenso di quanto si fosse aspettato.

Quando la chiatta si liberò dal fondo sabbioso, Roran nuotò lungo la Cinghiale Rosso e si issò a bordo con una cima che penzolava oltre il parapetto. Nel frattempo, i marinai impiegarono lunghi pali per spingere la Cinghiale Rosso in acque più profonde, come fecero gli equipaggi della Merrybell e della Edeline.

Nell'istante in cui furono a distanza ragionevole dalla spiaggia, Clovis ordinò di ritirare i pali a bordo e di mettere in mare i remi, con i quali i marinai diressero la prua della Cinghiale Rosso verso l'imboccatura dell'insenatura. Issarono la vela, la orientarono per cogliere il vento sull'immensa distesa di mare ondulato. leggero e, all'avanguardia del trio di chiatte, puntarono verso Teirm

Il principio della saggezza

Le giornate che Eragon passava a Ellesméra si susseguivano sempre uguali; lo scorrere del tempo sembrava non influire sulla città fra i pini. Le stagioni non invecchiavano, malgrado i pomeriggi e le serate fossero più lunghi e riempissero la foresta di ombre dense. Fiori tipici di ciascun mese sbocciavano sotto l'influsso della magia elfica, nutriti da incantesimi evocati nell'aria.

Eragon amava Ellesméra, per la sua bellezza e la sua quiete, i leggiadri edifici ricavati negli alberi, le canzoni struggenti che echeggiavano al crepuscolo, le opere d'arte nascoste nelle misteriose dimore, e la riservatezza degli elfi, che si alternava a scoppi di allegria.

Gli animali selvatici della Du Weldenvarden non temevano i cacciatori. Spesso dalla sua camera sospesa fra i rami Eragon osservava un elfo coccolare un cervo o una volpe argentata, o mormorare parole carezzevoli a un orso timido che arrancava ai margini di una radura, riluttante a farsi vedere. Alcuni animali non avevano forma riconoscibile; comparivano di notte, muovendosi furtivi nel sottobosco, e fuggivano se Eragon tentava di avvicinarli. Una volta scorse una creatura simile a un serpente dotato di pelliccia; in un'altra occasione, una donna vestita di bianco che palpitò e scomparve per lasciare il posto a una lupa ghignante.

Eragon e Saphira continuavano a esplorare Ellesméra ogni volta che potevano. Andavano da soli o insieme a Orik, poiché Arya non li accompagnava più, né Eragon aveva avuto modo di parlarle da quando lei aveva infranto il fairth. A volte intrawedeva la sua snella figura fra gli alberi, ma se cercava di avvicinarsi con l'intenzione di porgerle le sue scuse, lei si dileguava, lasciandolo solo fra i pini. Alla fine Eragon capì che doveva prendere l'iniziativa se voleva riuscire a fare pace con lei. Così una sera raccolse un mazzo di fiori che crescevano lungo il sentiero che portava al suo albero e si avviò al Palazzo di Tialdari, dove, nella sala comune, chiese a un elfo indicazioni per raggiungere gli appartamenti di Arya.

La porta scorrevole era aperta al suo arrivo, ma nessuno rispose quando bussò. Provò a entrare, con le orecchie tese a cogliere rumore di passi, mentre si guardava intorno nello spazioso salottino tappezzato di rampicanti. Da un lato si accedeva a una piccola camera da letto, dall'altro si passava in uno studio. Due fairth decoravano le pareti: il ritratto di un elfo fiero e severo dai capelli d'argento, che doveva essere re Evandar, e un altro volto di un giovane elfo che Eragon non riconobbe.

Vagò per l'appartamento, osservando tutto ma non toccando niente, assaporando quel barlume di vita di Arya, assorbendo quello che poteva dei suoi interessi e delle sue passioni. Accanto al letto notò una sfera di vetro con un bocciolo del convolvolo nero conservato all'interno; sulla sua scrivania, pile ordinate di rotoli di pergamena, con titoli come Osilon: rapporti sui raccolti e Attività segnalate dalla torre di guardia di Gil'ead; sul davanzale di un bovindo, tre alberi in miniatura crescevano nella forma di glifi dell'antica lingua, quelli che significano pace, forza e saggezza; e accanto agli alberi, un foglio di carta con una poesia incompleta, coperto da parole sbarrate con un tratto d'inchiostro e appunti scribacchiati. Recitava:

Sotto la luna, la luna splendente, C'è uno stagno, placido e sereno,

Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero.

Cade una pietra, una pietra vivente, E infrange il disco argenteo e sereno, Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero. Schegge di luce, lame di luce

Lo stagno increspano di onde diffuse,

Lo specchio d'acqua mite,

Il solitario laghetto.

Nella notte, la notte oscura e truce, Fluttuano le ombre, ombre confuse,

Dove un tempo...

Tornando nell'ingresso, Eragon lasciò i fiori su un tavolinetto e fece per andarsene. Restò impietrito nel vedere Arya sulla soglia. Lei parve sorpresa dalla sua presenza, ma nascose le sue emozioni sotto una maschera impassibile. Si fissarono in silenzio.

Lui prese il mazzo di fiori per offrirglielo. «Non so creare un bocciolo per te, come fece Fàolin, ma questi sono fiori sinceri, i più belli che sono riuscito a trovare.»

«Non posso accettarli, Eragon.»

«Non sono... non sono quel genere di regalo.» Fece una pausa. «Non ci sono scuse, ma non mi ero reso conto che il mio fairth ti avrebbe messa in una situazione tanto penosa. Per questo sono rammaricato e imploro il tuo perdono... Volevo soltanto creare un fairth, non provocare problemi. Io capisco l'importanza dei miei studi, Arya, e tu non devi temere che possa trascurarli per fantasticare su di te.»

Vacillò e si appoggiò alla parete, troppo stordito per reggersi sulle gambe. «Tutto qui.»

Lei lo guardò per lunghi momenti, poi lentamente prese il mazzolino e se lo portò al naso. I suoi occhi non lo abbandonarono mai. «Sono fiori sinceri» disse, scrutandolo da capo a piedi, per poi tornare a guardargli il volto. «Sei stato malato?»

«No. La schiena.»

«Ho saputo, ma non avrei mai pensato...»

Lui si scostò dalla parete. «Devo andare.»

«Aspetta.» Arya esitò, poi lo guidò verso il bovindo, dove lui si sedette sulla panca che correva lungo il bordo. Prese due tazze da una credenza, Arya vi sbriciolò alcune foglie essiccate di ortica, poi riempì le tazze d'acqua e dicendo «Bolli» riscaldò l'acqua per il té.

Porse una tazza a Eragon, che la prese fra le mani strette a coppa per assorbirne il calore. Guardò fuori dalla finestra verso il terreno venti piedi più sotto, dove gli elfi passeggiavano nei giardini reali, parlando e cantando, e le lucciole volteggiavano nel crepuscolo.

«Vorrei...» disse Eragon, «vorrei che fosse sempre così. È tutto così perfetto e sereno.»

Arya mescolò il suo té. «Come sta Saphira?»

«Bene. E tu?»

«Mi sto preparando per tornare dai Varden.»

Eragon trasalì, sconvolto. «Quando?»

«Dopo la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Sono rimasta anche troppo, ma mi dispiaceva partire, e Islanzadi voleva che restassi. Inoltre... non ho mai partecipato a una Celebrazione del Giuramento di Sangue, che è la nostra ricorrenza più importante.» Lo guardò da sopra il bordo della tazza. «Non c'è niente che Oromis possa fare per te?» Eragon si strinse nelle spalle. «Ha già tentato tutto quello che sa.»

Bevvero insieme il té, guardando i gruppi e le coppie che passeggiavano per i sentieri dei giardini. «I tuoi studi proseguono bene?» chiese lei.

«Sì.» Nel silenzio che seguì, Eragon prese il foglio di carta scribacchiato ed esaminò le strofe, come se le leggesse per la prima volta. «Scrivi spesso poesie?»

Arya tese la mano per prendere il foglio che lui le porse, e lo arrotolò perché le parole non fossero più visibili. «È nostra usanza che tutti coloro che partecipano alla Celebrazione del Giuramento di Sangue portino una poesia, una canzone, o qualche altra opera d'arte che hanno fatto per condividerla con l'assemblea. Ho appena cominciato a lavorare sulla mia.»

«Mi sembra buona.»

«Perché, hai letto molte poesie...?»

«Sì.»

Arya tacque, poi chinò il capo e mormorò: «Scusami. Non sei più la persona che ho conosciuto a Gil'ead.» «Io...» Eragon s'interruppe e si rigirò la tazza fra le mani, cercando le parole giuste. «Arya... tu partirai presto. Sarebbe un peccato se questa fosse l'ultima volta che ci vediamo prima di quel momento. Non potremmo incontrarci, di quando in quando, come facevamo prima? Potresti mostrare ancora altre meraviglie di Ellesméra a me e a Saphira.» «Non sarebbe prudente» disse lei con voce gentile ma risoluta.

Lui la guardò. «Il prezzo della mia indiscrezione deve quindi essere la nostra amicizia? Non posso negare quello che provo per te, ma preferirei subire un'altra ferita da Durza che permettere alla mia sventatezza di distruggere l'amicizia che c'era fra di noi. Per me è troppo importante.»

Arya bevve l'ultimo sorso di té, prima di rispondere. «La nostra amicizia continuerà, Eragon. Quanto a trascorrere del tempo insieme...» Le sue labbra si curvarono in un flebile sorriso. «Può darsi. Ma dobbiamo aspettare e vedere che cosa ci riserva il futuro, perché sono molto impegnata e non posso prometterti niente.»

Eragon sapeva che le sue parole erano quanto di più vicino a una riconciliazione lei fosse disposta a concedergli, e ne fu lieto. «Certo, Arya Svit-kona» disse, con un inchino del capo.

Si scambiarono altri convenevoli, ma era evidente che Arya si era già spinta fino al limite di quanto intendeva quel giorno, così Eragon tornò da Saphira con il cuore più leggero per quanto era riuscito a ottenere. Ora sarà il destino a decidere cosa accadrà, pensò, srotolando una delle ultime pergamene che gli aveva dato Oromis. Infilando una mano nella saccoccia che portava alla cintura, Eragon trasse un astuccio di steatite che conteneva nalgask, un unguento a base di cera d'api mescolata a olio di noci, e se lo spalmò sulle labbra per proteggerle dal vento gelido che gli tagliava la faccia. Chiuse la piccola borsa e abbracciò il collo di Saphira, affondando la faccia nell'incavo del gomito per ridurre il riverbero delle nubi ammassate sotto di loro. L'instancabile battito d'ali di Saphira gli rimbombava nelle orecchie, più sonoro e più rapido di quello di Glaedr, che stavano seguendo.

Volarono in direzione sudovest dall'alba fino al primo pomeriggio, facendo frequenti soste per avvincenti duelli di allenamento fra Saphira e Glaedr, durante i quali Eragon doveva legarsi le braccia alle cinghie della sella per impedirsi di cadere a seguito delle evoluzioni acrobatiche. Poi si liberava tirando i nodi con i denti.

Il viaggio terminò presso una piccola catena montuosa composta da quattro vette che torreggiavano sulla foresta, le prime montagne che Eragon vedeva nella Du Welden-varden. Incappucciate di neve e spazzate dai venti, bucavano la coltre di nubi ed esponevano le pendici ricche di crepacci al sole, che a quell'altitudine non aveva calore. Sembrano così piccole, in confronto ai Beor, commentò Saphira.

Com'era diventata sua abitudine durante le settimane di meditazione, Eragon dilatò la mente in ogni direzione, sfiorando le coscienze intorno a sé in cerca di qualsiasi cosa che potesse nuocergli. Percepì una marmotta che si riscaldava nella sua tana, corvi, picchi e falchi, numerosi scoiattoli che scorrazzavano fra gli alberi e, più in basso, serpenti che strisciavano furtivi nel sottobosco in cerca di topi, ma soprattutto orde di onnipresenti insetti.

Quando Glaedr si posò su una cresta brulla della prima montagna, Saphira fu costretta ad aspettare che ripiegasse le enormi ali prima di avere spazio a sufficienza per atterrare. La zona ghiaiosa su cui sostavano risplendeva gialla di licheni compatti e crenulati. Su di loro incombeva una nera rupe a strapiombo, che faceva da argine a una cornice di ghiaccio azzurro che scricchiolava e si crepava nel vento, perdendo frammenti taglienti che si frantumavano sul granito sottostante.

Questo picco si chiama Fionula, dissa Glaedr. £ i suoi fratelli sono Ethrundr, Merogoven e Griminsmal. Ciascuno ha la propria leggenda, che vi narrerò durante il volo di ritorno. Ma per il momento vi parlerò dello scopo di questa escursione, ossia la natura del legame forgiato fra i draghi e gli elfi e, in seguito, gli umani. Entrambi ne sapete già qualcosa, e ho accennato a Saphira tutte le sue implicazioni, ma è giunta l'ora di apprendere il solenne e profondo significato del vostro rapporto, perché possiate mantenerlo quando Oromis e io non ci saremo più. «Maestro?» chiese Eragon, stringendosi il mantello intorno al corpo per ripararsi dal freddo.

Sì, Eragon.

«Perché Oromis non è venuto?»

Perché, brontolò Glaedr, è compito mio, come è sempre stato il compito di un drago anziano nei secoli scorsi, garantire che la nuova generazione di Cavalieri comprenda la vera importanza del ruolo che ha assunto. E perché Oromis non sta bene come sembra.

La ghiaia emise un crepitio smorzato quando Glaedr si accovacciò allungando la testa maestosa fra Eragon e Saphira. Li scrutò con un occhio dorato, grande e lucido come uno scudo rotondo, e due volte più splendente. Dalle sue narici si levò un grigio filo di fumo che il vento disperse. Parte di quanto sto per rivelarvi era di dominio pubblico fra gli elfi, i Cavalieri e gli umani eruditi, ma in prevalenza era noto soltanto al capo dei Cavalieri, a un pugno di elfi, al sovrano degli umani, e ovviamente ai draghi.

Ora ascoltate, miei allievi. Quando alla fine della nostra guerra fu fatta pace tra gli elfi e i draghi, furono creati i Cavalieri per garantire che un simile conflitto non avesse mai più a ripetersi fra le nostre razze. La regina Tarmunora degli elfi e il drago che era stato scelto a rappresentarci, il cui nome... Fece una pausa e trasmise una serie di immagini a Eragon: zanna lunga, zanna bianca, zanna scheggiata; battaglie vinte, battaglie perse; innumerevoli Shrrg e Nagra divorati; ventisette uova deposte e diciannove esemplari cresciuti fino a maturazione... non si può esprimere in nessuna lingua, decisero che un normale trattato non sarebbe stato sufficiente. Una carta firmata non significa niente per un drago. Il nostro sangue scorre denso e bollente e, trascorso abbastanza tempo, era inevitabile che ci saremmo di nuovo scontrati con gli elfi, come era successo con i nani nel corso dei millenni. Ma diversamente che con questi ultimi, né noi né gli elfi potevamo permetterci un'altra guerra. Eravamo entrambi troppo potenti, e ci saremmo distrutti a vicenda. L'unico modo per impedirlo e forgiare un accordo duraturo era legare le nostre due razze con la magia. Eragon rabbrividì e con una punta di divertimento Glaedr disse: Saphira, se fossi in te riscalderei una di quelle pietre con il fuoco del tuo ventre, perché il tuo Cavaliere non muoia assiderato.

Saphira inarcò il collo ed eruttò sul ghiaione una vampa azzurra dalle fauci socchiuse, bruciando il lichene che sprigionò un odore amarognolo. L'aria diventò così calda da costringere Eragon a voltarsi. Percepì gli insetti sotto le pietre che si contorcevano nell'inferno. Dopo un minuto, Saphira chiuse la bocca, lasciando un cerchio largo dieci palmi di ciottoli che rosseggiavano ardenti.

Grazie, disse Eragon, accovacciandosi accanto alle pietre incandescenti per riscaldarsi.

Ricorda, Saphira, di usare la lingua per dirigere la fiammata, l'ammonì Glaedr. Ora... i più grandi stregoni degli elfi impiegarono nove anni per elaborare l'incantesimo necessario. Quando alla fine ci riuscirono, gli elfi e i draghi si radunarono a Ilirea. Gli elfi fornirono la struttura dell'incantesimo, mentre i draghi ci misero la forza, e insieme fusero le anime degli elfi e dei draghi.

L'unione ci cambiò. Noi draghi acquistammo l'uso della favella e di altre insidie della civilizzazione, mentre gli elfi condivisero la nostra longevità, poiché fino a quel momento la loro vita durava quanto quella degli umani. In fondo furono gli elfi a subire le maggiori trasformazioni. La nostra magia, la magia dei draghi - che permea ogni fibra del nostro essere -fu trasmessa agli elfi e col tempo conferì loro quella forza e quella grazia a cui tanto ambivano. Gli umani non subirono un'influenza così potente, dato che foste aggiunti all'incantesimo quando era già in . attività, e non ebbe il tempo di operare su di voi come sugli elfi. Eppure, e qui l'occhio di Glaedr scintillò, esso ha comunque ingentilito la vostra razza trasformando i rozzi barbari che arrivarono per primi in Alagaèsia, anche se poi avete cominciato a regredire, dopo la caduta dei Cavalieri.

«I nani hanno mai fatto parte dell'incantesimo?» chiese Eragon.

No, ed è per questo che non c'è mai stato un nano Cavaliere. I nani non hanno simpatia per i draghi, e la cosa è reciproca, e trovavano ripugnante l'idea di unirsi a noi. Probabilmente è stata una fortuna che non siano entrati nel patto, perché sono sfuggiti al declino degli umani e degli elfi.

Declino, maestro? chiese Saphira, con quello che Eragon avrebbe giurato essere un tono ironico. Sì, declino. Se una delle nostre tre razze soffre, anche le altre ne subiscono le conseguenze. Sterminando i draghi, Galbatorix minò la sua stessa razza, come quella degli elfi. Voi due non ve ne siete ancora accorti, perché siete nuovi di Ellesméra, ma gli elfi sono al tramonto; i loro poteri non sono più quelli di una volta. E gli umani hanno perduto gran parte della loro cultura e sono consumati dal caos e dalla corruzione. Soltanto riportando l'equilibrio fra le nostre razze l'ordine tornerà nel mondo.

Il vecchio drago frantumò la ghiaia con gli artigli, riducendola in polvere per essere più comodo. Insito nell'incantesimo tutelato dalla regina Tarmunora c'era il meccanismo che consente a un cucciolo di essere legato al suo Cavaliere. Quando un drago decide di dare un uovo ai Cavalieri, si pronunciano certe parole sull'uovo, parole che vi insegnerò più tardi, tese a impedire all'uovo di schiudersi se non in presenza della persona a cui deciderà di legarsi. Dato che i draghi possono restare nell'uovo per un perìodo indefinito, il tempo non è un problema, né il cucciolo subisce alcun danno. Tu, Saphira, sei un esempio di tutto questo.

Il legame che si forma fra un Cavaliere e il drago non è altro che una versione perfezionata del legame che già esiste fra le nostre razze. L'umano o l'elfo diventa più forte e più bello, mentre alcuni tratti più feroci del drago vengono temperati da un aspetto più ragionevole... Vedo che ti urge una domanda, Eragon. Di' pure.

«È solo...» Esitò. «Mi risulta difficile immaginare te o Saphira ancora più feroci.» Poi aggiunse con una punta d'ansia: «Non che sia un male.»

Il suolo tremò come scosso da una frana quando Glaedr ridacchiò, roteando il grande occhio dorato sotto la palpebra cornea. Se avessi mai incontrato un drago senza vincoli, non diresti così. Un drago solitario non rende conto a niente e a nessuno, si prende ciò che vuole, e non mitre sentimenti benevoli se non per quelli della sua razza. Feroci e orgogliosi erano i draghi selvatici, persino arroganti... Le femmine erano così formidabili che era ritenuta una grande impresa fra i draghi dei Cavalieri accoppiarsi con una di loro.

La mancanza di questo profondo legame è il motivo per cui l'unione di Galbatorix con Shruikan, il suo secondo drago, è una depravazione. Shruikan non scelse Galbatorix come compagno; fu costretto con la magia nera a servire la follia del re. Galbatorix ha creato un'imitazione perversa della relazione che tu, Eragon, e tu, Saphira, condividete, e che lui perse quando gli Urgali uccisero il suo drago originario.

Glaedr fece una pausa per osservarli entrambi. Il suo occhio era l'unica cosa che si muoveva. Ciò che vi unisce va ben oltre un semplice collegamento mentale. Le vostre anime, le vostre identità... chiamatele come volete... sono state saldate alla radice. Il suo occhio guizzò su Eragon. Tu credi che l'anima di una persona sia divisa dal suo corpo? «Non lo so» disse Eragon. «Una volta, Saphira mi fece uscire dal mio corpo per guardare il mondo attraverso i suoi occhi... Mi sembrò di non essere più in contatto col mio corpo. Se esistono gli spiriti che uno stregone può evocare, allora anche la nostra coscienza dovrebbe essere indipendente dalla carne.»

Allungando la punta aguzza di un artiglio, Glaedr capovolse un piccolo masso per esporre un ratto che si nascondeva nella sua tana. Con un guizzo della lingua rossa, Glaedr catturò il ratto e lo ingoiò; Eragon fece una smorfia nel sentire la vita dell'animale che si spegneva.

Quando la carne viene distrutta, lo stesso accade all'anima, disse Glaedr.

«Ma un animale non è una persona» protestò Eragon.

Dopo le tue meditazioni, credi ancora di essere diverso da un ratto? Che siamo dotati di qualche miracolosa qualità che le altre creature non possiedono e che in qualche modo essa ci preserva anche dopo la morte?

«No» mormorò Eragon.

Già. Noi siamo così intimamente uniti che quando un drago o un Cavaliere viene ferito deve indurire il proprio cuore e recidere il legame per proteggere l'altro da inutili sofferenze, persino dalla pazzia. E poiché un'anima non si può separare dalla carne, si deve resistere alla tentazione di prendere l'anima del compagno nel proprio corpo per conservarla, perché il risultato sarebbe soltanto la morte di entrambi. Se anche fosse possibile, sarebbe un abominio avere coscienze multiple in un solo corpo.

«Che cosa terribile» disse Eragon, «morire soli, separati perfino da colui o colei che ti è più vicino.» Ciascuno di noi muore solo, Eragon. Che tu sia un re sul campo di battaglia, o un contadino nel suo letto, circondato dalla famiglia, nessuno può accompagnarti nel vuoto... Ora vi farò esercitare a separare le coscienze. Cominciamo con... Eragon fissò il vassoio della cena lasciato nel vestibolo della casa sull'albero e ne catalogò il contenuto: pane con burro di nocciole, bacche, legumi, un'insalatiera di foglie verdi, due uova sode - che, in ottemperanza alle convinzioni degli elfi, non erano fecondate - e una caraffa di fresca acqua sorgiva. Sapeva che a ogni piatto era stata dedicata la massima cura, che gli elfi impiegavano tutta la loro arte culinaria nella preparazione dei suoi pasti, e che nemmeno Islanzadi mangiava meglio di lui.

Ma non poteva sopportare la vista di quel vassoio.

Ho voglia di carne, borbottò, tornando a capo chino nella sua stanza. Saphira lo guardò dalla sua pedana. Mi andrebbe bene anche del pesce, o del pollo, qualunque cosa invece di questo fiume infinito di verdure. Non mi riempiono lo stomaco. Non sono un cavallo; perché devo mangiare così?

Saphira si alzò e si sporse dall'apertura a goccia che affacciava su Ellesméra, dicendo: Negli ultimi giorni mi è venuta fame. Ti piacerebbe venire con me? Potrai cucinarti quanta carne vorrai e gli elfi non lo sapranno mai. Mi piacerebbe eccome, disse Eragon, illuminandosi. Prendo la sella?

Non andremo lontano.

Eragon fece incetta di sale, erbe e altri condimenti dalle bisacce e poi, attento a non affaticarsi, si arrampicò nello spazio fra le acuminate placche dorsali di Saphira.

Spiccando il volo, Saphira sfruttò una corrente ascensionale per librarsi sulla città, dove abbandonò la corrente calda per virare e seguire un corso d'acqua che si snodava nella Du Weldenvarden fino a un laghetto a poche miglia da Ellesméra. Atterrò e si accucciò sul terreno per far scendere Eragon.

Ci sono dei conigli nell'erba che orla il laghetto, disse. Prova a catturarli. Nel frattempo io vado a caccia di cervi. Che cosa, non vuoi condividere le tue prede con me?

No, non voglio, grugnì lei. Ma lo farò, se quei topi troppo cresciuti ti sfuggono.

Eragon sorrise mentre la dragonessa si levava in volo, poi rivolse la sua attenzione ai ciuffi d'erba e di panace che circondavano lo stagno, e si accinse a procurarsi la cena.

Meno di un minuto dopo, Eragon sollevò una coppia di conigli morti dalla loro tana. Gli era bastato un istante per localizzare i conigli con la mente e poi ucciderli con una delle dodici parole di morte. Quello che aveva imparato da Oromis lo aveva privato della sfida e dell'eccitazione della caccia. Non ho nemmeno dovuto stanarli, pensò, ricordando gli anni passati ad affinare le sue capacità venatorie. Sorrise di amaro divertimento. Finalmente posso cacciare qualunque -preda, e non mi diverto più. Almeno quando ho cacciato con un sasso, insieme a Brom, era ancora una sfida, ma così... così è un massacro.

L'ammonimento della fabbricante di spade, Rhunòn, gli tornò alla mente: "Quando puoi ottenere tutto quello che vuoi pronunciando qualche parola, non ha più importanza la meta, ma il viaggio per raggiungerla."

Avrei dovuto darle ascolto, si disse Eragon.

Con mosse esperte trasse il suo vecchio pugnale da caccia, spellò i conigli e li privò delle interiora - mettendo da parte cuore, polmoni, reni e fegato - e seppellì le viscere perché l'odore non attraesse le bestie. Poi scavò una buca, la riempì di legna e accese un fuoco con la magia, dato che non aveva pensato a portare con sé pietra focaia e acciarino. Badò al fuoco finché non divenne un letto di braci. Tagliando un rametto di sanguinella, lo scortecciò e lo bruciacchiò sui tizzoni perché perdesse l'amara linfa, poi infilzò le carcasse sullo spiedo e lo appoggiò su due rami a forcella conficcati nel terreno. Per le interiora, posò un sasso piatto sulla brace e lo spalmò di grasso perché fungesse da padella. Saphira lo trovò accovacciato accanto al fuoco, intento a rigirare lentamente lo spiedo. Atterrò con un cervo morto che le penzolava dalle fauci e i resti di un secondo stretti fra gli artigli. Adagiando la sua mole sull'erba fragrante, cominciò a mangiare la preda, divorandola intera, compresa la pelle. Le ossa schioccarono fra i suoi denti affilati come rami che si spezzano in una bufera.

Quando i conigli furono pronti, Eragon agitò lo spiedo per farli raffreddare, poi guardò la carne dorata e lucente che emanava un aroma allettante.

Quando aprì la bocca per staccare il primo morso, il suo pensiero tornò involontariamente alle meditazioni. Ricordò le escursioni nella mente degli uccelli, degli scoiattoli e dei topi, come li aveva sentiti pieni di energia e come lottavano con vigore per il diritto di esistere davanti al pericolo. E se questa vita è tutto quello che hanno... Con un moto di repulsione, Eragon gettò via la carne, inorridito dal fatto di aver ucciso i conigli come se avesse assassinato due persone. Lo stomaco gli si ribellò e dovette sforzarsi per non vomitare.

Saphira alzò gli occhi dal suo festino per guardarlo preoccupata.

Inspirando a fondo, Eragon si premette i pugni sulle ginocchia nel tentativo di controllarsi e capire che cosa lo sconvolgeva tanto. Per tutta la vita aveva mangiato carne, pesce e pollame. Gli piaceva. E adesso si sentiva male tìsicamente al solo pensiero di mangiare dei conigli. Guardò Saphira. Non posso farlo, le disse.

Il mondo è fatto così: ciascuno mangia qualcun altro. Che senso ha resistere all'ordine delle cose? Lui riflettè sulla domanda. Non condannava coloro che mangiavano carne: sapeva che era l'unico mezzo di sussistenza per molti poveri contadini. Ma lui non poteva più farlo, a meno di non morire di fame. Dopo essere stato dentro un coniglio e aver percepito quel che un coniglio sentiva... mangiarlo sarebbe stato come mangiare una parte di sé. Perché possiamo migliorarci, rispose a Saphira. Dovremmo forse seguire i nostri impulsi di ferire o uccidere qualcuno che ci fa arrabbiare, o prendere quello che vogliamo dai più deboli, e in generale ignorare i sentimenti degli altri? Siamo fatti imperfetti e dobbiamo guardarci dai nostri difetti altrimenti ci distruggeranno. Indicò i conigli. Come ha detto Oromis, perché causare sofferenze inutili?

Vorresti rinunciare a tutti i tuoi desideri, dunque? Soltanto a quelli distruttivi.

Ne sei assolutamente convinto?

Sì.

In questo caso, disse Saphira, avvicinandosi, saranno per me un ottimo dessert. In un batter d'occhio, ingoiò i due conigli e poi leccò la pietra con le interiora, grattandola con la lingua barbata fino a farla luccicare. Io, se non altro, non posso vivere di sole piante... quello è cibo per prede, non per draghi. Mi rifiuto di sentirmi in colpa per come mi nutro. Tutto ha il suo posto al mondo. Perfino un coniglio lo sa.

Non sto cercando di farti sentire in colpa, disse Eragon, dandole una pacca sul fianco. È una decisione personale. Non voglio costringere nessuno ad adottare la mia scelta.

Molto saggio, commentò lei con una punta di sarcasmo.

Uova infrante e nido distrutto

Concentrati, Eragon» disse Oromis, con voce paziente. Eragon battè le palpebre e si strofinò gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco i glifi che decoravano il foglio di pergamena davanti a sé. «Mi dispiace, maestro.» La stanchezza lo rallentava come se avesse dei pesi attaccati alle membra. Aguzzò la vista per osservare i glifi curvi e appuntiti, sollevò il calamo di penna d'oca e cominciò a ricopiarli. Attraverso la finestra alle spalle di Oromis, la distesa erbosa in cima alla rupe di Tel'naeir si andava screziando di ombre per il sole morente. In lontananza, brandelli di nuvole rosa striavano il cielo.

La mano di Eragon si contrasse quando una fitta di dolore gli percorse la gamba, e spezzò la punta del calamo, schizzando inchiostro sulla carta. Dall'altro lato del tavolo, anche Oromis trasalì, stringendosi il braccio destro. Saphira! gridò Eragon. Tentò di raggiungerla con la mente, ma con sua sorpresa si trovò ostacolato da una barriera impenetrabile che lei stessa aveva eretto intorno a sé. A stento la percepiva. Era come tentare di afferrare una sfera di liscio granito coperto d'olio. Lei continuava a sfuggirgli.

Eragon guardò Oromis. «È successo qualcosa, vero?»

«Non lo so. Glaedr sta tornando, ma si rifiuta di parlarmi.» Staccando Naegling, la sua spada, dalla parete, Oromis uscì dal capanno e si fermò sul ciglio della rupe, con la testa alzata, in attesa di veder comparire il drago dorato. Eragon lo raggiunse, pensando a tutto quello che poteva essere accaduto a Saphira, il probabile e l'improbabile. I due draghi si erano alzati in volo a mezzogiorno, diretti a nord, in un luogo chiamato la rocca delle Uova Infrante, dove i draghi selvatici dimoravano nei tempi antichi. Era un viaggio facile. Non possono essere stati gli Urgali; gli elfi non li lasciano entrare nella Du Weldenvarden, si disse.

Alla fine scorsero Glaedr come un puntolino nero fra le nubi violette. Mentre scendeva, Eragon vide una ferita sulla zampa anteriore destra del drago, una lacerazione fra le sue squame sovrapposte, grande quanto la mano di Eragon. Sangue scarlatto scorreva nei solchi fra le squame adiacenti.

Nel momento in cui Glaedr toccò terra, Oromis corse verso di lui, ma si fermò quando il drago gli ringhiò contro. Saltellando sulla zampa ferita, Glaedr si rifugiò ai margini della foresta, dove si accovacciò sotto la volta di rami, dando la schiena a Eragon, per leccarsi la ferita.

Oromis si avvicinò e s'inginocchiò sull'erba accanto a Glaedr, tenendosi a distanza con serena pazienza. Era ovvio che avrebbe aspettato tutto il tempo necessario. Eragon si innervosiva sempre di più col passare dei minuti. Alla fine, senza alcun segnale evidente, Glaedr permise a Oromis di avvicinarsi e di ispezionargli la zampa. La magia fluì dal gedwéy ignasia di Oromis quando appoggiò la mano sullo squarcio di Glaedr.

«Come sta?» chiese Eragon, quando Oromis si ritirò.

«Sembra una ferita terribile, ma non è che un graffio per uno come Glaedr.»

«E Saphira? Non riesco ancora a entrare in contatto con lei.»

«Devi andare tu da lei» disse Oromis. «È ferita, ma non soltanto nel fisico. Glaedr mi ha raccontato poco di quanto è successo, ma io ho intuito molto, e ti consiglio di affrettarti.»

Eragon si guardò intorno in cerca di un mezzo di trasporto, e gemette di angoscia nel vedere che non ce n'erano. «Come faccio a raggiungerla? È troppo lontana, non c'è un sentiero, e non posso...»

«Calmati, Eragon. Come si chiamava lo stallone che ti ha portato qui da Silthrim?»

Eragon ci mise qualche istante per ricordare. «Folkvir.»

«Allora chiamalo con la magia. Pronuncia il suo nome e trasmettigli la fretta che hai, nel più potente dei linguaggi, e lui verrà ad aiutarti.»

Lasciando che la magia gli pervadesse la voce, Eragon invocò Folkvir, facendo riecheggiare la sua implorazione fra le colline boscose fino a Ellesméra, con tutta l'urgenza che riuscì a evocare. Oromis annuì, compiaciuto. «Ben fatto.» Una decina di minuti più tardi, Folkvir emerse dai recessi ombrosi della foresta come un fantasma argenteo, scuotendo la criniera e sbuffando di eccitazione. I fianchi dello stallone ansimavano per quanto aveva corso. Saltando in groppa al piccolo cavallo elfico, Eragon disse: «Tornerò appena posso.»

«Fa' quel che devi» rispose Oromis.

Poi Eragon piantò i talloni nei fianchi dello stallone e gridò: «Corri, Folkvir! Corri!» Il cavallo partì al galoppo, addentrandosi nella Du Weldenvarden e facendosi strada con incredibile destrezza fra i pini contorti. Eragon lo guidava verso Saphira con immagini mentali.

In mancanza di una pista nel sottobosco, un cavallo come Fiammabianca avrebbe impiegato tre o quattro ore per raggiungere la rocca delle Uova Infrante. Folkvir coprì la distanza in poco più di un'ora.

Ai piedi del monolito di basalto, che emergeva dalla foresta come un pilastro verde screziato e superava gli alberi di ben oltre cento piedi, Eragon mormorò: «Fermo» poi smontò a terra. Guardò la cima distante della rocca delle Uova Infrante. Saphira era seduta lì.

Camminò intorno al perimetro, in cerca di un modo per scalare il pinnacolo, ma invano, perché la roccia era liscia e inaccessibile: non c'erano fenditure, crepe o altri appigli.

Sarà un problema, pensò.

«Resta qui» disse a Folkvir. Il cavallo lo guardò con i suoi occhi intelligenti. «Pascola, se vuoi, ma resta qui, intesi?» Folkvir nitrì e, col suo muso vellutato, spinse il braccio di Eragon. «Sì, sei stato molto bravo.»

Con lo sguardo fisso sulla vetta del monolito, Eragon chiamò a raccolta le forze e nell'antica lingua disse: «Su!» In seguito si rese conto che se non fosse stato abituato a volare con Saphira, l'esperienza sarebbe stata abbastanza sconvolgente da fargli perdere il controllo sull'incantesimo, col rischio di sfracellarsi al suolo. Il terreno gli sprofondò da sotto i piedi in un lampo, i tronchi degli alberi si assottigliarono, mentre lui fluttuava verso la parte bassa del fogliame, e poi verso il cielo della sera. I rami gli graffiavano la faccia e le spalle come artigli mentre usciva allo scoperto. Al contrario di quando si trovava in groppa a Saphira, questa volta conservò il senso del peso, come se ancora si trovasse con i piedi per terra.

Giunto ai margini della rocca delle Uova Infrante, Eragon si spostò in avanti e sciolse la magia, atterrando su una zona coperta di muschio. Si accasciò, esausto, e aspettò di vedere se lo sforzo gli avrebbe scatenato una crisi alla schiena; non accadde nulla, e così sospirò di sollievo.

La vetta del monolito era composta da torri frastagliate divise da gole ampie e profonde, dove non cresceva niente se non qualche raro fiore selvatico. Nere cavèrne costellavano le torri, alcune naturali, altre scavate nel basalto con artigli grossi quanto il braccio di Eragon. Gli uccelli avevano fatto il nido dove un tempo dimoravano i draghi: erano falchi e aquile, e lo osservavano, pronti ad attaccare se avesse minacciato le loro uova.

Eragon s'incamminò nel tetro paesaggio, attento a non slogarsi una caviglia sul terreno accidentato o a non avvicinarsi troppo a uno dei crepacci che fendevano il pilastro. Se ci fosse caduto dentro, sarebbe precipitato nel vuoto. In più occasioni dovette arrampicarsi su ripide creste, e altre due volte fu costretto a ricorrere alla magia per salire. Ovunque erano visibili testimonianze della presenza dei draghi, da profondi solchi nel basalto e pozze di roccia fusa e rappresa a un certo numero di opache squame incolori rimaste incastrate negli angoli, insieme ad altri detriti. A un certo punto s'imbattè in un oggetto tagliente e, chinandosi per esaminarlo, scoprì che si trattava di un frammento di uovo di drago verde.

Sul versante orientale del monolito si trovava la torre più alta, al centro della quale si apriva la caverna più grande. Fu lì che finalmente Eragon trovò Saphira, rannicchiata in una depressione contro la parete di fondo, la schiena rivolta all'ingresso. Tremava tutta. Le pareti della grotta portavano segni recenti di bruciature, e i cumuli di ossa antiche erano sparsi ovunque, come se ci fosse stata una lotta.

«Saphira» disse Eragon, parlando ad alta voce, perché lei continuava a tenere chiusa la mente.

Lei voltò la testa di scatto, e lo guardò come se fosse un estraneo; le sue pupille si ridussero a due nere fessure mentre i suoi occhi si adattavano alla luce del tramonto alle spalle di Eragon. Ringhiò una volta, come un cane selvatico, e poi si volse. Nel farlo, sollevò l'ala sinistra ed espose un lungo squarcio lungo la coscia. Eragon ebbe un tuffo al cuore a quella vista.

Sapeva che lei non gli avrebbe permesso di avvicinarsi, com'era accaduto a Oromis con Glaedr, così si inginocchiò fra le ossa frantumate e attese. Attese senza dire una parola o fare un gesto, finché le gambe non gli si addormentarono e le mani s'irrigidirono per il freddo. Eppure non si rammaricava del disagio. Avrebbe volentieri pagato quel prezzo se significava aiutare Saphira.

Dopo molto tempo, lei disse: Sono stata una sciocca.

Siamo tutti sciocchi, a volte.

Questo non rende più facili le cose, quando tocca a te fare la parte dello stupido.

Già, suppongo di no.

Ho sempre saputo che cosa fare. Quando morì Garrow, sapevo che la cosa giusta era inseguire i Ra'zac. Quando morì Brom, sapevo che saremmo dovuti andare a Gil'ead, e poi dai Varden. E quando morì Ajihad, sapevo che avresti dovuto giurare fedeltà a Nasuada. Il cammino è sempre stato chiaro per me. Tranne che adesso. Su questo unico argomento mi sento smarrita.

Di che si tratta, Saphira?

Invece di rispondere, lei cambiò argomento e gli chiese: Sai perché questo posto si chiama la rocca delle Mova Infrante?

No.

Perché durante la guerra fra draghi ed elfi, gli elfi ci rintracciarono fin qui e ci uccisero nel sonno. Distrussero i nostri nidi e infransero le nostre uova con la magia. Quel giorno piovve sangue sulla foresta. Nessun drago è mai vissuto qui da allora.

Eragon rimase in silenzio. Non era quello il motivo per cui era lì. Avrebbe aspettato finché lei non fosse stata pronta a svelargli la vera questione.

Di' qualcosa! esclamò Saphira.

Mi permetterai di guarirti la zampa?

Lasciami in pace.

Allora resterò seduto qui, muto e immobile come una statua, finché non diventerò polvere; grazie a te, ho la pazienza di un drago.

Quando alla fine lei parlò, le sue parole furono esitanti, amare e venate di ironia. Mi vergogno ad ammetterlo. Quando siamo arrivati qui e ho visto Glaedr, ho provato una gioia immensa nello scoprire che un altro membro della mia razza era sopravvissuto, a parte Shruikan. Non avevo mai visto un altro drago prima, se non nei ricordi di Brom. E ho pensato... ho pensato che Glaedr si sarebbe rallegrato della mia esistenza, come io della sua.

Ma lo ha fatto.

Non capisci. Pensavo che sarebbe stato il compagno che non mi sarei mai aspettata di avere, e che insieme avremmo potuto ricostruire la nostra razza. Sbuffò, e una vampa di fuoco le sprizzò dalle narici. Mi sbagliavo. Lui non mi vuole. Eragon scelse con cura le parole della risposta, per non offenderla e per darle un minimo di conforto. Questo perché sa che sei destinata a qualcun altro: un uovo di quelli che restano, e sono solo due. Né sarebbe corretto per lui accoppiarsi con te, dato che è il tuo maestro.

O forse non mi trova abbastanza attraente.

Saphira, nessun drago è brutto, e tu sei la più bella delle dragonesse.

Sono una sciocca, disse lei. Ma sollevò l'ala sinistra e la tenne sospesa perché lui potesse curarle la ferita. Eragon si avvicinò adagio al suo fianco ed esaminò la ferita cremisi, lieto che Oromis gli avesse dato tante pergamene di anatomia da leggere. Il colpose inferto da un artiglio o da una zanna, non sapeva dirlo - le aveva squarciato il quadricipite, sotto la pelle coriacea, ma non era andato tanto a fondo da snudare l'osso. Limitarsi a chiudere i lembi della ferita, come Eragon aveva fatto tante volte, non sarebbe bastato. Bisognava ricucire il muscolo. L'incantesimo che Eragon usò era lungo e complesso, e nemmeno lui ne capiva tutti i dettagli, perché lo aveva memorizzato da un antico testo che forniva poche spiegazioni, oltre all'affermazione secondo cui - purché non ci fossero ossa rotte o lesioni agli organi interni - "questo incantesimo guarirà qualsiasi ferita di origine violenta, tranne la morte". Una volta pronunciata la formula, Eragon guardò affascinato il muscolo di Saphira che s'increspava sotto la sua mano - vene, nervi e fibre che si ricompattavano - e tornava integro come prima. La ferita era così grande che, nel suo stato di debolezza, Eragon non osò guarirla soltanto con l'energia del proprio corpo, e attinse anche a quella di Saphira.

Prude, disse la dragonessa quando lui ebbe finito.

Eragon sospirò e si appoggiò con la schiena al ruvido basalto, guardando il tramonto da sotto le ciglia. Temo che dovrai portarmi tu giù da questa rocca. Sono troppo stanco per muovermi.

Con un fruscìo secco, lei si voltò e appoggiò la testa sulle ossa sparse. Ti ho trattato male da quando siamo arrivati a Ellesméra. Ho ignorato i tuoi consigli, invece di darti ascolto. Mi avevi avvertita su Glaedr, ma ero troppo orgogliosa per vedere la verità nelle tue parole... Ti ho deluso come compagna, ho tradito ciò che significa essere un drago, e ho macchiato l'onore dei Cavalieri.

No, non dirlo neppure, protestò lui con foga. Saphira, tu non hai tradito il tuo dovere. Puoi aver fatto uno sbaglio, ma è stato uno sbaglio onesto, che chiunque avrebbe potuto commettere nella tua posizione.

Questo non giustifica il mio comportamento nei tuoi riguardi.

Lui cercò di incontrare il suo sguardo, ma lei lo evitò finché Eragon non le accarezzò il collo, dicendo: Saphira, i membri di una famiglia si perdonano a vicenda, anche se non sempre comprendono perché uno abbia agito in un certo modo... Tu fai parte della mia famiglia, come Roran... e anche di più. Niente di quello che farai potrà mai cambiare le cose. Niente. Quando lei non rispose, Eragon allungò una mano sotto la

sua mascella e le solleticò la pelle coriacea sotto un orecchio. Mi senti? Niente!

Lei tossicchiò, un rombo gutturale che tradiva un certo piacere, poi inarcò il collo e sollevò la testa per sfuggire alle dita birichine. Come faccio a guardare di nuovo in faccia Glaedr? Era in preda a una furia terribile... L'intera rocca tremava per la forza della sua collera.

Almeno gli hai tenuto testa quando ti ha attaccata.

Veramente è andata al contrario.

Colto di sorpresa, Eragon inarcò un sopracciglio. Be', a ogni buon conto, l'unica cosa da fare è scusarti. Scusarmi!

Sì. Vagli a dire che ti dispiace, che una cosa del genere non succederà più, e che desideri continuare l'addestramento con lui. Sono sicuro che ti capirà, se gliene darai l'occasione.

D'accordo, borbottò lei.

Ti sentirai meglio quando l'avrai fatto. Sorrise. Te lo dico per esperienza personale.

Lei sbuffò e si avvicinò all'ingresso della caverna, dove si accovacciò per contemplare l'ondulata foresta. Dovremmo andare. Presto farà buio. Stringendo i denti, Eragon si alzò - ogni movimento gli costava fatica - e si issò in groppa a Saphira, mettendoci il doppio del tempo che normalmente impiegava. Eragon?... Grazie di essere venuto. So quello che hai rischiato con la tua schiena.

Lui l'accarezzò sulla spalla. Siamo di nuovo uno?

Di nuovo uno.

Il dono dei draghi

I giorni che precedettero l'Agaeti Blòdhren furono i migliori e i peggiori per Eragon. La schiena lo tormentava più che mai, minandogli la salute e la resistenza, offuscandogli la mente; viveva nel costante terrore che si scatenasse un altro accesso. Eppure lui e Saphira non erano mai stati tanto vicini. Vivevano l'uno nella mente dell'altra come nella propria. E di quando in quando Arya andava a far loro visita nella casa sull'albero, e passeggiava per Ellesméra con loro. Tuttavia non andava mai da sola, ma portava sempre con sé Orik, o Maud, la gatta mannara.

Durante le loro passeggiate, Arya presentò a Eragon e Saphira un certo numero di elfi di riguardo: grandi guerrieri, poeti e artisti. Li portava ai concerti che si tenevano sotto i pini. E mostrò loro le innumerevoli meraviglie nascoste di Ellesméra.

Eragon approfittava di ogni occasione per parlare con lei. Le raccontò della sua infanzia nella Valle Palancar, di Roran e di Garrow, della zia Marian, aneddoti su Sloan, Ethlbert e altri compaesani, e del suo amore per le montagne che circondavano Carvahall, e delle fiammeggianti strisce di luce che adornavano il cielo notturno d'inverno. Le raccontò di quando una volpe cadde nelle vasche per la concia di Gedric e dovette essere ripescata con una rete. Le parlò della gioia di coltivare una piantagione, di come estirpava le erbacce e la nutriva fino a scorgere i primi germogli verdi che spuntavano dal terreno: sapeva che lei più di tutti poteva apprezzare quella gioia.

In cambio, Eragon ebbe l'opportunità di sapere qualcosa di più sul suo conto. La sentì parlare della sua infanzia, dei suoi amici e della sua famiglia, e delle sue esperienze fra i Varden, di cui parlava con allegria, descrivendo razzìe e battaglie a cui aveva partecipato, trattati che aveva aiutato a negoziare, le sue dispute con i nani, e gli eventi più importanti a cui aveva assistito in qualità di ambasciatrice.

Grazie a lei e a Saphira, Eragon provava una profonda pace nel cuore, ma una pace in precario equilibrio, dato che la minima influenza riusciva a turbarla. Il tempo era suo nemico, poiché Arya era destinata a partire subito dopo l'Agaeti Blòdhren. E così Eragon assaporava i momenti passati con lei, e aspettava con angoscia l'arrivo dell'imminente celebrazione.

L'intera città brulicava di intensa attività in preparazione dell'Agaeti Blòdhren. Eragon non aveva mai visto gli elfi così eccitati. Decoravano la foresta di festoni e lanterne colorate, specie intorno all'albero di Menoa, mentre l'albero stesso era abbellito da lanterne appese alla fine di ogni ramo, dove risplendevano come gocce di rugiada. Persino le piante, notò Eragon, avevano assunto un'aria festosa con un tripudio di nuovi fiori dai colori scintillanti. Spesso sentiva gli elfi che li cantavano fino a tarda notte.

Ogni giorno, centinaia di elfi giungevano a Ellesméra dalle altre città sparse nella foresta, perché nessun elfo si sarebbe mai perso la ricorrenza centenaria del trattato con i draghi. Eragon intuì che molti erano venuti anche per conoscere Saphira. Mi sembra di non fare altro che ripetere saluti all'infinito, si disse. Gli elfi assenti perché impegnati altrove avrebbero festeggiato la ricorrenza nello stesso momento, e avrebbero partecipato alle celebrazioni di Ellesméra divinando attraverso specchi magici che mostravano le sembianze di chi stava osservando, perché nessuno si sentisse spiato.

Una settimana prima dell'Agaeti Blòdhren, quando Eragon e Saphira si accingevano a tornare nei propri alloggi dalla rupe di Tel'naeir, Oromis disse: «Dovreste pensare entrambi a che cosa portare alla Celebrazione del Giuramento di Sangue. A meno che le vostre creazioni non abbiano bisogno della magia per manifestarsi o funzionare, vi sconsiglierei di ricorrere alla negromanzia. Nessuno rispetterebbe il vostro lavoro se fosse prodotto di un incantesimo e non delle vostre mani. Vi suggerisco inoltre di preparare opere separate. Anche questa è nostra usanza.»

In volo, Eragon chiese a Saphira: Qualche idea?

Forse una. Ma se non ti dispiace, vorrei vedere se funziona prima di dirtela. Lui colse un frammento d'immagine, un affioramento di nuda roccia che sporgeva dalla foresta, prima che lei lo nascondesse.

Eragon sorrise. Non mi dai nemmeno un indizio?

Fuoco. Tantissimo fuoco.

A casa, Eragon passò in rassegna le proprie capacità e pensò: Più di tutto mi intendo di agricoltura, ma non vedo in che modo possa aiutarmi. Né posso sperare di competere con gli elfi grazie alla magia, o di raggiungere la loro maestria con i mestieri che mi sono familiari. Il loro talento supera di gran lunga quello dei migliori artigiani dell'Impero. Ma tu possiedi una qualità che non ha nessun altro, disse Saphira.

Quale?

La tua identità. La tua storia, le tue avventure, la tua situazione. Usale per dar vita alla tua creazione, e produrrai qualcosa di unico. Qualunque cosa tu faccia, fai che sia fondata su quanto hai di più caro. Soltanto così avrà spessore e significato, e soltanto allora risuonerà in sintonia con le altre opere.

Lui la guardò sorpreso. Non mi ero mai reso conto che ne sapessi tanto di arte.

Infatti, ribattè lei, ma dimentichi che un pomeriggio sono rimasta con Oromis a guardarlo dipingere le sue pergamene, mentre tu volavi con Glaedr. Oromis mi ha parlato a lungo dell'argomento.

Ah. Già. Dimenticavo.

Quando Saphira se ne andò per elaborare il suo progetto, Eragon cominciò a camminare su e giù davanti al portale della sua camera da letto, riflettendo su quanto aveva detto la dragonessa. Che cosa è importante per me? s'interrogò. Saphira e Arya, ovviamente, e il fatto di essere un buon Cavaliere, ma cosa posso dire su questi argomenti che non sia ovvio? Apprezzo la bellezza della natura, ma anche questa è materia che gli elfi hanno decantato in ogni modo possibile. Ellesméra stessa è un monumento alla loro devozione. Si guardò dentro, nel tentativo di comprendere che cosa toccasse le corde più intime e oscure del suo animo. Che cosa gli destava tanta passione - odio o amore - da spingerlo a condividere ciò che provava con gli altri? Tre cose gli vennero in mente: la ferita alla schiena inferta da Durza, la paura di dover combattere un giorno Galbatorix, e le vicende epiche degli elfi che tanto lo affascinavano. Eragon si sentì pervadere da una vampa di eccitazione mentre una storia che combinava tutti questi elementi prendeva forma nella sua mente. Con le ali ai piedi, salì a due a due i gradini che portavano allo studio, si sedette alla scrivania, intinse il calamo nell'inchiostro e lo posò, tremante, su un foglio di carta immacolato.

La punta grattò quando compose i primi versi:

Nel regno lambito dal mare, sui monti screziati di blu...

Le parole fluivano dalla sua penna come dotate di vita propria. Aveva la sensazione di non essere l'inventore della storia, ma un semplice portavoce che aveva il compito di divulgarla al mondo. Non avendo mai composto nulla, Eragon era pervaso dall'eccitazione della scoperta che accompagna le nuove imprese, specie perché non aveva mai sospettato che gli potesse piacere fare il bardo.

Lavorò a ritmo febbrile, senza fermarsi per mangiare o per bere, le maniche della tunica arrotolate fino ai gomiti per non sporcarle con gli schizzi d'inchiostro che volavano dal calamo nella furia della scrittura. Era così concentrato da non sentire altro che il ritmo del suo poema, non vedere altro che la carta bianca, non pensare ad altro che alle frasi impresse a fuoco nella sua mente.

Un'ora e mezzo più tardi, lasciò cadere la penna dalla mano anchilosata, spinse indietro la sedia e si alzò dalla scrivania. Davanti a lui c'erano quattordici pagine. Non aveva mai scritto tanto in una volta sola. Eragon sapeva che il suo poema non avrebbe mai potuto competere con i grandi autori degli elfi e dei nani, ma sperava che fosse abbastanza sincero da non suscitare ilarità fra gli elfi.

Recitò il suo poema a Saphira, quando tornò. La dragonessa disse: Ah, Eragon, quanto sei cambiato da quando abbiamo lasciato la Valle Palancar. Nemmeno tu riconosceresti il radazzino inesperto che partì in cerca di vendetta, credo. Quell'Eragon non avrebbe mai potuto scrivere una ballata nello stile degli elfi. Non vedo l'ora di scoprire cosa diventerai nei prossimi cinquanta o cento anni.

Lui sorrise. Se vivrò così a lungo.

«Rozzo, ma sincero» commentò Oromis, quando Eragon ebbe finito di leggergli il poema.

«Ti piace?»

«È un fedele ritratto del tuo attuale stato mentale e una lettura avvincente, ma non è un capolavoro. Ti aspettavi che lo fosse?»

«Suppongo di no.»

«Tuttavia sono sorpreso che tu abbia potuto leggerlo nella nostra lingua. Non esistono impedimenti a scrivere opere di fantasia nell'antica lingua, ma le difficoltà sorgono quando uno prova a recitarle, perché significa dar voce a delle bugie, cosa che la magia non consente.»

«Riesco a farlo» ribatte Eragon, «perché io credo che sia vero.»

«E questo conferisce alla tua opera maggior pregio... sono colpito, Eragon-finiarel. Il tuo poema sarà un degno contributo alla Celebrazione del Giuramento di Sangue.» Oromis s'infilò una mano nella veste e porse a Eragon una pergamena arrotolata e chiusa da un nastro. «Su questo rotolo sono scritti nove incantesimi di protezione che voglio che usi per te e per il nano Orik. Come hai scoperto a Silthrim, i nostri festeggiamenti sono potenti e pericolosi per chi è di costituzione più debole della nostra. L'ho visto accadere. Perfino con queste precauzioni dovrai stare attento a non farti sviare dalle bizzarrie che aleggeranno nell'aria. Stai in guardia, perché in questa occasione noi elfi siamo inclini alla follia... magnifica, gloriosa, ma pur sempre follia.»

La sera della vigilia dell'Agaeti Blòdhren - che sarebbe durata tre giorni - Eragon, Saphira e Orik accompagnarono Arya all'albero di Menoa, dov'era già radunata una moltitudine di elfi, dai capelli neri o argentei che splendevano alla luce della lanterne. Islanzadi dominava la folla da una radice rialzata ai piedi dell'albero, alta, pallida e altera come un tronco di betulla. Blagden se ne stava appollaiato sulla spalla sinistra della regina, mentre Maud, la gatta mannara, era accovacciata dietro di lei. C'erano anche Glaedr e Oromis, vestito di rosso e nero, e altri elfi che Eragon riconobbe, come Lifaen e Nari, e purtroppo anche Vanir. In alto, le stelle brillavano nel firmamento come diamanti su un drappo di velluto nero.

«Aspettate qui» disse Arya. Scivolò tra la folla e tornò in compagnia di Rhunòn. L'elfa scrutava l'ambiente con gli occhi sgranati di un gufo. Eragon la salutò, e lei ricambiò con un cenno del capo. «Piacere di rivedervi, Squamediluce e Ammazzaspettri» disse, rivolta a Saphira e a lui. Poi scorse Orik e gli parlò nella lingua dei nani, e Orik rispose con entusiasmo, palesemente compiaciuto di conversare con qualcuno nel ruvido linguaggio della sua terra natta. «Cosa ha detto?» chiese Eragon, chinandosi verso di lui.

«Mi ha invitato a casa sua a vedere i suoi lavori e a discutere di metallurgia.» Il volto di Orik esprimeva grande emozione. «Eragon, ma lo sai che ha imparato la sua arte da Fùthark in persona, uno dei leggendari grimstborithn del Dùrgrimst Ingietum? Che cosa non avrei dato per conoscerlo!»

Insieme aspettarono la mezzanotte, quando Islanzadi alzò il braccio sinistro nudo per indicare la luna nuova, come una lancia di marmo bianco. La luce emessa dalle lanterne che punteggiavano l'albero di Menoa si addensò in una sfera biancastra che andò a posarsi sul suo palmo. Poi Islanzadi avanzò lungo la radice fino al tronco massiccio e depose la sfera in una cavità della corteccia, dove rimase sospesa, pulsante.

Eragon si rivolse ad Arya sotto voce. «È cominciata?»

«È cominciata!» Arya rise. «E finirà quando il fuoco fatuo si spegnerà.»

Gli elfi si suddivisero in gruppi sparsi per tutta la foresta e la radura che circondavano l'albero di Menoa, e dal nulla trassero tavoli traboccanti di piatti invitanti, che dall'aspetto ultraterreno sembravano più opera di stregoni che di cuochi.

Poi cominciarono a cantare con le loro voci limpide e melodiose. Cantavano diverse canzoni, ma ciascuna faceva parte di una più vasta melodia che evocò una malia nella notte sognante, affinando i sensi, cancellando ritrosie e diffondendo una magia febbrile nei festeggiamenti. I versi parlavano di gesta eroiche e ricerche per nave o a cavallo in terre remote, e raccontavano il dolore per la bellezza perduta. La musica pulsante avvolse Eragon, che si sentì pervadere da un selvaggio abbandono, un desiderio di liberarsi dalla sua vita per danzare nei boschi degli elfi per sempre. Al suo fianco, Saphira mormorava la melodia a labbra chiuse, le palpebre calate sugli occhi lucenti. Che cosa accadde in seguito, Eragon non fu mai in grado di ricordarlo completamente. Era come se avesse la febbre e avesse perso i sensi. Ricordava certi episodi con vivida chiarezza - brillanti, acuti sprazzi di gioia - ma non riusciva a ricostruire l'ordine esatto in cui si erano verificati. Perse il conto dei giorni e delle notti, perché malgrado lo scorrere del tempo, la foresta sembrava immersa in una penombra eterna. Non sapeva nemmeno se aveva dormito, o aveva avuto bisogno di dormire, durante la celebrazione...

Ricordò di aver girato in tondo stringendo le mani di una fanciulla elfica dalle labbra color ciliegia, il sapore del miele sulla lingua e l'aroma del ginepro nell'aria...

Ricordò elfi appollaiati sui rami protesi dell'albero di Menoa, come tanti storni. Pizzicavano le corde di arpe d'oro e si divertivano a porre indovinelli a Glaedr, appollaiato di sotto, e di quando in quando puntavano un dito al cielo, dove un'esplosione di scintille ambrate compariva in varie forme prima di dissolversi...

Ricordò di essersi seduto in una Valletta, con la schiena appoggiata a Saphira, a osservare la stessa fanciulla elfica che ondeggiava davanti a un pubblico rapito, cantando:

Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai.

Lontano, lontano da me tu sarai, e mai più ti rivedrò! Lontano, lontano da me tu sarai, ma per sempre io ti aspetterò. Ricordò una serie infinita di poesie, alcune di argomento triste, altre gioiose, quasi tutte un misto di gioia e tristezza. Ascoltò tutta la poesia di Arya e pensò che era molto bella, e quella di Islanzadi, che era più lunga, ma ugualmente piacevole. Tutti gli elfi si radunarono per ascoltare le loro parole...

Ricordò le meraviglie che gli elfi avevano preparato per la celebrazione, molte delle quali non avrebbe mai pensato possibili, nemmeno con l'ausilio della magia. Indovinelli e giocattoli, opere d'arte e armi, e altri oggetti il cui senso gli sfuggiva. Un elfo aveva creato una sfera di vetro dentro la quale ogni due o tre secondi sbocciava un fiore diverso. Un altro elfo aveva trascorso decenni a viaggiare per la Du Weldenvarden per apprendere i suoni degli elementi, e ora suonava i più belli dalla gola di cento gigli bianchi.

Rhunòn contribuì con uno scudo che non si rompeva, un paio di guanti d'acciaio che consentivano di maneggiare il piombo fuso senza scottarsi e una delicata scultura che raffigurava uno scricciolo in volo ricavata da un solido blocco di metallo e dipinta con tale perizia che l'uccello sembrava vivo.

Una piramide di legno alta otto pollici e costruita con cinquantotto pezzi a incastro fu l'offerta di Orik che entusiasmò gli elfi; essi insistettero perché la smontasse e la rimontasse. «Mastro Barbalunga» lo chiamavano. «Dita ingegnose indicano una mente ingegnosa.»

Ricordò Oromis che lo prendeva in disparte, allontanandolo dalla musica, e di aver chiesto all'elfo: «Che cosa succede?»

«Hai bisogno di schiarirti la mente.» Oromis lo condusse verso un tronco caduto e lo fece sedere. «Resta qui qualche minuto. Ti sentirai meglio.»

«Sto bene. Non ho bisogno di riposare» protestò Eragon.

«Non sei in condizioni di giudicare te stesso, al momento. Resta qui finché non sarai in grado di elencare, dal più piccolo al più grande, tutti gli incantesimi di cambiamento, poi potrai riunirti a noi. Prometti.»

Ricordò creature strane e misteriose, che sciamavano dal cuore della foresta. In gran parte erano animali che erano stati alterati dagli incantesimi accumulati nella Du Weldenvarden e adesso si sentivano attratti dall'Agaeti Blòdhren come un uomo che muore di fame è attratto dal cibo. Sembravano trarre il loro nutrimento dalla presenza della magia degli elfi. Molti osarono rivelarsi soltanto come un paio di occhi scintillanti ai margini dei coni di luce delle lanterne. Un animale che si mostrò fu la lupa con le sembianze di una donna vestita di bianco - che Eragon aveva già incontrato. Sgusciò da dietro un cespuglio di sanguinella, i denti aguzzi snudati in un ghigno divertito, gli occhi gialli che guizzavano intorno. Ma non tutte le creature erano animali. Alcuni erano elfi che avevano alterato la propria forma originale in nome di una migliore funzionalità o di un diverso ideale di bellezza. Un elfo ricoperto da una pelliccia grigia pezzata balzò oltre Eragon e continuò a caracollare intorno, a quattro zampe, oppure su due piedi. La sua testa era stretta e allungata, con orecchie a punta da felino, le braccia lunghe fino alle ginocchia, e morbidi cuscinetti sui palmi delle mani dalle dita affusolate.

Più tardi, due elfe identiche si presentarono a Saphira. Si muovevano con languida grazia e quando si portarono le dita alle labbra nel saluto tradizionale, Eragon vide che le loro dita erano unite da una ragnatela traslucida. «Siamo venute da molto lontano» sussurrarono. Mentre parlavano, tre file di branchie pulsarono ai lati dei loro colli sottili, esponendo il rosa della carne. La loro pelle riluceva, come bagnata d'olio. I lunghi capelli lisci ricadevano oltre le spalle strette. Eragon incontrò un elfo corazzato, ricoperto da squame sovrapposte come quelle di un drago, una cresta ossea sulla testa, una fila di punte aguzze che gli correva lungo la schiena, e due pallide fiamme che baluginavano in fondo alle narici dilatate.

E ne incontrò altri che non erano del tutto riconoscibili: elfi dai lineamenti che tremolavano, come visti attraverso l'acqua; elfi che quando erano immobili non si distinguevano dagli alberi circostanti; elfi alti con gli occhi completamente neri, anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco, di una bellezza inquietante che spaventò Eragon, capaci di passare attraverso le cose che toccavano come ombre.

L'esempio più vivido di quelle trasformazioni era l'albero di Menoa, che un tempo era stato l'elfa Linnéa. L'albero parve prendere vita in sintonia con le attività della radura. I suoi rami si muovevano anche se non c'era un filo di vento; a volte si sentivano nel tronco scricchiolii che andavano al passo con la musica, e un'aria di serena benevolenza emanava dall'albero per diffondersi su quelli più vicini...

E ricordò due attacchi di dolore alla schiena; urlava e si contorceva nell'ombra, mentre gli elfi inebriati continuavano a festeggiare intorno a lui, e soltanto Saphira accorse in suo aiuto...

Il terzo giorno dell'Agaetì Blòdhren, o almeno così gli fu detto in seguito, Eragon recitò i suoi versi agli elfi. Si alzò e disse: «Non sono un fabbro, non so intagliare, né tessere, né fabbricare ceramiche, né dipingere. Non posso competere con voi nelle opere che create con la magia. Perciò non mi resta altro che la mia esperienza, che ho tentato di interpretare in una storia, anche se non sono nemmeno un bardo.» Poi, così come Brom cantava le ballate a Carvahall, Eragon intonò:

Nel regno lambito dal mare, Sui monti screziati di blu, D'inverno nacque un uomo Con un unico scopo e nulla più: Uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

Sotto querce antiche come il tempo, Allevato con amore e saggezza, Correva coi cervi e con gli orsi, E dagli anziani imparò la fermezza

Per uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

Imparò a spiare il predatore oscuro,

Quando sorprende il ricco e il mendicante;

A parare i suoi colpi e combatterlo Con tegole, pietre, ossa e piante; E a uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre. Il tempo passò veloce come un lampo, Finché l'uomo non raggiunse l'età, In cui la febbre nel corpo divampa E nelle vene ribolle voluttà. Incontrò una leggiadra fanciulla,

Che era forte e saggia e virtuosa, Circonfusa dalla Luce di Geda,

Che splendeva sulla fronte radiosa.

Nel suo sguardo intenso e arcano, Nei suoi occhi come la notte scuri Lui intravvide un futuro splendente Dove sarebbero stati sicuri

Di non temere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

E così Eragon raccontò di come l'uomo viaggiò fino alla terra di Durza, dove scovò e combattè il nemico, malgrado il freddo terrore che attanagliava il suo cuore. Ma quando alla fine trionfò, l'uomo non inflisse il colpo fatàle, perché ormai aveva sconfitto il nemico e non temeva più il destino dei mortali. Non aveva più bisogno di uccidere il nemico nella terra di Durza. L'uomo rinfoderò la spada e tornò a casa e sposò la sua bella in una sera d'estate. Passarono molti anni felici e contenti finché la sua barba non divenne bianca. Ma...

Nelle buie ore che precedono l'alba,

Il nemico strisciò nella quiete Della stanza dove l'uomo dormiva, Per placar di vendetta la sete.

L'uomo dal cuscino alzò la testa E guardò dritto il nemico che divenne il volto pallido e freddo della Morte, Sovrana della notte perenne.

Nel cuore invecchiato dell'uomo

Una pace serena discese nel profondo;

Da tempo non temeva l'abbraccio della Morte,

L'ultimo abbraccio per ogni uomo al mondo.

Lieve come un sussurro di vento,

il nemico dall'uomo strappò il suo spirito vivido e pulsante, Che per sempre da allora riposò

Nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

Eragon tacque e, sentendo gli sguardi su di lui, chinò il capo e andò a sedersi. Provava un certo imbarazzo ad aver svelato così tanti dettagli di sé.

Il nobile elfo Dàthedr disse: «Tu hai scarsa stima di te, Ammazzaspettri. A quanto pare hai scoperto un nuovo talento.» Islanzadi levò una pallida mano. «La tua opera entrerà a far parte della grande biblioteca del Palazzo di Tialdarì, Eragon-finiarel, perché tutti possano apprezzarla. Sebbene il tuo poema sia un'allegorìa, credo che abbia aiutato molti di noi a comprendere meglio le traversie che hai dovuto affrontare da quando ti è apparso l'uovo di Saphira, di cui noi siamo, e in larga misura, responsabili. Ti prego di leggercelo di nuovo affinchè tutti noi possiamo riflettere meglio.» Lusingato, Eragon chinò il capo e obbedì. Poi toccò a Saphira presentare il suo lavoro agli elfi. Si allontanò in volo nella notte e tornò con una pietra nera grande tre volte un uomo, stretta fra gli artigli. Atterrò soltanto sulle zampe posteriori e collocò il macigno al centro di uno spiazzo erboso, perché tutti potessero vederlo. La roccia lucida era stata fusa e in qualche modo plasmata in curve intricate che si avvolgevano su se stesse come onde cristallizzate. Le lingue striate di roccia seguivano disegni così involuti che l'occhio aveva difficoltà a seguire una singola fascia dalla base alla cima, ma saltava da una spirale all'altra.

Dato che era la prima volta che Eragon vedeva la scultura, la ammirò con lo stesso interesse degli elfi. Come ci sei riuscita?

Gli occhi di Saphira scintillarono maliziosi. Leccando la roccia fusa. Poi abbassò la testa e soffiò a lungo fuoco sulla pietra, che si trasformò in un pilastro dorato che saliva verso le stelle, artigliandole con dita splendenti. Quando Saphira chiuse le fauci, i contorni della scultura, sottili come carta, rosseggiarono ardenti, mentre piccole fiammelle tremolavano nelle cavità e nelle fenditure della roccia. Le morbide volute della pietra sembravano muoversi nella luce ipnotica.

Gli elfi esclamarono di meraviglia, battendo le mani e danzando intorno alla roccia. Un elfo gridò: «Mirabile opera, Squamediluce!»

È bellissima, disse Eragon.

Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Grazie, piccolo mio.

Poi toccò a Glaedr presentare la sua offerta: una lastra di roccia rossa che aveva scolpito con la punta di un artiglio per raffigurare Ellesméra vista dall'alto. E anche Oromis presentò il suo contributo: la pergamena finita che Eragon lo aveva visto illustrare durante le lezioni. Sulla metà superiore del rotolo si susseguivano colonne di glifi - una copia della Ballata di Vestati il Marinaio - mentre nella metà inferiore era rappresentato il panorama di un regno fantastico, ricco di dettagli e reso con grande abilità artistica.

Arya prese Eragon per mano e lo condusse nella foresta, fino all'albero di Menoa, dove gli disse: «Guarda come il fuoco fatuo si sta spegnendo. Non abbiamo che poche ore prima del sopraggiungere dell'alba, e allora dovremo tutti tornare al mondo della fredda ragione.»

Intorno all'albero si erano radunate frotte di elfi, i volti radiosi di avida aspettativa. Con solenne dignità, Islanzadi affiorò dalla folla e camminò lungo una radice larga quanto un viale, che risaliva piano fino a curvare su se stessa. La regina si fermò su quella sorta di pulpito nodoso, scrutando gli elfi in attesa. «Com'è nostra usanza, e come stabilito alla fine della Guerra dei Draghi dalla regina Tarmunora, dal primo Eragon, e dal drago bianco che rappresentava la sua razza - il cui nome è impronunciabile in qualsiasi lingua - quando legarono il fato degli elfi e dei draghi, ci siamo riuniti per commemorare il giuramento di sangue con canti, e danze, e i frutti del nostro lavoro. Quando si tenne l'ultima celebrazione, tanti anni fa, la nostra situazione era disperata. Da allora in qualche modo è migliorata, grazie agli sforzi congiunti di noi elfi, dei nani e dei Varden, ma Alagaésia resta ancora sotto l'ombra funesta dei Wyrdfell, e dobbiamo continuare a vivere con la vergogna di come tradimmo i draghi.

«Dei Cavalieri del passato resta soltanto Oromis con Glaedr. Brom e molti altri sono entrati nel vuoto nell'ultimo secolo. Tuttavia una nuova speranza ci è giunta con Eragon e Saphira, ed è più che giusto che loro siano qui adesso, mentre celebriamo il giuramento fra le nostre razze.»

A un cenno della regina, gli elfi sgombrarono una vasta area della radura intorno all'albero di Menoa. Lungo il perimetro, conficcarono nel terreno lunghi pali intagliati da cui pendevano delle lanterne, mentre musici con flauti, arpe e tamburi si disponevano lungo un'alta radice. Guidato da Arya ai bordi del cerchio, Eragon si ritrovò seduto fra lei e Oromis, mentre Saphira e Glaedr erano appostati ai loro lati come statue tempestate di gemme.

Rivolto a Eragon e Saphira, Oromis disse: «Osservate con attenzione, perché questo sarà molto importante per la vostra eredità di Cavalieri.»

Quando tutti gli elfi si furono acquietati, due fanciulle elfiche avanzarono al centro dello spiazzo libero, dandosi la schiena. Erano di una bellezza straordinaria, e identiche in ogni dettaglio, tranne i capelli: una aveva la chioma nera come un pozzo senza fondo, mentre i capelli dell'altra rilucevano come filigrana d'argento.

«Le Custodi, Iduna e Néya» mormorò Oromis.

Dalla spalla di Islanzadi, Blagden gracchiò: «Wyrda!»

Muovendosi all'unisono, le due elfe portarono le mani alle spille che serravano i lembi dei loro bianchi mantelli sotto la gola, le aprirono, e la stoffa impalpabile si afflosciò ai loro piedi. Malgrado fossero nude, le due donne erano coperte dall'iridescente tatuaggio di un drago. Il tatuaggio cominciava con la coda del drago avvolta intorno alla caviglia sinistra di Iduna, le risaliva lungo il polpaccio e la coscia, le passava intorno al busto e continuava sulle spalle di Nèya, e terminava sul suo petto, dove si adagiava la testa del drago. Ogni singola squama era dipinta con un colore diverso; le vibranti sfumature conferivano al tatuaggio l'aspetto di un arcobaleno.

Le fanciulle intrecciarono le mani e le braccia, affinchè il drago apparisse integro, serpeggiando da un corpo all'altro senza interruzioni. Poi alzarono entrambe un piede nudo e lo pestarono sul terreno solido con un soffice thump. E di nuovo: thump.

Al terzo thump, i musici batterono i tamburi seguendo la cadenza. Ancora un thump, e gli arpisti pizzicarono le corde dei loro strumenti dorati; un momento dopo, gli elfi con i flauti si unirono alla pulsante melodia.

Dapprima lente, poi sempre più veloci, Iduna e Néya cominciarono a danzare, segnando il tempo con i piedi sul terreno e ondeggiando in maniera tale da dare la sensazione che non fossero loro a muoversi, ma il drago tatuato sui loro corpi. Giravano in tondo, e il drago tracciava infinite spirali sulla loro pelle.

Quando le gemelle aggiunsero le loro voci alla musica, superando il ritmo martellante con grida feroci, le loro parole evocarono un incantesimo così complesso che il suo significato sfuggì a Eragon. Come il vento turbinante che precede una tempesta, le elfe accompagnarono la magia cantando con una sola voce, una sola mente e un solo intento. Eragon non conosceva le parole, ma si scoprì a mormorarle insieme agli elfi, catturato dall'inesorabile cantilena. Sentì Saphira e Glaedr che mormoravano a labbra chiuse, una profonda vibrazione così potente da riverberargli nelle ossa, da fargli formicolare la pelle e da scuotere l'aria.

Sempre più veloci volteggiavano Iduna e Nèya, finché i loro piedi non scomparvero in una nube di polvere, e le loro mani guizzavano come farfalle, madide di sudore. Le elfe accelerarono fino a raggiungere una velocità sovrumana, e la musica culminò in una frenesia di versi cantati. A un tratto, un lampo di luce attraversò tutta la lunghezza del drago tatuato, dalla testa alla coda, ed esso si risvegliò. Lì per lì Eragon pensò che fosse un'allucinazione, finché la creatura non sbattè le palpebre, dispiegò le ali e mosse gli artigli.

Una vampa di fuoco eruttò dalle fauci del drago, che balzò avanti, staccandosi dalla pelle delle elfe. Si librò in aria, dove rimase sospeso agitando le ali. Soltanto la punta della coda restava ancora collegata alle gemelle, come uno scintillante cordone ombelicale. La bestia gigantesca allungò il collo verso la luna nera e liberò un ruggito selvaggio di epoche remote, poi si volse e scrutò l'assemblea.

Quando gli occhi sinistri del drago si posarono su di lui, Eragon capì che la creatura non era una semplice apparizione, ma un essere senziente, legato alla magia e alimentato da essa. Il mormorio di Saphira e di Glaedr divenne sempre più forte, fino a colmare le orecchie di Eragon. In alto, il fantasma della loro razza calò in circolo sugli elfi, sfiorandoli con le sue ali impalpabili. Si fermò davanti a Eragon, abbracciandolo in uno sguardo sconfinato e vorticoso. Spinto da un irrefrenabile impulso, Eragon alzò la mano destra, con il palmo che gli formicolava.

Nella sua mente risuonò una voce di fuoco. Il nostro dono, affinchè tu compia ciò che devi.

Il drago piegò il collo e con il muso toccò il centro del gedwéy ignasia di Eragon. Una scintilla sprizzò fra di loro, ed Eragon s'irrigidì, mentre un calore incandescente gli pervadeva tutto il corpo, consumandolo. Lampi rossi e neri lo accecarono, e la cicatrice sulla schiena gli bruciò, come marchiata a fuoco. Cercò la salvezza sprofondando in se stesso, dove le tenebre lo avvolsero e lui non ebbe più la forza di resistere.

L'ultima cosa che udì fu la voce di fuoco che diceva: Il nostro dono per te.

In una radura stellata

Eragon si trovò solo al suo risveglio. Aprì gli occhi per fissare il soffitto intagliato della casa sull'albero che lui e Saphira condividevano. Fuori era ancora notte, e il clamore dei festeggiamenti elfici risaliva dalla città scintillante. Prima che notasse altro, Saphira gli entrò nella mente, irradiando apprensione e ansia. Gli arrivò un'immagine di lei al fianco di Islanzadi, sotto l'albero di Menoa; poi la dragonessa gli chiese: Come stai?

Mi sento... bene. Anzi, meglio di quanto non mi sia sentito da un po' di tempo a questa parte. Quanto ho... Soltanto un'ora. Sarei rimasta con te, ma avevano bisogno di Oromis, Glaedr e me per completare la cerimonia. Avresti dovuto vedere la reazione degli elfi quando sei svenuto. Non era mai successo nulla del genere prima d'ora. Sei stata tu, Saphira?

Non è stata soltanto opera mia, o di Glaedr. Le memorie della nostra razza, che hanno preso forma e sostanza grazie alla magia degli elfi, ti hanno infuso le capacità che possediamo noi draghi, poiché tu sei la nostra unica speranza per evitare l'estinzione.

Non capisco.

Guardati allo specchio, suggerì lei. Poi riposati, e all'alba tornerò da te.

Il contatto mentale si dissolse, ed Eragon si alzò in piedi e si stiracchiò, sorpreso dal grande benessere che lo pervadeva. Si recò nel camerino da bagno e prese lo specchio che usava per radersi, portandolo vicino a una lanterna per guardarsi alla luce.

Rimase impietrito.

Era come se le varie alterazioni fisiche che col tempo mutavano l'aspetto di un Cavaliere umano - e che Eragon aveva già cominciato a sperimentare da quando si era legato a Saphira - si fossero completate mentre era svenuto. Il suo volto era liscio e affinato come quello di un elfo, le orecchie appuntite come le loro e gli occhi a mandorla come i loro; la pallida pelle di alabastro emanava un tenue chiarore, come se fosse la lucentezza della magia. Sembro un principe. Eragon non aveva mai usato il termine bellissimo per un uomo, men che mai per se stesso, ma adesso l'unica parola adatta a descriverlo era quella. Eppure non era ancora interamente un elfo. La sua mascella era più pronunciata, la fronte più sporgente, il viso più largo. Era più bello di qualsiasi umano, e più virile di qualsiasi elfo. Con dita tremanti, Eragon si tastò la nuca in cerca della cicatrice.

Non sentì niente.

Si strappò di dosso la tunica e si voltò per esaminarsi allo specchio. La sua schiena era liscia come prima della battaglia del Farthen Dùr. Gli vennero le lacrime agli occhi, mentre faceva scorrere la mano lì dove Durza gli aveva inferto il colpo. In quel momento capì che la schiena non l'avrebbe più tormentato.

Non solo era scomparsa l'infame piaga che aveva scelto di tenere, ma anche tutti gli altri sfregi e le cicatrici, lasciando il suo corpo intatto come quello di un neonato. Eragon si passò un dito sul polso dove si era tagliato affilando la falce di Garrow. Non restava alcuna traccia della ferita. Anche le vaste cicatrici delle piaghe che si era procurato all'interno delle cosce durante il suo primo volo con Saphira erano scomparse. Per un momento, le rimpianse come ricordo della sua vita, ma il rimpianto durò poco quando si rese conto che ogni ferita che aveva subito, anche se piccola, era stata cancellata.

Sono diventato quello che era destino che fossi, pensò, e trasse un profondo respiro di aria inebriante. Posò lo specchio sul letto e indossò i suoi abiti migliori: una tunica cremisi cucita con fili d'oro; una cintura borchiata di giada bianca; caldi gambali felpati; un paio di stivali di stoffa, i preferiti dagli elfi; e i bracciali di cuoio che gli avevano donato i nani.

Eragon scese dall'albero e vagò tra le ombre di Ellesméra, osservando gli elfi che festeggiavano nella febbre della notte. Nessuno di loro lo riconobbe, anche se lo salutarono come fosse uno di loro e lo invitarono a unirsi ai bagordi. Eragon si sentiva fluttuare in uno stato di acuta consapevolezza, i sensi vibranti per le nuove visioni, i nuovi suoni, i nuovi odori, le nuove sensazioni che lo assalivano. Riusciva a vedere nel buio dove prima sarebbe stato cieco. Poteva toccare una foglia e, soltanto col tatto, contare ogni singolo pelo che la ricopriva. Era in grado di identificare ogni odore che gli aleggiava intorno con l'olfatto di un lupo o di un drago. E poteva sentire i passi dei topi nel sottobosco, e il rumore prodotto da una falda di corteccia che cadeva a terra; lo stesso battito del suo cuore era come il rullare di un tamburo.

I suoi vagabondaggi lo condussero oltre l'albero di Menoa, dove si fermò a osservare Saphira in mezzo ai festeggiamenti, anche se non si rivelò ai presenti nella radura.

Dove vai, piccolo mio? gli chiese la dragonessa.

Eragon vide Arya alzarsi dal suo posto accanto alla madre, farsi strada fra gli elfi e poi, come uno spirito della foresta, dileguarsi fra gli alberi. Cammino fra la candela e il buio, rispose lui, e seguì Arya.

Eragon rintracciò Arya seguendo il suo delicato profumo di aghi di pino, il lieve fruscìo prodotto dal contatto dei suoi piedi sul terreno e il mutamento nell'aria lasciato dalla sua scia. La trovò ferma, sola, ai margini di una piccola radura, come una creatura selvatica che osservasse le costellazioni muoversi nel cielo.

Quando Eragon uscì allo scoperto, Arya lo guardò stupita, come se lo vedesse per la prima volta. L'elfa spalancò gli occhi, e sussurrò: «Eragon, sei tu?»

«Sì.»

«Cosa ti hanno fatto?»

«Non lo so.»

Lui si avvicinò, e insieme passeggiarono nella fitta boscaglia, che riecheggiava di musica e voci del festino lontano. Grazie al suo cambiamento, Eragon avvertiva ancora più forte la presenza di Arya, il fruscìo degli abiti sulla sua pelle, il pallido e morbido incavo del collo, e le sue ciglia ricoperte da uno strato d'olio che le rendeva lucide e curve come petali neri bagnati di pioggia.

Si fermarono sulla riva di un piccolo torrente così limpido da essere invisibile nella fioca luce. L'unico indizio che tradiva la sua presenza era il sonoro gorgoglio dell'acqua che scorreva sulle rocce. I pini formavano una specie di grotta con i loro rami, nascondendo Eragon e Arya al mondo e riscaldando l'aria fredda e immobile. L'anfratto sembrava un luogo senza età, come se fosse stato rimosso dal mondo e sottratto, per qualche magia, al soffio inclemente del tempo.

In quel recesso segreto, Eragon si sentì improvvisamente molto vicino ad Arya, e fu travolto dalla passione che nutriva per lei. Era così inebriato dalla forza e dalla vitalità che gli scorrevano nelle vene - come dalla magia incontrollata che riempiva la foresta - che ignorò ogni cautela e disse: «Gli alberi sono alti, le stelle splendenti... e tu sei bellissima, Arya Svit-kona.» In circostanze normali, avrebbe considerato questo atto l'apice della follia, ma in quella notte frenetica e stregata gli parve perfettamente naturale.

Lei s'irrigidì. «Eragon...»

Lui ignorò il suo ammonimento. «Arya, io farei qualsiasi cosa per conquistare il tuo cuore. Ti seguirei in capo al mondo. Ti costruirei un palazzo a mani nude. Ti...»

«Vorrei che la smettessi di corteggiarmi. Me lo prometti?» Quando lui esitò, lei si avvicinò di un passo, e con voce gentile gli disse: «Eragon, questo non è possibile. Tu sei giovane, e io sono vecchia, e questo non potrà mai cambiare.»

«Non provi niente per me?»

«I miei sentimenti per te» rispose lei «sono quelli di un'amica, niente di più. Ti sono grata per avermi salvata a Gil'ead, e trovo piacevole la tua compagnia. Tutto qui... Rinuncia a questa tua ossessione, ti spezzerà il cuore, e trova qualcuna della tua età con cui trascorrere lunghi anni.»

Gli occhi di Eragon luccicarono di lacrime. «Come puoi essere tanto crudele?»

«Non sono crudele, ma gentile. Io e te non siamo fatti l'uno per l'altra.»

Al colmo della disperazione, Eragon cercò di suggerire: «Potresti darmi i tuoi ricordi, e così avrei le stesse tue esperienze e le tue conoscenze.»

«Sarebbe un abominio.» Arya levò il mento, il volto grave e solenne bagnato dal chiarore argenteo delle stelle. Una nota d'acciaio entrò nella sua voce. «Ascoltami bene, Eragon. Questo non può essere, né sarà mai. E se non riuscirai a controllarti, la nostra amicizia dovrà finire, perché le tue emozioni ci distraggono dal nostro dovere.» L'elfa accennò un inchino. «Addio, Eragon Ammazzaspettri.» Detto questo, si allontanò a grandi passi e svanì nella Du Weldenvarden. Ora le lacrime sgorgarono dagli occhi di Eragon, rotolando lungo le guance per cadere sul tappeto di muschio, dove rimasero come perle sparse su un drappo di velluto verde. Stordito, si sedette su di un tronco marcio e si seppellì il volto fra le mani, piangendo perché il suo affetto per Arya era destinato a non essere corrisposto, e perché l'aveva ancor più allontanata da sé.

Dopo qualche istante, Saphira si unì a lui. Oh, piccolo mio, disse, sfiorandolo col muso. Perché ti sei infinto questo tormento? Sapevi a che cosa saresti andato incontro se avessi corteggiato Arya di nuovo.

Non ho potuto farne a meno. Si abbandonò contro il suo ventre tiepido, dondolandosi avanti e indietro, scosso dai singhiozzi per l'immensità della sua tristezza. Coprendolo con un'ala, Saphira lo strinse a sé, come una chioccia fa con il suo pulcino. Lui si rannicchiò contro di lei, lasciandosi cullare mentre la notte diventava giorno e l'Agaetì Blòdhren si avviava alla fine.

Lo sbarco

Roran era a poppa della Cinghiale Rosso, le braccia incrociate sul petto, i piedi divaricati per tenersi in equilibrio sulla chiatta ondeggiante. Il vento salmastro gli arruffava i capelli e la barba e gli solleticava i peli sugli avambracci nudi. Al suo fianco, Clovis governava il timone. Il coriaceo marinaio puntò il dito verso la costa, indicando uno scoglio gremito di gabbiani che si stagliava ai piedi di un promontorio ondulato, proteso sul mare. «Teirm si trova dall'altro lato.»

Roran socchiuse gli occhi contro il riverbero del sole pomeridiano sull'oceano. «Allora fermiamoci qui.» «Non vuoi sbarcare in città?»

«Non tutti insieme. Chiama Torson e Flint, e di' loro di portare le chiatte su quella spiaggia. Mi sembra un buon posto per accamparci.»

Clovis fece una smorfia. «Ah! Speravo tanto in un pasto caldo stasera.» Roran capì; i viveri freschi di Narda erano finiti da un pezzo, e non erano rimasti che il maiale salato, le aringhe affumicate, i cavoli conservati, le gallette che le donne avevano fatto con la farina acquistata, le verdure in salamoia e qualche pezzo di carne avanzato da quando avevano macellato uno dei pochi animali rimasti o una preda uccisa nelle occasioni in cui avevano toccato terra. La voce roca di Clovis risuonò sull'acqua quando chiamò i capitani delle altre due chiatte. Non appena si avvicinarono, ordinò loro di dirigersi a riva, suscitando un coro di proteste. Torson e Flint e altri marinai avevano contato sull'arrivo a Teirm quella sera per scialacquare le loro paghe nei piaceri offerti dalla città. Dopo aver fatto arenare le chiatte, Roran si aggirò fra i compaesani aiutandoli a piantare le tende, a scaricare le provviste, ad attingere acqua da un ruscello vicino, insomma, offrendo il suo aiuto finché tutti non si furono sistemati. Si fermò per rivolgere a Morn e a Tara una parola d'incoraggiamento, perché avevano l'aria depressa, ma in cambio ricevette solo sguardi torvi. L'oste e sua moglie lo avevano tenuto a distanza da quando avevano lasciato la Valle Palancar. Tutto considerato, i contadini erano in condizioni migliori di quando erano arrivati a Narda, perché sulle chiatte si erano riposati, ma le costanti preoccupazioni e l'esposizione agli elementi avevano impedito che recuperassero completamente le forze come Roran aveva sperato. «Fortemartello, vuoi cenare da noi questa sera?» lo invitò Thane.

Roran rifiutò con garbo e si volse, per ritrovarsi faccia a faccia con Felda. Suo marito, Byrd, era stato ucciso da Sloan. La donna fece una rapida riverenza, poi disse: «Posso parlarti un minuto, Roran Garrowsson?»

Lui le sorrise. «Ma certo, Felda. Tutto il tempo che vuoi.»

«Ti ringrazio.» Con espressione furtiva, giocherellò con le frange che orlavano il suo scialle e scoccò un'occhiata alla propria tenda. «Vorrei chiederti un favore. Si tratta di Mandel...» Roran annuì; aveva scelto il figlio maggiore della donna per accompagnarlo a Narda in quel fatàle viaggio durante il quale aveva ucciso i due soldati. Mandel si era comportato in maniera ammirevole, come durante le settimane di navigazione sulla Edeline, dove aveva imparato tutto quello che poteva sul governo di una chiatta.

«Ha stretto amicizia con i marinai della nostra chiatta e ha cominciato a giocare a dadi con loro. Non per soldi - non ne abbiamo - ma per piccoli oggetti. Cose che ci servono.»

«Gli hai chiesto di smettere?»

Felda si avvolse una frangia intorno al dito. «Ho paura che da quando suo padre è morto non mi rispetti più come un tempo. È diventato un selvaggio, un barbaro.»

Ci siamo tutti imbarbariti, pensò Roran. «E cosa vuoi che faccia?» le chiese con dolcezza.

«Tu sei sempre stato generoso con Mandel. Lui ti ammira. Se gli parlerai, a te darà ascolto.»

Roran riflettè sulla richiesta, poi disse: «D'accordo, vedrò di fare il possibile.» Felda rilassò le spalle, sollevata. «Dimmi. Che cosa ha perso ai dadi?»

«Soprattutto cibo.» Felda esitò, poi aggiunse: «Ma so che una volta ha scommesso il braccialetto di mia nonna contro un coniglio che quegli uomini avevano catturato.»

Roran si accigliò. «Non darti pena, Felda. Mi occuperò della faccenda quanto prima.»

«Grazie.» Felda s'inchinò di nuovo, poi si allontanò fra le tende, lasciando Roran a meditare sulle sue parole. Camminava grattandosi la barba, e riflettendo sul problema di Mandel e i marinai, una questione a doppio taglio; Roran aveva notato che durante il viaggio da Narda, uno degli uomini di Torson, Frewin, si era invaghito di Odele, una delle amiche di Katrina. Potrebbero causarci problemi quando lasceremo Clovis.

Attento a non attirare troppo l'attenzione, Roran percorse l'accampamento, chiamò i compaesani di cui si fidava di più, e si fece accompagnare da loro nella tenda di Horst, dove disse: «I cinque che abbiamo stabilito partiranno subito, prima che sia troppo tardi. Horst prenderà il mio posto mentre sono via. Ricordate che il vostro compito più importante è quello di garantire che Clovis non parta con le chiatte o non le danneggi in alcun modo. Potrebbero essere il nostro unico mezzo per raggiungere il Surda.»

«Questo, e assicurarci di non essere scoperti» aggiunse Orval.

«Esatto. Se nessuno di noi sarà tornato per dopodomani sera, dateci per catturati. Prendete le chiatte e puntate verso il Surda, ma non fermatevi a Kuasta a comprare provviste; l'Impero probabilmente sarà lì in attesa. Dovrete trovare cibo da qualche altra parte.»

Mentre i suoi compagni si preparavano, Roran si recò nella cabina di Clovis sulla Cinghiale Rosso. «Andate soltanto voi cinque?» chiese Clovis, dopo che Roran gli ebbe spiegato il piano.

«Sì.» Roran tenne il suo sguardo d'acciaio fisso sul capitano, finché l'uomo non si mosse a disagio. «E quando torno, mi aspetto di trovare te, le chiatte e tutti i tuoi uomini ancora qui.»

«Osi mettere in dubbio il mio onore, dopo che ho tenuto fede al nostro accordo?»

«Non metto in dubbio niente, ti dico soltanto quello che mi aspetto. La posta in gioco è troppo alta. Se mi tradisci adesso, condanni a morte l'intero villaggio.»

«Lo so, questo» mormorò Clovis, evitando il suo sguardo.

«La mia gente si difenderà durante la mia assenza. Finché avranno un soffio di fiato nei polmoni, non si faranno prendere, ingannare o abbandonare. E se per caso capitasse loro qualche disgrazia, li vendicherò, dovessi camminare per mille leghe e affrontare Galbatorix in persona. Tieni a mente le mie parole, mastro Clovis, perché dico sul serio.» «Non nutro simpatìe per l'Impero come tu sembri credere» protestò Clovis. «Non gli farei un favore, come non lo farei al primo che passa.»

Roran sorrise, amaro. «Un uomo farebbe di tutto per proteggere la sua famiglia e la sua casa.»

Mentre Roran apriva la porta, Clovis gli chiese: «E cosa farai quando raggiungerai il Surda?»

«Noi abbiamo...»

«Non noi; tu. Cosa farai tu? Ti ho osservato, Roran. Ti ho ascoltato. E mi sembri un brav'uomo, malgrado il trattamento che mi hai riservato. Ma non riesco a immaginare che lasci il martello per riprendere l'aratro, solo perché sei arrivato nel Surda.»

Roran strinse la maniglia tanto da far sbiancare le nocche. «Quando avrò condotto il villaggio sano e salvo nel Surda» disse, con voce piatta come una landa desolata, «allora andrò a caccia.»

«Ah. In cerca della tua bella dai capelli rossi? Ne ho sentito parlare, ma io non...»

La porta si chiuse con un tonfo alle spalle di Roran.

Fuori dalla cabina, lasciò che la collera divampasse dentro di lui, assaporando la libertà dell'emozione, poi riprese il controllo delle sue indomabili passioni. Marciò spedito verso la tenda di Felda, dove Mandel stava scagliando un coltello da caccia contro un ciocco.

Felda ha ragione; qualcuno deve rimetterlo in riga. «Stai perdendo tempo» disse Roran.

Mandel si volse di scatto, sorpreso. «Perché?»

«In una vera battaglia, è molto più probabile che ti cavi un occhio piuttosto che ferire il tuo nemico. Se non conosci l'esatta distanza fra te e il tuo bersaglio...» Roran si strinse nelle spalle. «Faresti meglio a tirare sassi.» Guardò con pacato distacco il giovanotto che si gonfiava d'orgoglio. «Gunnar mi ha detto che conosceva un uomo a Cithrì che riusciva a colpire un corvo in volo otto volte su dieci.»

«E le altre due ti farai ammazzare. Di norma è una pessima

idea scagliare via la tua arma in battaglia.» Roran alzò una mano, come a prevenire le obiezioni di Mandel. «Fai i bagagli e trovati sulla collina oltre il torrente fra quindici minuti. Ho deciso che verrai con noi a Teirm.»

«Sissignore!» Con un ghigno entusiasta, Mandel sgusciò nella tenda e cominciò a prepararsi.

Nell'allontanarsi, Roran incontrò Felda che teneva in braccio, posata sul fianco, la figlia più piccola. Felda guardò prima lui, poi Mandel indaffarato nella tenda, e la sua espressione s'incupì. «Veglia su di lui, Fortemartello.» Posò la bambina a terra e andò ad aiutare Mandel.

Roran fu il primo ad arrivare sulla collina dell'appuntamento. Si accovacciò su un masso bianco a contemplare il mare, preparandosi alla missione che lo aspettava. Quando arrivarono Loring, Gertrude, Brigit e Nolfavrell, il figlio di Brigit, Roran saltò giù dal masso e disse: «Dobbiamo aspettare Mandel; verrà con noi.» «Per quale motivo?» chiese Loring. Anche Brigit restò perplessa. «Credevo avessimo deciso che non doveva accompagnarci nessun altro. Soprattutto non Mandel, che è già stato visto a Narda. Già è pericoloso che ci siate tu e Gertrude, e la presenza di Mandel non fa che accrescere il rischio di venire riconosciuti.»

«È un rischio che devo correre.» Roran guardò gli altri uno per uno. «È necessario che venga.» Alla fine lo ascoltarono, e una volta arrivato anche Mandel, i sei s'incamminarono verso sud, alla volta di Teirm.

Teirm

In quella zona, la costa era un susseguirsi di basse colline ondulate, rigogliose d'erba verdeggiante e punteggiate da pruni, salici e pioppi. Il terreno molle cedeva sotto i loro piedi e rendeva difficile il cammino. Alla loro destra scintillava il vasto oceano. A sinistra correva il profilo violetto della Grande Dorsale. Le vette innevate erano orlate di nuvole e foschia.

Mentre superavano le proprietà che circondavano Teirm

- alcune piccole fattorie, altre vaste tenute - fecero di tutto per passare inosservati. Quando incontrarono la strada che collegava Narda a Teirm, l'attraversarono di corsa e proseguirono a est, verso le montagne, per parecchie miglia, prima di dirigersi di nuovo a sud. Una volta sicuri di aver aggirato la città, puntarono verso l'oceano fino a incrociare la strada che da sud conduceva a Teirm.

Durante i giorni trascorsi a bordo della Cinghiale Rosso, Roran aveva riflettuto che gli ufficiali di Narda dovevano aver intuito che chiunque avesse ucciso i due soldati era fra gli uomini partiti sulle chiatte di Clovis. In questo caso avrebbero avvertito i soldati di stanza a Teirm di stare attenti a chi corrispondeva alle descrizioni. E se i Ra'zac erano stati a Narda, allora i soldati avrebbero saputo anche che non cercavano una semplice banda di assassini, ma Roran Fortemartello e i profughi di Carvahall. Teirm poteva rivelarsi un'enorme trappola. Tuttavia dovevano per forza passare dalla città, poiché il villaggio aveva bisogno di fare scorta di cibo e di trovare un nuovo mezzo di trasporto. Roran aveva deciso che la migliore precauzione contro un'eventuale cattura era non mandare a Teirm nessuno che fosse già stato visto a Narda, tranne Gertrude e se stesso: Gertrude perché era l'unica che conosceva gli ingredienti per le sue medicine, e se stesso perché, malgrado fosse il più facilmente riconoscibile, non si fidava di nessun altro per fare quello che andava fatto. Sapeva di possedere la volontà e la forza di agire laddove altri avrebbero esitato, come quando aveva ucciso le guardie. Il resto del gruppo era stato scelto per non destare sospetti. Loring era vecchio, ma era anche un valoroso combattente e un eccellente bugiardo. Brigit si era dimostrata scaltra e forte, e suo figlio Nolfavrell aveva già ucciso un soldato in uno scontro, nonostante la sua tenera età. Nella migliore delle ipotesi, li avrebbero scambiati per una famiglia numerosa che viaggiava insieme. Se non fosse per Mandel, che scombina il quadretto, pensò Roran. Era stata un'idea di Roran anche quella di entrare a Teirm da sud, per depistare chi si fosse aspettato il loro arrivo da Narda.

La sera era vicina quando arrivarono in vista di Teirm, bianca e spettrale nella luce del crepuscolo. Roran si fermò per osservarla meglio. La città fortificata si affacciava su una profonda baia, protetta e inaccessibile da qualsiasi attacco. Le torce ardevano fra i merli del cammino di ronda, dove soldati armati di arco pattugliavano la cinta muraria. Oltre le mura si ergeva la cittadella, e poi un faro dai vetri sfaccettati che proiettava il suo fascio di luce sulle acque scure. «È grandissima» mormorò Nolfavrell.

Loring annuì, senza staccare gli occhi da Teirm. «Già, enorme.»

L'attenzione di Roran fu catturata da una nave ormeggiata a uno dei moli di pietra che sporgevano dalla città. Il veliero a tre alberi era più grande delle navi che aveva visto a Narda, con un alto castello di prua, due ordini di remi e dodici potenti baliste montate su ciascuna fiancata per scagliare giavellotti. Il magnifico vascello dava l'impressione di essere adatto sia al commercio che alla guerra. Ancor più importante era che sembrava - sembrava - in grado di trasportare l'intero villaggio.

«Ecco quello che ci serve» disse Roran, indicando la nave.

Brigit emise un brontolìo cupo. «Dovremmo vendere noi stessi come schiavi per permetterci un passaggio su quel mostro.»

Clovis li aveva avvertiti che le saracinesche di Teirm chiudevano al tramonto, così affrettarono il passo per evitare di trascorrere la notte in aperta campagna. Nell'avvicinarsi alle bianche mura, videro la strada affollata da due fiumane di gente che andava e veniva da Teirm.

Roran non si era aspettato tanto traffico, ma capì al volo che questo avrebbe aiutato il gruppo a passare inosservato. Chiamando a sé Mandel, disse: «Resta indietro per qualche minuto, e poi accodati a qualcun altro che varca il cancello, perché le guardie non si convincano che sei con noi. Ti aspetteremo dall'altra parte. Se ti fanno domande, di' che sei venuto a cercare lavoro come marinaio.»

«Sissignore.»

Non appena Mandel fu rimasto indietro, Roran abbassò una spalla e cominciò a zoppicare, ripassando la storia che Loring aveva inventato per giustificare la loro presenza a Teirm. Si fece da parte e chinò il capo, mentre passava un uomo intento a spronare due buoi indolenti, lieto che le ombre gli nascondessero i lineamenti.

Il cancello si apriva dinnanzi a loro, immerso nella luce arancione per le fiaccole che ardevano su ciascun lato dell'ingresso. Sotto l'arco c'erano due soldati con la fiamma di Galbatorix ricamata sul davanti delle loro tuniche cremisi. Nessuno dei due degnò Roran e i suoi compagni di un'occhiata mentre arrancavano sotto le punte aguzze della saracinesca, superando la breve galleria che veniva dopo.

Roran raddrizzò le spalle e sentì che parte della tensione si scioglieva. Lui e gli altri si radunarono dietro l'angolo di una casa, dove Loring mormorò: «Fin qui, tutto liscio.»

Quando arrivò anche Mandel, andarono in cerca di un ostello poco costoso dove affittare una camera. Mentre camminavano, Roran studiava la città, con le sue case fortificate che crescevano in altezza verso la cittadella, e la disposizione a griglia delle strade. Quelle da nord a sud partivano dalla cittadella per espandersi come un fuoco d'artificio, mentre quelle da est a ovest seguivano un andamento curvilineo che formava con le prime una specie di ragnatela, creando numerosi luoghi dove si potevano innalzare barricate e appostare soldati.

Se Carvahall fosse stata costruita così, pensò Roran, non avrebbe potuto sconfiggerci nessuno, se non il re in persona.

Al calar della sera avevano trovato un alloggio presso la Castagna Verde, una squallida taverna che serviva una birra orribile e aveva i letti infestati di pulci. L'unico vantaggio era che non costava praticamente nulla. Andarono a dormire senza cena, per risparmiare denaro prezioso, e si distesero vicini per impedire a qualche altro ospite della stamberga di rubar loro le borse.

Il giorno dopo, Roran e i suoi compagni lasciarono la Castagna Verde prima dell'alba, in cerca di provviste e un mezzo di trasporto.

Gertrude disse: «Ho sentito parlare di un'erborista in gamba, una certa Angela, che vive qui e pare sia in grado di curare ogni malanno, forse con un tocco di magia.

Vado a cercarla, perché se ho bisogno di qualcuno, è proprio di lei.»

«Non dovresti andare da sola» disse Roran. Guardò Mandel. «Accompagnala tu, aiutala con la spesa, e proteggila a tutti i costi se venite attaccati. I tuoi nervi verranno messi alla prova, forse, ma non fare niente per destare allarme, perché significherebbe tradire i tuoi amici e la tua famiglia.»

Mandel si toccò la ciocca di capelli sulla fronte e annuì, obbediente. Lui e Gertrude imboccarono una traversa e si allontanarono, mentre gli altri riprendevano la ricerca.

Roran aveva la pazienza di un predatore appostato, ma perfino lui cominciò a smaniare di inquietudine quando la mattinata e il pomeriggio passarono senza che riuscisse a trovare una nave che li portasse nel Surda. Venne a sapere che il veliero a tre alberi, l'Ala di Drago, era stato appena costruito e stava per intraprendere il suo viaggio inaugurale; che non avrebbero avuto alcuna possibilità di noleggiarlo dalla Compagnia di Navigazione Blackmoor, a meno che non avessero avuto a disposizione una montagna d'oro rosso dei nani; e che in effetti non avevano abbastanza soldi nemmeno per ingaggiare la più sgangherata carretta ormeggiata in porto. Né avrebbero risolto i problemi impadronendosi delle chiatte di Clovis, perché sarebbe rimasta comunque la questione di che cosa mangiare durante il viaggio.

«È difficile» osservò Brigit, «anzi, direi impossibile rubare qualcosa qui, con tutti i soldati, e le case addossate l'una all'altra, e le sentinelle all'ingresso. Se cercassimo di trasportare troppa roba fuori da Teirm, ci fermerebbero per sapere che cosa stiamo facendo.»

Roran annuì. Anche quello.

Roran aveva suggerito a Horst che se gli abitanti del villaggio fossero stati costretti a fuggire da Teirm con i soli viveri rimasti, avrebbero potuto compiere qualche razzìa.. In cuor suo, Roran sapeva che un simile gesto avrebbe significato che erano diventati dei mostri come quelli che odiavano: una cosa era combattere e uccidere quelli che servivano Galbatorix, o persino rubare le chiatte di Clovis, dato che aveva altri mezzi di sostentamento, un'altra era appropriarsi delle provviste di contadini innocenti che lottavano per sopravvivere come gli stessi abitanti di Carvahall. Sarebbe stato un crimine efferato.

Tutti questi problemi pesavano sulle spalle di Roran come macigni. L'impresa era stata sempre esile, nel migliore dei casi, sostenuta in parti eguali dalla paura, dalla disperazione, dall'ottimismo e dall'improvvisazione. Ora temeva di aver guidato il villaggio nel covo del nemico, e di averlo intrappolato con una catena forgiata dalla loro stessa povertà. Potrei fuggire da solo e continuare a cercare Katrina, ma che vittoria sarebbe se lasciassi il mio villaggio alla mercé dell'Impero? Qualunque destino ci aspetti a Teirm, resterò al fianco di coloro che si sono fidati di me abbastanza da abbandonare le loro case per le mie parole.

Per alleviare i morsi della fame, si fermarono da un fornaio e comprarono una pagnotta di pane di segala, come pure un piccolo vaso di miele da spalmarci sopra. Mentre pagavano, Loring accennò al garzone del fornaio che erano in cerca di navi, equipaggiamento e viveri.

Roran si sentì battere sulla spalla e si volse. Un uomo dagli ispidi capelli neri e dal gran pancione rotondo gli disse: «Perdona se ho ascoltato quanto dicevate al giovanotto lì, ma se è una nave che cercate, e a un buon prezzo, credo che dovreste partecipare all'asta.»

«Di che asta parli?» chiese Roran.

«Ah, è una storia triste, ma se ne sentono tante al giorno d'oggi. Uno dei nostri mercanti, Jeod - Jeod Gambelunghe, come lo chiamiamo noi - ha subito il più devastante dei rovesci di fortuna. In meno di tin anno ha perduto quattro delle sue navi, e quando ha cercato di vendere le sue merci sulla terraferma, la carovana è caduta in un'imboscata ed è stata distrutta da una banda di ladri. I suoi investitori lo hanno costretto a dichiarare bancarotta, e adesso venderanno le sue proprietà per rientrare delle perdite. Riguardo ai viveri non so dirvi, ma state certi che a quell'asta troverete tutto ciò che vi serve.»

Un debole barlume di speranza si accese nel cuore di Roran. «Quando si terrà l'asta?»

«Ma come? Il manifesto è affisso su tutti i tabelloni della città. A ogni buon conto, sarà dopodomani.» Questo spiegava perché non avevano avuto sentore dell'asta; avevano fatto di tutto per stare alla larga dai tabelloni con gli avvisi, al fine di evitare che qualcuno riconoscesse Roran dal ritratto sul manifesto dei ricercati. «Ti ringrazio molto» disse Roran all'uomo. «Ci hai risparmiato un sacco di fatica.»

«Oh, di niente.»

Una volta che Roran e i suoi compagni furono usciti dalla bottega, si riunirono al margine della strada. Roran disse: «Pensate che dovremmo andare a dare un'occhiata?»

«Non abbiamo alternative» borbottò Loring.

«Brigit?»

«E me lo chiedi? È ovvio. Ma non possiamo aspettare fino a dopodomani.»

«No. Io dico di andare a conoscere questo Jeod per vedere se riusciamo a concludere un affare prima che l'asta abbia inizio. Che ne dite?»

Tutti assentirono, e si misero in cerca della casa di Jeod, grazie alle indicazioni di un passante. La casa - o meglio, la residenza - si trovava nella zona ovest di Teirm, vicina alla cittadella, insieme ad altre decine di ricche dimore abbellite da trafori, cancelli di ferro battuto, statue e fontane.

Roran rimase stupito di fronte a tanta opulenza; non riusciva quasi a comprendere come la vita di quelle persone fosse tanto diversa dalla sua.

Bussò alla porta della residenza di Jeod, accanto a quella che sembrava una bottega abbandonata. Dopo un momento, la porta si aprì e comparve un florido maggiordomo, armato di una chiostra di denti scintillanti. Dalla soglia adocchiò i quattro stranieri con palese disgusto, poi fece risplendere il sorriso radioso e chiese: «Come posso aiutarvi, gentili signori e gentile signora?»

«Vorremmo parlare con Jeod, se non è impegnato.»

«Avete un appuntamento?»

Roran pensò che il maggiordomo sapeva perfettamente che non ce l'avevano. «La nostra permanenza a Teirm è troppo breve per organizzare un incontro formale.»

«Ah, capisco, ma in questo caso mi rincresce comunicarvi che fareste meglio a impiegare il vostro tempo da qualche altra parte. Il mio padrone ha parecchie faccende da sbrigare. Non può dedicarsi a ogni branco di straccioni che bussa alla sua porta in cerca di elemosina» disse il maggiordomo con un sorriso affettato, se possibile ancor più abbagliante, e fece per chiudere la porta.

«Aspetta!» esclamò Roran. «Non cerchiamo elemosina; abbiamo un affare da proporre a Jeod.»

Il maggiordomo inarcò un sopracciglio. «Davvero?»

«Sì. Per favore, chiedigli di riceverci. Abbiamo fatto tanta strada ed è assolutamente necessario che Jeod ci riceva oggi stesso.»

«Posso chiedere la natura della vostra proposta?»

«È confidenziale.»

«Molto bene, signori» disse il maggiordomo. «Riferirò il vostro messaggio, ma vi avverto che Jeod è occupato al momento, e dubito che voglia essere disturbato. Con quale nome debbo annunciarti, signore?»

«Puoi chiamarmi Fortemartello.» Il maggiordomo arricciò un angolo della bocca, come divertito dal nome, poi scivolò dietro la porta e la chiuse. «Se la sua testa fosse poco più grande, non entrerebbe nella latrina» borbottò Loring fra i denti. Nolfavrell scoppiò a ridere per la battuta.

Brigit commentò: «Speriamo soltanto che il servo non somigli al padrone.»

Un minuto dopo, la porta si riaprì e il maggiordomo annunciò, con espressione lievemente irritata: «Jeod ha acconsentito a ricevervi nel suo studio.» Si scostò e con la mano tesa fece loro cenno di entrare. «Da questa parte.» Varcato il sontuoso ingresso, il maggiordomo li precedette e li condusse lungo un corridòio rivestito di lucido legno per fermarsi davanti a una delle numerose porte. L'aprì e li invitò a entrare.

Jeod Gambelunghe

Se Roran avesse saputo leggere, sarebbe rimasto molto più impressionato dagli scaffali traboccanti di libri che tappezzavano le pareti dello studio. Invece riservò la sua attenzione all'uomo alto dai capelli grigi che li attendeva in piedi dietro una scrivania ovale. L'uomo che Roran diede per scontato fosse Jeod - sembrava stanco almeno quanto lo si sentiva Roran. Il suo viso era scavato, consumato dalle preoccupazioni, e triste, e quando si voltò per osservarli, Roran notò una brutta cicatrice biancastra che gli solcava la tempia sinistra. Per Roran era indice di grande tempra in un uomo. Magari sepolta da tempo, ma sempre tempra.

«Sedetevi» disse Jeod. «Non mi piacciono le cerimonie in casa mia.» Li scrutò con curiosità mentre si accomodavano nelle morbide poltrone di pelle. «Posso offrirvi qualche dolcetto e un bicchiere di brandy di albicocche? Non posso concedervi molto tempo, ma so che siete in cammino da parecchie settimane, e ricordo bene come mi sentivo la gola riarsa dopo un viaggio del genere.»

Loring sogghignò. «Sì, un goccio di brandy mi ci vuole proprio. Sei generoso, signore.»

«Per mio figlio, solo un bicchiere di latte» disse Brigit.

«Ma certo, madam.» Jeod tirò il cordone della campanella per chiamare il maggiordomo, gli impartì le istruzioni, poi si sedette nella sua poltrona. «Credo di essere in svantaggio. Voi conoscete il mio nome, ma io non conosco i vostri.» «Fortemartello, per servirti» disse Roran.

«Mardra, per servirti» disse Brigit.

«Kell, per servirti» disse Nolfavrell.

«E io sono Wally, per servirti» concluse Loring.

«Bene, e io sono qui per servire voi» rispose Jeod. «Dunque, Rolf mi ha detto che avete un affare da propormi. È giusto che sappiate che non sono nella posizione di poter vendere merci, né possiedo oro da investire, né navi per trasportare lana o viveri, gemme o spezie. Quindi come posso esservi utile?»

Roran appoggiò i gomiti sulle ginocchia, poi intrecciò le dita e le fissò a lungo, mentre cercava di mettere ordine nei suoi pensieri. Una parola di troppo potrebbe ucciderci, rammentò a se stesso. «Per farla breve, signore, noi rappresentiamo un gruppo di persone che, per varie ragioni, devono acquistare un grande quantitativo di merci a pochissimo prezzo. Sappiamo che i tuoi beni verranno messi all'asta dopodomani per ripagare i tuoi debiti, e vorremmo fare un'offerta per quelli che ci servono. Avremmo aspettato il giorno dell'asta, ma le circostanze ci impongono fretta e non possiamo aspettare altri due giorni. Se dobbiamo concludere un affare, dev'essere stasera o domani, non più tardi.»

«Che genere di merci vi occorrono?»

«Viveri, e quant'altro sia necessario per armare una nave o un altro tipo di imbarcazione per un lungo viaggio per mare.»

Una scintilla d'interesse illuminò il viso sciupato di Jeod. «Avete una nave ben precisa in mente? Perché conosco ogni scafo che abbia solcato i mari negli ultimi vent'anni.»

«Dobbiamo ancora decidere.»

Jeod non replicò. «Capisco perché avete pensato di rivolgervi a me, ma temo che stiate equivocando.» Allargò le braccia, indicando la stanza. «Tutto quello che vedete

non appartiene più a me, ma ai miei creditori. Non ho la facoltà di vendere i miei beni, e se lo facessi senza permesso, mi getterebbero in galera per averli frodati del denaro che devo loro.»

Fece una pausa quando Rolf rientrò nello studio, portando un grande vassoio d'argento colmo di pasticcini, calici di vetro sfaccettato, un bicchiere di latte e una caraffa di brandy. Il maggiordomo posò il vassoio sul grande pouf imbottito e si accinse a servire i rinfreschi. Roran prese il suo calice e bevve un sorso di brandy dolce, chiedendosi come fare a congedarsi in fretta, di fronte a tanta cortesia, per riprendere le ricerche.

Quando Rolf lasciò la stanza, Jeod svuotò il calice in un unico lungo sorso e disse: «Io non posso esservi d'aiuto, ma conosco un certo numero di persone nel mio campo che potrebbero... potrebbero... aiutarvi. Se voleste darmi qualche altro dettaglio circa le cose che intendete acquistare, saprò a chi indirizzarvi.»

Roran non ci vide nulla di male, e cominciò a elencare una lista di oggetti indispensabili per gli abitanti del villaggio, oggetti potenzialmente necessari o desiderati ma che non avrebbero mai potuto permettersi a meno che la fortuna non decidesse di stare dalla loro parte. Brigit e Loring intervenivano di quando in quando, se Roran dimenticava qualcosa come l'olio per le lampade - e Jeod li guardava per un momento prima di posare di nuovo il suo sguardo sempre più incuriosito su Roran. L'interesse di Jeod preoccupava Roran; era come se il mercante sapesse o sospettasse che cosa stavano nascondendo.

«Ho l'impressione» disse Jeod, quando Roran ebbe finito l'inventario «che si tratti di un quantitativo di rifornimenti sufficiente a trasportare centinaia di persone fino a Feinster o Arughia... e anche oltre. Devo ammettere che sono stato piuttosto impegnato nelle ultime settimane, ma

non ho sentito parlare di una simile massa di gente in questa zona, né riesco a immaginare da dove possa venire.» Con volto inespressivo, Roran sostenne lo sguardo di Jeod e non disse niente. Dentro di sé, si dava dello sciocco per aver dato a Jeod informazioni sufficienti a fargli trarre quella conclusione.

Jeod scrollò le spalle. «Be', in ogni caso sono affari vostri. Vi suggerisco di provare da Galton, in Market Street, per l'acquisto di viveri, e dal vecchio Hamill giù al porto per tutto il resto. Sono uomini onesti e vi tratteranno bene.» Allungando una mano, prese un pasticcino dal vassoio, lo addentò, e quando ebbe finito di masticare chiese a Nolfavrell: «Allora, giovane Kell, ti piace stare a Teirm?»

«Sì, signore» rispose Nolfavrell, e sorrise. «Non ho mai visto niente di più grande, signore.»

«Davvero?»

«Sì. Io...»

Con la sensazione di essersi addentrato in un territorio pericoloso, Roran intervenne: «Sono curioso, Jeod, di conoscere la natura del negozio qui a fianco. Mi sembra strano che un'umile bottega si trovi in mezzo a queste magnifiche residenze.»

Per la prima volta, un sorriso, seppur lieve, illuminò l'espressione di Jeod, cancellando anni dal suo viso. «Be', era di proprietà di una donna anche lei un po' strana: Angela l'erborista, la migliore guaritrice che abbia mai conosciuto. Ha mandato avanti la bottega per oltre vent'anni; poi, appena qualche mese fa, ha venduto tutto ed è partita per destinazione ignota.» Sospirò. «È un peccato, perché era una vicina davvero interessante.»

«Non è quella che cercava Gertrude?» disse Nolfavrell, guardando sua madre.

Roran represse un ringhio di collera, e scoccò a Nolfavrell un'occhiataccia sufficiente a farlo ricadere ammutolìto in poltrona. Il nome non significava niente per Jeod, ma se Nolfavrell non teneva a freno la lingua, prima o poi si sarebbe fatto sfuggire qualcosa di molto più pericoloso. È ora di andare, pensò Roran, posando il suo calice. In quel momento si accorse che in qualche modo il nome aveva significato qualcosa per Jeod. Il mercante sgranò gli occhi, esterrefatto, e strinse i braccioli della poltrona tanto da sbiancarsi le dita. «Non può essere!» Jeod fissò Roran con attenzione, come se volesse vedere sotto la barba, poi, con un filo di voce, disse: «Roran... Roran Garrowsson.»

Un alleato inatteso

Roran aveva già estratto il martello dalla cintura e stava per slanciarsi dalla poltrona quando sentì fare il nome di suo padre. Fu l'unica cosa che lo trattenne dallo scagliarsi su Jeod per tramortirlo. Come fa a conoscere Garrow? Ai suoi lati, Loring e Brigit balzarono in piedi e si fecero scivolare in mano i coltelli da dentro le maniche, mentre Nolfavrell era già pronto a combattere con il pugnale in mano.

«Sei Roran, non è vero?» chiese Jeod, senza scomporsi davanti alle loro armi.

«Come l'hai capìto?»

«Perché Brom venne qui con Eragon, e tu somigli a tuo cugino. Quando ho visto il tuo manifesto accanto a quello di Eragon, ho capìto che l'Impero doveva aver tentato di catturarti, e che tu eri fuggito. Sebbene» aggiunse, guardando gli altri tre, «per quanto io sia dotato di fervida immaginazione, non avrei mai pensato che ti saresti portato dietro tutta Carvahall.»

Colpito, Roran ricadde in poltrona, posandosi il martello in grembo, pronto a usarlo. «Eragon è stato qui?» «Sì. E anche Saphira.»

«Saphira?»

Jeod apparve sorpreso. «Non lo sai, eh?»

«Sapere cosa?»

Jeod tacque per riflettere. Poi: «Credo sia giunto il momento di smetterla con la commedia, Roran Garrowsson, e di parlare apertamente, senza più sotterfugi. Io sono in grado di rispondere a molte delle domande che probabilmente ti assillano, e spiegarti il motivo per cui l'Impero ti da la caccia, ma in cambio devo conoscere la ragione per cui siete venuti a Teirm... la vera ragione.»

«Perché dovremmo fidarci di te, Gambelunghe?» intervenne Loring. «Potresti essere un agente di Galbatorix, per quanto ne sappiamo.»

«Sono stato amico di Brom per oltre vent'anni, prima che facesse il cantastorie a Carvahall» disse Jeod, «e ho fatto del mio meglio per aiutare lui ed Eragon quando li ho ospitati sotto il mio tetto. Ma siccome nessuno dei due è presente a confermare la mia parola, rimetto la mia vita nelle vostre mani. Potrei gridare aiuto, ma non lo farò. Né vi combatterò. Vi chiedo soltanto di raccontarmi la vostra storia, e di ascoltare la mia. Poi potrete decidere quali azioni intraprendere. Non siete in pericolo immediato, perciò che male c'è a parlare?» Brigit attirò l'attenzione di Roran con un gesto del mento. «Magari lo dice solo per salvarsi la pelle.»

«Può darsi» disse Roran, «ma dobbiamo scoprire quello che sa.» Infilando un braccio sotto la poltrona, la trascinò dall'altro capo della stanza, l'addossò alla porta e si sedette, perché nessuno potesse entrare all'improvviso e coglierli di sorpresa. Puntò il martello contro Jeod. «D'accordo. Vuoi parlare? Parliamo, allora.»

«Sarebbe meglio che cominciassi tu.»

«Se lo faccio, e dopo non saremo soddisfatti delle tue risposte, dovremo ucciderti» lo avvisò Roran. Jeod incrociò le braccia. «E sia.»

Nonostante tutto, Roran rimase impressionato dalla fermezza del mercante; Jeod sembrava incurante della propria sorte, anche se teneva le labbra strette. «E sia» ripetè Roran.

Roran aveva rivissuto gli eventi dall'arrivo dei Ra'zac a

Carvahall più di una volta, ma non li aveva mai descritti ad alta voce a un'altra persona. Mentre parlava, fu colpito da quante cose erano accadute a lui e agli altri abitanti del villaggio in così poco tempo, e di come era stato facile per l'Impero distruggere la loro vita nella Valle Palancar. Resuscitare gli antichi terrori fu terribile per Roran, ma almeno ebbe la soddisfazione di vedere Jeod manifestare un totale e sincero stupore nell'apprendere come il villaggio aveva scacciato i soldati e i Ra'zac dall'accampamento, del conseguente assedio di Carvahall, del tradimento di Sloan e del rapimento di Katrina, di come Roran aveva convinto i compaesani a fuggire, e delle traversie del viaggio fino a Teirm. «Per i re perduti!» esclamò Jeod. «Una storia straordinaria. Straordinaria! E pensare che siete riusciti a farla in barba a Galbatorix, e che adesso l'intero villaggio di Carvahall è nascosto a poche miglia da una delle più grandi città dell'Impero e il re non lo sa...» Scosse il capo, colmo di ammirazione.

«Già, questa è la nostra situazione» borbottò Loring, «ed è alquanto precaria, perciò sarà meglio che ti sbrighi a darci un motivo valido per cui dovremmo lasciarti in vita.»

«Perché anch'io...»

Jeod s'interruppe quando qualcuno provò a girare la maniglia alle spalle di Roran, nel tentativo di aprire la porta. Seguì una gragnuola di colpi sulle tavole di quercia. Nel corridòio, una donna gridò: «Jeod! Fammi entrare, Jeod! Non puoi nasconderti per sempre in quella tana!»

«Posso?» bisbigliò Jeod.

Roran schioccò le dita guardando Nolfavrell, e il ragazzo gli lanciò il pugnale. Roran scivolò dietro la scrivania e appoggiò la lama contro la gola di Jeod. «Falla andare via.»

Alzando la voce, Jeod disse: «Non posso parlare adesso; sono in una riunione d'affari.»

«Bugiardo! Non hai alcun affare. Sei in bancarotta! Vieni fuori e guardami in faccia, vigliacco! Che razza di uomo sei, se non hai il coraggio di guardare tua moglie negli occhi?» La donna tacque per un secondo, come in attesa di una risposta, poi riprese a strillare più forte. «Vigliacco! Sei un verme schifoso, un lurido topo di fogna, uno squallido pezzente senza un briciolo di buonsenso per gestire un banco al mercato, figuriamoci una società di navigazione. Mio padre non avrebbe mai perso così tanto denaro!»

Roran fremette mentre gli insulti continuavano. Non riuscirò più a contenere Jeod, se va avanti di questo passo. «Taci, donna!» tuonò Jeod, ottenendo il silenzio. «La nostra sorte potrebbe cambiare se tenessi a freno quella tua linguaccia e non strillassi come una pescivendola.»

La risposta arrivò gelida. «Aspetterò i tuoi comodi in sala da pranzo, marito caro, ma se non verrai a cenare insieme a me e non mi darai spiegazioni, lascerò questa maledetta casa per non rimetterci più piede.» Si udì un rumore di passi che si allontanavano.

Quando fu sicuro che la donna se n'era andata, Roran scostò il pugnale dalla gola di Jeod e lo restituì a Nolfavrell, poi si sedette di nuovo sulla poltrona addossata alla porta.

Jeod si massaggiò il collo e con aria avvilita disse: «Se non veniamo a un accordo, tanto vale che tu mi uccida; sarà più facile che spiegare a Helen che l'ho sgridata per niente.»

«Hai tutta la mia simpatia, Gambelunghe» disse Loring.

«Non è colpa sua... È che non capisce perché la sfortuna ci perseguita.» Jeod sospirò. «Forse è colpa mia, perché non ho il coraggio di dirglielo.»

«Dirle cosa?» domandò Nolfavrell.

«Che sono un agente dei Varden.» Jeod fece una pausa davanti alle cominciare

dal principio. Roran, ti sono giunte voci, negli ultimi mesi, dell'esistenza Galbatorix?»

«Sì, qualche chiacchiera qui e là, ma niente a cui abbia prestato fede.» Jeod esitò. «Non so come altro dirtelo, Roran... ma esiste un nuovo Cavaliere in Alagaésia, ed è tuo cugino Eragon. La pietra che trovò sulla Grande Dorsale era in realtà un uovo di drago, che io stesso aiutai i Varden a sottrarre a Galbatorix anni fa. L'uovo si è schiuso davanti a Eragon, e lui ha chiamato il drago, una femmina, Saphira. Ecco perché i Ra'zac sono venuti a Carvahall la prima volta, e sono tornati perché nel frattempo Eragon era diventato un nemico formidabile dell'Impero, e con la tua cattura Galbatorix sperava di metterlo in condizioni di non nuocere.» Roran gettò indietro il capo e scoppiò in una risata gutturale, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, tenendosi la pancia che gli doleva per lo sforzo. Loring, Brigit e Nolfavrell lo guardavano esterrefatti e spaventati, ma Roran non si curò delle loro opinioni. Rideva dell'assurdità delle asserzioni di Jeod. Rideva della terribile possibilità che quanto diceva corrispondesse al vero.

Ansimando per riprendere fiato, Roran si calmò, pur continuando a scoppiare in brevi sprazzi di ilarità sotto i baffi. Si asciugò la faccia con la manica e poi guardò Jeod con un sorriso gelido sulle labbra. «Una storia che risponde a molte domande, te lo concedo. Ma come un'altra mezza dozzina di spiegazioni a cui ho pensato.»

Brigit chiese: «Se la pietra di Eragon era un uovo di drago, da dove veniva?»

«Ah» rispose Jeod, «questa è una parte della storia che conosco fin troppo bene...»

Sprofondato nella poltrona, Roran ascoltò incredulo

loro espressioni sconvolte. «Sarà meglio

di un nuovo Cavaliere che si oppone a Jeod che infilava una sfilza di assurdità dietro l'altra, come il fatto che Brom - quel vecchio trombone di Brom! - un tempo era stato un Cavaliere e aveva contribuito alla nascita dei Varden, che Jeod aveva scoperto un passaggio segreto per introdursi di soppiatto a Urù'baen, che i Varden erano riusciti a rubare le ultime tre uova di drago a Galbatorix, e che soltanto un uovo si era salvato, dopo che Brom aveva combattuto e ucciso Morzan dei Rinnegati. Come se questo non fosse già abbastanza assurdo da parte sua, Jeod proseguì descrivendo un accordo stretto fra Varden, nani ed elfi, secondo cui l'uovo avrebbe dovuto essere trasportato avanti e indietro dalla Du Weldenvarden ai Monti Beor, motivo per cui l'uovo e i suoi custodi erano vicini ai margini della grande foresta quando erano caduti nell'imboscata di uno Spettro.

Uno Spettro... ma sicuro! pensò Roran.

Per quanto scettico, ascoltò con rinnovato interesse quando Jeod cominciò a raccontare di Eragon che trovava l'uovo e allevava il drago nella foresta vicino alla fattoria di Garrow. All'epoca, Roran era stato molto impegnato con i preparativi della partenza per Therinsford, dove avrebbe lavorato al mulino di Dempton, ma rammentava come gli era sembrato distratto Eragon, che passava ogni minuto libero fuori di casa, facendo chissà cosa...

Quando Jeod spiegò come e perché Garrow era morto, Roran si sentì montare la collera al pensiero che Eragon avesse osato tenere il drago in gran segreto, quando era così ovvio che avrebbe messo tutti in pericolo. È colpa sua se mio padre è morto!

«Ma cosa credeva di fare?» esplose.

Jeod lo guardò con un'aria di serafica compassione che lo infastidì. «Dubito che Eragon lo sapesse. I Cavalieri e i loro draghi sono così intimamente legati che spesso è difficile distinguere l'uno dall'altro. Eragon non avrebbe potuto fare del male a Saphira più di quanto non lo avrebbe fatto a se stesso.»

«Sì che avrebbe potuto» ribattè Roran. «Perché a causa sua io sono stato costretto a fare cose altrettanto dolorose, e so... che avrebbe potuto.»

«Hai tutti i diritti di pensarla così» disse Jeod, «ma non dimenticare che la ragione per cui Eragon è fuggito dalla Valle Palancar era per proteggere te e il villaggio. Credo che sia stata una decisione molto sofferta per lui. Dal suo punto di vista, si è sacrificato per garantirvi la salvezza e vendicare tuo padre. E sebbene la sua partenza non abbia avuto l'effetto sperato, le cose sarebbero andate peggio se fosse rimasto.»

Roran non disse niente finché Jeod non parlò del motivo per cui Brom ed Eragon erano andati a Teirm: il tentativo di localizzare i Ra'zac attraverso i registri delle spedizioni. «E ci sono riusciti?» esclamò Roran, balzando in piedi. «Sì.»

«Allora, dove sono? Per amor del cielo, uomo, dimmelo. Sai quanto è importante per me!»

«Dai registri, e in seguito ho ricevuto un messaggio dai Varden secondo cui il racconto di Eragon lo confermava, risultava che il covo dei Ra'zac si trova sulla formazione rocciosa nota come Helgrind, vicino a Dras-Leona.» Roran strinse il martello, in preda all'eccitazione. È un lungo viaggio fino a Dras-Leona, ma Teirm ha accesso all'unico valico fra qui e le -propaggini meridionali della Grande Dorsale. Se riesco a far imbarcare tutti gli altri sani e salvi per proseguire lungo la costa, io potrò andare a questo Helgrind, salvare Katrina se è lì, e poi seguire il fiume Jietfino al Sur da.

I suoi pensieri dovevano aver lasciato filtrare qualcosa sul suo volto, perché Jeod disse: «Non è possibile, Roran.» «Cosa?»

«Nessun uomo può conquistare l'Helgrind. È una solida, liscia montagna di pietra nera, impossibile da scalare. Pensa alle orribili cavalcature dei Ra'zac; è molto probabile che abbiano scelto come rifugio la cima dell'Helgrind piuttosto che rintanarsi in qualche anfratto ai suoi piedi, dove sarebbero più vulnerabili. Come pensi di raggiungerli? E se anche ci riuscissi, come potresti sconfiggere tutti e due i Ra'zac, le loro bestie, e chissà cos'altro? Non ho il minimo dubbio che tu sia un guerriero formidabile... in fin dei conti, tu ed Eragon avete lo stesso sangue... ma questi sono nemici ben più potenti di qualsiasi essere umano.»

Roran scosse il capo. «Non posso abbandonare Katrina. Potrà anche essere vano, ma devo tentare di liberarla, dovesse costarmi la vita.»

«A Katrina non servirà un bel niente se ti fai uccidere» lo ammonì Jeod. «Se mi permetti un consiglio, cerca di raggiungere il Surda, come hai progettato. Una volta lì, sono sicuro che potrai contare sull'aiuto di Eragon. Perfino i Ra'zac non possono competere in uno scontro diretto con un Cavaliere e il suo drago.»

Con gli occhi della mente, Roran vide le enormi bestie alate che i Ra'zac cavalcavano. Odiava doverlo ammettere, ma sapeva che simili creature superavano le sue capacità di uccidere, per quanto forti fossero le sue ragioni. Nell'istante in cui accettò quella verità, credette anche a tutta la storia di Jeod: perché in caso contrario avrebbe perso Katrina per sempre.

Eragon, pensò. Eragon! Per il sangue che ho versato e che mi insudicia le mani, giuro sulla tomba di mio padre che pagherai per ciò che hai fatto attaccando l'Helgrind con me. Se sei stato tu a provocare questo disastro, allora ti costringerò a rimediarlo.

Roran fece un cenno a Jeod. «Continua il tuo racconto. Facci sentire il seguito di questa triste vicenda prima che il giorno invecchi.»

E così Jeod parlò della morte di Brom; di Murtagh, figlio di Morzan; della cattura e della fuga da Gil'ead; del disperato volo per salvare un'elfa; degli Urgali e dei nani, e di una grande battaglia in un luogo chiamato Farthen Dùr, dove Eragon aveva sconfitto uno Spettro. E rivelò loro che i Varden erano partiti dai Monti Beor per rifugiarsi nel Surda, e che al momento Eragon si trovava nel cuore della Du Weldenvarden, per apprendere i misteriosi segreti della magia e dell'arte guerresca, ma che sarebbe tornato presto.

Quando il mercante alla fine tacque, Roran si riunì con gli altri tre compagni per conferire nell'angolo più lontano dello studio. Sottovoce, Loring disse: «Non so se sta mentendo oppure no, ma chiunque sappia raccontare una storia come questa sotto minaccia di morte merita di vivere. Un nuovo Cavaliere! Ed è Eragon, per giunta!» Scrollò il capo. «Brigit?» disse Roran.

«Non saprèi. È così incredibile...» Esitò. «Ma dev'essere vero. Un nuovo Cavaliere è l'unica cosa che avrebbe spinto l'Impero a darci questa caccia feroce.»

«Già» convenne Loring. I suoi occhi scintillavano di eccitazione. «Siamo rimasti coinvolti in eventi ben più straordinari di quanto pensassimo. Un nuovo Cavaliere. Ma ci pensate! Il vecchio ordine ha i giorni contati, vi dico... Roran, tu hai avuto ragione fin dal principio.»

«Nolfavrell?»

Il ragazzo parve lusingato di essere stato interpellato. Si morse un labbro, poi disse: «Jeod mi sembra una persona onesta. Io credo che possiamo fidarci di lui.»

«D'accordo» disse Roran. Tornò da Jeod, piantò le nocche sul bordo della scrivania e disse: «Ancora due domande, Gambelunghe. Come sono fatti Brom ed Eragon? E come hai riconosciuto il nome di Gertrude?»

«Sapevo di Gertrude perché Brom mi disse di averle affidato una lettera per te. Quanto al loro aspetto... Brom era poco più basso di me. Barba folta, naso aquilino, e portava sempre con sé un bastone intagliato. E oserei dire che era alquanto irritabile, a volte.» Roran annuì: era Brom. «Eragon era... giovane. Capelli castani, occhi marroni, una cicatrice sul polso, e non la smetteva mai di fare domande.» Roran annuì di nuovo: quello era suo cugino. Roran si infilò di nuovo il martello nella cintura. Brigit, Loring e Nolfavrell rinfoderarono le lame. Poi Roran spostò la poltrona dalla porta, e i quattro presero di nuovo posto come persone civili. «E adesso, Jeod?» chiese Roran. «Puoi aiutarci? So che ti trovi in un brutto frangente, ma noi... noi siamo disperati e non abbiamo nessun altro a cui rivolgerci. Come agente dei Varden, puoi garantirci la loro protezione? Noi li serviremo volentieri, se ci difenderanno dalle ire di Galbatorix.»

«I Varden» disse Jeod «saranno più che lieti di accogliervi. Più che lieti. Immagino che tu lo sappia già. Quanto all'aiuto...» Si passò una mano sul lungo volto scavato e guardò, oltre le spalle di Loring, le file di libri sugli scaffali. «Ormai da un anno ho capìto che la mia vera identità, come quella di molti altri mercanti che qui e altrove aiutano i Varden, è stata svelata all'Impero. È per questo che non ho osato fuggire nel Surda. Se avessi tentato, l'Impero mi avrebbe fatto arrestare, e chissà quali orrori avrei dovuto subire... Sono già stato costretto ad assistere alla graduale distruzione della mia compagnia senza poter far niente... E non è tutto: ora che non posso inviare nulla ai Varden, e loro non osano inviare un convoglio, temo che Lord Risthart mi farà mettere in catene e gettare in galera, dato che non sono più d'interesse per l'Impero. Me lo aspetto da un momento all'altro, da quando ho dichiarato bancarotta.» «Può darsi» suggerì Brigit «che vogliano che tu fugga per poter catturare chiunque venga con te.» Jeod sorrise. «Può darsi. Ma ora che siete qui, ho un mezzo per fuggire che non si aspetteranno mai.» «Hai un piano?» chiese Loring.

Il volto di Jeod s'illuminò. «Oh, sì che ce l'ho un piano. Avete visto quella nave ormeggiata in porto, l'Ala di Drago?» Roran ripensò al veliero. «Sì.»

«L'Ala di Drago è di proprietà della Compagnia di Navigazione Blackmoor, un nome di copertura per l'Impero. Trasportano rifornimenti per l'esercito, che di recente si è mobilitato a ritmo vertiginoso, reclutando soldati fra i contadini e confiscando cavalli, asini e buoi.» Jeod inarcò un sopracciglio. «Non sono sicuro di che cosa voglia dire, ma è possibile che Galbatorix intenda marciare sul Surda. A ogni buon conto, l'Ala di Drago partirà per Feinster nel giro di una settimana. È la migliore nave mai costruita, su progetto del maestro d'ascia Kinnell.»

«E tu intendi appropriartene» concluse Roran.

«Esatto. Non solo per sprezzo dell'Impero o perché l'Ala di Drago gode della reputazione di essere la più veloce nave a vele quadre della sua stazza, ma perché è già completamente equipaggiata per un lungo viaggio. E dato che trasporta viveri, ne avremo abbastanza per l'intero villaggio.»

Loring emise una risatina nervosa. «Spero che tu sappia governarla da solo, Gambelunghe, perché nessuno di noi sa manovrare qualcosa di più grosso di una chiatta.»

«Alcuni degli uomini dei miei equipaggi sono ancora a Teirm. Si trovano nella mia stessa posizione, non possono combattere né fuggire. Sono convinto che coglieranno al volo l'occasione di andare nel Surda. Potranno insegnarvi quanto vi occorre sull'Ala di Drago. Non sarà facile, ma non vedo alternative.»

Roran sogghignò. Il piano era come piaceva a lui: astuto, risoluto e inaspettato.

«Hai detto» intervenne Brigit «che durante Tanno passato nessuna delle tue navi, né quelle di altri mercanti che servono i Varden, ha raggiunto la propria destinazione. Allora perché questa missione dovrebbe avere successo là dove tante altre hanno fallito?»

Jeod fu pronto a rispondere. «Perché abbiamo dalla nostra la sorpresa. La legge impone agli armatori delle navi di presentare all'autorità portuale l'itinerario per sottoporlo ad approvazione almeno due settimane prima della partenza. Ci vuole molto tempo per armare una nave, così, se partiamo senza preavviso, ci vorrà più di una settimana prima che Galbatorix riesca a inviare delle navi per intercettarci. Se la fortuna ci assiste, non vedremo che gli alberi di gabbia dei nostri inseguitori. Quindi» proseguì Jeod, «se siete disposti a tentare questa impresa, questo è ciò che dobbiamo fare...»

La fuga

Dopo aver considerato la proposta di Jeod da ogni angolazione possibile, e aver deciso di accettarla, sia pur con qualche modifica, Roran mandò Nolfavrell a chiamare Gertrude e Mandel alla Castagna Verde, dato che Jeod aveva offerto ospitalità a tutto il gruppo.

«Ora, se volete scusarmi» disse Jeod, alzandosi, «devo andare a rivelare a mia moglie quello che non avrei mai dovuto tenerle nascosto, e le chiederò di accompagnarmi nel Surda. Le vostre camere si trovano al primo piano. Rolf vi chiamerà quando sarà pronta la cena.» Incamminandosi a passo lento, uscì dallo studio.

«È prudente lasciarlo parlare con quella megera?» chiese Loring.

Roran si strinse nelle spalle. «Prudente o no, non possiamo fermarlo. E non credo che si sentirà in pace finché non l'avrà fatto.»

Invece di andare nella sua stanza, Roran vagò per la casa, evitando d'istinto i domestici, mentre rifletteva su quanto Jeod aveva detto. Si fermò davanti a un bovindo che affacciava sulle stalle dietro la casa, e si riempì i polmoni d'aria frizzante e fumosa, satura dell'odore familiare del letame.

«Lo detesti?»

Si volse di scatto, sorpreso, e vide la sagoma di Brigit che si stagliava sulla soglia. La donna si strinse lo scialle intorno alle spalle e avanzò.

«Chi?» chiese lui, sapendolo perfettamente.

«Eragon. Lo detesti?»

Roran guardò il cielo che si andava oscurando. «Non lo so. Lo odio perché è stato la causa della morte di mio padre, ma è pur sempre sangue del mio sangue, e per questo gli voglio bene... Suppongo che se non avessi bisogno di lui per salvare Katrina, non vorrei più averci a che fare per un bel pezzo.»

«Come io ho bisogno di te e ti odio, Fortemartello.»

Lui le rivolse un sorriso amaro. «Già, siamo uniti a filo doppio, io e te. Tu devi aiutarmi a trovare Eragon per vendicarti sui Ra'zac della morte di Quimby.»

«E per vendicarmi di te in seguito.»

«Anche questo.» Roran guardò i suoi occhi inflessibili per un istante, riconoscendo il legame che li univa. Provava uno strano conforto nel sapere che condividevano la stessa urgenza, lo stesso fuoco rabbioso che li spronava ad andare avanti dove gli altri esitavano. In lei vedeva uno spirito affine.

Tornando sui suoi passi, Roran si fermò davanti alla sala da pranzo ad ascoltare la cadenza della voce di Jeod. Incuriosito, avvicinò l'occhio allo spiraglio dei cardini. Jeod era di fronte a una donna snella e bionda, che Roran intuì essere Helen.

«Se quanto dici è vero, come puoi pretendere che mi fidi di te?»

«Non lo pretendo» rispose Jeod.

«Eppure mi chiedi di fuggire con te.»

«Una volta mi proponesti di lasciare la tua famiglia e di viaggiare con me senza meta. Mi implorasti di portarti via da Teirm.»

«Una volta. All'epoca pensavo che fossi terribilmente affascinante, con quella tua spada e la tua cicatrice.» «Ce le ho ancora» mormorò lui. «Ho fatto molti errori con te, Helen; soltanto adesso me ne rendo conto. Ma ti amo ancora e non voglio che ti accada nulla di male. Per me non c'è futuro qui. Se resto, provocherò soltanto sofferenze alla tua famiglia. Tu puoi tornare da tuo padre, o venire con me. Fa' quello che ti rende più felice. Tuttavia ti supplico di darmi una seconda opportunità, di avere il coraggio di lasciare questo posto e di liberarti dagli amari ricordi della nostra vita qui. Possiamo ricominciare daccapo nel Surda.»

Lei rimase in silenzio per lungo tempo. «Il giovane che è stato qui è davvero un Cavaliere?»

«Sì. Soffiano i venti del cambiamento, Helen. I Varden sono sul piede di guerra, i nani si stanno ammassando, e perfino gli elfi si muovono nei loro antichi eremi. La guerra è prossima, e se siamo fortunati, anche la caduta di Galbatorix.» «Sei una persona importante fra i Varden?»

«Mi tengono in una certa considerazione per il ruolo che

ho svolto nel rubare l'uovo di Saphira.»

«Allora ti offriranno una posizione di rilievo nel Surda?»

«Immagino di sì.» Le posò le mani sulle spalle, e lei non si sottrasse.

«Jeod, Jeod» mormorò lei, «non mettermi fretta. Non posso decidere così all'istante.»

«Ci penserai, allora?»

Helen rabbrividì. «Sì, ci penserò.»

Roran sentì una fitta di dolore al cuore.

Katrina.

Quella sera a cena, Roran notò che lo sguardo di Helen si posava spesso su di lui, come per studiarlo, prendergli le misure; e confrontarlo, ne era certo, con Eragon.

Dopo mangiato, Roran fece cenno a Mandel di seguirlo, e lo condusse nel cortile alle spalle della casa. «Cosa c'è, Fortemartello?» chiese Mandel.

«Desidero parlarti in privato.»

«Di cosa?»

Roran fece scorrere le dita sulla testa affilata del martello. Si accorse che si sentiva come Garrow, quando suo padre gli dava una lezione di responsabilità; Roran poteva addirittura sentire le stesse frasi che gli premevano in gola. Così avanza la nuova generazione sulla vecchia, pensò. «Ti sei fatto amico certi marinai, ultimamente.» «Non sono nostri nemici» obiettò Mandel.

«Chiunque è nostro nemico, a questo punto. Clovis e i suoi uomini potrebbero tradirci in un batter d'occhio. Non sarebbe un problema, comunque, se frequentarli non ti avesse distolto dai tuoi dovéri.» Mandel s'irrigidì e le guance gli si arrossarono, ma non si svilì agli occhi di Roran negando l'accusa. Compiaciuto, Roran gli chiese: «Qual è la cosa più importante che possiamo fare adesso, Mandel?»

«Proteggere le nostre famiglie.» «Giusto. E cos'altro?»

Mandel esitò, turbato, poi confessò: «Non lo so.»

«Aiutarci l'uno con l'altro. È l'unico modo che abbiamo per sopravvivere. Sono rimasto molto deluso nell'apprendere che ti sei giocato a dadi il cibo con quei marinai, perché questo mette a repentaglio tutto il villaggio. Impiegheresti meglio il tuo tempo andando a caccia, invece che giocando a dadi o imparando a tirare coltelli. Morto tuo padre, la responsabilità di tua madre e dei tuoi fratelli ricade su di te. Dipendono da te. Sono stato chiaro?» «Chiarissimo» rispose Mandel con voce strozzata.

«Mi prometti che questo non accadrà più?»

«Mai più!»

«Bene. Sappi che non ti ho portato qui soltanto per rimproverarti. In te vedo una promessa, ed è per questo che ti assegnerò un compito che non affiderei a nessun altro, se non a me stesso.»

«Sissignore!»

«Domattina devi tornare all'accampamento e consegnare un messaggio a Horst. Jeod è convinto che l'Impero abbia messo delle spie a sorvegliare questa casa, perciò è di vitale importanza che ti assicuri di non essere seguito. Aspetta di essere lontano dalla città, poi semina chiunque ti segua nella campagna. Uccidilo, se necessario. Quando troverai Horst, digli...» Mentre Roran gli spiegava le sue istruzioni, osservò l'espressione di Mandel mutare dalla sorpresa al terrore, e infine tingersi di timore reverenziale.

«E se Clovis si oppone?» chiese Mandel.

«In quel caso, durante la notte spezza i timoni delle chiatte perché non possano più governarle. È un vile espediente, ma sarebbe un disastro se Clovis o qualcuno dei suoi uomini arrivasse a Teirm prima di te.»

«Non permetterò che accada» giurò Mandel.

Roran sorrise. «Bene.» Soddisfatto di aver risolto la questione del comportamento di Mandel e sicuro che il giovanotto avrebbe fatto di tutto per consegnare il messaggio a Horst, Roran rientrò e augurò la buonanotte al padrone di casa, prima di andare a dormire.

Con l'eccezione di Mandel, Roran e i suoi compagni rimasero confinati nella residenza di Jeod per tutto il giorno seguente, approfittandone per riposare, affilare le armi e ripassare la strategia.

Dall'alba al tramonto, qualche volta scorsero Helen che si affaccendava da una stanza all'altra, molto più spesso il maggiordomo Rolf con i suoi denti scintillanti simili a perle lustrate, ma nemmeno una volta Jeod, perché il mercante si era recato in città per incontrare, fingendo che fosse per caso, i pochi uomini di mare di cui si fidava per la spedizione. Al suo ritorno, disse a Roran: «Possiamo contare su altri

cinque marinai. Spero solo che bastino.» Jeod rimase nel suo studio per il resto della serata, a redigere vari documenti legali e a occuparsi dei suoi affari.

Tre ore prima dell'alba, Roran, Loring, Brigit, Gertrude e Nolfavrell si alzarono e ricacciando indietro prodigiosi sbadigli si riunirono nell'ingresso, dove indossarono lunghi mantelli col cappuccio per nascondere il viso. Uno stocco pendeva al fianco di Jeod quando si unì a loro, e Roran pensò che la spada sottile in qualche modo completava l'uomo snello dalle gambe lunghe, come per ricordare a Jeod chi era in realtà.

Jeod accese una lanterna a olio e la levò davanti a sé. «Siamo pronti?» disse. I cinque annuirono. Jeod aprì la porta e gli altri uscirono in fila sulla strada deserta. Dietro di loro, Jeod indugiò nell'ingresso, scoccando un'occhiata struggente alle scale, ma Helen non comparve. Con un brivido, Jeod lasciò la sua casa e chiuse la porta. Roran gli mise una mano sul braccio. «Quel che è fatto è fatto.»

«Lo so.»

Corsero fra le vie ancora buie della città, fermandosi come un muro compatto ogniqualvolta incontravano una pattuglia di ronda o altre creature della notte, che si dileguavano non appena li vedevano. A un tratto sentirono dei passi sul tetto di un edificio vicino. «La conformazione di Teirm» spiegò Jeod «rende più facile ai ladri arrampicarsi da un tetto all'altro.»

Rallentarono solo quando giunsero in vista del cancello est della città. Poiché il cancello affacciava sul porto, veniva chiuso soltanto quattro ore per notte, per non intralciare troppo i traffici commerciali. In effetti, malgrado l'ora, già parecchia gente affollava il varco.

Anche se Jeod li aveva avvertiti che sarebbe potuto accadere, Roran fu colto dal panico quando le guardie incrociarono le picche e vollero sapere chi fossero. Roran si umettò le labbra e cercò di non mostrarsi allarmato, mentre la sentinella più anziana esaminava una pergamena che Jeod gli aveva porto. Dopo un interminabile minuto, la guardia annuì e restituì il rotolo. «Potete passare.»

Una volta giunti al porto, lontani da orecchie indiscrete, Jeod disse: «Una vera fortuna che quello non sapesse leggere.»

I sei aspettarono sul pontile umido finché, uno dopo l'altro, gli uomini di Jeod non emersero dalla grigia nebbia che aleggiava sulla costa. Erano individui torvi e taciturni, con lunghe trecce che pendevano loro sulla schiena, mani annerite dal catrame e un assortimento di cicatrici che incutevano rispetto persino a Roran. Gli piacque ciò che vide, e capì che anche loro lo approvavano. Ma non fu lo stesso per Brigit.

Uno dei marinai, un omaccione grande e grosso, la indicò col pollice e accusò Jeod: «Non ci avevi detto che ci sarebbe stata anche una femmina. Come faccio a concentrarmi per combattere se mi ritrovo quella montanara stracciona fra i piedi?»

«Non parlare di lei in questo modo» sibilò Nolfavrell a denti stretti.

«E pure il marmocchio?»

Con voce calma, Jeod rispose: «Brigit ha combattuto i Ra'zac. E suo figlio ha già ucciso uno dei migliori soldati di Galbatorix. Tu puoi vantare lo stesso, Uthar?»

«Non è giusto» disse un altro uomo. «Io non mi sento al sicuro con una donna accanto; portano sfortuna. Una signora non dovrebbe...»

Qualunque cosa stesse per dire andò perduta, perché in quell'istante Brigit fece una cosa assai poco femminile. Con un gesto fulmineo, sferrò un calcio all'inguine di Uthar, poi afferrò il secondo uomo per un braccio, premendogli il coltello alla gola. Lo tenne in quella posizione per qualche istante, perché tutti potessero vedere, poi lo liberò. Uthar si rotolava sul pontile, con le mani strette fra le gambe, vomitando un fiume di imprecazioni.

«Qualche altra obiezione?» chiese Brigit. Al suo fianco, Nolfavrell fissava la madre a bocca aperta. Roran si calò il cappuccio sul volto per nascondere un ghigno divertito. Per fortuna non hanno notato Gertrude, pensò.

Nessun altro osò sfidare Brigit e Jeod disse: «Avete portato quello che ho chiesto?» Gli uomini estrassero dalle camicie un randello e un rotolo di corda ciascuno.

Così armati, s'incamminarono lungo la banchina verso l'Ala di Drago, facendo del loro meglio per non essere visti. Jeod tenne la lanterna chiusa tutto il tempo. Vicino al molo, si nascosero dietro un magazzino e videro le due lanterne portate dalle sentinelle sobbalzare sul ponte della nave. La passerella era tolta per la notte.

«Ricordate» mormorò Jeod, «la cosa fondamentale è impedire che l'allarme suoni prima che siamo pronti a salpare.» «Due uomini sopracoperta, due uomini sottocoperta, giusto?» chiese Roran.

Uthar rispose: «Di solito è così.»

Roran e Uthar si denudarono fino alla cintola, si legarono la corda e i randelli in vita - Roran lasciò indietro il martello - e poi corsero lungo il molo, lontani dalla visuale delle sentinelle, dove si immersero nell'acqua gelida. «Brr, quanto odio farlo» protestò Uthar tra i denti.

«L'hai già fatto altre volte?»

«Quattro, con questa. Non smettere di muoverti o ti congelerai.»

Passando da un pilone viscido all'altro, tornarono a nuoto da dove erano venuti fino a raggiungere il molo di pietra che portava all'Ala di Drago, poi deviarono a destra. Uthar avvicinò le labbra all'orecchio di Roran. «Io prendo l'ancora di dritta.» Roran annuì.

Si tuffarono entrambi sotto l'acqua nera, poi si divisero. Uthar nuotò come una rana sotto la prua della nave, mentre Roran andò dritto all'ancora di sinistra e si aggrappò alla pesante catena. Slegò il randello dalla cintura e lo strinse fra i denti - sia per impedire a questi di battere, sia per avere le mani libere - e aspettò. Il metallo gli sottraeva il calore dalle mani come ghiaccio.

Nemmeno tre minuti dopo, Roran sentì il rumore degli stivali di Brigit passargli sulla testa, mentre la donna si spostava dall'altro lato del molo, oltre la mezzanave, e poi udì la sua voce fievole avviare una conversazione con le sentinelle. Se tutto andava bene, avrebbe distolto la loro attenzione dalla prua.

Ora!

Roran si arrampicò lungo la catena. La spalla destra gli bruciava, dove il Ra'zac lo aveva morso, ma resistette al dolore. Dall'occhio di cubia dove passava la catena dell'ancora, si issò su una delle travi che sostenevano la polena dipinta, scavalcò la murata e atterrò sul ponte. Uthar era già lì, gocciolante e col fiato grosso.

Con i randelli in pugno, strisciarono verso poppa, nascondendosi in ogni anfratto. Si fermarono a meno di dieci passi dalle sentinelle. I due uomini erano affacciati al parapetto, intenti a scambiare quattro chiacchiere con Brigit. In un lampo, Roran e Uthar uscirono allo scoperto e colpirono le sentinelle sulla testa prima che potessero sguainare le sciabole. Sul molo, Brigit fece segno a Jeod e agli altri, e insieme sollevarono la passerella, per poi farla scivolare sulla nave, dove Uthar l'assicurò al parapetto.

Quando Nolf avrell corse a bordo, Roran gli lanciò la sua fune e disse: «Lega e imbavaglia quei due.» Tutti, tranne Gertrude, scesero sottocoperta in cerca degli altri uomini di guardia. Trovarono altri quattro membri dell'equipaggio - il commissario, il nostromo, il cuoco e il suo assistente - che furono tutti buttati giù dalle brande, tramortiti se resistevano, e poi legati con cura. Anche in questo caso Brigit dimostrò il suo valore, neutralizzando due uomini da sola.

Jeod fece portare gli sventurati prigionieri sul ponte, per poterli tenere d'occhio, poi dichiarò: «Abbiamo ancora molto da fare, e poco tempo. Roran, da questo momento Uthar è il comandante dell'Ala di Drago. Tu e gli altri prenderete ordini da lui.»

Nelle due ore successive, la nave fu un brulicare di attività. I marinai si occuparono delle sartie e delle vele, mentre Roran e i suoi compagni svuotavano la stiva di ogni mercé superflua, come le balle di lana grezza. Invece di gettarle fuori bordo, le calarono lentamente in acqua, perché nessuno udisse i tonfi. Se l'intero villaggio doveva trovare posto a bordo dell'Ala di Drago, era necessario sgombrare più spazio possibile.

Roran stava assicurando una fune intorno a un barile, quando udì un grido rauco: «Arriva qualcuno!» Tutti coloro che si trovavano sul ponte, tranne Jeod e Uthar, si distesero ventre a terra e impugnarono le armi. I due uomini rimasti in piedi cominciarono a camminare sul ponte come se fossero le sentinelle. Il cuore martellava nel petto di Roran che giaceva immobile, chiedendosi che cosa stava per accadere. Trattenne il fiato quando Jeod si rivolse all'intruso... poi riecheggiarono dei passi sulla passerella.

Era Helen.

Indossava un abito semplice e teneva i capelli raccolti sotto un fazzoletto; in spalla portava una sacca di tela. Senza dire una parola, scese a portare le sue cose nella cabina principale, poi tornò per mettersi al fianco di Jeod. Roran non aveva mai visto un uomo più felice.

Il cielo sulle lontane vette della Grande Dorsale aveva appena cominciato a rischiararsi quando uno dei marinai arrampicati sulle sartie puntò un dito verso nord e lanciò un fischio per indicare che aveva individuato gli abitanti del villaggio.

Roran accelerò i movimenti. Il tempo era agli sgoccioli. Corse al parapetto e scrutò la linea scura di gente che avanzava lungo la costa. Questa parte del piano dipendeva dal fatto che, al contrario delle altre città costiere, le mura esterne di Teirm non erano aperte sul mare, ma cingevano completamente la città per proteggerla dai frequenti attacchi dei pirati. Questo significava che la zona vicina al porto era transitabile senza passare per nessun cancello, e che gli abitanti di Carvahall potevano arrivare dritti all'Ala di Drago.

«Svelti! Sbrigatevi!» disse Jeod.

Su ordine di Uthar, i marinai arrivarono con le braccia cariche di giavellotti per le grandi baliste montate sul ponte, e con barili di pece dall'odore acre che spalmarono sulla metà superiore dei dardi. Poi tesero e caricarono le baliste sul lato di dritta; ci vollero due uomini per tendere ciascuna corda e agganciarla al fermo.

Gli abitanti del villaggio avevano percorso due terzi del tragitto fino alla nave, quando le sentinelle di ronda sulle mura di Teirm li individuarono e suonarono l'allarme. Ancor prima che svanisse la prima nota, Uthar urlò: «Accendete e tirate!»

Correndo da una balista all'altra, Nolfavrell incendiò la pece dei giavellotti con la fiamma della lanterna di Jeod. Nel momento in cui il dardo prendeva fuoco, l'uomo alla balista liberava la corda e il giavellotto schizzava con un sonoro schiocco. In tutto, dodici dardi infuocati partirono dall'Ala di Drago e colpirono le navi e gli edifici della baia come ruggenti meteore incandescenti piovute dal cielo.

«Ricaricate!» gridò Uthar.

Lo scricchiolio del legno piegato echeggiava nell'aria, mentre gli uomini tendevano le corde. Una seconda batteria di giavellotti fu collocata sulle baliste, e ancora una volta Nolfavrell fece il giro con la lanterna. Roran sentì la vibrazione sotto i piedi quando la balista davanti a lui scagliò il suo mortale proiettile.

L'incendio si propagò in rapida successione lungo il porto, formando una barriera impenetrabile che impediva ai soldati di raggiungere l'Ala di Drago dal cancello est di Teirm. Roran aveva contato sulla colonna di fumo per nascondere la nave agli arcieri sui bastioni, ma era ancora troppo sottile; un nugolo di frecce piovve fra le sartie, e un dardo si conficcò sul tavolato a un soffio da Gertrude prima che i soldati perdessero di vista la nave.

Dalla prua, Uthar gridò: «Fuoco a volontà!»

Nel frattempo, gli abitanti di Carvahall avevano raggiunto la spiaggia e correvano alla rinfusa; quando i primi arrivarono alla banchina, alcuni inciamparono e caddero, mentre gli arcieri di Teirm cambiavano bersaglio. I bambini strillavano terrorizzati. Poi i profughi ripresero la corsa, facendo vibrare le assi del pontile; superarono un magazzino in fiamme e si riversarono sul molo. La folla ansimante prese d'assalto la nave in una massa confusa di corpi che si spintonavano.

Brigit e Gertrude guidarono la fiumana di gente attraverso i boccaporti di prua e di poppa. In pochi minuti, ogni ponte della nave fu occupato, dalla stiva alla cabina del comandante. Quelli che non trovarono posto sottocoperta rimasero rannicchiati sul ponte, coprendosi la testa con gli scudi di Fisk.

Come Roran aveva chiesto nel suo messaggio, tutti gli uomini abili di Carvahall si ammassarono intorno all'albero di maestra, in attesa di istruzioni. Roran vide Mandel fra loro, e gli fece un cenno di approvazione.

Poi Uthar indicò un marinaio e latrò: «Tu, laggiù, Bonden! Porta questa marmaglia agli argani e levate le ancore, poi scendete ai remi. Di corsa!» Al resto degli uomini alle baliste, ordinò: «Metà Respingete chiunque tenti di abbordarci.»

Roran fu tra quelli che cambiarono murata. Mentre preparava la balista, uno barcollando dal fumo denso e salì sulla nave. Jeod ed Helen trascinarono i sei prigionieri verso la passerella, e uno per uno li fecero rotolare sul molo.

In un batter d'occhio, le ancore furono levate, le cime che assicuravano la passerella tagliate, e un tamburo risuonò sotto le assi del ponte, per dare il tempo ai rematori. Seppur lentamente, l'Ala di Drago virò a dritta verso il mare aperto, poi, a velocità crescente, si allontanò dal molo.

Roran accompagnò Jeod al casseretto, dove osservarono l'inferno cremisi che divorava ogni cosa fra Teirm e l'oceano. Al di là della cortina di fumo, il sole sorse come un disco opaco color del sangue.

Quanti ne avrò uccisi, adesso? si chiese Roran.

Come leggendogli nella mente, Jeod osservò: «Molti innocenti soffriranno.»

Il senso di colpa spinse Roran a rispondere con più veemenza di quanta avrebbe voluto. «Preferiresti trovarti nelle prigioni di Lord Risthart? Dubito che l'incendio provocherà molte vittime, e i feriti non affronteranno la morte, come accadrebbe a noi se l'Impero ci catturasse.»

«Non c'è bisogno che mi insegni la lezione, Roran. La conosco fin troppo bene. Abbiamo fatto quello che dovevamo. Solo, non chiedermi di provare piacere per le sofferenze che abbiamo causato per salvarci la pelle.» A mezzogiorno, i remi vennero tirati a bordo e l'Ala di Drago cominciò a veleggiare, sospinta dai venti favorevoli che spiravano da nord. Le sartie vibravano al vento con un basso ronzio.

La nave era sovraffollata, ma Roran era fiducioso che con un'attenta organizzazione sarebbero arrivati nel Surda col minimo disagio. Il peggior inconveniente erano le razioni limitate; se non volevano morire di stenti, il cibo avrebbe di voi passi alle baliste di sinistra.

sparuto gruppo di ritardatari uscì dovuto essere distribuito in esigue porzioni. E con tutta quella gente stipata, le malattie erano una possibilità tutt'altro che remota.

Dopo che Uthar ebbe pronunciato un breve discorso sull'importanza della disciplina a bordo, i contadini si apprestarono a svolgere le attività più urgenti, come curare i feriti, disfare i loro miseri bagagli e sfruttare al meglio lo spazio per poter improvvisare giacigli per tutti. Inoltre vennero assegnati loro i diversi compiti: qualcuno avrebbe cucinato, altri avrebbero imparato a fare il marinaio con la guida degli uomini di Uthar, e così via. Roran stava aiutando Elain ad appendere un'amaca quando rimase coinvolto in un'accesa discussione fra Odele, la sua famiglia e Frewin, che aveva disertato la chiatta di Torson per stare con la ragazza. I due volevano sposarsi, ma i genitori di Odele si opponevano strenuamente, sostenendo che il giovane marinaio non aveva una famiglia, una professione rispettabile e i mezzi per garantire alla figlia una vita dignitosa. Roran era dell'opinione che la coppia di innamorati dovesse restare insieme - in fin dei conti, era impensabile cercare di tenerli separati dal momento che si trovavano sulla stessa nave - ma i genitori di Odele si rifiutavano di dargli ascolto.

Frustrato, Roran esclamò: «Che intendete fare, allora? Non potete metterla sotto chiave, e credo che Frewin abbia dimostrato la sua devozione in più...»

«Ra'zac!»

Il grido venne dalla coffa.

Senza pensarci due volte, Roran si sfilò il martello dalla cintura, si volse e risalì di corsa la scaletta del boccaporto di prua, sbucciandosi un ginocchio. Si fece largo tra la folla assiepata sul casseretto e si fermò al fianco di Horst. Il fabbro puntò un dito.

Una delle ributtanti cavalcature dei Ra'zac sorvolava la linea di costa come un'ombra sfilacciata, con un Ra'zac in groppa. Vedere i due mostri alla luce del giorno non diminuiva affatto l'orrore che ispiravano a Roran. Trasalì quando la creatura alata emise il suo grido terrificante, e poi la voce da insetto del Ra'zac volò sull'acqua, fievole ma distinta: «Non ci sssfuggirete!»

Roran guardò le baliste, ma non poteva girarle abbastanza da mirare al Ra'zac o alla sua cavalcatura. «Qualcuno ha un arco?»

«Sì, io» disse Baldor. Si appoggiò su un ginocchio e cominciò a incordare l'arma. «Fate che non mi veda.» Tutti quelli che erano sul casseretto si strinsero in cerchio intorno a Baldor, facendogli scudo con i propri corpi dallo sguardo malevolo del Ra'zac.

«Perché non attaccano?» ringhiò Horst.

Perplesso, Roran cercò di trovare una spiegazione, invano. Fu Jeod che suggerì: «Forse c'è troppa luce per loro. I Ra'zac vanno a caccia di notte, e per quanto ne so non abbandonano volentieri le loro tane finché c'è ancora sole nel cielo.»

«Non è soltanto questo» intervenne Gertrude. «Credo che abbiano paura dell'oceano.»

«Paura dell'oceano?» le fece eco Horst, accigliato.

«Guardateli. Non osano avanzare per più di una iarda sull'acqua.»

«Ha ragione!» esclamò Roran. Almeno una debolezza che potrò usare contro di loro!

Qualche secondo dopo, Baldor disse: «Pronto!»

La muraglia umana che lo proteggeva si aprì di colpo, sgombrandogli la mira. Baldor scattò in piedi, avvicinò l'impennaggio alla guancia e scoccò la freccia.

Fu un lancio eroico. Il Ra'zac era al limite della gittata di un arco normale - molto più distante di qualsiasi bersaglio che Roran avesse visto colpire da un arciere - ma Baldor non fallì. La sua freccia colpì la creatura volante al fianco destro, e la bestia lanciò un grido di dolore così potente da infrangere i vetri sul ponte e spaccare le pietre sulla riva. Roran si coprì le orecchie con le mani per proteggerle dal grido feroce. Ancora gridando, il mostro invertì la rotta e si diresse verso l'entroterra per sparire dietro una fila di colline nebbiose.

«L'hai ucciso?» chiese Jeod, pallido in volto.

«Temo di no» rispose Baldor. «Credo di averlo soltanto ferito.»

Loring, che era appena arrivato, osservò con soddisfazione: «Già, ma almeno l'hai colpito, e scommetto che ci penseranno due volte prima di darci ancora fastidio.»

Con un'espressione tetra, Roran disse: «Risparmiati il trionfo per dopo, Loring. Non è stata una vittoria.» «Perché no?» disse Horst.

«Perché adesso l'Impero sa esattamente dove ci troviamo.» Sul casseretto calò il silenzio, mentre tutti riflettevano sulle implicazioni delle sue parole.

Una bambina intraprendente

E questo» disse Trianna «è l'ultimo modello che abbiamo realizzato.» Nasuada prese il velo nero dalle mani della maga e se lo fece scorrere piano piano fra le dita, ammirandone la qualità. Nessun umano avrebbe potuto produrre un merletto così fine. Guardò con soddisfazione le scatole sulla sua scrivania, che contenevano i campioni dei diversi modelli creati dal Du Vrangr Gata. «Ottimo lavoro» disse. «Molto meglio di quanto sperassi. Di' ai tuoi stregoni che mi compiaccio del loro lavoro. Significa molto per i Varden.»

Trianna chinò il capo, lusingata. «Riferirò loro il tuo messaggio, ledy Nasuada.»

«Hanno...»

Un trambusto alla porta dei suoi appartamenti interruppe Nasuada. Sentì le guardie che imprecavano e alzavano la voce, poi un grido di dolore. L'urto di metallo contro metallo risuonò nel corridòio. Nasuada si allontanò dalla porta, in allarme, sguainando il pugnale.

«Fuggì, mia signora!» disse Trianna. La maga si parò davanti a Nasuada e si rimboccò le maniche, scoprendo le bianche braccia per prepararsi a combattere con la magia. «Usa la porta della servitù.»

Ma prima che Nasuada riuscisse a fare un solo passo, la porta principale si spalancò di colpo e una piccola figura la placcò alle ginocchia, gettandola a terra. Nello spazio dove si trovava Nasuada una frazione di secondo prima, sfrecciò un oggetto argenteo che si andò a conficcare nella parete di fondo con un tonfo sordo.

I quattro uomini di guardia si precipitarono nello studio e, nella confusione, Nasuada sentì che la liberavano dal suo aggressore. Quando si rialzò, vide che tenevano stretta la piccola Elva.

«Che significa?» domandò, ansante.

La ragazzina dai capelli neri sorrise, poi si piegò in due e vomitò sul prezioso tappeto. Quando si riprese, guardò Nasuada con i suoi occhi violetti e con voce terribile e colma di saggezza disse: «Fai esaminare il muro dalla tua maga, figlia di Ajihad, e vedi se non ho mantenuto la mia promessa.»

Nasuada fece un cenno a Trianna, che si avvicinò al foro nella parete e mormorò un incantesimo. Tornò tenendo in mano un piccolo dardo metallico. «Era incastrato nel legno.» «Ma da dove veniva?» chiese Nasuada, sconvolta. Trianna indicò la finestra aperta che si affacciava sulla città di Aberon. «Da qualche parte là fuori, immagino.» Nasuada rivolse la sua attenzione alla bambina. «Cosa sai di questa storia, Elva?»

L'orribile sorriso della bambina si allargò. «Era un sicario.»

«Chi lo ha mandato?»

«Un sicario addestrato da Galbatorix in persona nell'uso oscuro della magia.» Le palpebre le calarono sugli occhi ardenti, come se fosse in trance. «Quell'uomo ti odia. È venuto per te. Ti avrebbe uccisa se non fossi intervenuta.» Il suo corpo si contorse in uno spasmo e la bambina vomitò di nuovo, spargendo il contenuto del suo stomaco sul pavimento. Nasuada ebbe un conato di disgusto. «E soffrirà molto per questo.»

«Perché?»

«Perché ti informo che alloggia nell'ostello della strada del Tempio, nell'ultima stanza, all'ultimo piano. Sarà meglio che vi affrettiate, altrimenti scapperà... scapperà...» Gemette come una bestia ferita e si strinse la pancia. «Sbrigatevi, prima che l'incantesimo di Eragon mi costringa a impedirvi di fargli del male. Te ne pentiresti!»

Trianna si stava già muovendo quando Nasuada disse: «Riferisci a Jòrmundur quanto è successo, poi prendi i tuoi stregoni più potenti e rintraccia quell'uomo. Catturatelo vivo, se potete. Altrimenti, uccidetelo.» Quando la maga se ne fu andata, Nasuada guardò le sue guardie e vide che molti perdevano sangue da piccole ferite. Si rese conto di quale sforzo era costato a Elva far loro del male. «Andate» disse agli uomini. «Trovate un guaritore che vi curi quelle ferite.» I soldati scossero il capo, e il capitano disse: «No, mia signora. Resteremo al tuo fianco finché non saremo sicuri che tu non corra più alcun pericolo.»

«Come vuoi, capitano.»

Gli uomini sbarrarono le finestre, aumentando il calore già opprimente che affliggeva il Castello Farnaci, poi tutti si ritirarono nelle stanze più interne per prudenza.

Nasuada camminava avanti e indietro, col cuore in tumulto: solo ora si rendeva conto di quanto era stata vicina alla morte. Che cosa accadrebbe ai Varden se io morissi? s'interrogò. Chi sarebbe il mio successore? Era sgomenta; non aveva lasciato disposizioni ai Varden in caso di sua morte, una negligenza che avrebbe potuto trasformarsi in un disastro di proporzioni immani. Non permetterò che i Varden precipitino nel caos perché ho mancato di prendere precauzioni!

Si fermò. «Sono in debito con te, Elva.»

«Ora e sempre.»

Nasuada trasalì, sconcertata come sempre dalle risposte della bambina, poi continuò: «Mi rincresce di non aver ordinato alle mie guardie di lasciarti passare in qualsiasi momento, giorno e notte. Avrei dovuto prevedere una cosa del genere.»

«Avresti dovuto» ripete Elva, in tono vagamente ironico.

Lisciandosi il davanti della veste, Nasuada ricominciò a misurare la stanza a grandi passi, sia per sfuggire alla vista del volto di Elva, pallido e marchiato dal drago, sia per dissipare la tensione. «Come hai fatto a uscire dalle tue stanze senza compagnia?»

«Ho detto alla mia domestica, Greta, quello che voleva sentirsi dire.»

«Tutto qui?»

Elva ammiccò. «L'ho resa molto felice.»

«E Angela?»

«È uscita stamattina per una commissione.»

«Be', comunque sia, avrai per sempre la mia gratitudine. Chiedimi qualsiasi cosa, e per quanto mi sarà possibile, te la concederò.»

Elva fece scorrere lo sguardo violetto intorno alla stanza, poi disse: «Hai qualcosa da mangiare? Ho tanta fame...»

Venti di guerra

Due ore più tardi, Trianna tornò, seguita da una coppia di soldati che trascinavano fra loro un corpo inerte. A un cenno di Trianna, gli uomini lasciarono cadere il corpo a terra. La maga disse: «Abbiamo trovato il sicario dove aveva detto Elva. Si chiamava Drail.»

Spinta da una curiosità morbosa, Nasuada esaminò il volto dell'uomo che aveva tentato di ucciderla. Il sicario era basso e tarchiato, aveva la barba ed era d'aspetto insignificante, come centinaia di altri uomini che vagavano per la citta. In uno strano senso, si sentiva accomunata a lui, come se il tentativo di ucciderla, e il fatto che lei avesse in cambio ordinato la sua eliminazione, in qualche modo li legasse intimamente. «Com'è morto?» chiese. «Non vedo segni sul cadavere.»

«Si è suicidato con la magia quando abbiamo travolto le sue difese e siamo entrati nella sua mente, appena prima che riuscissimo a prendere il controllo delle sue azioni.»

«Siete riusciti a cogliere qualche informazione utile prima che morisse?»

«Sì. Drail faceva parte di una rete di agenti infiltrati qui nel Surda, fedeli a Galbatorix. Si chiamano la Mano Nera. Ci spiano, sabotano i nostri sforzi e da quanto siamo riusciti a determinare dal fugace sguardo ai suoi ricordi, sono responsabili di decine di omicidi fra i Varden. A quanto pare, aspettavano l'occasione giusta per eliminarti fin da quando siamo arrivati dal Farthen Dùr.»

«Perché questa Mario Nera non ha ancora ucciso re Orrin?»

Trianna si strinse nelle spalle. «Non saprèi. Può darsi che Galbatorix ti consideri più pericolosa di Orrin. Se fosse questo il caso, quando la Mano Nera si renderà conto che sei protetta dai loro attentati...» il suo sguardo si posò per un istante su Elva, «... Orrin non sopravviverà un altro mese, se non verrà sorvegliato dagli stregoni giorno e notte. Oppure Galbatorix si è astenuto da un'azione così clamorosa perché voleva che la Mano Nera restasse segreta. Finora il Surda è sopravvissuto per la sua tolleranza. Ora che è diventato una minaccia...»

«Puoi proteggere anche Orrin?» chiese Nasuada, rivolgendosi a Elva.

I suoi occhi violetti scintillarono. «Se me lo chiede con garbo.»

Nasuada si arrovellò nel tentativo di trovare il modo di difendersi da questa nuova minaccia. «Tutti gli agenti di Galbatorix sono in grado di usare la magia?»

«La mente di Drail era confusa, perciò è difficile stabilirlo» disse Trianna, «ma suppongo che un discreto numero lo sia.»

Magia, imprecò Nasuada fra sé. Per i Varden il maggior pericolo rappresentato dagli stregoni - o da chiunque fosse stato addestrato a usare la propria mente - non era tanto l'assassinio quanto lo spionaggio. Gli stregoni sapevano spiare i pensieri altrui e raccogliere informazioni da usare per distruggere i Varden. Era questo il motivo per cui Nasuada e gli altri vertici dei Varden erano stati addestrati a capire quando qualcuno tentava di toccar loro la mente e a schermarla da simili attenzioni. Nasuada sospettava che Orrin e Rothgar adottassero analoghe precauzioni all'interno dei propri governi.

Tuttavia, poiché era impossibile che tutti coloro che

avevano accesso a informazioni potenzialmente pericolose possedessero quella facoltà, uno dei tanti incarichi del Du Vrangr Gata era rintracciare chiunque tentasse di carpire informazioni non appena entrava nella mente delle persone. Il prezzo di questa vigilanza era che il Du Vrangr Gata finiva per spiare i Varden quanto i nemici, un fatto che Nasuada badava bene a nascondere al grosso della popolazione, perché non avrebbe suscitato altro che malanimo, odio e diffidenza. Non le piaceva, ma non vedeva alternative.

Quello che aveva saputo sulla Mano Nera rafforzò le sue convinzioni: in qualche modo, gli stregoni dovevano essere controllati.

«Perché» chiese «non l'avete scoperto prima? Posso capire che vi sia sfuggito un sicario isolato, ma un'intera rete di stregoni votata alla nostra distruzione? Dammi una spiegazione, Trianna.»

Gli occhi della maga fiammeggiarono all'accusa. «Perché qui, al contrario che nel Farthen Dùr, non possiamo esaminare tutte le menti in cerca di impostori. La popolazione è troppo numerosa per controllare tutti. Ecco perché non abbiamo saputo niente della Mano Nera finora, ledy Nasuada.»

Nasuada tacque per qualche istante, poi chinò il capo. «Capisco. Avete identificato altri membri della Mano Nera?» «Qualcuno.»

«Bene. Usateli per stanare il resto degli agenti. Voglio che distruggiate l'organizzazione per me, Trianna. Eliminali come faresti con un'infestazione di parassiti. Ti darò tutti gli uomini di cui avrai bisogno.»

La maga s'inchinò. «Come desideri, ledy Nasuada.»

Qualcuno bussò alla porta, e le guardie sguainarono le spade e si disposero ai lati della soglia, mentre il capitano apriva la porta di colpo. Si trovò davanti un giovane paggio, con il pugno ancora alzato per bussare di nuovo. Il ragazzo guardò attonito il cadavere sul pavimento per poi voltarsi di scatto quando il capitano gli chiese: «Cosa c'è, ragazzo?» «Un messaggio per ledy Nasuada da parte di re Orrin.»

«Allora parla» disse Nasuada.

Il paggio impiegò un momento per ricomporsi. «Re Orrin ti invita a recarti subito nella sala consiliare, perché ha ricevuto notizie dall'Impero che richiedono la tua immediata attenzione.»

«È tutto?»

«Sì, signora.»

«Devo andare. Trianna, sai cosa fare. Capitano, ordinate a uno dei vostri uomini di sbarazzarsi di Drail.» «Sì, mia signora.»

«E fategli cercare Farica, la mia ancella. Provvedere lei a pulire il mio studio.» «E io?» chiese Elva, alzando la testolina nera.

«Tu» disse Nasuada «mi accompagnerai. Se ti senti abbastanza in forze, s'intende.»

La bambina gettò indietro la testa e dalla boccuccia rotonda emise una gelida risata. «Io sono forte, Nasuada. E tu?» Ignorando la domanda, Nasuada uscì in corridòio, scortata dalle sue guardie. Le pietre del castello emanavano un forte odore di terra nella calura. Alle sue spalle, Nasuada sentiva i passettirii affrettati di Elva, e provò una sorta di piacere perverso per il fatto che la terrificante bambina dovesse correre per tenere il passo con la lunga falcata degli adulti. Le guardie si fermarono nel vestibolo della sala consiliare, mentre Nasuada ed Elva proseguirono. La sala era spoglia e austera, e rifletteva la natura militare del Surda. I re del paese avevano preferito spendere le loro risorse per proteggere la popolazione e opporsi a Galbatorix più che per decorare il Castello Farnaci con una profusione di ricchezze, come avevano fatto i nani a Tronjheim.

Al centro della sala consiliare c'era un tavolo di legno grezzo, lungo dodici piedi, su cui era distesa una mappa di Alagaèsia, con i quattro angoli fissati da un pugnale. Come di consueto, Orrin sedeva a capotavola, mentre i vari ministri - molti dei quali, sapeva Nasuada, le erano apertamente ostili - occupavano le sedie in fondo. Era presente anche il Consiglio degli Anziani. Nasuada notò l'espressione preoccupata di Jòrmundur quando la vide, e intuì che Trianna doveva averlo messo già al corrente.

«Sire, hai chiesto di me?»

Orrin si alzò. «Sì, ledy Nasuada. Abbiamo appena...» S'interruppe quando scorse Elva dietro di lei. «Ah, sì, Fronte Splendente. Non ho avuto ancora l'opportunità di darti udienza, anche se ho molto sentito parlare di te. Devo confessare che ero piuttosto curioso di conoscerti. Hai trovato di tuo gradimento gli alloggi che ti ho assegnato?» «Sono alquanto confortevoli, sire. Ti ringrazio.» Nel sentire quella voce innaturale, la voce di un'adulta per bocca di una bambina, tutti i presenti sussultarono.

Irwin, il primo ministro, si alzò di scatto e puntò un dito tremante contro Elva. «Perché hai portato questa... questa aberrazione fra di noi?»

«Dimentichi le buone maniere, ministro» rispose Nasuada, pur comprendendo le ragioni di Irwin. Orrin aggrottò la fronte. «Sì, contieniti, Irwin. Tuttavia la sua obiezione è valida, Nasuada. La bambina non può assistere alle nostre riunioni.»

«L'Impero» disse Nasuada «ha appena tentato di assassinarmi.» La sala echeggiò di esclamazioni di sorpresa. «Se non fosse stato per l'intervento tempestivo di Elva, a quest'ora sarei morta. Quindi gode della mia piena fiducia; dove vado io, viene lei.» Che si chiedano pure che cosa Elva è in grado di fare.

«È una notizia sconvolgente!» esclamò il re. «Avete catturato il responsabile?»

Notando le espressioni bramose dei ministri, Nasuada esitò. «Preferirei parlartene in privato, sire.» Orrin parve contrariato dalla risposta, ma decise di non insistere. «D'accordo. Ma siediti, prego! Abbiamo appena ricevuto un rapporto inquietante.» Quando Nasuada ebbe preso posto di fronte a lui - con Elva in piedi alle sue spalle il re continuò: «Pare che le nostre spie a Gil'ead siano state indotte in errore circa l'entità dell'esercito di Galbatorix.» «Ossia?»

«Loro ritengono che l'esercito si trovi a Gil'ead, mentre abbiamo qui una lettera di un nostro infiltrato a Urù'baen, che avrebbe visto un'enorme milizia marciare oltre la capitale verso sud una settimana e mezzo fa. Era notte, per cui non ha potuto stabilire il numero con precisione, ma è sicuro che fossero molti di più dei sedicimila soldati che compongono il nucleo delle truppe di Galbatorix. Potrebbero essere addirittura centomila, se non di più.»

Centomila soldati! Nasuada si sentì sprofondare il cuore in un pozzo gelido. «Possiamo fidarci della tua fonte?» «I suoi rapporti sono sempre stati attendibili.»

«Non capisco» disse Nasuada. «Come ha fatto Galbatorix a mobilitare tanti uomini senza che noi ne avessimo sentore? Soltanto i convogli delle salmerie dovevano essere lunghi miglia e miglia. Sapevamo che l'esercito si stava muovendo, ma l'Impero era ben lungi dal poterlo schierare.»

Intervenne Falberd, picchiando il pugno sul tavolo. «Siamo stati ingannati. Le nostre spie devono essere state tratte in errore con la magia, perché pensassero che i soldati fossero ancora nelle caserme di Gil'ead.»

Nasuada si sentì gelare il sangue nelle vene. «L'unico in grado di sostenere un'illusione di questa portata e durata...» «È Galbatorix in persona» concluse Orrin. «Anche noi siamo giunti alla stessa conclusione. Significa che Galbatorix è finalmente uscito allo scoperto per uno scontro diretto. Il nero nemico si avvicina.»

Irwin prese la parola. «La domanda adesso è come reagire. Certo, dobbiamo affrontare la minaccia, ma in che modo? Dove, quando e come? Le nostre milizie non sono pronte per una campagna di questa portata, mentre i tuoi uomini, ledy Nasuada, i Varden, sono già abituati al feroce clamore della guerra.»

«Cosa vorresti insinuare?» Che dovremmo farci massacrare per voi?

«Ho soltanto fatto un'osservazione. Pensala come vuoi.»

Orrin disse: «Da soli verremmo annientati, da un esercito così imponente. Dobbiamo trovare degli alleati, e avere Eragon, soprattutto se dovremo affrontare lo stesso Galbatorix. Nasuada, vorresti richiamarlo?»

«Lo farei se potessi, ma finché Arya non torna, non ho modo di comunicare con gli elfi o di convocare Eragon.» «In questo caso» disse Orrin con voce grave «non ci resta che sperare che arrivi presto. Non credo che possiamo aspettarci l'aiuto degli elfi in questo frangente. Anche se un drago può coprire le leghe che separano Ellesméra da Aberon con la rapidità di un falco, sarebbe impossibile per gli elfi marciare per la stessa distanza prima che l'Impero ci raggiunga. Non ci restano che i nani. So che sei amica di Rothgar da molti anni; potresti mandargli una richiesta di aiuto da parte nostra? I nani ci hanno sempre promesso che avrebbero combattuto con noi, al momento del bisogno.» Nasuada annuì. «Il Du Vrangr Gata è in contatto con alcuni stregoni dei nani tramite un sistema di segnalazioni immediate. Riferirò il vostro... il nostro... messaggio. E chiederò a Rothgar di mandare un emissario a Ceris per informare gli elfi della situazione, perché almeno siano avvertiti.»

«Bene. Siamo piuttosto lontani dal Farthen Dùr, ma se riusciamo a rallentare l'Impero per almeno una settimana, i nani potranno raggiungerci in tempo.»

La discussione che seguì fu parecchio tormentata. Esistevano varie tattiche per sconfiggere un esercito più numeroso, anche se non necessariamente più forte, ma nessuno dei presenti riusciva a escogitare un modo per sconfiggere Galbatorix, considerando che Eragon era ancora relativamente impotente in confronto all'antico re. L'unico espediente che poteva avere qualche speranza di successo era circondare Eragon di quanti più stregoni possibile, sia nani che umani, e poi cercare di costringere Galbatorix ad affrontarli da solo. Il punto debole di questo piano, pensò Nasuada, è che Galbatorix ha avuto la meglio su nemici ben più formidabili quando eliminò i Cavalieri, e da allora la sua forza non ha fatto che crescere. Era sicura che anche gli altri ci avessero pensato. Se avessimo i maghi degli elfi a ingrossare le nostre fila, forse potremmo aspirare alla vittoria. Senza di loro... Se non riusciremo a sbarazzarci di Galbatorix, l'unica via di scampo sarà abbandonare Alagaesia per mare e trovare una nuova terra dove ricostruire le nostre esistenze. Poi aspetteremo che Galbatorix muoia. Nemmeno lui può vivere per sempre. L'unica certezza, in questo caos, è che tutte le cose sono destinate a finire, prima o poi.

Passarono dalla tattica alla logistica, e qui il dibattito si fece più acceso quando il Consiglio degli Anziani litigò con i ministri di Orrin per la distribuzione delle responsabilità fra i Varden e il Surda: chi avrebbe sovvenzionato questo o quello, chi avrebbe fornito le razioni agli operai che lavoravano per entrambi, chi si sarebbe sobbarcato le spese per il salario dei soldati, e numerosi altri argomenti spinosi.

Nel bel mezzo dello scontro verbale, Orrin si sfilò un rotolo di pergamena dalla cintura e si rivolse a Nasuada. «In materia di finanze, vorresti essere così gentile da spiegarmi una curiosa questione che è stata portata alla mia attenzione?»

«Farò del mio meglio, sire.»

«Ho in mano una protesta formale da parte della gilda dei tessitori, che asseriscono che i loro membri in tutto il Surda hanno subito un drastico calo dei profitti perché il mercato tessile è stato invaso da merletti a bassissimo costo, merletti che, sono pronti a giurare, vengono realizzati dai Varden.» Il suo volto era addolorato. «Sembra sciocco persino chiedertelo, ma la loro protesta è fondata: e in questo caso, perché i Varden avrebbero fatto una cosa del genere?»

Nasuada non fece nulla per nascondere il suo sorriso. «Se ben ricordi, sire, quando hai negato ai Varden un ulteriore prestito, mi hai consigliato di trovare un altro modo per provvedere a noi stessi.»

«Ricordo. E dunque?» chiese Orrin, gli occhi ridotti a due fessure.

«Ebbene, mi è venuto in mente che mentre ci vuole molto tempo per realizzare i merletti a mano, ed è il motivo per cui costano tanto, avrei potuto facilmente produrli con la magia, grazie all'esigua quantità di energia necessaria. Proprio tu, fra tutti, un filosofo naturalista, dovresti apprezzare la mia idea. Con la vendita dei merletti qui e nell'Impero siamo riusciti a provvedere a noi stessi. I Varden non hanno più bisogno di elemosinare vitto e alloggio.» Poche cose nella vita le avevano dato una così grande

soddisfazione quanto l'espressione incredula di Orrin in quel momento. La mano paralizzata che reggeva la pergamena sospesa sul tavolo, la bocca semiaperta, la fronte aggrottata, tutto contribuiva a dare al re l'aspetto di un uomo confuso, che non capisce quello che vede. Nasuada si godette la scena.

«Merletti?» balbettò Orrin.

«Esatto, sire.»

«Ma non puoi combattere Galbatorix con i merletti!»

«Perché no, sire?»

Orrin esitò un momento, poi ringhiò: «Perché... perché non è decoroso, ecco perché. Quale bardo si sognerebbe mai di comporre un poema epico sulle nostra gesta e scrivere di merletti?»

«Non combattiamo perché le nostre gesta siano lodate nei poemi epici.»

«Al diavolo i poemi epici! Come dovrei rispondere alla protesta della gilda? Vendendo i tuoi merletti a un prezzo così basso, tu danneggi la vita del mio popolo e pregiudichi la nostra economia. Non è giusto. Non è affatto giusto.» Con un sorriso sempre più accattivante e gentile, Nasuada usò il suo tono più mellifluo per rispondere: «Oh, mio caro sire. Se per le tue finanze è un fardello troppo grave, i Varden saranno più che disposti a offrirti un prestito per la generosità che ci hai dimostrato... a un equo tasso d'interesse, s'intende.»

Il Consiglio degli Anziani riuscì a stento a mantenere un contegno, ma alle spalle di Nasuada, Elva ridacchiò divertita.

Lama rossa, lama bianca

Nel momento stesso in cui il sole comparve oltre l'orizzonte di alberi, Eragon riportò il respiro alla normalità, accelerò i battiti cardiaci e aprì gli occhi, tornando alla piena coscienza. Non si era propriamente svegliato dal sonno, perché dalla sua trasformazione non dormiva più. Quando si sentiva stanco e si stendeva per riposare, entrava in una sorta di veglia sognante. Aveva molte visioni meravigliose e camminava fra le ombre grigie dei propri ricordi, pur restando consapevole di quanto lo circondava.

Guardò il sorgere del sole e pensò ad Arya; erano due giorni, dalla fine dell'Agaetì Blòdhren, che non faceva altro. La mattina dopo la celebrazione, era andato a cercarla nel Palazzo di Tialdari - con l'intenzione di scusarsi per il proprio comportamento - ma aveva scoperto che era già partita per il Surda. Quando la rivedrò? si domandava. Alla luce del giorno, si era reso conto di quanto la magia degli elfi e dei draghi gli avessero ottenebrato il senno durante l'Agaeti Blòdhren. Mi sarò anche comportato da sciocco, ma non è stata del tutto colpa mia. Era come se fossi ubriaco. Eppure era convinto di ogni parola che aveva detto ad Arya, anche se in circostanze normali non avrebbe rivelato così tanto di sé. Il rifiuto di lei lo aveva ferito nel profondo. Libero da incantesimi che gli annebbiavano la mente, era stato costretto ad ammettere che probabilmente l'elfa aveva ragione, che la differenza di età era un ostacolo troppo grande. Era una cosa difficile da accettare, e quando lo ebbe fatto, la consapevolezza non fece che accrescere la sua angoscia. Eragon aveva sentito l'espressione "cuore spezzato", ma fino ad allora l'aveva sempre considerata una descrizione astratta, non un vero sintomo fisico. Ora invece avvertiva un profondo dolore nel petto - come se avesse un muscolo dolente - e ciascun battito del cuore gli faceva male.

Il suo unico conforto era Saphira. In quei due giorni, lei non lo aveva mai criticato per quanto aveva fatto, né lo aveva lasciato da solo per più di qualche minuto; gli aveva offerto il sostegno della sua compagnia. Gli parlava a lungo, facendo del suo meglio per tirarlo fuori dal suo guscio di silenzio.

Per smettere di pensare ad Arya, Eragon prese il rompicapo ad anelli di Orik dal comodino e se lo rigirò fra le dita, meravigliandosi per la nuova acutezza dei suoi sensi. Percepiva ogni difetto del metallo. Mentre studiava il cerchio, avvertì uno schema nella disposizione delle fasce d'oro, un disegno che prima gli era sfuggito. Affidandosi all'istinto, manipolò le fasce nella sequenza suggerita dall'osservazione. Con sommo piacere, gli otto pezzi s'incastrarono formando un unico anello. Se lo infilò all'anulare della mano destra, ammirando come le fasce catturavano la luce. Prima non ci riuscivi, disse Saphira dalla pedana dove dormiva.

Adesso vedo molte cose che prima mi erano nascoste.

Eragon andò nel camerino da bagno ed eseguì la consueta serie di abluzioni mattutine, compresa la rasatura del viso con un incantesimo. Malgrado fosse diventato molto simile a un elfo, la sua barba continuava a crescere. Orik li stava aspettando quando Eragon e Saphira arrivarono sul campo di addestramento. I suoi occhi scintillarono quando Eragon gli mostrò l'anulare con il rompicapo risolto. «Ci sei riuscito!»

«Mi ci è voluto più di quanto mi aspettassi» disse Eragon. «Sei qui per allenarti anche tu?»

«Eh. Mi sono già scontrato con l'ascia con un elfo che si è divertito a colpirmi in testa. No... sono venuto per guardarti combattere.»

«Mi hai già visto altre volte» sottolineò Eragon.

«Sì, ma è passato parecchio tempo dall'ultima.»

«Vuoi dire che sei curioso di vedere come sono cambiato.» Orik rispose con una scrollata di spalle. Vanir si avvicinava dall'altro lato del campo. «Sei pronto, Ammazzaspettri?» gridò. L'atteggiamento sprezzante dell'elfo si era ridotto dal loro ultimo duello prima dell'Agaetì Blòdhren, ma non di molto.

«Sono pronto.»

Eragon e Vanir si misero in posizione in un'area sgombra del campo. Svuotando la mente, Eragon afferrò ed estrasse Zar'roc il più rapidamente possibile. Con sua sorpresa, la spada gli diede la sensazione di non pesare più di un fuscello. Senza l'attesa resistenza, il braccio di Eragon scattò all'indietro come una molla, perdendo la spada che volò roteando per venti iarde prima di conficcarsi nel tronco di un pino.

«Non sai nemmeno tenere la spada in mano, Cavaliere?» lo canzonò Vanir.

«Ti chiedo scusa, Vanir-vodhr» rispose Eragon, sbalordito. Si massaggiò il gomito per alleviare il dolore all'articolazione. «Non ho saputo valutare la mia forza.»

«Vedi che non si ripeta.» Andando verso l'albero, Vanir afferrò l'elsa di Zar'roc e tentò di liberarla. L'arma rimase immobile. Le sopracciglia di Vanir si incresparono quando scrutò la lama rossa, come se sospettasse qualche trucco. Facendosi forza, l'elfo si curvò all'indietro e con uno schianto di legno strappò Zar'roc dal pino.

Eragon accettò l'arma dalle mani di Vanir e la soppesò, preoccupato da quanto era leggera. C'è qualcosa che non va, si disse.

«In guardia!»

Questa volta fu Vanir a iniziare il duello. Con un solo balzo, coprì la distanza che li separava e tentò un affondo contro la spalla destra di Eragon. Eragon ebbe l'impressione che l'elfo si muovesse più lentamente del solito, come se i suoi riflessi fossero scesi al livello di un umano. Fu facile per Eragon deviare la spada di Vanir, e azzurre scintille sprizzarono dal metallo delle lame.

Vanir arretrò con espressione attonita. Si volse e ripartì all'attacco, ma Eragon schivò la spada flettendo la schiena all'indietro, come un albero ondeggiante nel vento. In rapida successione, Vanir provò una ventina di colpi diversi, che Eragon schivò o parò usando sia il fodero di Zar'roc che la lama stessa per arrestare l'assalto.

Eragon si rese conto che lo spettrale drago dell'Agaetì Blòdhren non gli aveva soltanto alterato l'aspetto fisico, ma gli aveva anche conferito le capacità atletiche di un elfo. In forza e agilità, era pari al più vigoroso degli elfi. Animato da questa nuova consapevolezza, e desideroso di mettere alla prova i suoi limiti, Eragon balzò più in alto che potè. Zar'roc sfavillò rossa alla luce del sole, mentre lui volava verso il cielo, librandosi a oltre dieci piedi dal suolo, prima di fare una capriola a mezz'aria come un acrobata e atterrare alle spalle di Vanir, nella direzione opposta da cui era partito.

Eragon scoppiò in una risata trionfante. Non era più inerme davanti agli elfi, agli Spettri o altre creature magiche. Non avrebbe più subito il disprezzo degli elfi. Non avrebbe più dovuto contare su Saphira o Arya per affrontare nemici come Durza.

Si slanciò su Vanir, e il campo risuonò di un feroce clangore quando la lama rossa e la lama bianca cozzarono, mentre i due piroettavano sull'erba. L'impeto dei loro colpi creava folate di vento che gli scompigliavano i capelli. Gli alberi fremettero e persero una pioggia di aghi. Il duello si protrasse per tutta la mattina, perché, nonostante le nuove capacità di Eragon, Vanir restava pur sempre un avversario formidabile. Ma alla fine prevalse Eragon. Mulinando Zar'roc, superò la guardia di Vanir e lo colpì sul braccio, spezzandogli l'osso.

Vanir lasciò cadere la spada, il volto pallido per la sorpresa: «Com'è veloce la tua spada» disse, ed Eragon riconobbe la famosa strofa della Ballata di Umhodan.

«Per gli dei!» esclamò Orik. «È stato il miglior duello che abbia mai visto; eppure c'ero quando hai affrontato Arya nel Farthen Dùr.»

Poi Vanir fece un gesto che Eragon non si sarebbe mai aspettato; l'elfo voltò la mano ferita nel gesto di fedeltà, se la portò allo sterno e disse: «Imploro il tuo perdono per il mio comportamento, Eragon-elda. Pensavo che avessi consegnato la mia razza al vuoto, e la mia paura mi ha fatto agire in maniera vergognosa. Tuttavia, pare che la tua razza non metta più in pericolo la nostra causa.» In tono sommesso, aggiunse: «Adesso meriti il titolo di Cavaliere.» Eragon ricambiò con un inchino del capo. «Tu mi onori. Mi dispiace di averti inflitto quella brutta ferita. Mi permetti di guarirla?»

«No. Lascerò che la natura faccia il suo corso, come ricordo di quando ho incrociato la spada con Eragon Ammazzaspettri. E non temere che domani diserti il nostro allenamento. Sono altrettanto bravo con la sinistra.» Entrambi si inchinarono ancora, poi Vanir si allontanò.

Orik si battè una mano sulla coscia e disse: «Ora abbiamo una possibilità di vittoria, una vera possibilità! Lo sento nelle ossa. Ossa di pietra, dicono. Ah, questo renderà oltremodo felici Rothgar e Nasuada.»

Eragon camminava adagio a fianco del nano, concentrato sulla rimozione del blocco dai bordi taglienti di Zar'roc, ma disse a Saphira: Se fossero bastati ì muscoli per deporre Galbatorix, gli elfi lo avrebbero fatto già da tempo. Eppure non poteva fare a meno di sentirsi compiaciuto dalla sua nuova forza, come anche dalla tanto attesa scomparsa del tormento alla schiena. Senza le continue crisi, era come se un velo di nebbia si fosse dissipato dalla sua mente, consentendogli di pensare di nuovo con lucidità.

Gli restava qualche minuto prima dell'orario stabilito per andare da Oromis e Glaedr, così Eragon prese l'arco e la faretra appesi al dorso di Saphira e andò alla postazione dove gli elfi si esercitavano al tiro con l'arco. Poiché gli archi degli elfi erano molto più potenti del suo, i loro bersagli imbottiti erano sia troppo piccoli che troppo lontani per lui. Dovette tirare dalla metà della distanza.

Mettendosi in posizione, Eragon incoccò una freccia e tirò indietro la corda, sorpreso dalla facilità con cui ci riusciva. Prese la mira, scoccò la freccia e rimase immobile per vedere se centrava il bersaglio. Come un calabrone impazzito, la freccia ronzò verso il bersaglio e si conficcò nel centro. Eragon sorrise. Effettuò di nuovo la sequenza di tiro, con sempre maggiore sicurezza e rapidità, tanto che arrivò a scoccare trenta frecce in un minuto.

Alla trentunesima freccia, impresse sulla corda una trazione un po' più forte, superiore anche alle sue capacità. Con uno schianto assordante, l'arco di legno di tasso si spezzò nella sua mano sinistra, graffiandogli le dita e scagliando un ventaglio di schegge tutt'intorno. La mano gli si intorpidì per il colpo.

Eragon guardò i resti dell'arma con espressione avvilita. Era stato Garrow a dargli quell'arco come regalo di compleanno, tre anni prima. Da allora, di rado era passata una settimana senza che Eragon lo usasse. Con esso aveva procurato cibo per la sua famiglia in tante occasioni, quando altrimenti sarebbero morti di fame. Con esso aveva ucciso il suo primo cervo. Con esso aveva ucciso il suo primo Urgali. E attraverso di esso aveva usato la magia per la prima volta. Perdere l'arco era come perdere un vecchio amico su cui aveva potuto contare anche nella peggiore delle situazioni.

Saphira annusò i due monconi di legno che penzolavano dalla sua mano e disse: A quanto pare ti serve un altro scagliafrecce. Lui emise un borbottio incomprensibile, con poca voglia di parlare, e andò al bersaglio a recuperare le frecce.

Dal campo di addestramento, lui e Saphira volarono alla bianca rupe di Tel'naeir, e si presentarono a Oromis, seduto su uno sgabello davanti alla porta del capanno, gli occhi saggi persi in lontananza. «Ti sei ripreso, Eragon, dalla potente magia della Celebrazione del Giuramento di Sangue?» chiese il vecchio elfo.

«Sì, maestro.»

Seguì un lungo silenzio, mentre Oromis sorseggiava il suo té di more e continuava a contemplare l'antica foresta. Eragon attese senza dire una parola; si era abituato a quelle pause, dopo la lunga frequentazione del vecchio Cavaliere. Alla fine, Oromis disse: «Glaedr mi ha spiegato che cosa ti è successo durante la celebrazione. Non è mai accaduta una cosa del genere in tutta la storia dei Cavalieri... Ancora una volta, i draghi si sono dimostrati molto più capaci di quanto immaginassimo.» Bevve un sorso di té. «Glaedr non è riuscito a dirmi di preciso quali trasformazioni hai subito, perciò vorrei che fossi tu a descrivermi in cosa sei cambiato, compreso l'aspetto.»

Eragon raccontò in breve come era stato alterato, soffermandosi sull'accresciuta acutezza, della vista, dell'olfatto, dell'udito e del tatto, per concludere con un resoconto dettagliato del duello con Vanir.

«E come ti senti?» chiese Oromis. «Ti rincresce che il tuo corpo sia stato manipolato senza il tuo permesso?» «No, no. Affatto. Mi avrebbe dato fastidio prima della battaglia del Farthen Dùr, ma ora non posso che provare sollievo: la schiena non mi tormenta più. Mi sarei sottoposto volentieri a cambiamenti anche maggiori pur di sfuggire alla maledizione di Durza. No, l'unico sentimento che provo è gratitudine.»

Oromis annuì. «Mi compiaccio di vedere che sei abbastanza saggio da pensarla così, poiché questo dono vale più di tutto l'oro del mondo. Grazie a esso, credo che i nostri piedi si siano incamminati sul sentiero giusto.» Bevve un altro sorso di té. «Procediamo. Saphira, Glaedr ti aspetta alla rocca delle Uova Infrante. Eragon, oggi comincerai con il terzo livello di Rimgar, se possibile. Vorrei capire fino a che punto si sono accresciute le tue capacità.» Eragon si avviò verso lo spiazzo di terra battuta dove di solito eseguivano la Danza del Serpente e della Gru, poi esitò quando l'elfo dai capelli d'argento rimase indietro. «Maestro, non ti unisci a me?»

Un fievole sorriso illuminò di tristezza il volto di Oromis. «Non oggi, Eragon. Gli incantesimi dell'Agaeti Blòdhren hanno preteso un grande tributo da me. E oltre a questo ci sono le mie... condizioni. Le ultime forze le ho spese per venire qui fuori a sedermi.»

«Mi dispiace, maestro.» Gli rincresce forse che i draghi non abbiano scelto di guarire anche lui? si chiese Eragon, scacciando subito via quel pensiero. Oromis non sarebbe mai stato tanto meschino.

«Non occorre. Non è colpa tua se sono storpio.»

Mentre Eragon si sforzava di completare il terzo livello

della Rimgar, si rese conto che ancora gli mancavano l'equilibrio e la flessibilità degli elfi, due qualità che persino loro acquisivano solo grazie a un duro allenamento. In un certo senso, non gli dispiacevano quelle limitazioni, perché se fosse stato perfetto, che cos'altro gli sarebbe rimasto da conquistare?

Le settimane seguenti furono difficili per lui. Da una parte fece enormi progressi nell'addestramento, diventando sempre più padrone di argomenti che un tempo lo confondevano. Trovava ancora stimolanti le lezioni di Oromis, ma non aveva più la sensazione di annegare in un mare di' inadeguatezza. Leggeva e scriveva con maggior fluidità, e la sua forza accresciuta gli consentiva di evocare incantesimi per cui era necessaria tanta energia da uccidere un qualsiasi essere umano. La sua forza lo rese anche consapevole di quanto debole fosse Oromis rispetto agli altri elfi. Eppure, nonostante tutto, Eragon avvertiva un profondo sconforto. Per quanto si sforzasse di dimenticare Arya, ogni giorno che passava aumentava il suo struggimento, un dolore aggravato dal fatto di sapere che lei non voleva più vederlo né parlare con lui. Inoltre, aveva la sensazione che un'inesorabile tempesta si stesse addensando all'orizzonte, una tempesta che minacciava di scatenarsi da un momento all'altro, per spazzare la terra, distruggendo ogni cosa sul suo cammino.

Saphira condivideva il suo disagio. Disse: Il mondo si sta assottigliando, Eragon. Presto si spezzerà e la follia scoppierà. Quello che senti tu è ciò che sentono i draghi e gli elfi: l'inesorabile avanzata di un destino oscuro, mentre la fine della nostra epoca si avvicina. Piangi per coloro che moriranno nel caos che consumerà Alagaesia. E spera che ci sia data la possibilità di conquistare un futuro più radioso con la forza della tua spada e del tuo scudo, e quella delle mie zanne e dei miei artigli.

Visioni vicine e lontane

Evenne il giorno in cui Eragon andò nella radura vicino al capanno di Oromis, si sedette sul ceppo bianco al centro della conca muscosa, e quando aprì la mente per osservare le creature che lo circondavano percepì non soltanto gli uccelli, gli animali e gli insetti, ma anche le piante della foresta.

Le piante possedevano un diverso tipo di coscienza, lenta, deliberata e priva di un fulcro, ma a loro modo erano consapevoli quanto Eragon dell'ambiente attorno. Le deboli pulsazioni delle loro coscienze impregnavano la galassia di stelle che gli vorticava dietro le palpebre chiuse ogni scintilla rappresentava una vita - in un bagliore morbido e onnipresente. Perfino il suolo più arido brulicava di organismi; la terra stessa era viva e senziente. La vita intelligente, concluse, era dappertutto.

Mentre Eragon si immergeva nei pensieri e nelle sensazioni degli esseri intorno a lui, riuscì a raggiungere uno stato di pace interiore così profondo che in quel momento cessò di esistere come individuo. Si lasciò essere una non-entità, un vuoto, un ricettacolo delle voci del mondo. Nulla sfuggiva alla sua attenzione, perché la sua attenzione non era concentrata su nulla.

Lui era la foresta e i suoi abitanti.

È così che si sente un dio? si chiese quando tornò in se stesso.

Abbandonò la conca e cercò Oromis nel capanno. S'inginocchiò davanti all'elfo e disse: «Maestro, ho fatto come mi hai chiesto. Ho ascoltato finché non ho sentito più nulla.»

Oromis smise di scrivere e con espressione meditabonda guardò Eragon. «Raccontami.» Per un'ora e mezza, Eragon elargì eloquenti descrizioni di ogni aspetto delle piante e degli animali che popolavano la conca, finché Oromis alzò la mano e disse: «Mi hai convinto; hai sentito tutto quello che c'era da sentire. Ma hai capìto tutto?» «No, maestro.»

«Com'è giusto che sia. La comprensione verrà con l'età... Ben fatto, Eragon-finiarel. Ottimo lavoro. Se fossi stato mio allievo a Ilirea, prima che Galbatorix salisse al potere, ti saresti appena laureato dal tuo apprendistato e saresti stato considerato un membro del nostro ordine, intitolato agli stessi diritti e privilegi del più anziano dei Cavalieri.» Oromis si alzò a fatica dalla sedia, barcollando.

«Offrimi il tuo braccio, Eragon, e aiutami a uscire. Il mio corpo tradisce la mia volontà.»

Eragon corse al fianco del maestro e ne sostenne il peso leggero, mentre Oromis lo conduceva presso il ruscello che scorreva lungo il ciglio della rupe di Tel'naeir. «Ora che hai raggiunto questo livello di istruzione, posso insegnarti uno dei più grandi segreti della magia, un segreto che persino Galbatorix potrebbe non conoscere. È la nostra migliore speranza di contrastare il suo potere.» Lo sguardo dell'elfo s'indurì. «Qual è il prezzo della magia, Eragon?» «L'energia. Un incantesimo richiede la stessa quantità di energia che ci vorrebbe per realizzare il compito con mezzi normali.»

Oromis annuì. «E da dove deriva l'energia?»

«Dal corpo di colui che evoca la magia.»

«Soltanto?»

Eragon si lambiccò il cervello davanti alle terribili implicazioni della domanda di Oromis. «Vuoi dire che può venire da altre fonti?»

«Precisamente. È quello che accade quando Saphira ti aiuta con un incantesimo.»

«Sì, ma lei e io condividiamo un legame particolare» protestò Eragon. «È questa la ragione per cui posso attingere alla sua forza. Per farlo con qualcun altro, dovrei entrare...» Esitò, comprendendo dove Oromis voleva arrivare. «Dovresti entrare nella coscienza dell'essere o degli esseri che ti forniranno energia» disse Oromis, concludendo il pensiero di Eragon. «Oggi hai dimostrato che sei in grado di farlo anche con le più minuscole forme di vita. Ora...» L'elfo s'interruppe e tossì, premendosi una mano contro il petto, poi riprese: «Voglio che sollevi una sfera d'acqua dal torrente, usando soltanto l'energia che riesci a estrarre dalla foresta che ti circonda.» «Sì, maestro.» Mentre Eragon dilatava la mente per raggiungere le piante e gli animali vicini, sentì la mente di Oromis sfiorare la sua per osservare e giudicare i suoi progressi. Aggrottando la fronte nello sforzo della concentrazione, attinse dall'ambiente la forza necessaria e la trattenne dentro di sé finché non fu pronto a liberare la magia... «Eragon! Non prenderla da me! Sono già abbastanza debole così.»

Sgomento, Eragon si rese conto di aver incluso anche Oromis nella sua ricerca. «Mi dispiace, maestro» disse, mortificato. Riprese il processo, attento a non attingere alla vitalità dell'elfo, e quando si sentì pronto, ordinò: «Su!» Silenziosa come la notte, una sfera d'acqua larga un palmo si levò dal ruscello e fluttuò verso Eragon. E sebbene Eragon sperimentasse la consueta tensione derivante da uno sforzo intenso, l'incantesimo non lo affaticava affatto. La sfera si trovava in aria da appena un istante quando un'ondata di morte travolse le creature più piccole con cui Eragon era in contatto. Una fila di formiche si rovesciò inerte. Un topolino annaspò ed entrò nel vuoto perdendo la forza che gli faceva battere il cuore. Un certo numero di piante avvizzirono, sbriciolandosi in polvere. Eragon trasalì, inorridito da quanto aveva causato. Il nuovo rispetto che provava per la sacralità della vita lo induceva a ritenere di aver commesso un crimine agghiacciante, e cosa ancora peggiore, l'intimo legame che lo collegava a ogni essere che aveva cessato di esistere gli aveva dato la sensazione di essere morto centinaia di volte. Sciolse il contatto con la magia - facendo cadere la sfera con un tonfo liquido - e poi si volse di scatto verso Oromis, ringhiando: «Tu lo sapevi!»

Un'espressione di profonda costernazione si dipinse sul volto del vecchio Cavaliere. «Era necessario» rispose. «Necessario che così tanti morissero?»

«Necessario affinchè comprendessi il terribile prezzo che costa usare questo tipo di magia. Le semplici parole non possono descrivere la sensazione di far morire quelli di cui condividi la mente. Dovevi sperimentarlo sulla tua pelle.» «Non lo farò mai più» giurò Eragon.

«Non sarà necessario. Se sarai disciplinato, potrai scegliere di attingere al potere solo di quelle piante e di quegli animali che possono sopportare la perdita di energia. Non è praticabile in battaglia, ma ti servirà durante le lezioni.» Oromis gli fece un cenno e, ancora fremente di rabbia, Eragon permise all'elfo di reggersi a lui nel tornare al capanno. «Capisci ora perché non insegnavamo questa tecnica ai giovani Cavalieri. Se l'avesse imparata uno stregone con cattive intenzioni, avrebbe potuto distruggere ogni cosa intorno a sé, soprattutto perché sarebbe difficile fermare chiunque avesse accesso a tanto potere.» Una volta dentro, l'elfo sospirò e si accasciò sulla sedia, congiungendo i polpastrelli davanti a sé.

Anche Eragon si sedette. «Dato che è possibile assorbire energia dalla...» fece un ampio gesto con la mano «... dalla vita, è possibile anche assorbirla direttamente dalla luce o dal fuoco, o dalle altre forme di energia?» «Ah, Eragon, se così fosse potremmo distruggere Galbatorix in un batter d'occhio. Possiamo scambiare energia con gli altri esseri viventi, possiamo usare quell'energia per muovere i nostri corpi o alimentare un incantesimo, e possiamo persino immagazzinare l'energia in alcuni oggetti per un futuro utilizzo, ma non possiamo assorbire le fondamentali forze della natura. La ragione ci dice che è possibile, ma nessuno è mai riuscito a elaborare un incantesimo che lo consenta.»

Nove giorni dopo, Eragon si presentò da Oromis e disse: «Maestro, stanotte mi è venuto in mente che né tu, né le centinaia di pergamene che mi hai fatto leggere parlate della vostra religione. In che cosa credono gli elfi?» Un lungo sospiro fu la prima risposta di Oromis. Poi: «Noi crediamo che il mondo segua certe leggi inviolabili e che, grazie a uno sforzo tenace, possiamo scoprire queste leggi e usarle per predire eventi quando le circostanze si ripetono.»

Eragon battè le palpebre. Questo non rispondeva a quanto voleva sapere. «Ma chi o che cosa venerate?» «Nulla.»

«Venerate il concetto del nulla?»

«No, Eragon. Non veneriamo nulla.»

Il pensiero era così remoto che ci volle qualche istante perché Eragon afferrasse il significato delle parole di Oromis. Gli abitanti di Carvahall non seguivano una dottrina specifica, ma condividevano una serie di superstizioni e rituali che in gran parte erano diretti a scongiurare la malasorte. Nel corso del suo addestramento, Eragon aveva compreso che molti dei fenomeni che i suoi compaesani attribuivano a forze sovrannaturali non erano che semplici processi naturali, come quando aveva visto, nelle sue meditazioni, che le larve nascono da uova di mosca invece che spuntare d'incanto dal terreno, come aveva creduto fino ad allora. Né aveva più alcun senso per lui fare offerte di cibo per impedire agli spiriti di inacidire il latte, dato che adesso sapeva che il latte inacidiva per la proliferazione di microscopici organismi contenuti nel liquido. Eppure, Eragon restava convinto che forze ultraterrene influenzassero il mondo in modi misteriosi, una credenza che la frequentazione dei nani aveva alimentato. Disse: «Da dove pensi che venga il mondo, allora, se non è stato creato dagli dei?»

«Quali dei, Eragon?»

«I vostri dei, gli dei dei nani, gli dei degli umani... qualcuno deve averlo pur creato.»

Oromis inarcò un sopracciglio. «Non sono d'accordo con quanto sostieni, ma d'altro canto, non posso provare che gli dei non esistono. Né posso provare che il mondo e tutto quanto esso contiene non sia stato creato da un'entità, o più entità, nel remoto passato. Ma posso dirti che nel corso dei millenni in cui gli elfi hanno studiato la natura, non abbiamo mai assistito a un evento nel quale le regole che governano il mondo siano state infrante. Ossia non abbiamo mai visto un miracolo. Molti eventi esulano dalla nostra capacità di comprensione, ma siamo convinti di non essere riusciti a dare una spiegazione perché siamo ancora profondamente ignoranti sull'universo, e non perché una divinità ha alterato l'opera della natura.»

«Un dio non dovrebbe per forza alterare la natura per

realizzare la propria volontà» obiettò Eragon. «Potrebbe farlo all'interno del sistema che già esiste... Potrebbe usare la magia per influire sugli eventi.»

Oromis sorrise. «Verissimo. Ma fatti questa domanda, Eragon: se gli dei esistono, sono stati buoni custodi di Alagaésia? Morte, malattia, povertà, tirannia, e altri innumerevoli calamità affliggono la terra: se questa è opera di esseri divini, non sarebbe giusto allora ribellarsi e negare loro rispetto, obbedienza e devozione?»

«I nani credono...»

«Appunto! I nani credono. Su determinati argomenti, i nani si basano più sulla fede che sulla ragione. Arrivano persino a ignorare fatti dimostrati che contraddicono i loro dogmi.»

«Ossia?» chiese Eragon.

«I sacerdoti dei nani considerano il corallo una prova per dimostrare che la pietra è viva e può crescere, avallando la loro credenza secondo cui Helzvog creò la razza dei nani dal granito. Ma noi elfi abbiamo scoperto che il corallo non è altro che un esoscheletro secreto da minuscoli animali che vivono all'interno del corallo. Qualunque mago può percepire quegli animali, se apre la mente. L'abbiamo spiegato ai nani, ma loro si sono rifiutati di ascoltarci, dicendo che la vita che sentiamo risiede in ogni pietra, anche se i loro sacerdoti sarebbero gli unici a poter rilevare la vita nelle rocce di terraferma.»

Per lunghi minuti, Eragon guardò fuori dalla finestra, riflettendo sulle parole di Oromis. «Non credi nell'aldilà, quindi.» «Da quanto mi ha detto Glaedr, già lo sai.»

«E non hai fede negli dei.»

«Noi riponiamo fede soltanto in ciò di cui possiamo provare l'esistenza. Poiché non siamo stati in grado di provare che gli dei, i miracoli e gli altri eventi soprannaturali sono reali, non ce ne occupiamo. Se per caso le cose dovessero cambiare, se lo stesso Helzvog decidesse di rivelarsi a noi, potremmo sempre rivedere la nostra posizione alla luce di questa nuova informazione.»

«Si direbbe un mondo freddo, senza... qualcosa di più.» «Al contrario» disse Oromis, «è un mondo migliore. Un luogo dove siamo responsabili delle nostre azioni, dove possiamo essere buoni l'uno con l'altro per scelta, e perché è la cosa giusta da fare, invece che per paura di una punizione divina. Non ti dirò in che cosa credere, Eragon. È molto meglio insegnarti a pensare criticamente per poi lasciare a te la scelta, invece che imbottirti di convinzioni altrui. Tu mi hai chiesto della nostra religione, e io ti ho risposto in tutta sincerità. Puoi farne ciò che vuoi.»

Il colloquio, sommato alle precedenti preoccupazioni, lasciò Eragon così turbato che ebbe difficoltà a concentrarsi nei suoi studi i giorni seguenti, anche quando Oromis cominciò a mostrargli come cantare alle piante, una cosa che Eragon era avido di apprendere.

Eragon si accorse che le sue esperienze lo avevano già indotto ad assumere un atteggiamento più scettico; in linea di principio, concordava con la maggior parte di quanto sosteneva Oromis. Il problema che lo affliggeva, però, era che se gli elfi avevano ragione, significava che i nani e gli umani si illudevano, cosa che trovava difficile da accettare. Così tanta gente non può sbagliarsi, si ripeteva.

Quando chiese il suo parere a Saphira, la dragonessa rispose: Per me ha poca importanza, Eragon. I draghi non hanno mai creduto in entità superiori. Perché dovremmo, quando i cervi e gli altri animali considerano noi entità superiori? Eragon sorrise. Ti avverto soltanto: non ignorare la realtà per trovare conforto, perché altrimenti rendi più facile agli altri ingannarti.

Quella notte, nel suo stato di veglia sognante, Eragon fu tormentato dai dubbi, che vagavano per la sua mente come un orso ferito, strappando immagini disparate dai suoi ricordi per mescolarle in una tale confusione da dargli l'impressione di essere tornato nella mischia furibonda del Farthen Dùr. Vide Garrow disteso sul suo letto di morte in casa di Horst, poi Brom morto nella solitària caverna di arenaria, e poi Angela l'erborista che sussurrava: "Attento, Argetlam, il tradimento è evidente. E verrà da qualcuno della tua famiglia. Attento, Ammazzaspettril"

Voi il deh cremisi si squarciò ed Eragon vide di nuovo i due eserciti schierati come nella sua premonizione fra i Monti Beor. Le masse di guerrieri si scontrarono su un campo giallo e arancio, accompagnate dalle grida rauche dei corvi e dal sibilo delle frecce nere. La terra stessa sembrava bruciare: fiamme verdi eruttavano da oscure fosse che punteggiavano il suolo, bruciando i cadaveri accatastati sulla scia degli eserciti. Sentì il ruggito di una bestia gigantesca che dall'alto... Eragon balzò a sedere sul letto e afferrò la catena dei nani che gli ardeva al collo. Usando la tunica per proteggersi la mano, scostò il martello d'argento dalla pelle e rimase in attesa nel buio, col cuore che gli batteva forte per la sorpresa. Sentì la propria energia scemare mentre l'incantesimo di Gannel bloccava chiunque stesse cercando di divinare lui e Saphira. Ancora una volta si chiese se ci fosse lo stesso Galbatorix dietro la magia, o se fosse soltanto uno degli stregoni del re.

Eragon aggrottò la fronte e lasciò il martello quando sentì che il metallo tornava freddo. Qualcosa non va. Ne sono sicuro, e lo so da un pezzo, come lo sa Saphira. Troppo turbato per tornare nello stato di trance che ormai aveva sostituito il sonno, sgattaiolò dalla camera da letto senza svegliare Saphira, e salì la scala a chiocciola che portava allo studio. Tolse lo schermo a una lanterna bianca e lesse uno dei poemi epici di Analisia fino all'alba, nel tentativo di calmarsi.

Proprio mentre richiudeva il rotolo, Blagden entrò dal varco nella parete e con un frullo d'ali si posò su un angolo della scrivania intagliata. Il corvo bianco fissò Eragon f con gli occhietti rotondi e gracchiò: «Wyrda!» Eragon chinò il capo. «E che le stelle ti proteggano, mastro Blagden.» Il corvo zampettò più vicino. Inclinò la testa da un lato ed emise un colpo di tosse, come se si stesse schiarendo la gola, poi recitò con voce roca:

Per il becco e l'osso,

con la mia pietra nera posso

vedere inganni, tradimenti

e insanguinate correnti!

«Cosa significa?» chiese Eragon.

Blagden scrollò le spalle e ripetè i versi. Quando Eragon insistette per avere una spiegazione, l'uccello arruffò le penne, con aria delusa, e gracchiò: «Tale padre tale figlio, ciechi come talpe.»

«Aspetta!» esclamò Eragon, balzando in piedi. «Conosci mio padre? Chi è?»

Blagden tossicchiò ancora. Questa volta parve che ridesse.

Se due può dividere due,

e uno di due è certamente uno,

uno potrebbe essere due.

«Un nome, Blagden. Dammi un nome!» Davanti all'ostinato silenzio del corvo, Eragon dilatò la mente per carpire l'informazione dai ricordi dell'uccello.

Ma Blagden era scaltro e deviò la sonda mentale di Eragon con un guizzo di pensiero. Strillando: «Wyrda!» si avventò sul tappo di vetro di una boccetta d'inchiostro e si allontanò in volo con il trofeo stretto nel becco. Scomparve alla vista ancor prima che Eragon potesse evocare un incantesimo per riportarlo indietro.

Eragon si sentì attanagliare le viscere mentre cercava di decifrare i due enigmi di Blagden. L'ultima cosa che si sarebbe aspettato era di sentir parlare di suo padre a Ellesméra. Infine borbottò: «E sia.» Scoverò Blagden e gli strapperò la verità. Ma per il momento... dovrei essere un pazzo per ignorare quelle visioni. Corse di sotto e svegliò Saphira con la mente per raccontarle quello che aveva visto durante la notte. Preso lo specchio nel camerino da bagno, Eragon si sedette fra le due zampe anteriori di Saphira perché anche lei vedesse quello che vedeva lui.

Arya non gradirà un'invasione della sua intimità, l'ammonì Saphira. Devo sapere se è al sicuro.

Saphira accettò senza altre proteste. Come farai a trovarla? Hai detto che dopo la sua prigionia ha eretto intorno a sé barriere magiche, come la tua collana, per impedire a chiunque di divinarla.

Se riesco a divinare le persone che sono con lei, forse riuscirò a vedere come sta. Concentrandosi su un'immagine di Nasuada, Eragon passò una mano sullo specchio e pronunciò la consueta frase: «Rifletti l'immagine!» Lo specchio tremolò e divenne bianco, mostrando soltanto nove persone sedute intorno a un tavolo. Fra di loro, Eragon riconobbe Nasuada e il Consiglio degli Anziani, ma non riuscì a identificare una strana ragazzina vestita di nero, rannicchiata alle spalle di Nasuada. Rimase sconcertato, perché la cristallomanzia consentiva di divinare cose o persone già viste, ed Eragon era sicuro di non aver mai posato lo sguardo su quella bambina. Se ne dimenticò subito quando si accorse che gli uomini, e perfino Nasuada, erano in tenuta da combattimento.

Ascoltiamo le loro voci, suggerì Saphira.

Nell'istante in cui Eragon apportò la necessaria modifica all'incantesimo, dallo specchio risuonò la voce di Nasuada: "... e il caos ci distruggerà. I nostri guerrieri non possono seguire che un solo comandante in questo conflitto. Decidi chi dovrà essere, Orrin, e in fretta."

Eragon sentì un sospiro disincarnato. "Come desideri; l'incarico è tuo."

"Ma, sire, lei non possiede i requisiti!"

"Basta, Irwin" ordinò il re. "Nasuada ha più esperienza di guerra di chiunque altro nel Surda. E i Varden sono l'unica forza che abbia sconfitto un esercito di Galbatorix. Se Nasuada fosse un generale surdano - ammetto che sarebbe alquanto singolare - non esiteresti un istante a nominarla comandante in capo. Sarò ben lieto di discutere la questione dell'autorità in un secondo momento, perché vorrà dire che sarò ancora vivo, e non sepolto nella mia tomba. Comunque sia, il nostro numero è ancora così esiguo che temo che saremo spacciati se Rothgar non ci raggiungerà prima della fine della settimana. Ora, dov'è quella dannata pergamena sul convoglio delle salmerie?... Ah, ti ringrazio, Arya. Ancora tre giorni senza..."

A quel punto la discussione s'imperniò sulla scarsità di corde per arco; Eragon decise che non gli serviva a niente, così chiuse il contatto. Lo specchio tornò limpido, e lui si ritrovò a fissare il proprio volto.

È viva, mormorò. Il suo sollievo era però adombrato dal significato di quanto aveva udito.

Saphira lo guardò. Hanno bisogno di noi.

Sì. Perché Oromis non ci ha avvertiti? Lui deve saperlo.

Forse non voleva che interrompessimo l'addestramento.

Preoccupato, Eragon si domandò che cos'altro d'importante stesse accadendo in Alagaésia di cui non era a conoscenza. Roran. Con una punta di rimorso, Eragon si rese conto che erano passate settimane da quando aveva pensato l'ultima volta a suo cugino, e ancora di più da quando lo aveva divinato sulla via per Ellesméra. Rinnovando la formula magica, lo specchio rivelò due figure che si stagliavano contro uno sfondo bianco. Ci volle un lungo istante perché Eragon riconoscesse nella figura a destra suo cugino Roran. Indossava logori abiti da viaggio, un martello infilato alla cintura, e una folta barba gli oscurava il volto. La sua espressione tetra tradiva disperazione. A sinistra c'era Jeod. I due uomini si alzavano e si abbassavano, e il fragore delle onde copriva le loro parole. Dopo un po', Roran si volse e s'incamminò lungo quello che Eragon pensò fosse il ponte di una nave, rivelandogli altre decine di compaesani. Dove si trovano, e perché Jeod è con loro? si chiese, perplesso.

Trasferendo la magia da un luogo all'altro, Eragon divinò in rapida successione Teirm - sconvolto nel vedere che il porto della città era andato distrutto - e poi Therinsford, la vecchia fattoria di Garrow, e infine Carvahall. Allora non potè reprimere un grido di angoscia.

Il villaggio era scomparso.

Ogni edificio, compresa la bella casa di Horst, era ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Carvahall non esisteva più: era solo una vasta, nera piaga sulle sponde dell'Anora. Le uniche forme di vita rimaste erano quattro lupi grigi che si aggiravano famelici fra le rovine.

Lo specchio gli scivolò di mano e si infranse sul pavimento. Eragon si aggrappò a Saphira, gli occhi colmi di lacrime per il dolore di aver perso le sue radici. Saphira lo confortò con i suoi lievi mormorii gutturali, sfiorandogli il braccio con il muso e avvolgendolo in una calda coperta di compassione. Non ti angustiare troppo, piccolo mio. Se non altro, i tuoi amici sono ancora vivi.

Eragon rabbrividì, mentre un nocciolo duro di determinazione si andava formando nelle sue viscere. Siamo rimasti isolati dal mondo troppo a lungo. È tempo di lasciare Ellesméra e di affrontare il nostro destino, qualunque esso sia. Per il momento, Roran dovrà badare a se stesso, ma i Varden... possiamo aiutare i Varden.

È tempo di combattere, Eragon? chiese Saphira, con una strana sfumatura formale nella voce.

Eragon sapeva che cosa intendeva dire: era tempo di sfidare l'Impero a viso aperto, tempo di uccidere e devastare ai limiti delle loro notevoli capacità, tempo di scatenare ogni oncia della loro rabbia finché Galbatorix non fosse caduto morto ai loro piedi? Era tempo di imbarcarsi in una campagna che forse avrebbe richiesto decenni per concludersi? Sì, è tempo.

Regali di commiato

Eragon impiegò meno di cinque minuti a preparare i bagagli. Prese la sella che gli aveva donato Oromis e la legò sul dorso di Saphira insieme alle bisacce.

Saphira gettò indietro la testa, con le narici dilatate, e disse: Ti aspetto al campo. Con un ruggito si slanciò dalla casa sull'albero con le ali azzurre spiegate e si allontanò sorvolando la foresta.

Veloce come un elfo, Eragon corse al Palazzo di Tialdari, dove trovò Orik seduto nel solito angolino, intento a giocare un solitario di rune. Il nano lo accolse con una calorosa pacca sul braccio. «Eragon! Cosa ti porta qui a quest'ora del mattino? Credevo fossi sul campo a incrociare le spade con Vanir.»

«Saphira e io partiamo» disse Eragon.

Orik rimase a bocca aperta, poi socchiuse gli occhi, facendosi improvvisamente serio. «Ci sono novità?» «Te ne parlerò in seguito. Vieni con noi?»

«Nel Surda?»

«Sì.»

Un ampio sorriso solcò la faccia barbuta del nano. «Dovresti mettermi in ceppi per farmi restare qui. Non ho niente da fare a Ellesméra, se non diventare un pigro botolo di lardo. Un po' di eccitazione mi farà bene. Quando si parte?» «Appena possibile. Fa' i bagagli e vediamoci sul campo di addestramento. Vedi se riesci a procurarti dei viveri che ci bastino per una settimana.»

«Una settimana? Ma ci vorranno...»

«Voleremo su Saphira.»

La pelle intorno alla barba di Orik impallidì. «Noi nani non amiamo troppo le altezze, Eragon. No, per niente. Sarebbe meglio se andassimo a cavallo, come abbiamo fatto per venire qui.»

Eragon scosse la testa. «Ci vorrebbe troppo. Per giunta, è piuttosto facile cavalcare su Saphira. Se cadi, lei viene a prenderti.» Orik mugugnò, poco convinto. Lasciando il palazzo, Eragon attraversò di corsa la città silvana e raggiunse Saphira. Insieme volarono alla rupe di Tel'naeìr.

Oromis era seduto sulla zampa anteriore destra di Glaedr

quando arrivarono. Le squame del drago riflettevano una

miriade di bagliori dorati tutto intorno. Né l'elfo né il drago

si mossero. Disceso da Saphira, Eragon s'inchinò. «Maestro Glaedr. Maestro Oromis.»

Glaedr disse: Avete deciso di tornare dai Varden, non è così?

Sì, rispose Saphira.

La sensazione di essere stato tradito ebbe la meglio sulla compostezza di Eragon. «Perché ci avete nascosto la verità? Siete così decisi a tenerci qui da ricorrere a questi bassi espedienti? I Varden stanno per essere attaccati e voi non ci avete detto una parola!»

Serafico come sempre, Oromis rispose: «Non volete sapere perché?»

Volentieri, maestro, intervenne Saphira prima che Eragon avesse il tempo di replicare. Poi, in privato, lo ammonì: Sii educato!

«Vi abbiamo taciuto gli eventi per due ragioni. Innanzitutto perché anche noi non sapevamo nulla fino a nove giorni fa, e la reale entità, la posizione e lo spostamento delle truppe dell'Impero ci sono rimaste nascoste fino a tre giorni fa, quando Lord Dàthedr è riuscito a penetrare

gli incantesimi che Galbatorix usava per deflettere la nostra cristallomanzia.»

«Questo ancora non spiega perché non ci avete detto niente» esclamò Eragon. «Non solo, ma quando avete scoperto che i Varden erano in pericolo, perché Islanzadi non ha esortato gli elfi alla battaglia? Siamo o non siamo alleati?» «Islanzadi ha esortato gli elfi, Eragon. La foresta riecheggia di martelli, di stivali, di lamenti di coloro che stanno per essere separati. Per la prima volta in cento anni, la nostra razza sta per emergere dalla Du Weldenvarden per sfidare il nostro più grande nemico. È giunta l'ora per gli elfi di camminare di nuovo per le terre di Alagaèsia.» Con gentilezza, Oromis aggiunse: «Sei stato distratto, di recente, Eragon, e ti capisco. Ora devi vedere oltre te stesso. Il mondo richiede la tua attenzione.»

Rosso dalla vergogna, Eragon riuscì soltanto a dire: «Mi dispiace, maestro.» Rammentò le parole di Blagden e sorrise amaramente. «Sono cieco come una talpa.»

«Non direi, Eragon. Ti sei comportato bene, considerando le enormi responsabilità che ti abbiamo chiesto di assumere.» Oromis lo guardò con aria grave. «Aspettiamo nei prossimi giorni una missiva di Nasuada in cui chiederà l'aiuto di Islanzadi e che tu ti unisca ai Varden. Intendevo informarti della situazione dei Varden allora, quando avresti avuto ancora tempo di raggiungere il Surda prima del levarsi delle armi. Se te l'avessi detto prima, il tuo giuramento di fedeltà ti avrebbe imposto di partire prima che avessi completato l'addestramento, per correre in difesa della tua signora. Ecco perché io e Islanzadi non ti abbiamo detto nulla.»

«Il mio addestramento non serve a niente se i Varden vengono distrutti.»

«No. Ma potresti essere l'unica persona in grado di impedire la loro distruzione, perché esiste la possibilità, remota ma terribile, che Galbatorix stesso scenda in campo. È troppo tardi perché i nostri guerrieri aiutino i Varden, il che significa che se Galbatorix sarà presente alla battaglia, tu dovrai affrontarlo da solo, senza la protezione dei nostri maghi. Date le circostanze, era di vitale importanza che il tuo addestramento continuasse il più a lungo possibile.» In un istante la collera di Eragon sbollì, sostituita da un freddo e duro calcolo, mentre capiva la necessità del silenzio di Oromis. I sentimenti personali erano irrilevanti in una situazione disperata come la loro. Con voce piatta disse: «Hai ragione. Il mio giuramento mi impone di accorrere in difesa di Nasuada e dei Varden. Tuttavia non sono pronto per affrontare Galbatorix. Non ancora, almeno.»

«Allora ti suggerisco» disse Oromis, «se Galbatorix dovesse presentarsi, di fare di tutto per distrarlo dai Varden finché le sorti della battaglia non saranno decise, nel bene o nel male, e di evitare di scontrarti con lui direttamente. Ma prima che ve ne andiate, voglio chiedervi una cosa: che giuriate, una volta che gli eventi lo permettano, di tornare qui a completare l'addestramento, perché avete ancora molto da imparare.»

Torneremo, promise Saphira, legandosi nell'antica lingua.

«Torneremo» ripete Eragon, e decretò il loro destino.

Soddisfatto, Oromis portò una mano dietro la schiena e prese una sacca rossa ricamata che aprì allargando i cordoni. «In previsione della tua partenza, ti avevo preparato tre regali, Eragon.» Dalla sacca estrasse una fiaschetta d'argento. «Innanzitutto, del faelnirv potenziato con qualche incantesimo personale. Questa pozione ti sosterrà quando tutti gli altri falliranno, e potrai trovare utili le sue proprietà anche in altre circostanze. Ma bevila con parsimonia, perché ho avuto il tempo di prepararne solo qualche sorso.»

Porse la fiaschetta a Eragon; poi dalla stessa sacca estrasse un lungo cinturone nero e blu. Eragon lo trovò insolitamente solido e pesante quando se lo fece scorrere tra le mani. Era fatto di fili di tessuto intrecciati in un disegno che raffigurava un tralcio di Liani Vine. Seguendo le istruzioni di Oromis, Eragon tirò un tassello alla fine della cintura e rimase senza fiato quando una striscia al centro scivolò indietro per rivelare dodici diamanti, ciascuno grande un pollice. Quattro diamanti erano bianchi, quattro neri, gli altri erano rossi, blu, gialli e marrone. Scintillavano freddi e brillanti, come ghiaccio all'alba, riflettendo un arcobaleno di colori sulle mani di Eragon.

«Maestro...» Eragon scosse il capo, a corto di parole. «Sei sicuro di volermi fare questo dono?» «Abbine cura, perché nessuno abbia la tentazione di rubartela. Questa è la cintura di Beloth il Savio, di cui hai letto nella storia dell'Anno delle Tenebre, ed è uno dei più grandi tesori dei Cavalieri. Sono le gemme più perfette che i Cavalieri siano riusciti a trovare. Alcune le abbiamo comprate dai nani. Altre le abbiamo vinte in battaglia, o estratte dalle miniere noi stessi. Le pietre non contengono magia, ma potrai usarle come ricettacolo del tuo potere e attingere alla riserva quando ne avrai bisogno. Questo, oltre al rubino incastonato nel pomo di Zar'roc, ti consentirà di ammassare una scorta di energia che ti aiuterà a non sprecare invano le tue forze nell'evocare incantesimi in battaglia, o quando dovrai affrontare stregoni nemici.»

Infine Oromis gli porse un sottile rotolo di pergamena, protetto da un tubo di legno scolpito con un bassorilievo dell'albero di Menoa. Aprendo il rotolo, Eragon vide il poema che aveva recitato all'Agaeti Blodhren. Era scritto con la minuta calligrafia di Oromis e illustrato dagli squisiti disegni a inchiostro dell'elfo. Piante e animali decoravano il primo glifo di ogni quartina, mentre delicate volute

tracciavano le colonne di parole e incorniciavano le immagini.

«Ho pensato» disse Oromis «che ti avrebbe fatto piacere conservare una copia per te.»

Eragon guardò i dodici pregiatissimi diamanti che reggeva con una mano e la pergamena di Oromis nell'altra, sapendo che era il rotolo a essere più prezioso. S'inchinò e, ridotto al linguaggio più essenziale dallo smisurato senso di gratitudine, disse: «Grazie, maestro.»

Poi Oromis lo sorprese cominciando per primo il tradizionale saluto elfico, a indicare così il suo rispetto per Eragon: «Che la fortuna ti assista.»

«Che le stelle ti proteggano.»

«E che la pace regni nel tuo cuore» concluse l'elfo dai capelli d'argento. Ripetè il commiato rivolto a Saphira. «Ora andate e volate più veloci del vento del nord, sapendo che tu, Saphira Squamediluce, e tu, Eragon Ammazzaspettri, portate con voi la benedizione di Oromis, ultimo discendente del Casato di Thràndurin, colui che è sia il Saggio Dolente che lo Storpio Che è Sano.»

E anche la mia, aggiunse Glaedr. Protese il collo e sfiorò la punta del naso di Saphira con il suo, gli occhi dorati che scintillavano come pozzi di brace. Ricorda di mantenere integro il tuo cuore, Saphira. Lei mormorò compunta. Si separarono con un solenne commiato. Saphira si levò in volo sulla fitta foresta, mentre Oromis e Glaedr restavano a guardarli, due figure solitàrie sulla rupe. Malgrado le difficoltà della sua permanenza a Ellesméra, a Eragon sarebbe mancato vivere fra gli elfi, perché tra di loro aveva trovato il posto più vicino a una casa da quando aveva lasciato la Valle Palancar.

Parto da qui come un uomo nuovo, pensò, e chiuse gli occhi, abbracciando il collo di Saphira.

Prima di andare all'appuntamento con Orik, fecero un'ultima sosta: il Palazzo di Tialdari. Saphira atterrò nei giardini interni, attenta a non danneggiare nessuna pianta con la coda o gli artigli. Senza aspettare che la dragonessa si accovacciasse, Eragon balzò a terra, un salto che in precedenza non avrebbe mai potuto compiere senza farsi male. Un elfo andò loro incontro, si toccò le labbra con le due dita e chiese in che cosa poteva essergli utile. Quando Eragon rispose che voleva un'udienza con la regina Islanzadi, l'elfo disse: «Ti prego di aspettare qui, Mano d'Argento.» Meno di cinque minuti più tardi, la regina emerse dai recessi alberati del Palazzo di Tialdari, la tunica cremisi come una goccia di sangue fra i signori e le dame vestiti di bianco che l'accompagnavano. Dopo aver osservato le opportune formule di saluto, la regina disse: «Oromis mi ha informato della vostra intenzione di lasciarci. Mi rincresce molto, ma nessuno può opporsi al volere del fato.»

«No, maestà... maestà, siamo venuti a prendere congedo prima di partire. Sei stata molto generosa con noi, e ringraziamo te e il tuo Casato per averci dato abiti, cibo e alloggio. Siamo in debito con voi.»

«Non sia mai, Cavaliere. Non è stato che un minimo risarcimento per ciò che dobbiamo a te e ai draghi per il nostro misero fallimento nella caduta dei Cavalieri. Tuttavia sono lusingata che abbiate apprezzato la nostra ospitalità.» Fece una pausa. «Quando arriverai nel Surda, porgi i miei saluti a ledy Nasuada e a re Orrin, e informali che i nostri guerrieri attaccheranno presto la metà settentrionale dell'Impero. Se la fortuna ci assiste, coglieremo Galbatorix impreparato e, col dovuto tempo, divideremo le sue forze.»

«Per servirti.»

«Inoltre sappi che ho inviato dodici dei nostri migliori stregoni nel Surda. Se sarai ancora vivo quando arriveranno, risponderanno ai tuoi ordini e faranno del loro meglio per difenderti dal pericolo, notte e giorno.» «Grazie, maestà.»

Islanzadi tese una mano, e uno dei signori elfici le porse una lunga scatola di legno disadorna. «Oromis ti ha fatto dei regali, e questo è il mio. Perché ti ricordi del periodo che hai trascorso con noi sotto gli ombrosi pini.» Aprì la scatola, ed Eragon vide un lungo arco scuro dai bracci flessuosi e dalle estremità ricurve adagiato su un drappo di velluto. Intarsi d'argento e di foglie di sanguinella decoravano le punte e l'impugnatura dell'arco. A fianco c'era una faretra colma di frecce dall'impennaggio di candido cigno. «Ora che condividi la nostra forza, mi è sembrato opportuno che avessi uno dei nostri archi. Ho cantato personalmente questo arco da un albero di tasso. La corda non si spezzerà mai. E finché userai queste frecce, non mancherai mai il bersaglio, anche se avrai il vento contro.»

Ancora una volta, Eragon si sentì sopraffatto dalla generosità degli elfi. S'inchinò. «Cosa posso dire, mia signora? È un privilegio ricevere in dono il lavoro delle tue mani.»

Islanzadi annuì, come se non si aspettasse niente di meno, poi lo oltrepassò e si rivolse a Saphira. «Saphira, non ho doni per te perché non sono riuscita a pensare a niente di cui tu possa aver bisogno o desiderio, ma se c'è qualcosa di nostro che vorresti, non devi far altro che chiedere, e sarà tuo.»

I draghi, replicò Saphira, non hanno bisogno di possedere qualcosa per essere felici. A che ci servono le ricchezze quando la nostra pelle è più gloriosa di qualunque tesoro al mondo? No, sono soddisfatta per la generosità che hai mostrato a Eragon.

Infine Islanzadi augurò loro un viaggio sicuro e tranquillo. Si volse, con un ampio svolazzo del mantello rosso, e fece per andarsene, ma poi si fermò al margine del giardino per dire: «Eragon?»

«Sì, maestà?»

«Quando incontrerai Arya, ti prego di esprimerle il mio affetto e di dirle che ci manca molto, qui a Ellesméra.» Le parole furono rigide e formali. Senza aspettare risposta, la regina si allontanò e scomparve fra i tronchi ombrosi che proteggevano l'interno del Palazzo di Tialdari, col suo seguito di dame e signori.

Saphira impiegò meno di un minuto per volare al campo di addestramento, dove Orik se ne stava seduto sul suo zaino, lanciandosi l'ascia da una mano all'altra, il volto corrucciato. «Era ora» borbottò. Si alzò e si infilò l'ascia nella cintura. Eragon si scusò per il ritardo, poi legò lo zaino di Orik dietro alla sella. Il nano scrutò la spalla di Saphira, che torreggiava su di lui. «Per la barba nera di Morgothal, come diamine faccio a salire lassù? Una rupe ha più appigli di te, Saphira.»

Vieni, disse lei. Si distese sul ventre e allungò di lato la zampa destra, per formare una specie di rampa. Issandosi sullo stinco con un sonoro sbuffo, Orik strisciò carponi lungo la zampa. Una piccola vampa di fuoco eruttò dalle narici della dragonessa. Sbrigati... mi fai il solletico!

Orik si fermò sull'articolazione della coscia, poi passò una gamba dall'altro lato della colonna vertebrale di Saphira e cominciò a risalire verso la sella. Battè la mano su una delle punte cornee del dorso che gli spuntava fra le gambe e disse: «La maniera più efficace per perdere la virilità.»

Eragon sogghignò. «Non scivolare.» Quando Orik si calò sulla parte anteriore della sella, Eragon montò su Saphira e si sedette dietro al nano. Per impedirgli di cadere durante le evoluzioni di Saphira, allentò le cinghie che servivano a legargli le braccia e le fece passare sopra le gambe di Orik.

Quando Saphira si erse in tutta la sua statura, Orik vacillò, poi strinse la punta avanti a sé. «Aarrgh! Eragon, non farmi aprire gli occhi finché non siamo per aria, altrimenti vomito. È una cosa innaturale, ti dico. I nani non sono fatti per cavalcare draghi. Non è mai accaduto prima.»

«Mai?»

Orik scosse il capo senza parlare.

Gruppi di elfi sciamarono dalla Du Weldenvarden per radunarsi ai margini del campo e osservare con espressione solenne Saphira che sollevava le ali translucide per spiccare il volo.

Eragon rafforzò la presa quando avvertì i muscoli della dragonessa gonfiarsi sotto di lui. Con una rapida e potente spinta, Saphira si lanciò verso il cielo azzurro, battendo le ali veloce per levarsi al di sopra degli alberi. Volò in circolo sulla grande foresta, guadagnando quota a ogni spirale, poi puntò a sud, verso il Deserto di Hadarac. Sebbene il vento ululasse nelle sue orecchie, Eragon sentì la voce limpida di un'elfa di Ellesméra che cantava: Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai...

Le fauci dell'oceano

Il mare di ossidiana si gonfiò sotto l'Ala di Drago, spinI gendo la nave verso il cielo. Il vascello rimase in bilico per qualche istante sulla cresta di un'onda spumeggiante prima di puntare la prua verso il basso e precipitare nell'avvallamento successivo. L'aria gelida era spazzata da turbini di nebbiolina pungente, sospinta dal vento che ululava come uno spirito mostruoso.

A mezzanave, Roran si tenne stretto alle sartie di dritta e vomitò oltre il parapetto; non gli uscì altro che acida bile. Si era tanto vantato del fatto che il suo stomaco non gli avesse dato problemi durante il viaggio sulla chiatta di Clovis, ma la tempesta in cui erano incappati era così violenta che persino gli uomini di Uthar, marinai avvezzi a ogni tempo, avevano difficoltà a tenere il whisky in corpo.

Gli parve di essere colpito da un macigno di ghiaccio fra le scapole quando un'ondata investì la nave al traverso, inondando il ponte prima di scorrere via dagli ombrinali per tornare nel furioso, scatenato, schiumoso oceano da dove era venuta. Roran si asciugò l'acqua salata dagli occhi con le dita intorpidite dal gelo come ciocchi di legno, e strizzò le palpebre per scrutare l'orizzonte a poppa.

Forse la tempesta farà loro perdere le nostre tracce. Tre corvette dalle vele nere li inseguivano fin da quando avevano superato le Scogliere di Ferro e doppiato quello che Jeod aveva chiamato Edur Carthungavé, e Uthar lo Sperone di Rathbar. «La coda della Grande Dorsale» aveva detto Uthar, sogghignando. Le corvette erano più veloci dell'Ala di Drago, appesantita dalla moltitudine di passeggeri, e si erano sempre più avvicinate alla nave mercantile fino a potersi scambiare nugoli di frecce.

Sembrava inoltre che la corvetta in testa imbarcasse uno stregone, perché le sue frecce erano innaturalmente precise: spezzavano le cime, distruggevano le baliste e bloccavano i bozzelli. Dai loro attacchi, Roran dedusse che all'Impero non importava più di catturarlo vivo, ma soltanto di impedirgli di raggiungere i Varden. Aveva appena preparato i compaesani a respingere un abbordaggio, quando le nubi sopra di loro si erano addensate in un livido colore viola, cariche di pioggia, e una tempesta furiosa si era scatenata da nordovest. Al momento, Uthar stava bordeggiando con il vento al traverso, diretto verso le Isole Meridionali, dove sperava di eludere le corvette tra i fondali bassi e gli anfratti di Beirland.

Un fulmine orizzontale balenò fra due enormi cumulonembi,

trasformando il mondo in un quadro di pallido marmo, prima che le tenebre tornassero sovrane. Ogni lampo accecante imprimeva un'immagine fissa negli occhi di Roran, pulsando anche dopo che la luce era svanita.

Poi cadde una serie di fulmini a zigzag, e Roran vide come in una successione di dipinti monocromatici - l'albero di contromezzana torcersi, spezzarsi e cadere a sinistra nel mare ribollente. Aggrappandosi a una sagola di sicurezza, salì sul casseretto e, insieme a Bonden, mozzarono i cavi che ancora collegavano l'albero all'Ala di Drago facendola affondare di poppa. I cavi si contorsero come serpenti quando furono tagliati.

Roran si accasciò sul ponte, il braccio destro agganciato al parapetto, mentre la nave sprofondava di venti, trenta piedi in un avvallamento. Un'onda lo travolse, sottraendogli gli ultimi residui di calore dalle ossa. Il suo corpo era scosso dai brividi.

Non farmi morire così, pregò, anche se non sapeva a chi stesse rivolgendo la sua supplica. Non fra queste onde crudeli. Il mio compito non è ancora finito. Durante quella lunga notte, si aggrappò ai ricordi di Katrina, traendone conforto quando si sentiva esausto e la speranza minacciava di abbandonarlo.

La tempesta durò due giorni interi e cominciò a placarsi soltanto qualche ora prima dell'alba. Il mattino si annunciò con un cielo limpido, screziato di rosa, e tre vele nere all'orizzonte a nord. A sud, il profilo brumoso di Beirland si stagliava sotto una cortina di nubi raccolte intorno alla montagna frastagliata che dominava l'isola.

Roran, Jeod e Uthar s'incontrarono in una piccola cabina di prua - dato che quella del comandante era stata adibita a infermeria - dove Uthar srotolò alcune cartine nautiche e indicò un punto al largo di Beirland. «Qui è dove ci troviamo adesso» disse. Prese una mappa più grande di Alagaésia e indicò la foce del fiume Jiet. «E questa sarà la nostra destinazione, poiché i viveri non ci bastano per arrivare a Roccascissa. Come ci arriveremo senza essere presi è un altro paio di maniche. Senza l'albero di contromezzana, quelle maledette corvette ci raggiungeranno entro domani a mezzogiorno, al massimo entro sera, se ci va bene.»

«Non possiamo sostituire l'albero?» chiese Jeod. «So che vascelli di questa stazza portano sempre alberi di rispetto per riparazioni di questo genere.»

Uthar scrollò le spalle. «Potremmo, se avessimo un buon carpentiere navale a bordo. Ma siccome non ce l'abbiamo, non permetterò che mani inesperte montino l'albero col rischio che poi si schianti sul ponte e ferisca qualcuno.» Roran osservò: «Se non fosse per lo stregone, o gli stregoni,

io avrei detto di combattere, dato che siamo molto più numerosi degli equipaggi delle corvette. Ma eviterei uno scontro diretto. Mi sembra difficile poter vincere, considerando quante navi inviate in aiuto dei Varden sono scomparse.» Con un borbottio, Uthar tracciò un cerchio intorno alla loro attuale posizione. «Questa è la massima distanza che saremo in grado di coprire entro domani sera, purché il vento ci sia favorevole. Potremmo attraccare da qualche parte fra Beirland e Nìa, se volessimo, ma non vedo come questo possa esserci d'aiuto. Ci troveremmo in trappola. I soldati di quelle corvette o i Ra'zac o Galbatorix ci potrebbero stanare in qualsiasi momento.»

Roran aggrottò la fronte meditando sulle alternative: una battaglia con le corvette sembrava inevitabile. Per lunghi minuti l'unico rumore dentro la cabina fu lo sciabordio delle onde contro lo scafo. Poi Jeod posò il dito sulla mappa fra Beirland e Nia, guardò Uthar e disse: «Che ne pensi dell'Occhio del Cinghiale?»

Roran rimase sorpreso quando vide impallidire la faccia del rude lupo di mare. «Non ci penso neppure, mastro Jeod. Non correrei mai quel rischio. Preferirei affrontare le corvette e morire in mare aperto piuttosto che sfidare quel luogo maledetto. Ha inghiottito più navi di quante ne abbia l'intera flotta di Galbatorix.»

«Eppure mi pare di ricordare» insistette Jeod, appoggiandosi allo schienale «che il passaggio è sicuro al culmine dell'alta e della bassa marea. O mi sbaglio?»

Con grande, palese riluttanza, Uthar ammise: «No, è giusto, ma l'Occhio è così vasto che occorre calcolare i tempi alla perfezione per evitare il disastro. Non ce la faremo, con quelle corvette alle calcagna.»

«Ma se potessimo» continuò Jeod, «se riuscissimo a calcolare i tempi, le corvette andrebbero distrutte, oppure, se il coraggio mancasse loro, sarebbero costrette a circumnavigare Ma. In questo caso avremmo il tempo di trovare un nascondiglio.»

«Se, se... Ci farai colare a picco con i tuoi se.»

«Andiamo, Uthar, le tue paure sono irrazionali. La mia proposta è pericolosa, lo ammetto, ma non più di quanto lo sia stata quella di fuggire da Teirm. O dubiti di non essere in grado di attraversare lo stretto? Non sei abbastanza uomo da provarci?»

Uthar incrociò le braccia nude. «Non hai mai visto l'Occhio, vero?»

«No, mai.»

«Non è che io non sia uomo abbastanza, ma l'Occhio travalica le forze di un essere umano; le nostre navi più grandi, i nostri edifici più imponenti, qualsiasi cosa ti venga in mente impallidisce al confronto. Sarebbe come cercare di cavalcare una valanga; potresti riuscirci, ma potresti lo stesso finire ridotto in polvere.»

«Cosa sarebbe» intervenne Roran «l'Occhio del Cinghiale?»

«Le fameliche fauci dell'oceano» sentenziò Uthar.

In tono meno solenne, Jeod disse: «È un gorgo, Roran. L'Occhio si forma per le correnti di marea che si scontrano fra Beirland e Ma. Quando la marea sale, l'Occhio ruota da nord a ovest. Quando la marea cala, ruota da nord a est.» «Non suona così pericoloso.»

Uthar scrollò il capo, il codino gli frustò i lati del collo bruciato dal sole, e rise. «Non così pericoloso, dice! Ha!» «Quello che forse ti sfugge» continuò Jeod «sono le dimensioni del vortice. Al centro, l'Occhio misura una lega di diametro, mentre le spire possono arrivare fino a dieci, quindici miglia di distanza. Le navi inghiottite dall'Occhio vengono precipitate sul fondo dell'oceano, dove si schiantano sugli scogli. Relitti galleggianti si trovano spesso sulle spiagge delle due isole.»

«Qualcuno potrebbe mai aspettarsi che prendiamo quella rotta?» chiese Roran.

«No, e a ben vedere» grugnì Uthar. Jeod scosse il capo.

«Sarebbe possibile per noi attraversare l'Occhio?»

«Anche solo pensarci è una follia bella e buona.»

Roran annuì. «So che è un rischio che non vuoi correre, Uthar, ma rifletti sulle alternative. Io non sono un marinaio, perciò mi affido alla tua esperienza: possiamo attraversare l'Occhio?»

Il capitano esitò. «Forse sì, forse no. Bisogna essere dei pazzi forsennati per spingersi a meno di cinque miglia da quel mostro.»

Roran estrasse il martello dalla cintura e lo picchiò sul tavolo, lasciando una tacca profonda mezzo pollice. «Allora sono un pazzo forsennato! » Sostenne lo sguardo di Uthar finché il marinaio non mostrò il suo disagio. «Devo forse ricordarti che siamo arrivati fin qui facendo quello che pavidi pessimisti dicevano che non si poteva o non si doveva fare? Noi di Carvahall abbiamo osato abbandonare le nostre case e attraversare la Grande Dorsale. Jeod ha osato rubare l'Ala di Drago. E tu, Uthar, cosa sei in grado di osare? Se riusciamo a superare l'Occhio e a sopravvivere per raccontarlo, sarai ricordato come uno dei più grandi marinai della storia. Ora rispondimi con tutta onestà: si può fare?» Uthar si passò una mano sul volto. Quando parlò, la sua voce suonò sommessa, come se la foga di Roran lo avesse prosciugato dell'abituale spavalderia. «Non lo so, Fortemartello... Se aspettiamo che l'Occhio si plachi, le corvette potrebbero essere abbastanza vicine da scampare anche loro, insieme a noi. E se il vento dovesse calare, resteremmo intrappolati nella corrente, incapaci di manovrare.»

«In qualità di comandante, vuoi provarci? Né io né Jeod possiamo comandare l'Ala di Drago al posto tuo.» Uthar fissò a lungo le carte, una mano premuta sull'altra. Tracciò una riga o due dalla loro posizione e studiò una tabella di cifre che per Roran non aveva alcun significato Alla fine, disse: «Temo che finiremo nelle fauci dell'oceano, ma si, faro del mio meglio per passare.»

Soddisfatto, Roran ripose il martello. «E sia.»

L'Occhio del Cinghiale

Nel corso della giornata, le corvette si avvicinarono sempre di più all'Ala di Drago. Roran le teneva sotto costante osservazione, nel timore che potessero arrivare abbastanza vicine da attaccare prima che l'Ala di Drago raggiungesse l'Occhio del Cinghiale. Tuttavia Uthar sembrava in grado di tenere loro testa, almeno per un altro po'. Agli ordini di Uthar, Roran e gli altri passeggeri si adoperarono per risistemare la nave dopo la tempesta e prepararsi all'impresa che li aspettava. Finirono di lavorare al calar della notte, quando spensero ogni luce a bordo nel tentativo di confondere i loro inseguitori sulla rotta che l'Ala di Drago avrebbe seguito. Lo stratagemma ebbe in parte successo, perché quando sorse il sole, Roran vide che le corvette avevano perso oltre un miglio a nordovest, anche se recuperarono in fretta lo svantaggio.

Nella tarda mattinata, Roran si arrampicò sull'albero di maestra e salì sulla coffa, a centotrenta piedi dal ponte di coperta, dove gli uomini apparivano non più grandi del suo dito mignolo. L'acqua e il cielo ondeggiavano pericolosamente intorno a lui, mentre l'Ala di Drago rollava da un lato e dall'altro.

Roran prese il cannocchiale che aveva con sé, lo portò all'occhio e lo regolò per metterlo a fuoco sulle corvette, lontane quattro miglia a poppa ma in rapido avvicinamento. Devono aver capìto che cosa intendiamo fare, si disse. Spostando il cannocchiale, scrutò l'oceano in cerca dell'Occhio del Cinghiale. Si fermò quando vide un disco di schiuma grande quanto un'isola che ruotava da nord a est. Troppo tardi, pensò con un groppo allo stomaco. L'alta marea era già passata e l'Occhio del Cinghiale stava guadagnando velocità di rotazione e potenza mentre l'oceano si ritirava dalla terra. Roran abbassò il cannocchiale sul bordo della coffa e vide che la cima annodata che Uthar aveva legato a dritta della poppa - per rilevare quando sarebbero entrati nel raggio di trazione del gorgo - ora galleggiava lungo l'Ala di Drago, invece di essere trascinata dalla scia come al solito. L'unico vantaggio era che navigavano con la corrente dell'Occhio a favore, e non contro. In caso contrario, non avrebbero avuto scelta se non aspettare che la marea cambiasse.

Di sotto, Roran sentì Uthar gridare ai profughi di andare ai remi. Un momento dopo, dai fianchi dell'Ala di Drago sbucarono due ordini di remi, facendo somigliare la nave a un gigantesco ragno d'acqua. Al ritmo di un tamburo, accompagnato dalle incitazioni di Bonden che segnavano il tempo, i remi si levarono in alto per poi affondare nel mare verde e riemergere lasciando bianche striature spumeggiami nella scia. L'Ala di Drago accelerò, più veloce delle corvette, ancora lontane dall'influenza dell'Occhio.

Roran osservava con affascinato terrore il dramma che si dipanava intorno a lui. L'elemento essenziale, il punto cruciale da cui dipendeva l'esito dell'impresa, era il tempo. Malgrado il ritardo, l'Ala di Drago, con lo sforzo congiunto di remi e velatura, sarebbe stata abbastanza veloce da superare l'Occhio? E le corvette - che avevano in quel momento messo in mare i remi - potevano accorciare la distanza fra loro e l'Ala di Drago, assicurandosi la salvezza? Non sapeva dirlo. Il tamburo segnava lo scorrere dei minuti; Roran era acutamente consapevole di ogni momento che passava. Rimase sorpreso quando un braccio sporse dal bordo della coffa, e comparve la faccia di Baldor, che lo guardò. «Dammi una mano. Ho paura di cadere.»

Puntellandosi con le gambe divaricate, Roran aiutò Baldor a issarsi nella coffa. Baldor gli porse una galletta e una mela rinsecchita, dicendo: «Ho pensato che forse avevi fame.» Con un cenno di gratitudine, Roran addentò la galletta e riprese a guardare col cannocchiale. Quando Baldor gli chiese: «Riesci a vedere l'Occhio?» Roran gli passò lo strumento e continuò a mangiare.

Per la mezz'ora che seguì, il gorgo di schiuma aumentò la sua velocità di rotazione fino a girare come una trottola. L'acqua intorno alla schiuma cominciò a gonfiarsi e a sollevarsi, mentre la schiuma stessa s'inabissava, sparendo dalla visuale sul fondo di una gigantesca voragine che continuava ad allargarsi. L'aria sul vortice si riempì di un ciclone di nebbia, e dalla gola nera dell'abisso si levò un ululato lacerante come quello di un lupo ferito.

La velocità con cui si andava formando l'Occhio del Cinghiale sconvolse Roran. «Sarà meglio che tu avverta Uthar» disse.

Baldor scavalcò il bordo della coffa. «Legati all'albero, altrimenti verrai spazzato via.»

«Lo farò.»

Roran lasciò le braccia libere quando si legò, tenendo il coltello a portata di mano nel caso che avesse dovuto tagliare le corde per liberarsi. L'ansia cresceva mentre studiava la situazione. L'Ala di Drago aveva già superato di un miglio la mediana dell'Occhio, con le corvette a due miglia di distanza, mentre l'Occhio stesso stava per raggiungere il parossismo della sua furia. A peggiorare le cose, il vento, disturbato dal gorgo, soffiava a singhiozzi, irregolare, spirando prima da una parte, poi dall'altra. Le vele si gonfiavano per un momento, poi si afflosciavano, poi si riempivano di nuovo, a seconda dell'umore del vento.

Forse Uthar aveva ragione, pensò Roran. Forse mi sono spinto troppo oltre e ho sfidato un avversano che non si può sconfìggere con la sola determinazione. Forse ho consegnato i miei compagni fra le braccia di un destino orrìbile. Le forze della natura erano immuni alle intimidazioni.

L'orbita dell'Occhio del Cinghiale doveva ormai misurare quasi dieci miglia di circonferenza, e nessuno poteva ! calcolare la profondità del gorgo, tranne quelli che vi erano rimasti intrappolati. I lati del vortice avevano una pendenza di quarantacinque gradi, solcati da rilievi simmetrici I come argilla bagnata plasmata sul tornio di un ceramista. : Il sordo ululato divenne più forte, finché a Roran non parve che tutto il mondo sarebbe crollato in frantumi per l'intensità delle vibrazioni. Un glorioso arcobaleno emerse dalla nebbia sull'abisso vorticante. La corrente li trascinava a rotta di collo, spingendo l'Ala di Drago rasente i margini del gorgo; la prospettiva di riuscire ad affrancarsi dalla porzione meridionale dell'Occhio era sempre più improbabile. Così prodigiosa era la corrente che l'Ala di Drago sbandò a dritta al punto che Roran si ritrovò sospeso sull'acqua ruggente.

Malgrado i progressi dell'Ala di Drago, le corvette continuavano a guadagnare terreno. Le navi nemiche veleggiavano ormai fianco a fianco col mercantile, a meno di un miglio di distanza, coi remi che si muovevano in perfetta sincronia, due pinne d'acqua che si levavano dalla prua che fendeva l'oceano. Roran non potè che ammirare lo spettacolo. Si rimise il cannocchiale nella camicia; ormai non gli serviva più. Le corvette erano abbastanza vicine da scorgerle a occhio nudo, mentre il gorgo era sempre più oscurato dalle nubi di vapore bianco che eruttava. Attirato verso gli abissi, il vapore formava una sorta di spirale che imitava lo stesso vortice.

Poi l'Ala di Drago virò a sinistra, divergendo dalla corrente mentre Uthar la governava verso il mare aperto. La chiglia rumoreggiò tagliando il mare spumeggiante, e la velocità della nave si dimezzò, mentre l'Ala di Drago combatteva contro il risucchio mortale dell'Occhio del Cinghiale. L'albero di maestra fu scosso da una violenta vibrazione che fece sbattere i denti di Roran, e la coffa sbandò nella direzione opposta, dandogli le vertigini.

Roran si accorse con terrore che rallentavano sempre di più. Si liberò dalle corde e sprezzante del pericolo scavalcò la coffa, si afferrò alle sartie e cominciò a scendere così rapido che a un tratto perse l'appiglio e precipitò per parecchi piedi prima di riuscire ad aggrapparsi di nuovo a una cima. Saltò sul ponte, corse verso il boccaporto di prua e scese al primo banco di remi, dove si unì a Baldor e Albriech che spingevano un lungo remo di quercia.

Non si scambiarono una sola parola, ma continuarono a vogare al suono del loro respiro affannato, al battito frenetico del tamburo, alle grida rauche di Bonden, e al ruggito dell'Occhio di Cinghiale. Roran sentiva il potente gorgo opporre resistenza a ogni colpo di remi.

Nonostante i loro sforzi, l'Ala di Drago sembrava bloccata in un punto morto. Non ce la faremo, pensò Roran. La schiena e le gambe gli dolevano per lo sforzo. I polmoni gli bruciavano. Fra un battito e l'altro del tamburo, sentì Uthar gridare ai marinai sul ponte di orientare le vele per sfruttare il vento infido.

Due file davanti a Roran, Darmen e Hamund lasciarono il posto a Thane e Ridley, poi si distesero al centro del corridòio, tremanti di fatica. Meno di un minuto dopo, qualcun altro crollò sfinito fra i banchi, e fu subito sostituito da Brigit e un'altra donna.

Se sopr•avviveremo, pensò Roran, sarà solo perché siamo così numerosi da poter sostenere questo ritmo per tutto il tempo necessario.

Gli parve di passare un'eternità inchiodato a quel remo, in quello spazio buio e fumoso, a spingere e tirare, spingere e tirare, facendo del suo meglio per ignorare il suo corpo che gridava pietà. Il collo gli faceva male per essere stato troppo a lungo chino sotto il basso soffitto. Il legno scuro del remo era striato di sangue, colato dalle vesciche che gli si erano formate per poi scoppiare. Si strappò di dosso la camicia facendo cadere il cannocchiale, l'avvolse intorno al remo e riprese a vogare.

Alla fine non ce la fece più. Le sue gambe cedettero e Roran cadde di lato, scivolando sul pagliolato, in un bagno di sudore. Orval prese il suo posto. Roran rimase immobile finché non riprese fiato, poi si mise carponi e strisciò verso il boccaporto. Come un ubriaco in preda a una sbornia colossale, risalì a tentoni la scaletta, barcollando a ogni movimento della nave e appoggiandosi alla paratia per riposare. Quando uscì sul ponte, si fermò un istante a inspirare l'aria fresca, poi arrancò verso poppa, con le gambe che minacciavano di tradirlo a ogni passo.

«Come va?» chiese ansimante a Uthar, che manovrava la ruota del timone.

Uthar scosse il capo.

Guardando oltre il parapetto, Roran vide le tre corvette a mezzo miglio di distanza, leggermente spostate a ovest, più vicine al centro dell'Occhio. Sembravano immobili rispetto all'Ala di Drago.

Lì per lì, Roran ebbe l'impressione che la posizione delle quattro navi restasse invariata. Poi avvertì un lieve mutamento nella velocità dell'Ala di Drago, come se la nave avesse superato un punto cruciale e le forze che la bloccavano si stessero arrendendo. Era una differenza sottile, non più di qualche piede al minuto, ma abbastanza perché la distanza fra il mercantile e le corvette aumentasse. A ogni colpo di remi, l'Ala di Drago guadagnava velocità. Le corvette non riuscivano comunque a contrastare la terrificante potenza del gorgo. I remi via via rallentarono finché, una dopo l'altra, le navi furono trascinate all'indietro verso il muro di nebbia, oltre il quale le attendevano le turbinanti pareti d'acqua nera e gli aguzzi scogli sul fondo dell'oceano.

Non riescono a remare, capì Roran. Gli uomini degli equipaggi sono troppo pochi e troppo stanchi. Non potè fare a meno di provare un impeto di compassione per il destino dei marinai sulle corvette.

In quel preciso istante, dalla nave più vicina fu scagliata un freccia, che scoppiò in una vampa di fiamme verdi prima di raggiungere l'Ala di Drago. La freccia doveva essere sostenuta dalla magia per volare così lontano. Colpì l'albero di mezzana ed esplose in globi di fuoco liquido che piovvero incendiando tutto quel che toccavano. Nel giro di pochi secondi, venti piccoli incendi ardevano lungo l'albero di mezzana, la vela, e il ponte di sotto.

«Non riusciamo a spegnerli» gridò uno dei marinai, in preda al panico.

«Tagliate tutto quello che brucia e gettatelo fuori bordo!» ruggì Uthar.

Sfoderando il pugnale da caccia, Roran si mise all'opera per asportare un grumo di fuoco verde dalle tavole ai suoi piedi. Passarono lunghi minuti di tensione, ma in breve tempo i fuochi innaturali furono eliminati e si ebbe la certezza che l'incendio non si sarebbe propagato al resto della nave.

Al grido di "Cessato allarme!", Uthar rilassò la stretta sulla ruota del timone. «Se questo è il massimo che riesce a fare il loro stregone, allora direi che non abbiamo nulla da temere.»

«Riusciremo a superare l'Occhio del Cinghiale, non è vero?» chiese Roran, aspettando con ansia una conferma alle sue speranze.

Uthar squadrò le spalle e sogghignò, orgoglioso e al tempo stesso incredulo. «Non per questo ciclo, ma ci siamo vicini. Non ci allontaneremo da quel mostro finché la marea non si sarà placata. Vai a dire a Bonden di rallentare il ritmo; non voglio che perdano i sensi ai remi se non è necessario.»

E così fu. Roran fece un altro turno ai banchi; il tempo di tornare sul ponte e si accorse che il gorgo stava diventando più piccolo. L'ululato spettrale del vortice si era ridotto al consueto rumore del vento; l'acqua aveva assunto un aspetto placido e piatto che mai avrebbe lasciato supporre la violenza che in genere si scatenava in quel punto; e la nebbia che aveva vorticato sull'abisso si dissolse sotto i caldi raggi del sole, lasciando l'aria tersa e limpida come vetro. Dell'Occhio del Cinghiale, notò Roran quando recuperò il cannocchiale dai banchi, non restava altro che il disco di schiuma giallastra che ruotava sull'acqua.

Al centro della spuma gli parve di scorgere tre alberi spezzati e una vela nera che continuavano a galleggiare in un circolo senza fine. Ma forse era soltanto uno scherzo della sua immaginazione.

O almeno fu ciò che si disse.

Elain lo raggiunse, una mano posata sul ventre gonfio. Con una vocina sottile, gli disse: «Siamo stati fortunati, Roran. Molto più fortunati di quanto avessimo ragione di sperare.»

«Già» mormorò lui.

Verso Aberon

Sotto le ali azzurre di Saphira, la densa foresta si estendeva da un orizzonte pallido all'altro, scolorendo via via dal più intenso dei verdi fino a un porpora sbiadito e caliginoso. Balestrucci, corvi e altri uccelli dei boschi volteggiavano sulle chiome dei pini nodosi, lanciando acute strida d'allarme non appena scorgevano Saphira. La dragonessa sorvolava bassa il fogliame per proteggere i due passeggeri dalle temperature artiche delle maggiori altitudini. Era la prima volta, da quando Saphira era sfuggita ai Ra'zac sulla Grande Dorsale, che lei e Eragon avevano l'opportunità di volare insieme per una grande distanza, senza doversi fermare ad aspettare compagni che viaggiavano via terra. Saphira in particolar modo si godeva il volo, compiaciuta di poter mostrare a Eragon come le lezioni di Glaedr avessero contribuito ad aumentare la sua forza e la sua resistenza.

Dopo l'iniziale imbarazzo, Orik disse a Eragon: «Dubito che mi troverò mai a mio agio per aria, ma capisco perché a te e a Saphira piace tanto. Volare ti fa sentire libero e indipendente, come un falco dalla vista acuta che caccia le prede. Mi batte il cuore, mi batte!»

Per alleviare la noia del viaggio, Orik cominciò a giocare agli indovinelli con Saphira. Eragon si astenne dalla gara perché non era mai stato bravo con gli enigmi; il pensiero macchinoso necessario a risolverli gli sfuggiva. In questo, Saphira era molto più brava di lui. Come tutti i draghi, era affascinata dagli indovinelli e li trovava piuttosto facili da risolvere.

«Gli unici indovinelli che conosco» disse Orik «sono nel linguaggio dei nani. Farò del mio meglio per tradurli, ma il risultato potrebbe suonare grossolano e poco scorrevole.» Poi disse:

Se son alta ho lunga vita, Ma se bassa son finita. Su di me risplende il fuoco, Se Urùr fiata duro poco. Non è giusto, ribattè Saphira. Non so niente dei vostri dei. Eragon non dovette ripetere le sue parole, perché Orik le aveva dato il permesso di proiettarle direttamente nella sua mente.

Orik rise. «Ti arrendi?»

Mai. Per qualche minuto, l'unico suono fu il rumore delle sue ali, finché non chiese: È la candela? «Esatto.»

Una piccola nube di fumo ardente investì la faccia di Orik ed Eragon quando la dragonessa sbuffò. Non me la cavo bene con questi indovinelli. Non sono stata dentro una casa da quando il mio uovo si è schiuso. Ho difficoltà a risolvere gli enigmi che riguardano oggetti domestici. Poi fu il suo turno.

Come si definiscono le più fedeli compagne dei draghi?

L'indovinello si rivelò piuttosto ostico per il nano. Orik borbottò e mugugnò e digrignò i denti per la frustrazione. Dietro di lui, Eragon sogghignava, perché vedeva la risposta a chiare lettere nella mente di Saphira. Alla fine, Orik disse: «Be', allora? Mi dichiaro sconfitto.»

La parola è composta E il suono s'accosta, Le ali è la risposta.

Fu la volta di Orik di protestare: «Non è giusto! Questa non è la mia lingua di origine. Non puoi aspettarti che conosca questi giochi di parole!»

Era un indovinello normalissimo.

Eragon guardò i muscoli del collo di Orik tendersi e gonfiarsi mentre il nano faceva scattare la testa avanti. «D'accordo, se la metti su questo piano, Zannediferro, allora risolvimi questo indovinello che conoscono perfino i bambini dei nani.»

Mi chiamano Forgia di Morgothal e Grembo di Helzvog. La Figlia di Nordvig nascondo morte grìgia diffondo, Col Sangue di Helzvog faccio nuovo il mondo. Chi sono?

Continuarono su questo tono, scambiandosi indovinelli di crescente difficoltà, mentre la Du Weldenvarden scorreva sotto di loro. Di tanto in tanto, nella volta verdeggiante si apriva uno squarcio che rivelava bagliori argentei, tratti dei numerosi fiumi che serpeggiavano per la foresta. Intorno a Saphira, le nuvole assumevano forme dall'architettura fantastica: archi, cupole, pilastri, bastioni scanalati, torrioni alti come montagne; e poi colline e valli immerse in una luce fiammante che dava a Eragon l'impressione di volare in un sogno.

Saphira fu così veloce che al calar della sera si erano già lasciati la Du Weldenvarden alle spalle e avevano raggiunto i prati verdeggianti che separavano la grande foresta dal Deserto di Hadarac. Si accamparono fra l'erba e si strinsero intorno a un piccolo falò, sentendosi terribilmente soli sulla terra. Erano scuri in volto e parlarono poco, perché le parole non facevano che sottolineare il loro ruolo insignificante in quella landa deserta e desolata. Eragon approfittò della sosta per immagazzinare energia nel rubino che ornava il pomo di Zar'roc. La gemma assorbì tutto il potere che le infuse, come anche quello di Saphira, che si prestò volentieri. Eragon giunse alla conclusione che ci sarebbero voluti parecchi giorni per saturare sia il rubino che i dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio.

Stanco per lo sforzo, si avvolse nelle coperte, si sdraiò accanto a Saphira e si abbandonò al suo stato di dormiveglia, dove i fantasmi della notte giocavano a rincorrersi con le stelle che brillavano in cielo.

Poco dopo aver ripreso il viaggio, l'indomani mattina, l'erba ondeggiante cedette il passo a un'arida prateria dagli steli sempre più secchi e sporadici, che alla fine furono sostituiti da un terreno brullo e bruciato dal sole, dove non cresceva niente se non le piante più resistenti. Comparvero le prime dune rosseggianti. Dall'alto sembrava di sorvolare una serie di onde che si susseguivano verso una costa remota.

Quando il sole cominciò a calare, Eragon notò in lontananza, a est, un gruppo di montagne e capì che si trattava delle Du Fells Nàngoròth, dove i draghi selvatici andavano per accoppiarsi, allevare i cuccioli e infine morire. Dobbiamo andarci, un giorno o l'altro, disse Saphira, seguendo il suo sguardo.

Sì.

Quella notte, Eragon sentì la solitudine più forte che mai, perché si erano accampati nella regione più desolata del Deserto di Hadarac, dove nell'aria c'era così poca umidità che le sue labbra si screpolarono presto, anche se le spalmava spesso di nalgask. Percepiva pochissima vita nel suolo, soltanto un pugno di miserabili piante, qualche insetto e qualche lucertola.

Come aveva fatto quando erano fuggiti da Gil'ead attraverso il deserto, Eragon trasse acqua dal suolo per riempire le borracce, e prima di consentire alla sabbia di riassorbire l'acqua, la usò per divinare Nasuada e vedere se i Varden erano già stati attaccati. Con sollievo, scoprì di no.

Il terzo giorno da quando erano partiti da Ellesméra, il vento prese a soffiare alle loro spalle, facendo diventare Saphira ancora più veloce e trasportandoli ai confini del deserto.

Sorvolarono una carovana di nomadi che indossavano lunghi mantelli per proteggersi dal calore. Gli uomini inveirono nel loro rozzo linguaggio e agitarono le spade e le lance contro Saphira, ma nessuno osò scagliare una freccia.

Eragon, Saphira e Orik bivaccarono quella notte nelle propaggini meridionali della Foresta Imbiancata che costeggiava il lago Tùdosten, così chiamata perché composta quasi soltanto da faggi, salici e pioppi tremuli. In contrasto con la perenne penombra che regnava sotto i pini della Du Weldenvarden, la Foresta Imbiancata era inondata di luce, di canti di allodole e del gentile fruscìo delle foglie verdi. Gli alberi emanavano un'aria giovane e spensierata, ed Eragon fu felice di trovarsi lì. E sebbene fosse sparita ogni traccia del deserto, il clima era molto più caldo rispetto a quanto Eragon era abituato in quel periodo dell'anno. Sembrava più estate che primavera.

Da lì volarono diretti ad Aberon, la capitale del Surda, guidati dalle indicazioni che Eragon trasse dai ricordi degli uccelli che incontrarono. Saphira non fece nulla per nascondersi durante il tragitto, e spesso udirono grida di stupore e di allarme levarsi dai villaggi che sorvolava.

Era tardo pomeriggio quando giunsero ad Aberon, una città bassa e fortificata che si sviluppava intorno a un picco roccioso, in un panorama altrimenti piatto. In cima al picco sorgeva il Castello Farnaci. L'irregolare cittadella era protetta da tre cinte di mura concentriche, numerose torri e, notò Eragon, centinaia di baliste costruite per abbattere i draghi. La calda luce ambrata del sole morente faceva risaltare i profili degli edifici di Aberon e illuminava una nuvola di polvere che si levava dal cancello ovest della città, dove una fila di soldati aspettava di entrare.

Mentre Saphira scendeva verso la corte interna del castello, Eragon entrò in contatto con la moltitudine di pensieri degli abitanti della capitale. Il frastuono dapprima lo confuse - come poteva ascoltare in cerca di nemici e restare vigile allo stesso tempo? - ma poi si rese conto che, come al solito, si era concentrato troppo sugli individui. Non doveva far altro che percepire le generali intenzioni della gente. Ampliò il suo raggio mentale, e le singole voci che reclamavano la sua attenzione si fusero in un flusso continuo di emozioni. Era come un velo impalpabile steso sul panorama, che si ondulava a seconda delle sensazioni delle persone e si gonfiava dove qualcuno era in preda a una forte passione. In questo modo, Eragon percepì l'allarme destato fra la gente dalla comparsa di Saphira. Attenta, le disse. Non voglio che ci attacchino.

La polvere si levò in piccoli mulinelli mentre Saphira batteva lentamente le ali per atterrare al centro del cortile, affondando gli artigli nel terreno per mantenere l'equilibrio. I cavalli legati nel cortile nitrirono di paura, suscitando un tale fracasso che Eragon decise di insinuarsi nelle loro menti per calmarli con dolci parole nell'antica lingua. Eragon smontò dopo Orik, tenendo d'occhio i molti soldati schierati lungo i merli e le minacciose baliste. Non temeva le armi, ma non aveva alcun desiderio di essere coinvolto in uno scontro con i suoi stessi alleati.

Un drappello di dodici uomini, alcuni dei quali erano soldati armati, uscì dal maschio per correre verso Saphira. Erano capitanati da un uomo alto con la pelle scura come quella di Nasuada, la terza persona con la pelle di quel colore che Eragon avesse incontrato. Fermandosi a dieci passi di distanza, l'uomo s'inchinò - come gli altri - e poi disse: «Benvenuto, Cavaliere. Io sono Dahwar, figlio di Kedar. Sono il siniscalco di re Orrin.»

Eragon inclinò la testa. «E io sono Eragon Ammazzaspettri, figlio di nessuno.»

«E io Orik, figlio di Thrifk.»

E io Saphira, figlia di Vervada, disse Saphira, usando Eragon come portavoce.

Dahwar s'inchinò di nuovo. «Mi scuso se non ci sono dignitari di più alto rango a ricevere ospiti del vostro prestigio, ma re Orrin, ledy Nasuada, e tutti i Varden sono da tempo in marcia per affrontare l'esercito di Galbatorix.» Eragon annuì. Se l'era aspettato. «Hanno lasciato ordine che se tu fossi venuto a cercarli, avresti dovuto unirti a loro direttamente, perché la tua presenza è indispensabile per avere una speranza di vittoria.»

«Puoi mostrarci su una mappa dove possiamo trovarli?» chiese Eragon.

«Ma certo, mio signore. Mentre mando a prenderla, non gradiresti cercare un riparo da questo calore e qualche rinfresco?»

Eragon fece di no con la testa. «Non abbiamo tempo da

perdere. Per giunta, non sono io che ho bisogno della mappa, ma Saphira, e dubito che lei entrerebbe nel vostro palazzo.»

Questo parve cogliere il siniscalco di sorpresa. Battè le palpebre e fece scorrere lo sguardo su Saphira, poi disse: «Naturalmente, mio signore. A ogni buon conto, la nostra ospitalità è a vostra disposizione. Se c'è qualcosa che tu e i tuoi compagni desiderate, non esitate a chiedere.»

Per la prima volta, Eragon si rese conto che poteva dare ordini e aspettarsi che venissero eseguiti. «Ci servono viveri per una settimana. Per me soltanto frutta, verdure, farina, formaggio, pane... cose del genere. E acqua per riempire le borracce.» Rimase colpito quando Dahwar non lo interrogò sulla mancanza di carne. Orik aggiunse la sua richiesta di carne salata, prosciutto e altri prodotti di analoga natura.

Con uno schiocco di dita, Dahwar mandò due servitori nel maschio a prendere le provviste. Mentre tutti aspettavano che tornassero, chiese: «Dalla tua presenza qui, Ammazzaspettri, posso desumere che il tuo addestramento con gli elfi è stato completato?»

«Il mio addestramento non finirà finché vivrò.»

«Capisco.» Poi, dopo un momento, Dahwar disse: «Ti prego di scusare la mia impertinenza, signore, perché non sono avvezzo agli usi dei Cavalieri, ma tu sei umano? Mi avevano detto che lo eri.»

«Certo che lo è» borbottò Orik. «È stato... cambiato. E tu dovresti rallegrarti per ciò che è diventato, altrimenti ci troveremmo in guai ben peggiori.» Dahwar fu abbastanza discreto da non indagare oltre, ma dai suoi pensieri Eragon arguì che il siniscalco avrebbe pagato uno sproposito per avere ulteriori dettagli: qualunque informazione su Eragon e Saphira era importante nel governo di Orrin.

Il cibo, l'acqua e la mappa arrivarono poco dopo, fra le braccia di due paggi dagli occhi sgranati. Su ordine di Eragon, posarono gli oggetti davanti a Saphira con aria terrorizzata, poi si rintanarono alle spalle di Dahwar. Inginocchiatosi per terra, Dahwar dispiegò la mappa, che raffigurava il Surda e i territori confinanti, e tracciò una linea in direzione nordovest, da Aberon a Cithri. «Le ultime notizie» disse «ci riferiscono che re Orrin e ledy Nasuada si sono fermati qui per gli approvvigionamenti. Non avevano intenzione di fermarsi, però, perché l'Impero avanza verso sud lungo il fiume Jiet, e volevano trovarsi già sul posto all'arrivo dell'armata di Galbatorix. A questo punto i Varden potrebbero trovarsi ovunque, fra la città di Cithri e il fiume Jiet. È soltanto la mia umile opinione, ma direi che il posto migliore per cercarli sono le Pianure Ardenti.»

«Le Pianure Ardenti?»

Dahwar sorrise. «Probabilmente le conosci con il loro antico

nome, quello che usavano gli elfi: Du Vòllar Eldrvarya.»

«Ah, sì.» Adesso Eragon rammentava. Ne aveva letto in una delle pergamene che Oromis gli aveva dato. Le pianure che contenevano enormi depositi di torba - si estendevano lungo la riva orientale dello Jiet, dove i confini del Surda lo attraversavano, ed erano state teatro di una feroce battaglia fra i Cavalieri e i Rinnegati. Durante lo scontro, i draghi avevano inavvertitamente incendiato la torba, e il fuoco scaturito dalle loro fauci era sceso in profondità, dov'era rimasto a covare fin da allora. La terra era diventata inospitale a causa dei fumi nocivi che uscivano dalle bocche rosseggianti aperte nel terreno carbonizzato.

Un brivido corse lungo la schiena di Eragon nel ricordare la premonizione: masse di guerrieri che si scontravano su un campo giallo e arancio, accompagnate dalle grida rauche dei corvi e dal sibilo delle frecce nere. Rabbrividì ancora. Il destino converge su di noi, disse a Saphira. Poi, indicando la mappa: Hai visto abbastanza?

Sì.

Muovendosi in fretta, lui e Orik infilarono le provviste nelle bisacce, rimontarono su Saphira, e dalla sua groppa ringraziarono Dahwar per i suoi servigi. Mentre Saphira stava per prendere il volo, Eragon trasalì: una nota discordante risuonava dalle menti che stava chiamando a sé. «Dahwar, due stallieri litigano nelle scuderie, e uno di loro, Tathal, ha intenzione di uccidere l'altro. Puoi fermarlo, però, se ti affretti a mandare là degli uomini.»

Dahwar spalancò gli occhi esterrefatto, e persino Orik si volse a guardare Eragon. Il siniscalco domandò: «Come lo sai, Ammazzaspettri?»

Eragon si limitò a rispondere: «Sono un Cavaliere.»

Poi Saphira dispiegò le ali, e tutti i presenti indietreggiarono rapidi per non essere investiti dallo spostamento d'aria quando la dragonessa le spinse verso il basso e si librò nel cielo. Mentre il Castello Farnaci rimpiccioliva dietro di loro, Orik chiese: «Riesci a sentire i miei pensieri, Eragon?»

«Vuoi che ci provi? Non l'ho mai fatto, lo sai.»

«Prova.»

Aggrottando la fronte, Eragon concentrò la sua attenzione sulla coscienza del nano e rimase sorpreso nel trovarla ben protetta da forti barriere mentali. Percepiva la presenza di Orik, ma non i suoi pensieri e le sue sensazioni. «Niente.» Orik sogghignò, soddisfatto. «Bene. Volevo essere sicuro di non aver dimenticato le antiche lezioni.» Per tacito accordo, non si fermarono per la notte, ma continuarono a volare nel cielo buio. Non c'era traccia di luna o di stelle, né luci né distanti chiarori a illuminare le tenebre opprimenti. Le ore si trascinarono lente, aggrappandosi a ogni secondo, come riluttanti a concedersi al passato.

Quando finalmente tornò il sole, portando con sé la sospirata luce, Saphira si posò sulle rive di un laghetto perché Eragon e Orik potessero sgranchirsi le gambe, rinfrescarsi e fare colazione senza il costante movimento che subivano stando sulla sua schiena.

Si erano appena levati di nuovo in volo quando una lunga e bassa nube marrone comparve all'orizzonte, come una macchia d'inchiostro scuro su un foglio di carta immacolato. La nube divenne sempre più ampia a mano a mano che Saphira si avvicinava, finché nella tarda mattinata non arrivò a oscurare l'intera terra sotto una cappa di vapori nauseabondi.

Avevano raggiunto le Pianure Ardenti di Alagaésia.

Le Pianure Ardenti

Eragon tossì mentre Saphira perforava lo strato di fumo planando verso il fiume Jiet, nascosto dalla densa foschia. Socchiuse le palpebre e si asciugò le lacrime. I vapori acri gli bruciavano gli occhi.

Vicino al suolo, l'aria era più limpida e permise a Eragon di avere una visuale completa della loro destinazione. Il velo increspato di fumo nero e rosso filtrava i raggi del sole in maniera tale che ogni cosa al di sotto era immersa in una malsana luce arancione. Squarci sporadici nel cielo offuscato lasciavano passare pallidi raggi di luce che colpivano il terreno, dove restavano come pilastri di vetro translucido finché non venivano recisi dalle nubi in movimento. Il fiume Jiet scorreva davanti a loro, gonfio e sinuoso come un serpente satollo; la superficie screziata di ombre rifletteva la stessa spettrale sfumatura che pervadeva le Pianure

incontaminata illuminava il fiume, l'acqua appariva opaca, gessosa,

sembrava risplendere di luce propria.

Ardenti. Perfino quando un raggio di luce come il latte di qualche bestia spaventosa, e

Due eserciti erano schierati lungo la riva orientale del fiume. A sud c'erano i Varden e gli uomini del Surda, appostati dietro numerosi baluardi difensivi, dove avevano disposto eleganti vessilli, file di tende e i destrieri della cavalleria reale di Orrin. Per quanto apparissero forti, il loro numero impallidiva al confronto con la moltitudine di forze assemblate a nord. L'esercito di Galbatorix era così imponente che misurava tre miglia da parte a parte, e quante miglia in lunghezza era impossibile da stabilire, perché i singoli individui si confondevano in una massa scura in lontananza. Fra i due schieramenti di acerrimi nemici c'era una zona franca larga all'incirca due miglia. Quella terra, e la terra su cui erano accampate le milizie, era costellata da innumerevoli orifizi da cui guizzavano verdi lingue di fuoco. Era da quelle livide torce che si levavano i fumi che oscuravano il sole. Non esisteva una sola traccia di vegetazione sul terreno bruciato, a parte chiazze di licheni neri, arancione e verdognoli che dall'alto conferivano alla terra un aspetto pustoloso e infetto.

Era il panorama più ostile che Eragon avesse mai visto.

Saphira emerse dalla cappa di nubi sulla terra di nessuno che separava i due schieramenti; virò e scese in picchiata verso i Varden, alla massima velocità possibile, poiché fino a quando rimanevano esposti all'Impero erano vulnerabili agli attacchi di stregoni nemici. Eragon dilatò la mente in ogni direzione, in cerca di coscienze ostili che potessero percepire la sua presenza invasiva e reagire: le menti degli stregoni e quelle di coloro che erano addestrati a difendersi dagli stregoni.

Quello che invece avvertì fu l'improvviso panico che travolse le sentinelle dei Varden, molte delle quali, si rese conto, non avevano mai visto Saphira. La paura fece loro ignorare il buon senso, e scagliarono un nugolo di frecce per intercettarla.

Alzando la mano destra, Eragon gridò: «Letta orya thorna!» Le frecce si arrestarono in aria. Con uno scatto del polso e la parola "Ganga", Eragon le deviò verso la terra di nessuno, dove si conficcarono nel terreno bruciato senza fare danni. Soltanto una freccia gli sfuggì, perché era stata scagliata qualche secondo dopo la prima raffica. Sporgendosi il più possibile a destra, e più rapido di qualsiasi umano, Eragon afferrò la freccia in volo mentre Saphira la incrociava.

Ad appena cento piedi dal suolo, Saphira dispiegò le ali per rallentare la discesa, e atterrò prima sulle zampe posteriori e poi su quelle anteriori, piombando fra le tende dei Varden spinta dall'inerzia.

«Werg» ringhiò Orik, sciogliendo le cinghie che gli serravano le gambe. «Preferirei trovarmi faccia a faccia con una dozzina di Kull piuttosto che ripetere un atterraggio del genere.» Si lasciò penzolare da un lato della sella, poi saltò sulla zampa davanti di Saphira e da lì, sul terreno.

Mentre anche Eragon smontava, decine di guerrieri attoniti si radunarono intorno a Saphira. Dal centro della mischia si fece largo a spintoni un energumeno che Eragon riconobbe all'istante: era Fredric, il maestro d'armi dei Varden nel Farthen Dùr, che indossava come sempre la corazza irsuta di pelle di bue. «Chiudete quelle bocche penzoloni, idioti!» ruggì Fredric. «Non restate lì impalati; tornate ai vostri posti o vi faccio assegnare il doppio dei turni!» Alle sue parole, la folla cominciò a disperdersi, fra borbottii risentiti e occhiate furtive. Quando Fredric si avvicinò, Eragon notò la sua reazione davanti al proprio aspetto tanto mutato. L'omaccione barbuto fece del suo meglio per nascondere lo stupore toccandosi la fronte e dicendo: «Benvenuto, Ammazzaspettri. Sei arrivato giusto in tempo... Non sai quanto mi vergogno per quell'aggressione. L'onore di ogni uomo sarà macchiato da questa ignominia. Siete rimasti feriti?» «No.»

Il volto di Fredric si distese. «Be', ne sono lieto. Ho fatto sollevare dall'incarico i responsabili. Saranno frustati e degradati... Quale punizione ti sembra più opportuna, Cavaliere?» «Voglio vederli» disse Eragon.

Un'ombra di apprensione si dipinse sul volto di Fredric; era personalmente qualche terribile, innaturale punizione alle sentinelle. Tuttavia non espresse il suo timore, ma disse: «Se vuoi seguirmi, Cavaliere...»

Li condusse attraverso l'accampamento fino a una tenda a strisce d'alto comando, dove una ventina di uomini dall'aria afflitta si stavano spogliando di armi e corazze sotto l'occhio vigile di una dozzina di guardie. Alla vista di Eragon e ovvio che temeva che Eragon volesse infliggere Saphira, i prigionieri posarono un ginocchio a terra e rimasero immobili, con lo sguardo basso. «Salve, Ammazzaspettri!» gridarono all'unisono.

Eragon non disse niente, ma avanzò lungo la fila di soldati studiando le loro menti. I suoi stivali schiacciavano la crosta di terreno bruciato con un sinistro crepitio. Alla fine disse: «Dovreste essere fieri della prontezza con cui avete reagito alla nostra comparsa. Se Galbatorix dovesse attaccare, è esattamente quello che dovete fare, anche se dubito che le frecce sarebbero efficaci con lui, come non lo sono state con me e con Saphira.» Le sentinelle lo guardarono incredule, i volti pervasi dal sollievo che rilucevano come ottone brunito nella luce variegata. «Vi chiedo soltanto, in futuro, di concedervi un istante per identificare il vostro bersaglio, prima di tirare. La prossima volta potrei essere troppo distratto per fermare i vostri dardi. Sono stato chiaro?»

«Sì, Ammazzaspettri!» gridarono quelli.

Fermandosi davanti al penultimo della fila, Eragon gli porse la freccia che aveva afferrato in volo dal dorso di Saphira. «Credo che questa sia tua, Harwin.»

Con espressione sbigottita, Harwin prese la freccia. «È mia! Dipingo sempre una striscia bianca sull'asta per poterle ritrovare in seguito. Grazie, Ammazzaspettri.»

Eragon annuì e si rivolse a Fredric, ma in maniera tale che tutti potessero sentirlo: «Questi sono uomini valorosi, ed esigo che non accada loro nulla di male per colpa di questo incidente.»

«Ti do la mia parola» disse Fredric, e sorrise.

«Ora puoi condurci da ledy Nasuada?»

«Seguimi, Cavaliere.»

Nel voltare le spalle alle sentinelle, Eragon seppe che il suo gesto gli aveva fatto guadagnare la loro lealtà incondizionata, e che ben presto si sarebbe sparsa notizia dell'episodio fra tutti i Varden.

Il percorso che Fredric seguì fra le tende portò Eragon in contatto ravvicinato con più menti di quante ne avesse mai toccate prima. Centinaia di pensieri, immagini e sensazioni si accalcavano nella sua coscienza. Malgrado gli sforzi per tenerle a distanza, non potè fare a meno di cogliere dettagli frammentari della vita di ciascuno. Trovò alcune rivelazioni sconvolgenti, altre insignificanti, altre ancora commoventi, o al contrario rivoltanti, e molte imbarazzanti. Alcuni individui percepivano il mondo in maniera così diversa che le loro menti gli balzavano subito all'occhio proprio a causa della differenza.

Com'e facile considerare questi uomini nient'altro che oggetti che io e pochi altri possiamo manipolare a nostro piacimento. Eppure ciascuno di loro nutre sogni e speranze, ha in sé il potenziale per futuri successi e ricordi di quanto ha già compiuto. E tutti provano dolore.

Un gruppo di menti che toccò si accorsero del contatto e si ritrassero, nascondendosi dietro barriere di forza diversa. Lì per lì Eragon si preoccupò, immaginando di aver scoperto nemici infiltrati tra i Varden, ma poi si rese conto che si trattava dei singoli membri del Du Vrangr Gata.

Saphira disse: Devi averli spaventati a morte. Penseranno di essere aggrediti da qualche oscuro stregone. Non posso convincerli del contrario finché mi ostacolano in questo modo.

Dovrai incontrarli di persona, e presto, anche, prima che decidano di unire le forze e contrattaccare. Già, anche se non credo che rappresentino una vera minaccia. Du Vrangr Gata... Il loro stesso nome tradisce la loro ignoranza. Nell'antica lingua si dovrebbe dire Du Gata Vrangr.

La camminata terminò nella retroguardia dei Varden, davanti a un grande padiglione rosso su cui sventolava uno stendardo ricamato con uno scudo nero su due spade incrociate. Fredric scostò un lembo della tenda d'ingresso, ed Eragon e Orik entrarono nel padiglione. Dietro di loro, Saphira infilò la testa nell'apertura e sbirciò sopra le loro spalle. Un ampio tavolo occupava il centro della grande tenda. Nasuada era in piedi a un'estremità. Eragon si sentì balzare il cuore nel petto quando vide Arya dall'altro lato. Entrambe erano vestite da battaglia, come guerrieri. Nasuada rivolse lentamente il viso ovale verso di lui.

«Eragon?» mormorò.

Lui rimase colpito nel sentirsi tanto felice di rivederla. Con un gran sorriso, ruotò il polso e si portò la mano al petto, nel gesto di fedeltà degli elfi, e s'inchinò. «Per servirti.»

«Eragon!» Questa volta la voce di Nasuada risuonò colma di gioia e sollievo. Anche Arya sembrava lieta. «Come hai fatto a ricevere il nostro messaggio così in fretta?»

«Non l'ho ricevuto; ho saputo dell'esercito di Galbatorix grazie alla cristallomanzia, e sono partito da Ellesméra il giorno stesso.» Le sorrise di nuovo. «È bello ritrovarsi fra i Varden.»

Mentre parlava, Nasuada lo scrutava con meraviglia. «Che cosa ti è successo, Eragon?»

Arya non deve averle detto nulla, osservò Saphira.

E così Eragon le raccontò per filo e per segno quello che era accaduto a lui e a Saphira da quando l'avevano lasciaI

ta nel Farthen Dùr, tanto tempo prima. Capì che Nasuada era già al corrente di molti episodi, che dovevano averle riferito sia i nani che Arya, ma lei lo lasciò parlare senza interromperlo. Eragon fu costretto a essere piuttosto reticente sul proprio addestramento. Aveva dato la propria parola di non rivelare l'esistenza di Oromis senza il suo consenso, e la maggior parte delle lezioni non doveva essere divulgata a estranei, ma fece del proprio meglio per dare a Nasuada un'idea generale delle proprie capacità e dei rischi che correvano. Riguardo all'Agaeti Blòdhren, disse soltanto: «... e durante la celebrazione, i draghi hanno operato su di me il cambiamento che vedi, dandomi le capacità fisiche di un elfo e guarendomi la schiena.»

«La tua cicatrice è scomparsa, dunque?» chiese Nasuada. Eragon annuì. Bastò qualche altra frase concisa per concludere il racconto, con qualche accenno alla ragione per cui avevano lasciato la Du Weldenvarden e una rapida descrizione del loro viaggio fino al Surda. Nasuada scrollò il capo. «Che storia. Tu e Saphira avete vissuto molto, da quando siete partiti dal Farthen Dùr.»

«Tu non sei stata da meno» disse Eragon, facendo un ampio gesto con la mano. «È stupefacente quello che sei riuscita a realizzare. Dev'essere stata un'impresa colossale, spostare tutti i Varden nel Surda... Il Consiglio degli Anziani ti ha dato problemi?»

«Qualcuno, ma nulla di significativo. A quanto pare, sembrano rassegnati a sottostare alla mia autorità.» La sua cotta d'armi tintinnò quando si sedette su uno scranno dall'alto schienale e si rivolse a Orik, che doveva ancora parlare. Gli porse i suoi saluti e gli domandò se aveva qualcosa da aggiungere al racconto di Eragon. Orik si strinse nelle spalle e narrò un paio di aneddoti sulla loro permanenza a Ellesméra, anche se Eragon ebbe il sospetto che serbasse le sue vere osservazioni per il proprio re.

Quando ebbe finito, Nasuada disse: «Mi rincuora sapere che se riusciremo a sopravvivere a questo attacco, avremo gli elfi dalla nostra. Vi è capitato di scorgere i guerrieri di Rothgar durante il volo da Aberon? Contiamo sui loro rinforzi.» No, rispose Saphira tramite Eragon. Ma era buio, e spesso ho volato sopra e fra le nuvole. In quelle condizioni, avrei potuto facilmente farmi sfuggire un accampamento. Comunque dubito che abbiano seguito il nostro stesso percorso, perché io ho volato diritto da Aberon, mentre i nani devono aver scelto un cammino diverso, magari seguendo le strade battute, piuttosto che avventurandosi nella natura selvaggia.

«Qual è la situazione?» chiese Eragon.

Nasuada sospirò, poi gli raccontò di come lei e Orrin avevano saputo dell'esercito di Galbatorix e delle misure disperate che avevano adottato per raggiungere le Pianure Ardenti prima delle milizie imperiali. Concluse dicendo: «L'Impero è arrivato tre giorni fa. Da allora ci siamo scambiati due messaggi. Nel primo ci hanno chiesto di arrenderci, noi abbiamo rifiutato, e adesso aspettiamo una replica.»

«Quanti sono?» bofonchiò Orik. «Dall'alto sembra un numero impressionante.»

«Già. Secondo le nostre stime, Galbatorix deve aver radunato almeno centomila soldati.»

Eragon non riuscì a trattenersi. «Centomila! Da dove vengono? Sembra impossibile che abbia trovato così tanta gente disposta a servirlo.»

«Sono coscritti. Possiamo soltanto sperare che uomini strappati alle loro case non abbiano tanta smania di combattere. Se riusciamo a intimorirli, potrebbero disertare e fuggire. Noi siamo ben più numerosi che nel Farthen Dùr, perché re Orrin si è unito a noi, e abbiamo accolto un flusso costante di volontari da quando abbiamo cominciato a spargere le voci su di te, Eragon, ma restiamo sempre molto più deboli dell'Impero.»

Poi Saphira chiese, ed Eragon fu costretto a ripetere la terribile domanda: «Quante probabilità di vittoria abbiamo?» «Questo» rispose Nasuada dando particolare enfasi alla parola «dipende in larga misura da te e da Eragon, e dal numero di stregoni che ingrossano le loro fila. Se riuscirete a scovare e distruggere quei maghi, allora i nostri nemici resteranno sguarniti e potrete sterminarli. Una vittoria schiacciante, a questo punto, mi sembra improbabile, ma almeno dovremmo riuscire a tenerli a bada finché non esauriranno le scorte, o finché Islanzadi non accorrerà in nostro aiuto. Questo se... se Galbatorix non scenderà in campo lui stesso. In quel caso, temo che la ritirata sia la nostra unica possibilità.»

In quel preciso momento, Eragon percepì una strana mente avvicinarsi, una mente che sapeva di essere osservata ma non si ritrasse al contatto. Una mente fredda, dura e calcolatrice. Allarmato, si volse e vide in fondo al padiglione la ragazzina dai capelli neri che era comparsa alle spalle di Nasuada quando l'aveva divinata da Ellesméra. La bambina lo guardò con gli occhi violetti, poi disse: «Benvenuto, Ammazzaspettri. Benvenuta, Saphira.»

Eragon rabbrividì al suono della sua voce, una voce da adulta. Con la gola asciutta, chiese: «Chi sei?» Senza rispondere, la bambina si scostò la frangetta nera dalla fronte, per esporre il marchio bianco identico al gedwéy ignasia di Eragon. Fu così che Eragon capì con chi aveva a che fare.

Nessuno si mosse quando lui si avvicinò alla bambina, accompagnato da Saphira che protese ancora di più il collo nel padiglione. Posato un ginocchio a terra, Eragon prese la mano destra della fanciulla; la sua pelle scottava come se avesse la febbre. Lei non oppose resistenza, ma lasciò la mano inerte nella sua. Nell'antica lingua e anche con la mente, perché la bambina potesse capire - Eragon disse: «Sono profondamente addolorato. Potrai mai perdonarmi per ciò che ti ho fatto?»

Lo sguardo della bambina si addolcì. Si protese verso il Cavaliere e lo baciò sulla fronte. «Ti perdono» mormorò, e per la prima volta la sua voce fu quella di una bambina della sua età. «Come potrei non farlo? Tu e Saphira avete fatto di me ciò che sono, e so che non avevi cattive intenzioni. Ti perdono, ma che tu sappia a quale tortura mi hai condannata: la piena consapevolezza di ogni pur minima sofferenza intorno a me. Perfino in questo momento, il tuo incantesimo mi spinge a correre in aiuto dell'uomo che a meno di tre tende di distanza si è tagliato una mano, del giovane alfiere che si è rotto l'indice sinistro fra le stanghe di una ruota, e di tutti coloro che soffrono o stanno per soffrire. Non sai quanto mi costa resistere a questa urgenza, e ancora di più mi costa se provoco deliberatamente un dolore, come sto facendo ora con le mie parole... Non riesco nemmeno a dormire di notte per la forza di questa pressione. Questa è l'eredità che mi hai lasciato, Cavaliere.» Alla fine, la sua voce aveva riacquistato il suo tono amaro e innaturale.

Saphira si interpose fra di loro, e col muso toccò il marchio sulla fronte della bambina. Pace, piccola orfana. C'è troppa rabbia nel tuo cuore.

«Non sarai costretta a vivere così per sempre» disse Eragon. «Gli elfi mi hanno insegnato a disfare un incantesimo, e credo di poterti liberare da questa condanna. Non sarà facile, ma si può fare.»

Per un momento, parve che la bambina perdesse il suo formidabile autocontrollo. Una lieve esclamazione di sorpresa le sfuggì dalle labbra, la sua mano tremò fra quelle di Eragon, e i suoi occhi scintillarono dietro un velo di lacrime. Poi, altrettanto rapidamente, nascose le emozioni dietro una maschera 'di spavaldo cinismo. «Be', vedremo. A ogni buon conto, dovrai aspettare la fine di questa battaglia per provarci.»

«Potrei risparmiarti molte sofferenze già fin d'ora.»

«Non posso permetterti di sprecare le tue energie quando la nostra sopravvivenza dipende da te. Non mi faccio illusioni; so che sei molto più importante di me.» Un sorrisetto astuto le increspò le labbra. «Per giunta, se annulli adesso l'incantesimo, come farò ad aiutare i Varden se vengono minacciati? Non vorrai che Nasuada muoia per questo, vero?»

«Certo che no» ammise Eragon. Fece una lunga pausa per riflettere sul dilemma, poi disse: «D'accordo, aspetterò. Ma ti giuro: se vinceremo questa battaglia, riparerò al torto.»

La bambina inclinò la testa da un lato. «E io ti vincolo alla parola data, Cavaliere.»

Alzandosi dal suo scranno, Nasuada disse: «È stata Elva a salvarmi dal tentativo di omicidio ad Aberon.» «Davvero? In questo caso ti sono ancor più debitore... Elva... per aver protetto la mia signora.»

«Andiamo» li esortò Nasuada. «Devo presentarvi a Orrin e ai suoi nobili. Hai mai incontrato il re, Orik?» Il nano scosse il capo. «Non mi sono mai. spinto così a ovest.»

Nell'uscire dal padiglione, con Nasuada in testa ed Elva che le trotterellava al fianco, Eragon cercò di avvicinarsi ad Arya per poterle parlare, ma c'era quasi riuscito quando l'elfa accelerò il passo per affiancarsi a Nasuada. Arya non lo guardò mai mentre camminava, un disdegno che gli diede più dolore di qualunque ferita fisica. Elva gli rivolse un'occhiata fugace, e lui capì che si era accorta della sua sofferenza.

Ben presto giunsero davanti a un altro padiglione, bianco e giallo, anche se era difficile determinare l'esatta sfumatura dei colori, dato il bagliore arancione che illuminava ogni cosa nelle Pianure Ardenti. Quando fu concesso loro di entrare, Eragon rimase esterrefatto nel trovare la tenda stipata di ogni sorta di alambicchi, ampolle, storte e altri strumenti di filosofia naturale. Chi mai si sarà portato tutta questa roba su un campo di battaglia? si interrogò, perplesso.

«Eragon» disse Nasuada, «vorrei presentarti Orrin, figlio di Larkin e sovrano del regno del Surda.» Dall'intricata foresta di vetro emerse un uomo alto, di bell'aspetto, con i capelli lunghi fino alle spalle tenuti indietro da un cerchietto d'oro che gli cingeva la fronte. La sua mente, come quella di Nasuada, era protetta da barriere di ferro; ovviamente era stato addestrato con zelo a difendersi in quel modo. Eragon ricevette una buona impressione dal loro scambio di frasi, anche se Orrin gli parve un po' acerbo e inesperto quando si trattava di comandare uomini in guerra, e non poco stravagante circa i suoi interessi. Nel complesso, Eragon si fidava molto di più di Nasuada come condottiero. Dopo essersi districato fra le decine di domande che Orrin gli pose sul suo soggiorno fra gli elfi, Eragon si ritrovò a sorridere e ad annuire con garbo davanti a un'interminabile parata di nobili, ciascuno dei quali voleva stringergli la mano, dirgli che era un onore conoscere un Cavaliere, e invitarlo nella sua tenuta. Eragon mandò a memoria a dovere ogni nome e ogni titolo, come avrebbe voluto Oromis, e fece del suo meglio per mantenere un contegno distaccato, anche se dentro fremeva di frustrazione.

Stiamo per affrontare uno dei più grandi eserciti della storia, e stiamo qui a scambiarci convenevoli. Pazienza, lo ammonì Saphira. Ne mancano pochi ormai...

Considerala così: se vinciamo, potremo cenare gratis per un anno intero, con tutti questi inviti.

Eragon represse una risata. Credo che si rimangerebbero la parola, se sapessero quanto ci vuole per sfamarti. Per non parlare di come svuoteresti le loro cantine in una sola notte di bevute.

Non lo farei mai, sbuffò lei. Magari in due.

Quando finalmente presero congedo dal padiglione di Orrin, Eragon chiese a Nasuada: «Che cosa devo fare adesso? Come posso servirti?»

Nasuada lo guardò con una strana espressione. «Come pensi tu di potermi servire meglio, Eragon? Tu sai che cosa sei in grado di fare molto meglio di me.» Perfino Arya lo guardò in quel momento, in attesa di sentire la sua risposta. Eragon alzò gli occhi verso il cielo rosseggiante per riflettere. «Assumerò il controllo del Du Vrangr Gata, come una volta mi chiesero di fare, e li organizzerò per poterli guidare in battaglia. Se agiremo uniti, avremo migliori probabilità di sconfiggere gli stregoni di Galbatorix.»

«Mi sembra un'idea eccellente.»

C'è un posto, intervenne Saphira, dove Eragon può lasciare le bisacce? Non voglio portarle a passeggio più del necessario.

Quando Eragon ripetè la domanda, Nasuada disse: «Ma certo. Puoi deporle nel mio padiglione, e darò disposizioni perché montino una tenda per te, Eragon, dove potrai lasciarle per tutto il tempo che vorrai. Tuttavia ti suggerisco di indossare la tua armatura, prima. Potresti averne bisogno da un momento all'altro... Il che mi rammenta una cosa: abbiamo portato con noi la tua corazza, Saphira. Manderò a prenderla subito.»

«E io che cosa dovrei fare, ledy Nasuada?» chiese Orik.

«Con noi sono venuti diversi knurlan del Dùrgrimst Ingietum, della cui profonda esperienza ci siamo serviti per scavare trincee e innalzare terrapieni. Puoi assumere il loro comando, se lo desideri.»

Orik s'illuminò alla prospettiva d'incontrare altri nani, e per di più del suo stesso clan. Si battè il pugno sul petto e disse: «Lo desidero eccome, mia signora. Ora, se vuoi scusarmi, andrò subito da loro.» E senza indugiare un secondo di più, il nano si volse e si allontanò trotterellando per l'accampamento, puntando a nord, verso le fortificazioni. Tornata al suo padiglione con i quattro rimasti, Nasuada disse a Eragon: «Vieni a riferirmi quando avrai stabilito la strategia col Du Vrangr Gata.» Poi scostò il lembo di tenda dell'ingresso ed entrò nel padiglione, seguita come un'ombra da Elva.

Quando Arya fece per entrare, Eragon tese una mano verso di lei e nell'antica lingua le disse: «Aspetta!» L'elfa si fermò a guardarlo, senza tradire alcuna emozione. Lui sostenne il suo sguardo senza vacillare, fissandola negli occhi, che riflettevano la strana luce intorno a loro. «Arya, non mi scuserò per ciò che provo per te. Ma voglio che tu sappia che mi dispiace per come mi sono comportato durante l'Agaeti Blòdhren. Non ero me stesso quella notte; altrimenti non sarei mai stato così esplicito con te.»

«E non lo farai più?»

Lui le rivolse un sorriso amaro. «Se lo facessi, otterrei forse qualcosa?» Quando lei rimase in silenzio, aggiunse: «Non importa. Non voglio più importunarti, anche se tu...» Si morse le labbra, prima di dire qualcosa di cui sapeva si sarebbe pentito.

L'espressione di Arya si addolcì. «Non ho alcuna intenzione di ferirti, Eragon. Devi capirlo.»

«Capisco» disse lui, ma senza convinzione.

Un lungo, scomodo silenzio seguì fra di loro. «Il volo è andato bene?»

«Abbastanza bene, grazie.»

«Non avete incontrato nessuna difficoltà nel deserto?»

«Avremmo dovuto?»

«No. Volevo soltanto sapere.» Poi, in tono più gentile, Arya gli chiese: «E tu, Eragon? Come sei stato da dopo la celebrazione? Ho ascoltato quello che hai detto a Nasuada, ma non hai parlato che della tua schiena.» «Io...» Eragon cercò di mentire - non voleva che lei sapesse quanto gli era mancata - ma l'antica lingua gli trattenne le parole in gola e lo rese muto. Allora ricorse alla tecnica degli elfi: dire soltanto una parte della verità per dare l'impressione della verità opposta. «Sto meglio di prima» concluse, riferendosi, nella sua mente, soltanto alle condizioni della schiena.

Malgrado il sotterfugio, Arya non parve convinta. Tuttavia non insistette e disse invece: «Ne sono lieta.» La voce di Nasuada risuonò dall'interno del padiglione, e Arya scoccò una rapida occhiata alla tenda prima di parlargli ancora. «Si richiede la mia presenza altrove, Eragon... Anche tu devi andare. Ci aspetta una battaglia.» Sollevando i lembi di tela, l'elfa si accinse a entrare, ma si fermò sulla soglia e voltandosi aggiunse: «Abbi cura di te, Eragon Ammazzaspettri.» E scomparve nel padiglione.

Eragon rimase impietrito dallo sconforto. Aveva fatto quello che desiderava, ma sembrava che non fosse cambiato nulla fra lui e Arya. Strinse i pugni e incurvò le spalle, fissando truce il terreno senza vederlo, fremente di delusione. Trasalì quando Saphira gli sfiorò la spalla con il muso. Andiamo, piccolo mio, gli disse lei con dolcezza. Non puoi restare qui per sempre, e questa sella comincia a darmi fastidio.

Eragon cominciò a slegarle la cinghia del collo, imprecando fra i denti quando la fibbia s'incastrò. Sperò quasi che il cuoio si spezzasse. Dopo aver slegato tutte le altre cinghie, lasciò scivolare la sella e il resto per terra. Mi sento meglio senza quella roba addosso, disse Saphira soddisfatta, sciogliendosi le spalle.

Dalle bisacce, Eragon estrasse i vari elementi della sua armatura e li indossò. Per primo indossò l'usbergo sulla tunica elfica, poi si allacciò gli schinieri e i bracciali. In testa si mise la calotta di pelle imbottita, la cuffia di maglia di acciaio temprato, e infine l'elmo d'oro e d'argento. Infine sostituì i consueti guanti di pelle con quelli d'acciaio. Allacciò in vita la cintura di Beloth il Savio, da cui pendeva Zar'roc sul fianco sinistro. Infilò a tracolla la faretra di frecce dal candido impennaggio che gli aveva donato Islanzadi, e scoprì con piacere che poteva contenere anche l'arco che la regina elfica aveva cantato per lui.

Dopo aver depositato i bagagli suoi e di Orik nel padiglione, Eragon e Saphira andarono in cerca di Trianna, l'attuale guida del Du Vrangr Gata. Non avevano fatto che pochi passi quando Eragon percepì una mente vicina che si schermava dalla sua. Immaginando che si trattasse di uno dei maghi dei Varden, si diressero da quella parte. A una decina di iarde di distanza s'imbatterono in una piccola tenda verde, con un asino legato all'ingresso. A sinistra della tenda ribolliva un calderone di ferro annerito appeso a un tripode di metallo collocato su una delle nauseabonde fiamme che scaturivano dalla terra. Intorno al calderone erano tese corde da cui pendevano mazzetti di belladonna, cicuta, rododendro, sabina, corteccia di tasso, e svariati funghi, fra cui l'amanita falloide e l'ovolaccio, tutte piante che Eragon riconobbe grazie alle lezioni di Oromis sui veleni. Dietro il calderone, intenta a rimestare con un lungo ramaiolo di legno, c'era Angela l'erborista. Ai suoi piedi era acciambellato Solembum.

Il gatto mannaro emise un lugubre miagolio, e Angela alzò gli occhi dall'intruglio fumante, i riccioli neri che le incorniciavano il volto sudato come nuvole tempestose.

Aggrottò la fronte e la sua espressione divenne veramente spettrale, illuminata dal basso dalla tremolante fiamma verde. «E così siete tornati, eh?»

«Siamo tornati» disse Eragon.

«Non hai altro da dire? Hai già incontrato Elva? Hai visto cos'hai fatto a quella povera bambina?» «Sì.»

«Sì!» esclamò Angela. «Fin dove può arrivare l'incapacità di esprimersi di una persona? Tutto questo tempo passato a Ellesméra a farti addestrare dagli elfi, e "Sì" è il massimo che riesci a dire? Lascia che ti dica una cosa, zuccone: chiunque sia abbastanza stupido da fare quello che hai fatto merita di...»

Eragon si strinse le mani dietro la schiena, e aspettò paziente che Angela lo informasse, in termini quanto mai espliciti, dettagliati e coloriti, di che razza di zuccone fosse; che i suoi antenati dovevano essere dei trogloditi per aver generato il colossale zuccone che era - arrivò addirittura a insinuare che uno dei suoi nonni doveva essersi accoppiato con una Urgali; e delle punizioni mai abbastanza atroci che uno zuccone come lui si meritava per una tale idiozia. Se qualunque altra persona lo avesse insultato a quel modo, Eragon l'avrebbe sfidata a duello senza pensarci due volte, ma tollerò il fiume di bile che l'indovina gli vomitò addosso perché sapeva di non poter giudicare il suo comportamento secondo i normali criteri, e perché sapeva che la sua collera era più che giustificata: aveva commesso un terribile errore. Quando Angela s'interruppe per riprendere fiato, Eragon disse: «Hai ragione, e cercherò di annullare l'incantesimo quando la battaglia sarà decisa.»

Angela battè le palpebre tre volte, in rapida successione, mentre la sua bocca restò aperta per un secondo in un muto "Oh", prima di richiudersi di scatto. Con un'occhiataccia torva, gli chiese: «Non lo stai dicendo solo per rabbonirmi, vero?»

«Non lo farei mai.»

«E sul serio intendi annullare la tua maledizione? Credevo che incantesimi del genere fossero irrevocabili.» «Gli elfi hanno scoperto molti modi per usare la magia.»

«Ah... D'accordo, allora, la questione è risolta.» Gli concesse un ampio sorriso, poi lo superò per avvicinarsi a Saphira e accarezzarla sul muso. «È bello rivederti, Saphira. Sei cresciuta.»

Anch'io sono contenta, Angela.

Quando l'indovina tornò a mescolare la sua brodaglia, Eragon disse: «Che sermone impressionante, Angela.» «Ti ringrazio. Ci ho lavorato per diverse settimane. È un peccato che non sia arrivata al finale: è memorabile. Ti andrebbe di sentirlo?»

«No, grazie, mi è bastato così. Il resto me lo immagino.»

Guardandola di sottecchi, Eragon aggiunse: «Non sembri sorpresa di vedere quanto sono cambiato.» L'erborista si strinse nelle spalle. «Ho le mie fonti. È un miglioramento, a mio avviso. Prima eri... oh, come dire?... incompiuto.»

«Già.» Eragon indicò le piante. «A cosa ti servono?»

«Oh, una cosuccia che ho in mente... diciamo una specie di esperimento.»

«Mmm.» Esaminando le sfumature verdastre sul cappello rossiccio di un fungo, Eragon chiese: «Hai poi scoperto se i rospi esistono o no?»

«Ebbene, sì! A quanto pare, tutti i rospi sono rane, ma non tutte le rane sono rospi. Perciò in quel senso i rospi non esistono, il che significa che ho sempre avuto ragione.» Interruppe le sue farneticazioni, si chinò da un lato e prese una tazza dalla panca accanto a lei per offrirla a Eragon. «Gradisci una tazza di té?»

Eragon scoccò un'occhiata alle piante mortali appese a seccare intorno a loro, poi guardò di nuovo il volto cordiale di Angela. Sottovoce, per non farsi sentire dall'erborista, mormorò tre formule per individuare i veleni. Una volta sicuro che il té non era contaminato, osò bere un sorso. Era delizioso, anche se non riuscì a identificarne gli ingredienti. Intanto Solembum si era avvicinato a Saphira e inarcando la schiena aveva cominciato a strusciarsi contro la sua zampa, come avrebbe fatto un gatto qualsiasi. Spostando il collo, Saphira si chinò ad accarezzare il dorso del gatto mannaro col muso. A Ellesméra, disse lei, ho incontrato qualcuno che ti conosce.

Solembum smise di strusciarsi e inclinò la testa da un lato. Davvero?

Sì. Si chiamava Zampalesta oppure la Danzatrice dei Sogni, e anche Maud.

Solembum sgranò gli occhi dorati. Cominciò a fare le fusa, e riprese a strofinarsi contro Saphira con rinnovato entusiasmo.

«E così» disse Angela «immagino che tu abbia già parlato con Nasuada, Arya e re Orrin.» Eragon annuì. «E che ne pensi del buon vecchio Orrin?»

Eragon scelse le parole con cura, ben sapendo che stavano parlando di un re. «Be'... a quanto pare coltiva molti interessi.»

«Già, è più matto di un matto ubriaco alla vigilia della Notte di Mezza Estate. Ma d'altro canto, chi più chi meno, lo siamo un po' tutti.»

Divertito di fronte a tanta schiettezza, Eragon disse: «Effettivamente dev'essere matto per aver trasportato tutti quei vetri da Aberon fin qui.»

Angela inarcò un sopracciglio. «Che vuoi dire?»

«Non sei stata nella sua tenda?»

«A differenza di certa gente» dichiarò lei, tirando su col naso, «io non cerco di ingraziarmi ogni testa coronata che incontro.» E così Eragon le descrisse la moltitudine di delicati strumenti che Orrin si era portato sulle Pianure Ardenti. Angela smise di mescolare mentre lui parlava, ascoltando con interesse sempre maggiore. Nell'istante in cui lui finì, l'indovina cominciò ad affannarsi intorno al calderone, raccogliendo i mazzetti di piante e usando a volte delle pinze per farlo, e disse: «Credo sia opportuno che vada a fare una visitina a Orrin. Voi due mi racconterete del vostro viaggio a Ellesméra un'altra volta... Be', che aspettate? Vi saluto!»

Eragon scosse il capo mentre la donna minuta li incitava ad allontanarsi dalla tenda. Lui aveva ancora la tazza in mano. Parlare con lei è sempre...

Strano? suggerì Saphira.

Esatto.

Nubi di guerra

Dalla tenda di Angela impiegarono quasi mezz'ora per individuare quella di Trianna, che evidentemente fungeva da quartier generale del Du Vrangr Gata. Ebbero difficoltà a trovarla, perché poche persone sapevano della sua esistenza, e ancora meno sapevano dove fosse, visto che era nascosta dietro un affioramento di roccia che serviva da baluardo contro gli sguardi degli stregoni nemici al servizio di Galbatorix.

Mentre Eragon e Saphira si avvicinavano alla grande tenda nera, i lembi dell'ingresso si sollevarono di colpo, e Trianna uscì spedita, le braccia alzate, nude fino ai gomiti, pronta a usare la magia. Alle sue spalle veniva un gruppo di stregoni dall'aria risoluta, anche se lievemente spaventata; Eragon ne aveva già visti molti nel Farthen Dùr, impegnati a combattere o a curare i feriti.

Eragon guardò Trianna e gli altri reagire sorpresi davanti al suo aspetto alterato. Abbassando le braccia, Trianna disse: «Ammazzaspettri, Saphira. Avreste dovuto avvertirci prima che eravate qui. Ci stavamo preparando a combattere quello che pensavamo un nemico formidabile.»

«Non intendevo turbarvi» disse Eragon, «ma dovevamo prima presentarci da Nasuada e re Orrin.» «E perché adesso ci onori della tua graziosa presenza? Non ci hai mai degnato di una visita, noi che siamo i tuoi più stretti fratelli fra i Varden.»

«Sono venuto ad assumere il comando del Du Vrangr Gata.»

L'assemblea di stregoni fu percorsa da un mormorio di meraviglia al suo annuncio, e Trianna s'irrigidì. Eragon sentì che alcuni maghi cercavano di sondare la sua coscienza, nel tentativo di capire le sue reali intenzioni. Invece di difendersi un gesto che lo avrebbe reso cieco a eventuali attacchi - Eragon rispose trapassando le menti degli intrusi abbastanza da costringerli a ritirarsi dietro le loro barriere. Ebbe anche la soddisfazione di vedere due uomini e una donna fare una smorfia e abbassare lo sguardo.

«Per ordine di chi?» chiese Trianna.

«Per ordine di Nasuada.»

«Ah» disse la maga con un sorriso di trionfo, «ma Nasuada non ha alcuna autorità su di noi. Noi aiutiamo i Varden di nostra spontanea volontà.»

La sua resistenza sconcertò Eragon. «Sono sicuro che Nasuada sarebbe sorpresa nel sentirlo, dopo tutto quello che lei, e suo padre, hanno fatto per il Du Vrangr Gata. Potrebbe avere l'impressione che non desideriate più il sostegno e la protezione dei Varden.» Lasciò che la velata minaccia aleggiasse per qualche istante sul gruppo. «E poi mi pare di ricordare che proprio tu mi hai proposto questo incarico, una volta. Perché non adesso?»

Trianna inarcò un sopracciglio. «Tu hai rifiutato quella proposta, Ammazzaspettri... o l'hai dimenticato?» Malgrado l'espressione composta, Eragon notò dal tono della sua voce che la maga era sulla difensiva, sapendo di non poter sostenere oltre la propria posizione. Gli sembrava più matura di quando si erano incontrati l'ultima volta, ed Eragon si rese conto che aveva dovuto affrontare non poche traversie, dalla marcia fino al Surda all'organizzazione degli stregoni del Du Vrangr Gata ai preparativi per la guerra.

«All'epoca non potevo accettare. Era il momento sbagliato.»

Cambiando tattica all'improvviso, Trianna chiese: «Perché

Nasuada ritiene che dovresti comandarci? Suppongo che tu e Saphira sareste molto più utili altrove.» «Nasuada vuole che sia io a condurre il Du Vrangr Gata nella battaglia imminente, e così farò.» Eragon pensò che fosse meglio evitare di dire che era stata un'idea sua.

Un fosco cipiglio conferì a Trianna un aspetto feroce. Indicò il gruppo alle sue spalle. «Abbiamo dedicato la vita allo studio della nostra arte. Tu conosci la magia da meno di due anni. Che cosa ti rende più qualificato per questo incarico di uno qualsiasi di noi? Non importa. Dimmi, invece: qual è la tua strategia? Come pensi di utilizzarci?» «Il mio piano è semplice» rispose lui. «Unirete le vostre menti per cercare gli stregoni nemici. Nel momento in cui ne individuerete uno, aggiungerò la mia forza alla vostra, e insieme schiacceremo la resistenza del mago. Poi potremo sconfiggere il battaglione ormai privo di difese arcane.»

«E cosa farai il resto del tempo?» «Combatterò con Saphira.»

Dopo un lungo silenzio imbarazzato, uno degli stregoni alle spalle di Trianna disse: «È un buon piano.» L'uomo si fece piccolo piccolo sotto lo sguardo severo della maga.

Lentamente, Trianna si volse a guardare di nuovo Eragon. «Da quando sono morti i Gemelli, ho condotto io il Du Vrangr Gata. Sotto la mia guida, hanno fornito ai Varden i mezzi per sovvenzionare questa guerra, hanno scoperto la Mano Nera, la rete di spie di Galbatorix che ha tentato di assassinare Nasuada, per non parlare di innumerevoli altri servigi. Non è vanagloria se affermo che non sono state imprese facili. E sono certa di poter continuare a ottenere simili risultati... Perché, dunque, Nasuada vuole depormi? In che modo l'ho delusa?»

In quel momento, Eragon ebbe chiara la situazione. Si è abituata al potere e non vuole cederlo. Ma soprattutto, considera la sostituzione come una critica alla sua condotta.

Devi risolvere la questione, e alla svelta, disse Saphira. Ormai ci resta pochissimo tempo.

Eragon si arrovellò in cerca di un modo per ribadire la propria autorità sul Du Vrangr Gata senza alienarsi l'appoggio di Trianna. Infine disse: «Non sono venuto qui per creare problemi. Sono venuto a chiedere aiuto.» Si rivolse a all'intera congregazione, ma guardò dritto negli occhi Trianna. «Sono forte, sì. Saphira e io potremmo probabilmente sconfiggere tutti gli stregoni di Galbatorix. Ma non potremmo proteggere tutti i Varden. Non possiamo essere dappertutto. E se gli stregoni guerrieri di Galbatorix unissero i loro sforzi, anche noi avremmo difficoltà a sopravvivere... Non possiamo combattere questa guerra da soli. Tu hai ragione, Trianna... Hai guidato bene il Du Vrangr Gata, e non sono qui per usurpare il tuo posto. È solo che, in quanto mago, ho bisogno di lavorare col Du Vrangr Gata, e in quanto Cavaliere, ho bisogno di darvi ordini, ordini che devo essere sicuro saranno eseguiti senza obiezioni. È necessario definire una gerarchia di comando. Detto questo, continuerete a mantenere gran parte della vostra autonomia. Il più delle volte sarò troppo impegnato per dedicare la mia attenzione al Du Vrangr Gata. E intendo ricorrere ai vostri consigli, perché so bene che avete molta più esperienza di me... Perciò, vi chiedo ancora una volta: ci aiuterete, per il bene dei Varden?» Trianna esitò, poi chinò il capo. «Certo, Ammazzaspettri... per il bene dei Varden. Sarà un onore averti a capo del Du Vrangr Gata.»

«Cominciamo, allora.»

Nel corso delle ore che seguirono, Eragon parlò con ciascuno degli stregoni riuniti, anche se un discreto numero era assente, impegnato in un modo o nell'altro ad aiutare i Varden. Fece del suo meglio per rendersi conto delle loro capacità. Scoprì che la maggior parte degli uomini e delle donne del Du Vrangr Gata erano stati introdotti alle arti magiche da un parente, spesso in gran segreto per evitare di attirare l'attenzione di coloro che temevano la magia, e ovviamente di Galbatorix. Soltanto uno sparuto gruppetto aveva ricevuto un adeguato addestramento. Di conseguenza, la maggioranza degli stregoni conosceva assai poco dell'antica lingua - nessuno la sapeva parlare con disinvoltura - e le loro credenze in fatto di magia erano spesso distorte da superstizioni religiose; in più, ignoravano le numerose applicazioni della negromanzia.

Non c'è da sorprendersi se i Gemelli morivano dalla voglia di carpire il tuo vocabolario nell'antica lingua, quando ti misero alla prova nel Farthen Dùr, osservò Saphira. Grazie a quelle parole, avrebbero avuto gioco facile su questi fattucchieri da quattro soldi.

Sono tutto quello che abbiamo, però.

Vero. Spero che adesso tu ti renda conto che avevo ragione su Trianna. Antepone i suoi desideri al bene comune. Avevi ragione, ammise Eragon. Ma non mi sento di condannarla per questo. Trianna si destreggia nel mondo meglio che può, come facciamo tutti, del resto. La capisco, anche se non l'approvo, e la comprensione, come ha detto Oromis, genera simpatia.

Poco più di un terzo degli stregoni erano specializzati come guaritori. Eragon li congedò, dopo aver insegnato loro cinque nuovi incantesimi da usare per curare una vasta gamma di ferite e malattie. Con il resto, Eragon lavorò per definire una chiara catena di comando - nominò Trianna suo luogotenente affinchè si assicurasse che i suoi ordini venissero eseguiti - e per fondere le diverse personalità in una compatta unità da combattimento. Cercare di convincere dei maghi a collaborare, scoprì, era come cercare di convincere una muta di cani a condividere un osso. Né lo aiutò il timore reverenziale che sembrava suscitare in loro, perché non riusciva lo stesso a trovare il modo di usare la sua influenza per moderare le relazioni fra gli stregoni litigiosi.

Per farsi un'idea migliore delle loro capacità, Eragon ordinò loro di evocare una serie di incantesimi. Quando li vide sforzarsi con formule che ormai lui considerava semplici, si rese conto di quanto i suoi poteri fossero aumentati. A Saphira espresse il suo stupore. E pensare che un tempo avevo difficoltà a sollevare un ciottolo. E pensare, ribattè lei, che Galbatorix ha avuto oltre un secolo per affinare il suo talento.

Il sole era basso a occidente, e intensificava la malsana luce arancione finché l'accampamento dei Varden, il livido Jiet, e la vastità delle Pianure Ardenti non rosseggiò in quel folle, screziato fulgore come la scena del sogno di un pazzo. Il sole aveva appena lambito l'orizzonte quando arrivò un messaggèro. Disse a Eragon che Nasuada voleva vederlo subito. «E credo che sia meglio se ti affretti, Ammazzaspettri, se posso permettermi di dirlo.»

Dopo aver fatto promettere ai membri del Du Vrangr Gata che sarebbero stati pronti a intervenire quando lui li avesse chiamati in aiuto, Eragon corse insieme a Saphira attraverso le file di tende grigie verso il padiglione di Nasuada. Un rauco clamore sopra di loro fece alzare la testa a Eragon.

Vide un gigantesco stormo di uccelli che volteggiavano sui due eserciti. Individuò aquile, falchi e sparvieri, insieme ad avide cornacchie e ai loro più grossi, rapaci cugini dal becco acuminato e il dorso nero, i corvi. Gli uccelli stridevano in attesa del sangue per bagnarsi la gola e di carne calda per riempirsi la pancia e saziare la fame. Per esperienza e istinto, sapevano che ogni volta che compariva un esercito in Alagaésia, presto o tardi avrebbero banchettato con centinaia di carogne.

Le nubi di guerra si addensano, pensò Eragon.

Nar Garzhvog

Eragon non aveva fatto che un passo sulla soglia del padiglione, con Saphira che si affacciava dietro di lui, quando il suo ingresso fu accolto da una salva di scatti metallici, mentre Jòrmundur e un'altra mezza dozzina di comandanti sguainavano le spade davanti agli intrusi. Gli uomini si affrettarono ad abbassare le lame quando Nasuada disse: «Vieni avanti, Eragon.»

«Quali ordini?» chiese Eragon.

«I nostri osservatori ci hanno riferito di una compagnia di oltre cento Kull che avanza da nordest.» Eragon s'incupì. Non si era aspettato di incontrare Urgali in questa battaglia, dato che Durza non li controllava più e che molti erano rimasti uccisi nel Farthen Dùr. Ma se erano venuti, non c'era più tempo di chiedersi come era accaduto. Si sentì ribollire il sangue e si concesse un ghigno feroce al pensiero di distruggere gli Urgali con i suoi nuovi poteri. Battendo una mano su Zar'roc, proclamò: «Sarà un piacere sterminarli. Saphira e io possiamo occuparcene da soli, se lo desideri.»

Nasuada scrutò con attenzione il suo volto e disse: «Non possiamo farlo, Eragon. Portano una bandiera bianca e hanno chiesto di parlare con me.»

Eragon la fissò sbalordito. «Non intenderai concedere loro udienza?»

«Gli riserverò la stessa cortesia che offrirei a qualsiasi nemico che sventola la bandiera della tregua.» «Ma sono dei barbari! Dei mostri! È una follia farli entrare nell'accampamento... Nasuada, ho visto le atrocità che commettono gli Urgali. Adorano il sangue e le sofferenze, e non meritano più pietà di un cane rabbioso. Non occorre che tu perda tempo per quella che è sicuramente una trappola. Di' solo una parola, e andrò più che volentieri a uccidere quelle brutali creature per te.»

«Devo ammettere» disse Jòrmundur «che in questo concordo con Eragon. Se non vuoi ascoltare noi, Nasuada, almeno dai retta a lui.»

Nasuada abbassò la voce perché soltanto Eragon udisse. «Il tuo addestramento è davvero incompiuto se sei ancora così cieco.» Poi alzò il tono, e in esso Eragon percepì le stesse adamantine note di comando che possedeva suo padre. «Voi tutti dimenticate che anch'io ho combattuto nel Farthen Dùr, e ho assistito alle atrocità degli Urgali... Tuttavia ho visto i nostri uomini commettere gesti altrettanto spregevoli. Non è mia intenzione sminuire le sofferenze che abbiamo patito per mano degli Urgali, ma nemmeno ignorare potenziali alleati quando l'Impero è in superiorità numerica così schiacciante.»

«Mia signora, è troppo pericoloso incontrarti con un Kull.»

«Troppo pericoloso?» Nasuada inarcò un sopracciglio. «Mentre sono protetta da Eragon, Saphira, Elva e tutti i miei guerrieri? Non credo.»

Eragon digrignò i denti per la frustrazione. Di' qualcosa, Saphira. Tu puoi convincerla a desistere da questo folle progetto.

No, non lo farò. La tua mente è annebbiata in questo momento.

Sei d'accordo con lei! esclamò Eragon, sgomento. Tu eri a Yazuac con me; hai visto che cos'hanno fatto gli Urgali agli abitanti del villaggio. E che mi dici di Teirm, della mia cattura a Gil'ead, e del Farthen Dùr? Ogni volta che abbiamo incontrato Urgali, hanno cercato di ucciderci, o peggio. Non sono altro che bestie spietate.

Gli elfì pensavano la stessa cosa dei draghi, durante la Du Fyrn Skulblàka.

A un cenno di Nasuada, le guardie sollevarono e legarono i lembi di stoffa dell'ingresso e dei lati del padiglione, affinchè tutti potessero vedere, e Saphira si accovacciò accanto a Eragon. Poi Nasuada si sedette sull'alto scranno, mentre Jòrmundur e gli altri comandanti si disponevano in due file parallele, in modo che chiunque volesse parlare con lei dovesse camminare fra di loro. Eragon rimase in piedi alla sua destra, Elva a sinistra.

Meno di cinque minuti dopo, un enorme ruggito di rabbia proruppe dal confine orientale dell'accampamento. La tempesta di grida e insulti si fece sempre più assordante finché non comparve un Kull solitario, che avanzava verso Nasuada, mentre una folla di Varden si divertiva a stuzzicarlo. L'Urgali - o ariete, come Eragon ricordò che venivano chiamati - teneva la testa alta e mostrava le zanne gialle, ma per il resto non reagì in alcun modo agli abusi perpetrati. Era un esemplare magnifico, alto più di otto piedi, con lineamenti forti, orgogliosi, quantunque grotteschi, un paio di enormi corna ritorte e una muscolatura possente che gli dava l'aria di chi avrebbe potuto abbattere un orso con un pugno. Indossava soltanto un cencio annodato sui lombi, alcune placche di ferro grezzo tenute insieme da brandelli di maglia, e un disco di metallo concavo fra le corna per proteggersi la testa. Sulla schiena ondeggiava una lunga, folta coda di capelli neri.

Eragon si sentì contrarre le labbra in una smorfia di puro odio; frenò a stento l'impulso di estrarre Zar'roc per attaccare. Eppure, malgrado tutto, non poteva fare a meno di ammirare il coraggio dell'Urgali nell'affrontare, solo e disarmato, un intero esercito nemico. Con sua sorpresa, trovò la mente del Kull protetta da tenaci barriere.

Quando l'Urgali si fermò davanti all'ingresso del padiglione, esitante, Nasuada ordinò alle sue guardie di intimare il silenzio alla folla. Tutti guardavano l'Urgali, chiedendosi che cosa avrebbe fatto.

L'Urgali alzò le braccia muscolose verso il cielo, trasse un potente respiro, poi spalancò la bocca ed emise un grido belluino contro Nasuada. In un lampo, il Kull si ritrovò circondato da una foresta di spade, ma non vi badò, continuando a ululare fino a svuotarsi i polmoni. Poi guardò Nasuada, ignorando le centinaia di persone che, era ovvio, non vedevano l'ora di ucciderlo, e ringhiò nel suo accento rozzo e gutturale: «Che trappola è mai questa, ledy Furianera? Mi è stato promesso un passaggio sicuro. Gli umani non rispettano forse la parola data?» Fatto un passo avanti, uno dei comandanti di Nasuada disse: «Permettici di punirlo, signora, per la sua insolenza. Una volta che gli avremo insegnato il significato del rispetto, allora potrai ascoltare il suo messaggio, qualunque esso sia.»

Eragon avrebbe voluto restare in silenzio, ma conosceva i suoi obblighi nei confronti di Nasuada e dei Varden, così si chinò su di lei e le mormorò all'orecchio: «Non era un'offesa. Quello è il loro modo di salutare i comandanti. La risposta adeguata sarebbe far cozzare le teste, ma dubito che tu voglia provarci.»

«Sono stati gli elfi a insegnartelo?» mormorò lei, senza staccare gli occhi dal Kull.

«Sì.»

«E cos'altro ti hanno insegnato sugli Urgali?»

«Molte cose» ammise lui, a malincuore.

Nasuada si rivolse al Kull, come a tutti i presenti. «I Varden non sono menzogneri come Galbatorix e l'Impero. Parla liberamente; non devi temere alcun pericolo finché siamo riuniti in consiglio sotto il vessillo della tregua.» L'Urgali grugnì e levò il mento sporgente, esponendo la gola; Eragon riconobbe il gesto d'amicizia. Abbassare la testa, per la loro razza, equivaleva a una minaccia, perché significava che un Urgali intendeva caricare con le corna. «Io sono Nar Garzhvog, della tribù dei Bolvek. Parlo a nome del mio popolo.» Sembrava che masticasse ogni parola prima di sputarla. «Gli Urgali sono odiati più di qualsiasi altra razza. Elfi, nani, umani, tutti ci danno la caccia, bruciano le nostre tane e ci cacciano dalla nostra terra.»

«Non senza buone ragioni» puntualizzò Nasuada.

Garzhvog annuì. «Non senza buone ragioni. Il nostro popolo ama la guerra. Eppure quanto spesso veniamo attaccati solo perché ci trovate ripugnanti, nella stessa misura in cui voi fate ribrezzo a noi? Dalla caduta dei Cavalieri la nostra razza ha prosperato. Le nostre tribù adesso sono così numerose che l'arida terra su cui viviamo non ci basta più.» «E così avete stretto un patto con Galbatorix.»

«Sì, ledy Furianera. Ci ha promesso della buona terra se uccidevamo i suoi nemici. Ma ci ha ingannati. Il suo sciamano dai capelli di fuoco, Durza, ha piegato le menti dei nostri comandanti e ha costretto le nostre tribù a collaborare, come non è nostra usanza. Quando lo abbiamo capìto, nella montagna cava dei nani, le Herndall, le madri che ci governano, hanno deciso di inviare la mia compagna presso Galbatorix a chiedere perché ci aveva usati così.» Garzhvog scosse la poderosa testa. «Non è mai tornata. I nostri arieti migliori sono morti per Galbatorix, e lui ci ha abbandonati come una lama spezzata. È un drajl, un infame traditore senza corna. ledy Furianera, siamo rimasti in pochi, ma combatteremo con voi, se lo vorrai.»

«A quale prezzo?» chiese Nasuada. «Le tue Herndall devono volere qualcosa in cambio.»

«Sangue. Il sangue di Galbatorix. E se l'Impero cade, chiediamo di darci delle terre, terre per vivere e crescere, terre per evitare altre guerre in futuro.»

Eragon intuì la decisione di Nasuada dalla sua espressione ancor prima che parlasse. E lo stesso dovette capire Jòrmundur, perché si sporse verso di lei e mormorò: «Nasuada, non puoi farlo. È contro natura.» «La natura non può aiutarci a sconfiggere l'Impero. Abbiamo bisogno di alleati.»

«Gli uomini diserteranno piuttosto di combattere fianco a fianco con gli Urgali.»

«Questo ostacolo si può aggirare. Eragon, gli Urgali terranno fede al patto?»

«Soltanto finché avremo un nemico comune.»

Con un brusco cenno del capo, Nasuada alzò di nuovo la voce: «D'accordo, Nar Garzhvog. Tu e i tuoi guerrieri potete accamparvi lungo il fianco orientale del nostro esercito, lontani dal corpo principale, e in seguito discuteremo i termini dell'accordo.»

«Ahgrat ukmar» ringhiò il Kull, battendosi i pugni sulla

fronte. «Sei una saggia Herndall, ledy Furianera.»

«Perché mi chiami così?»

«Herndall?»

«No, Furianera.»

Garzhvog emise un rauco gorgoglio che Eragon interpretò come una risata. «Furianera è il nome che abbiamo dato a tuo padre per come ci inseguiva negli oscuri tunnel della montagna cava e per il colore della sua pelle. Tu, che sei sua figlia, meriti lo stesso nome.» Con queste parole, il Kull si volse e si allontanò a grandi passi dal padiglione. Alzandosi, Nasuada proclamò: «Chiunque attacchi un Urgali verrà punito come se avesse attaccato un compagno umano. Che il mio ordine venga diffuso in ogni compagnia.»

Aveva appena finito di parlare, quando Eragon notò re Orrin arrivare trafelato, il lungo mantello che gli svolazzava sui polpacci. Quando fu abbastanza vicino, gridò: «Nasuada! È vero che ti sei incontrata con un Urgali? Che cosa intendevi fare, e perché non sono stato avvertito prima? Io non...»

Il re fu interrotto da una sentinella che emerse dalla moltitudine di tende grigie, gridando: «Un uomo a cavallo, mandato dall'Impero!»

Re Orrin interruppe subito la sua protesta per seguire Nasuada che correva verso l'avanguardia dell'esercito, seguita da almeno un centinaio di soldati. Piuttosto che rimanere bloccato dalla folla, Eragon montò in groppa a Saphira e si fece portare da lei a destinazione.

Quando Saphira si fermò vicino al terrapieno, le trincee e le file di pali acuminati che proteggevano la prima linea dei Varden, Eragon vide un soldato solitario avanzare al galoppo sfrenato lungo la terra di nessuno. I rapaci si abbassarono in volo per vedere se era arrivato l'antipasto del banchetto imminente.

Il soldato tirò le redini del suo nero stallone a trenta iarde dalle fortificazioni, fermandosi a una ragionevole distanza di sicurezza dai Varden, e gridò: «Rifiutando la generosa offerta di resa di re Galbatorix, avete scelto di morire. Non ci sarà più alcun negoziato. La mano tesa in segno di amicizia si è trasformata in un pugno di ferro! Se qualcuno di voi rispetta ancora il nostro legittimo sovrano, l'onnipotente, l'onnisciente re Galbatorix, che fugga! Nessuno sopravviverà quando l'esercito imperiale provvedere a far piazza pulita in Alagaésia di ogni miscredente, traditore e sovversivo. E per quanto questo addolori il nostro sovrano, perché sa che la maggior parte di questi atti di ribellione sono stati istigati da capi invidiosi e dissidenti, puniremo com'è giusto il riottoso territorio noto come Surda per restituirlo alla benevola guida di re Galbatorix, lui, che si sacrifica giorno e notte per il bene del suo popolo. Perciò fuggite, vi dico, o subirete il destino del vostro araldo.»

Il soldato slegò i cordoni di una sacca di tela che teneva appesa al fianco ed estrasse una testa mozzata. La scagliò in aria e la guardò cadere fra i Varden; poi fece voltare lo stallone, gli piantò gli speroni nei fianchi e tornò al galoppo verso la massa scura dell'esercito di Galbatorix.

«Devo ucciderlo?» chiese Eragon.

Nasuada scosse il capo. «Avremo presto la nostra vendetta. Non violerò la sacralità dei messaggèri, come ha fatto l'Impero.»

«Come...» Eragon trasalì di sorpresa e si afferrò al collo di Saphira per non cadere di sella, quando la dragonessa si impennò, piantando le zampe davanti sulla terra livida e compatta del bastione. Spalancando le fauci, Saphira lanciò un lungo, profondo ruggito, come aveva fatto Garzhvog: ma questo era una sfida aperta ai suoi nemici, un avvertimento dell'ira che avevano suscitato e un appello per tutti coloro che odiavano Galbatorix.

Il suono della sua voce tonante spaventò tanto lo stallone da farlo scartare. Il cavallo scivolò sul terreno bollente e cadde. Il soldato fu sbalzato di sella e piombò su una vampa di fuoco verde che eruttò proprio in quel momento. Lanciò un solo grido, così orribile che fece arricciare il cuoio capelluto di Eragon. Poi calò un silenzio di morte. Gli uccelli cominciarono a scendere.

I Varden acclamarono Saphira. Perfino Nasuada si concesse un breve sorriso. Poi battè le mani e disse: «Attaccheranno all'alba, presumo. Eragon, riunisci il Du Vrangr Gata e preparati all'azione. Ti farò avere ordini entro un'ora.» Cingendo le spalle di re Orrin, Nasuada lo ricondusse gentilmente verso il centro dell'accampamento. «Sire, bisogna prendere delle decisioni. Ho in mente un certo piano, ma occorre...»

Che vengano, disse Saphira. La punta della sua coda fremeva come quella di un gatto appostato davanti alla tana di un topo. Bruceranno tutti.

Pozione di strega

La notte era calata sulle Pianure Ardenti. La cappa di fumo opaco oscurava la luna e le stelle, sprofondando la terra in una fitta tenebra, interrotta soltanto dagli improvvisi bagliori dei fuochi di torba e dalle migliaia di torce accese nei due schieramenti opposti. Dalla postazione avanzata di Eragon, l'esercito imperiale sembrava un denso tappeto di braci rosseggianti, vasto quanto una città.

Quando ebbe finito di allacciare l'ultimo elemento della corazza di Saphira sulla sua coda, Eragon chiuse gli occhi per concentrarsi sul contatto mentale con gli stregoni del Du Vrangr Gata. Aveva imparato a localizzarli in un istante; la sua vita dipendeva dalla rapidità e dalla precisione con cui riusciva a comunicare con loro. A loro volta, gli stregoni avevano imparato a riconoscere il contatto della sua mente per non bloccarlo quando li chiamava in aiuto. Eragon sorrise e disse: «Ciao, Orik.» Aprì gli occhi e vide il nano arrampicarsi sul basso poggio roccioso su cui erano appostati lui e Saphira. Orik, in perfetta tenuta da combattimento, impugnava il suo arco di corna di Urgali nella mano sinistra.

Accovacciandosi al suo fianco, Orik si asciugò la fronte e scosse la testa. «Come sapevi che ero io? La mia mente era protetta.»

Ogni coscienza proietta una sensazione diversa, spiegò Saphira. Così come due voci non hanno mai lo stesso timbro. «Ah.»

Eragon chiese: «Come mai qui?»

Orik si strinse nelle spalle. «Ho pensato che forse ti andava un po' di compagnia in questa triste notte. Arya è impegnata altrove, e non hai più Murtagh a combattere al tuo fianco.»

Quanto vorrei che ci fosse, pensò Eragon. Murtagh era stato l'unico umano in grado di eguagliare Eragon con la spada, almeno fino all'Agaeti Blòdhren. Duellare con lui era stato uno dei pochi piaceri che Eragon avesse assaporato nel periodo che avevano passato insieme. Mi piacerebbe misurarmi ancora con te, amico mio.

Ripensando a come Murtagh era rimasto ucciso - trascinato nel sottosuolo del Farthen Dùr dagli Urgali - Eragon si trovò ad affrontare una desolante verità: anche se eri un guerriero valoroso, era soltanto il caso che dettava chi doveva vivere o morire in guerra.

Orik dovette avvertire il suo stato d'animo, perché battè

il palmo sulla spalla di Eragon e disse: «Andrà tutto bene. Pensa a come si devono sentire quei soldati là fuori, sapendo che ben presto dovranno affrontare te!»

La gratitudine strappò un sorriso a Eragon. «Sono contento che tu sia venuto.»

La punta del naso di Orik arrossì, e il nano abbassò lo sguardo, rigirandosi l'arco fra le mani nodose. «Ah, be'» borbottò, «Rothgar non mi perdonerebbe mai se permettessi che ti accadesse qualcosa. E poi siamo fratelli adottivi, no?»

Attraverso Eragon, Saphira chiese: E gli altri nani? Non sono ai tuoi comandi?

Uno scintillio illuminò gli occhi di Orik. «Oh, sì, e ci raggiungeranno presto. In quanto membri del Dùrgrimst Ingietum, è nostro sacrosanto dovere combattere insieme l'Impero. Così voi due non sarete troppo vulnerabili; potrete concentrarvi a scoprire gli stregoni di Galbatorix, invece di difendervi da costanti attacchi.»

«Buona idea. Ti ringrazio.» Orik borbottò un assenso. Poi Eragon chiese: «Cosa ne pensi di Nasuada e degli Urgali?» «Ha fatto la scelta giusta.»

«Sei d'accordo con lei!»

«Sì. Non mi piace come non piace a te, ma sono d'accordo.»

Seguì un lungo silenzio. Eragon sedeva appoggiato al fianco di Saphira e guardava l'Impero, sforzandosi di tenere a bada l'apprensione crescente. I minuti passavano lenti e inesorabili. L'attesa della battaglia per lui era snervante quanto la battaglia stessa. Ingrassò la sella di Saphira, lucido il proprio usbergo e riprese a familiarizzare con le menti del Ehi Vrangr Gata, facendo di tutto pur di passare il tempo.

Un'ora dopo, percepì due esseri che si avvicinavano dalla terra di nessuno. Angela? Solembum? Perplesso e allarmato, svegliò Orik, che si era appisolato, e gli disse che cosa aveva scoperto.

Il nano aggrottò la fronte ed estrasse l'ascia di guerra dalla cintura. «Ho incontrato l'erborista soltanto un paio di volte, ma non mi sembra il tipo da tradirci. Frequenta i Varden da decenni ormai.»

«Dobbiamo comunque scoprire che cosa stava facendo» disse Eragon.

Insieme si inoltrarono nell'accampamento per intercettare la coppia che si avvicinava alle fortificazioni. Ben presto Angela arrivò nella luce, con Solembum che le trotterellava dietro. L'indovina era coperta da un lungo, scuro mantello che le consentiva di confondersi nell'ambiente circostante. Mostrando una sorprendente forza e agilità, superò le fortificazioni di diversa natura che i nani avevano eretto, volteggiando di palo in palo e saltando oltre le trincee, e infine corse giù per la scarpata dell'ultimo bastione per fermarsi, ansante, davanti a Saphira.

Gettando indietro il cappuccio, Angela rivolse ai tre un sorriso radioso. «Un comitato d'accoglienza! Gentile da parte vostra.» Mentre parlava, il corpo del gatto mannaro fu percorso da un brivido che gli increspò il pelo. Poi i suoi contorni tremolarono, come visti attraverso l'acqua, e si trasformarono nella nuda figura del giovanetto dai capelli irti. Angela frugò nella propria borsa e gli passò una tunica da ragazzo e un paio di calzoni, insieme al piccolo pugnale nero con cui combatteva.

«Che ci facevate là fuori?» chiese Orik, squadrandoli con sospetto.

«Oh, un giretto.»

«Faresti meglio a dirci la verità» disse Eragon.

Il volto dell'indovina si adombrò. «Ah, sì? Non ti fidi di me e di Solembum?» Il gatto mannaro snudò i denti aguzzi. «Non proprio» ammise Eragon, con un debole sorriso.

«Bravo» disse Angela, e gli posò una mano sulla guancia.

«Così vivrai più a lungo. Se proprio vuoi saperlo, stavo facendo del mio meglio per sconfiggere l'Impero, solo che i miei metodi non prevedono di andare in giro urlando a squarciagola e mulinando una spada.»

«E quali sarebbero i tuoi metodi?» brontolò Orik.

Lì per lì Angela non rispose, ma si tolse il mantello, lo arrotolò e infilò il fagotto nella borsa. «Preferirei non dirlo; voglio che sia ima sorpresa. Non dovrete aspettare molto per scoprirlo. Comincerà fra poche ore.»

Orik si tirò la barba. «Cosa comincerà? Se non ci dai subito una risposta precisa, ti porteremo da Nasuada. Forse lei riuscirà a ridurti alla ragione.»

«È inutile portarmi da Nasuada» ribattè Angela. «È stata lei a darmi il permesso di attraversare le linee.» «Lo dici tu» la sfidò Orik, sempre più bellicoso.

«Lo dico io» dichiarò Nasuada, sopraggiungendo alle loro spalle, come Eragon aveva già percepito. Sentì anche che era scortata da quattro Kull, fra cui Garzhvog. Scuro in volto, si voltò ad affrontarli, senza celare la rabbia che provava davanti agli Urgali.

«Mia signora» mormorò Eragon.

Orik non fu altrettanto composto; fece un balzo all'indietro lanciando una potente imprecazione e brandendo l'ascia. Quando si rese conto che non erano stati attaccati, salutò Nasuada con rispetto. Ma la sua mano non abbandonò mai il manico dell'arma e il suo sguardo non si staccò dai torreggianti Urgali. Angela sembrava non condividere i loro pregiudizi. Tributò a Nasuada il rispetto dovuto, poi si rivolse agli Urgali nel loro rauco linguaggio, e i quattro risposero con evidente entusiasmo.

Nasuada trasse Eragon in disparte per poter parlare da solo. Poi disse: «Voglio che per il momento tu metta da parte i tuoi sentimenti e giudichi quanto sto per dirti con logica e raziocinio. Lo farai?» Lui annuì, impassibile. «Bene. Sto facendo di tutto per scongiurare una sconfitta domani. Ma non servirà a niente combattere con valore, o persino mandare in rotta l'Impero, se tu» e gli piantò l'indice sul petto «resti ucciso. Capisci?» Lui annuì di nuovo. «Non c'è niente che io possa fare se Galbatorix scenderà in campo; in quel caso, dovrai affrontarlo da solo. Per lui, il Du Vrangr Gata non rappresenta una minaccia più di quanto non lo sia per te, e non li manderò allo sbaraglio senza una buona ragione.»

«Ho sempre saputo» disse Eragon «che avrei dovuto affrontare Galbatorix da solo, insieme a Saphira.» Un triste sorriso affiorò sulle labbra di Nasuada. Sembrava molto stanca nella tremula luce delle fiaccole. «Be', non c'è motivo di crearsi problemi che non esistono. È possibile che Galbatorix nemmeno ci sia.» Ma lei stessa sembrava poco convinta delle proprie parole. «Comunque, posso almeno impedirti di morire con una spada infilata nel ventre. Ho sentito che cosa intendono fare i nani, e ho pensato di sfruttare l'idea. Ho chiesto a Garzhvog e a tre dei suoi arieti di farti da guardie del corpo, purché acconsentissero, come hanno fatto, a lasciarsi esaminare la mente da te.» Eragon s'irrigidì. «Non puoi aspettarti che combatta con quei mostri. Oltretutto ho già accettato l'offerta di protezione dei nani per me e Saphira. La prenderebbero male se li allontanassi in favore degli Urgali.»

«Possono entrambi vegliare su di te» ribatte Nasuada. Il capo dei Varden guardò a lungo il volto di Eragon, in cerca di quello che non poteva dire. «Oh, Eragon. Speravo che riuscissi a guardare oltre il tuo odio. Che cos'altro faresti nei miei panni?» Sospirò quando lui rimase in silenzio. «Se c'è qualcuno che ha tutto il diritto di covare rancore per gli Urgali, quella sono io. Hanno ucciso mio padre. Eppure non posso permettere che questo interferisca sulle decisioni da prendere per il bene dei Varden... Almeno chiedi l'opinione di Saphira, prima di rispondere sì o no. Potrei ordinarti di accettare la protezione degli Urgali, ma preferirei di no.»

Ti stai comportando da sciocco, disse Saphira senza essere interpellata.

Sciocco a non volere che i Kull mi guardino la schiena?

No, sciocco a rifiutare un aiuto, da qualunque parte provenga, nella nostra attuale situazione. Rifletti. Sai che cosa farebbe Oromis al posto tuo, e sai che cosa direbbe. Non ti fidi del suo giudizio?

Non può avere sempre ragione su tutto, protestò Eragon.

Questa non è una scusa... Cerca dentro di te, Eragon, e dimmi se dico il vero. Tu conosci la via giusta. Mi deluderesti, se ti ostinassi a non seguirla.

Le argomentazioni di Saphira e Nasuada non fecero che accrescere la sua riluttanza. Eppure sapeva di non avere scelta. «D'accordo, accetto di farmi proteggere dagli Urgali, a patto di non trovare niente di sospetto nelle loro menti. Ma mi prometti di non farmi mai più vedere un Urgali, dopo questa battaglia?»

Nasuada scosse il capo. «No, non posso farlo, non quando è in gioco il bene dei Varden.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Oh, Eragon?»

«Sì, mia signora?»

«In caso di morte, ho scelto te come mio successore. In tale eventualità, ti suggerisco di affidarti al parere di Jòrmundur, che ha molta più esperienza di ogni altro membro del Consiglio degli Anziani, e mi aspetto che anteporrai a ogni altra cosa il benessere di coloro che sono sottoposti a te. Sono stata chiara, Eragon?»

L'annuncio lo colse di sorpresa. Niente era più importante per lei dei Varden. Affidarli a lui era il più grande atto di stima che potesse esprimergli. La sua fiducia lo umiliò e lo commosse; chinò il capo. «Farò di tutto per essere un buon capo come te e Ajihad. Tu mi onori, Nasuada.»

«Sì, ti onoro.» Voltandogli le spalle, si riunì agli altri.

Il turbamento provocato dalla rivelazione di Nasuada mitigò la sua rabbia. Tornò lentamente da Saphira. Studiò Garzhvog e gli altri Urgali, cercando di intuire il loro umore, ma i loro lineamenti erano così diversi da quelli a cui era abituato che non poteva distinguere se non le emozioni più evidenti. Né trovò comprensione dentro di sé per gli Urgali. Ai suoi occhi, non erano che bestie feroci che lo avrebbero ucciso senza pensarci due volte, incapaci di amore, gentilezza, o perfino vera intelligenza. In poche parole, erano creature inferiori.

Nel profondo della sua mente, Saphira mormorò: Sono sicura che Galbatorix la pensa allo stesso modo. E per buone ragioni, ringhiò lui, con l'intenzione di impressionarla. Soffocando la sua ripugnanza, disse ad alta voce: «Nar Garzhvog, mi è stato detto che voi quattro avete acconsentito a farmi entrare nelle vostre menti.» «È così, Spadarossa. ledy Furianera ci ha detto che era necessario. Siamo onorati di avere l'occasione di combattere con un guerriero così potente, che tanto ha fatto per noi.»

«Che cosa significa? Ho ucciso decine di Urgali.» All'improvviso, gli sovvennero alcuni brani tratti da una delle pergamene di Oromis. Ricordò di aver letto che gli Urgali, sia maschi che femmine, stabilivano la gerarchia sociale per mezzo di scontri diretti fra due contendenti, ed era stata questa usanza a scatenare tanti conflitti fra gli Urgali e le altre razze. Il che significava - si rese conto Eragon - che se ammiravano le sue gesta in battaglia gli avrebbero accordato lo stesso status di uno dei loro condottieri.

«Uccidendo Durza, ci hai liberati dalla sua influenza. Siamo in debito con te, Spadarossa. Nessuno dei nostri arieti ti sfiderà mai, e se tu e il tuo drago, Lingua di Fuoco, visiterete le nostre dimore, sarete i benvenuti come non è mai accaduto ad alcun estraneo.»

Di tutte le reazioni che Eragon si era aspettato, la gratitudine era la più improbabile, e quella che era meno preparato ad accettare. Incapace di pensare a qualcosa, disse soltanto: «Non lo dimenticherò.» Fece scorrere lo sguardo sugli altri Urgali, poi tornò a fissare gli occhi gialli di Garzhvog. «Siete pronti?»

«Sì, Cavaliere.»

Non appena Eragon entrò in contatto con la coscienza di Garzhvog, gli venne in mente come si era sentito quando i Gemelli lo avevano frugato prima che entrasse nel Farthen Dùr. La memoria si dissolse mentre s'immergeva nell'identità dell'Urgali. La vera natura della sua ricerca significava che Eragon doveva esaminare deliberatamente dolore, ma non fu nemmeno troppo delicato. Sentì Garzhvog fremere per occasionali fitte di disagio. Come quella dei nani e degli elfi, la mente di un Urgali possedeva elementi diversi rispetto a una mente umana. La sua struttura enfatizzava la rigidità e la gerarchia - un risultato del modo in cui le tribù stesse si organizzavano - ma aveva una qualità rozza e dura, brutale e astuta: la mente di un animale.

Anche se non fece alcuno sforzo per saperne di più su Garzohvog come individuo, Eragon non potè fare a meno di assorbire frammenti della sua vita. Garzhvog non oppose resistenza. Al contrario, sembrava più che desideroso di condividere le sue esperienze, per convincere Eragon che gli Urgali non erano i suoi nemici naturali. Non possiamo permetterci che un altro Cavaliere insorga per distruggerci, dichiarò Garzhvog. Guarda bene, Spadarossa, e vedi se siamo davvero i mostri che tu dici...

Fra di loro guizzarono così tanti lampi di immagini e sensazioni che Eragon si sentì smarrito: l'infanzia di Garzhvog con gli altri membri della cucciolata, in un villaggio di catapecchie annidato nel cuore della Grande Dorsale; la madre che gli pettinava i capelli con le corna di un cervo cantandogli una dolce nenia; le corse nei boschi per imparare a cacciare cervi e altre prede a mani nude; il suo corpo che cresceva sempre di più e il buon sangue che non mentiva, promettendo di fargli superare gli otto piedi di altezza, facendo di lui un Kull; le decine di sfide che aveva lanciato, accettato e vinto; le incursioni al di fuori del villaggio per acquistare fama e trovare così una compagna per riprodursi; come aveva imparato gradualmente a odiare e temere - sì, temere - un mondo che condannava la sua razza; la scoperta di come Durza li aveva manipolati; e la presa di coscienza che l'unica loro speranza era deporre gli antichi rancori, allearsi ai Varden e sconfiggere Galbatorix. Da nessun parte Eragon trovò prove che Garzhvog stesse mentendo. Non riusciva a comprendere ciò che aveva visto. Allontanatosi dalla mente di Garzhvog, indagò quelle degli altri tre Urgali. I loro ricordi confermarono i fatti presentati da Garzhvog. Non fecero alcun tentativo di nascondere che avevano ucciso molti umani, ma lo avevano fatto su ordine di Durza, quando lo Spettro li controllava, o quando combattevano gli umani per cibo e terra. Abbiamo fatto quello che dovevamo per proteggere le nostre famiglie, dissero. Quando Eragon ebbe finito, guardò Garzhvog negli occhi e capì che l'Urgali era di sangue nobile come qualunque principe delle altre razze. Capì che, per quanto incivile, era un condottiero valoroso e un filosofo e un pensatore non inferiore allo stesso Oromis. Di sicuro è più brillante

di me confessò Eragon a Saphira. Esponendo la gola in segno di rispetto, disse ad alta voce: «Nar Garzhvog» e per la prima volta comprese le nobili origini del termine nar. «Sono fiero di averti al mio fianco. Puoi dire alle tue Herndall che finché gli Urgali terranno fede alla parola data e non si rivolteranno contro i Varden, non mi opporrò a voi.» Eragon dubitava che sarebbe mai riuscito a farsi piacere gli Urgali, ma il ferreo pregiudizio che fino a qualche minuto prima aveva provato gli sembrava ora una prova d'ignoranza, e non poteva continuare a sostenerlo in buona fede. Saphira gli sfiorò il braccio con la ruvida punta della lingua, facendo tintinnare la maglia d'acciaio. Ci vuole coraggio per ammettere che ti sbagliavi.

Soltanto se hai paura di apparire uno sciocco. E io sarei sembrato ancora più sciocco se mi fossi intestardito a mantenere una convinzione errata.

Sai, piccolo mio, hai appena pronunciato una saggia verità.

Malgrado il tono canzonatorio, Eragon sentì che la dragonessa era orgogliosa di quanto lui aveva fatto. «Siamo di nuovo in debito con te, Spadarossa» disse Garzhvog. Lui e gli altri Urgali si premettero i pugni alla base delle

- cercare intenzioni ostili nascoste, forse, nel passato di Garzhvog - anni di ricordi. Al contrario dei Gemelli, Eragon evitò di causare corna sporgenti.

Eragon sapeva che Nasuada moriva dalla voglia di conoscere ogni dettaglio di quanto aveva appreso, ma si tratteneva. «Bene. Ora che questo è fatto, devo andare. Eragon, riceverai il mio segnale da Trianna quando arriverà il momento.» Detto questo, si allontanò, inghiottita dalle tenebre.

Mentre Eragon si appoggiava stanco al ventre di Saphira, arrivò Orik, che gli disse con un sogghigno: «Meno male che ci saremo noi nani a difenderti, eh? Guarderemo i Kull come falchi, sta' sicuro. Non permetteremo che ti attacchino quando volti le spalle. Non appena proveranno ad alzare un dito su di te, gli taglieremo i garretti da sotto.» «Credevo che fossi d'accordo con Nasuada nell'accettare la proposta degli Urgali.»

«Questo non significa che mi fido di loro o che combatto volentieri al loro fianco, ti pare?» Eragon sorrise e decise di non insistere; sarebbe stato impossibile convincere Orik che gli Urgali non erano brutali assassini, quando anche lui li aveva considerati tali finché non aveva passato in rassegna i loro ricordi.

La notte si trascinava lenta, mentre i guerrieri aspettavano l'alba. Orik estrasse una cote dalla tasca e cominciò ad affilare la sua ascia. Quando arrivarono, gli altri sei nani presero a fare lo stesso, e il raspio della pietra contro il metallo riempì l'aria. I Kull sedevano schiena contro schiena, mormorando canti di morte sottovoce. Eragon passò il tempo evocando incantesimi di protezione per sé, Saphira, Nasuada, Orik e perfino Arya. Sapeva che era pericoloso tentare di proteggere tante persone, ma non poteva sopportare il pensiero che venissero feriti. Quando ebbe finito, trasferì la massima quantità di energia di cui osò privarsi nei diamanti incastonati nella cintura di Beloth il Savio. Eragon osservò con interesse Angela indossare l'armatura nera e verde per poi aprire una cassa di legno intagliato da cui estrasse due lunghi manici di legno e due lame di acciaio temperato. L'indovina avvitò i due pali al centro e infilò le lame nelle scanalature alle estremità, assemblando così il suo bastone-spada. Fece roteare l'arma sopra la testa per qualche istante, prima di annuire soddisfatta, sicura che avrebbe resistito agli urti della battaglia. I nani la guardavano con disapprovazione, ed Eragon sentì uno di loro che diceva: «... blasfemia che una persona estranea al Dùrgrimst Quan brandisca l'hùthvìr.»

E poi l'unico suono fu lo stridio lacerante provocato dai nani che affilavano le asce.

Era quasi l'alba quando udirono le grida. Eragon e Saphira furono i primi ad avvertirle grazie all'udito più sensibile, ma le urla di dolore furono ben presto udibili a tutti. Balzato in piedi, Orik guardò verso l'esercito dell'Impero, da cui provenivano i lamenti strazianti. «Che razza di creature stanno torturando per provocare questi ululati tremendi? Mi fanno ghiacciare il midollo nelle ossa, mi fanno.»

«Vi avevo detto che non avreste dovuto aspettare a lungo» disse Angela. La sua abituale giovialità era scomparsa; aveva il volto pallido e tirato, come se fosse malata.

Eragon disse: «Sei stata tu?»

«Sì. Ho avvelenato le loro razioni, il loro pane, la loro acqua... tutto quello su cui sono riuscita a mettere le mani. Alcuni moriranno subito, altri moriranno dopo, quando le diverse tossine avranno effetto. Ho somministrato la belladonna e altri veleni agli ufficiali perché abbiano le allucinazioni in battaglia.» Cercò di sorridere, ma senza risultati. «Un modo non molto onorevole di combattere, suppongo, ma preferisco questo alla morte.»

«Soltanto un codardo o un ladro usa il veleno!» esclamò Orik. «Che gloria c'è nello sconfiggere un avversario indebolito?» Le urla crebbero mentre parlava.

Angela proruppe in una risata sinistra. «Gloria? Se è la gloria che cerchi, ci sono altre migliaia di soldati che non ho avvelenato. Sono sicura che otterrai la tua parte di gloria per la fine di questa giornata.»

«È per questo che eri tanto interessata alle attrezzature nella tenda di Orrin?» chiese Eragon. Trovava il suo gesto profondamente ripugnante, ma non pretese di giudicare se fosse giusto o sbagliato. Era necessario. Angela aveva avvelenato i soldati per la stessa ragione per cui Nasuada aveva accettato l'alleanza con gli Urgali: perché poteva essere l'unica speranza di sopravvivenza.

«Esatto.»

I lamenti dei soldati crebbero finché Eragon non ebbe la voglia di tapparsi le orecchie per non sentirli. Lo facevano rabbrividire e fremere. Ma si costrinse ad ascoltarli. Era il prezzo da pagare per resistere all'Impero. Sarebbe stato sbagliato ignorarli. Rimase per tanto tempo seduto, con i pugni stretti e la mascella contratta, mentre le Pianure Ardenti echeggiavano delle grida disincarnate degli uomini morenti.

Scoppia la tempesta

I primi raggi dell'alba già lambivano la terra quando Trianna disse a Eragon: È l'ora. Una scarica di adrenalina cancellò il torpore di Eragon in un istante; balzò in piedi, passò parola a quanti gli stavano attorno, e montò in sella a Saphira, estraendo il nuovo arco dalla faretra. I Kull e i nani circondarono Saphira, e insieme andarono in fretta verso le fortificazioni, dove raggiunsero l'apertura che era stata sgombrata di notte.

I Varden si riversarono dal varco più piano che potevano. Ranghi serrati di guerrieri marciavano con le corazze e le armi avvolte negli stracci perché nessun rumore avvertisse l'Impero della loro avanzata. Saphira si unì al corteo quando tra gli uomini comparve Nasuada in sella a un destriero roano, affiancata da Arya e Trianna. I cinque si scambiarono tacite occhiate d'intesa. Nient'altro.

Durante la notte, i vapori mefitici si erano accumulati in una densa e bassa cappa di nubi che la fievole luce del mattino rendeva opaca. In questo modo, i Varden riuscirono ad attraversare i tre quarti della terra di nessuno prima di essere avvistati dalle sentinelle dell'Impero. Quando i corni suonarono l'allarme, Nasuada gridò: «Eragon, ora! Di' a Orrin di attaccare. Varden, a me! Combattete per riprendervi la vostra terra! Combattete per salvare le vostre mogli e i vostri figli! Combattete per sconfiggere Galbatorix! Attaccate, e bagnate le vostre lame col sangue dei nostri nemici! Carica!» Spronò il cavallo a un trotto veloce, e con un ruggito da belva gli uomini la seguirono, agitando le armi. Eragon trasmise l'ordine di Nasuada a Barden, lo stregone che cavalcava con re Orrin. Un istante dopo, udì lo scalpitio degli zoccoli, mentre Orrin e la sua cavalleria accompagnata dal resto dei Kull che riuscivano a correre al passo dei cavalli galoppavano da est. Caricarono i fianchi dell'Impero, respingendo i soldati verso il fiume Jiet, così da distrarli il tempo necessario ai Varden per coprire il resto della distanza senza ostacoli.

I due schieramenti si scontrarono in un fragore assordante. Le picche cozzarono contro le lance, i martelli contro gli scudi, le spade contro gli elmi, mentre al di sopra della mischia i rapaci assetati di sangue lanciavano acute grida, volteggiando impazziti per l'odore di carne fresca.

Eragon provò un tuffo al cuore. Ora devo uccidere o essere ucciso. Nello stesso momento, sentì che gli incantesimi di protezione attingevano alla sua energia per deviare gli attacchi rivolti ad Arya, Orik, Nasuada e Saphira. Saphira rimase indietro rispetto alla prima linea, perché altrimenti sarebbero stati troppo esposti agli stregoni di Galbatorix sul fronte opposto. Con un profondo respiro, Eragon cominciò a cercarli con la mente, e al tempo stesso scagliava frecce. Il Du Vrangr Gata individuò il primo stregone nemico. Nell'istante in cui fu avvertito, Eragon raggiunse mentalmente la donna che aveva fatto la scoperta e attraverso di lei il nemico a cui era collegata. Attingendo a tutto il suo potere, Eragon demolì le barriere del mago, prese il controllo della sua coscienza cercando di ignorare il terrore dell'uomo, determinò quale reparto l'uomo proteggeva, e poi lo uccise con una delle dodici parole di morte. Senza fermarsi, individuò le menti di ciascuno dei soldati non più protetti, e li uccise. I Varden esultarono vedendo l'intero reparto stramazzare al suolo.

La facilità con cui uccideva lo sorprese. I soldati non avevano una sola possibilità di fuggire o reagire all'attacco. Com'e diverso dal Farthen Dùr, pensò. Tuttavia, malgrado lo stupore per la perfezione delle sue capacità, la morte era sempre una cosa sgradevole. Ma non c'era tempo per riflettere.

Ripresosi in fretta dall'assalto iniziale dei Varden, l'esercito imperiale cominciò ad azionare le sue macchine da guerra: catapulte che lanciavano missili rotondi di ceramica indurita, trabocchi caricati con barili di fuoco liquido, e baliste che bersagliavano gli aggressori con una gragnuola di frecce lunghe sei piedi. Le palle di ceramica e il fuoco liquido provocavano danni terrificanti quando toccavano terra. Una palla esplose sul terreno a meno di dieci iarde da Saphira. Mentre Eragon si rifugiava dietro lo scudo, un frammento tagliente come un rasoio schizzò verso la sua testa, ma venne bloccato a mezz'aria da uno dei suoi incantesimi di difesa. Eragon fremette per l'improvvisa perdita di energia. Le macchine arrestarono l'avanzata dei Varden, seminando morte e orrende mutilazioni su chiunque venissero puntate. Dobbiamo distruggerle, se vogliamo durare abbastanza da fiaccare l'Impero. Sarebbe stato facile per Saphira smantellare le macchine, ma la dragonessa non osava volare fra i soldati per paura di essere aggredita con la magia. Aperto un varco fra le linee dei Varden, otto soldati nemici piombarono su Saphira, armati di picche. Ancor prima che Eragon avesse il tempo di sguainare Zar'roc, i nani e i Kull eliminarono l'intero gruppo.

«Ben fatto!» ruggì Garzhvog.

«Ben fatto!» gli fece eco Orik con un ghigno sanguinario.

Eragon non usò incantesimi contro le macchine, prevedendo che fossero protette da ogni sortilegio possibile. A meno che... Dilatando la mente, trovò quella di un soldato addetto a una delle catapulte. Pur sapendo che l'uomo doveva essere protetto da qualche stregone, Eragon riuscì a dominarlo e a dirigere le sue azioni da lontano. Guidò l'uomo verso la macchina che stavano caricando, poi lo indusse a usare la spada per tagliare la grossa fune ritorta che azionava il congegno. La corda era troppo spessa perché si spezzasse prima che il soldato venisse trascinato via dai compagni, ma il danno era stato fatto. Con un sonoro schianto, la fune lacerata cedette, facendo volare il braccio della catapulta che ferì gravemente alcuni uomini. Le labbra arricciate in un bieco sorriso, Eragon passò a un'altra catapulta e, in rapida successione, rese inoffensivo il resto delle macchine.

Tornato in sé, si accorse che decine di Varden cadevano intorno a Saphira; uno del Du Vrangr Gata era stato sopraffatto. Lanciando una feroce imprecazione, ripercorse la scia di magia e risalì all'uomo che aveva scagliato l'incantesimo fatàle, affidando l'incolumità del suo corpo e di Saphira alle sue guardie.

Per oltre un'ora, Eragon diede la caccia agli stregoni di Galbatorix, ma con scarso esito, perché erano astuti e prudenti, e non lo attaccavano mai direttamente. La loro renitenza lo sconcertava, finché non riuscì a strappare dalla mente di uno stregone - pochi istanti prima che si suicidasse - il pensiero: ha ordinato di non uccidere il Cavaliere o il drago... non uccidere il Cavaliere o il drago.

Questo risponde al mio interrogativo, disse a Saphira, ma perché Galbatorix ci vuole vivi? Ormai è fin troppo chiaro da che parte stiamo.

Prima che la dragonessa potesse rispondere, davanti a loro comparve Nasuada, il volto rigato di polvere e sudore, lo scudo ammaccato, il sangue che le scorreva lungo la gamba sinistra per una ferita alla coscia. «Eragon» ansimò, «ho bisogno di entrambi. Dovete combattere allo scoperto, dovete mostrarvi per incoraggiare gli uomini... e spaventare i nemici.»

Le sue condizioni allarmarono Eragon. «Lascia prima che ti guarisca» esclamò, temendo che potesse svenire. Devo circondarla di altre protezioni.

«No! Io posso aspettare, ma siamo perduti se non arginate la marea nemica.» I suoi occhi erano vitrei e vacui, globi bianchi sul volto nero. «Abbiamo bisogno di... un Cavaliere.» Nasuada vacillò sulla sella.

Eragon levò Zar'roc al cielo in segno di saluto. «Eccomi, mia signora.»

«Andate» disse lei, «e che gli dei, se esistono, vi proteggano.»

Eragon si trovava troppo in alto su Saphira per colpire i nemici a terra, così smontò di sella e si piazzò accanto alla sua zampa destra. A Orik e Garzhvog disse: «Proteggete il fianco sinistro di Saphira. E qualunque cosa facciate, non mettetevi fra i piedi.»

«Verrai sopraffatto, Spadarossa.»

«Non accadrà» disse Eragon. «Ai vostri posti!» Poi mise una mano sulla zampa di Saphira e la guardò in un limpido occhio azzurro. Balliamo, dolcezza?

Balliamo, piccolo mio.

Eragon e Saphira fusero le proprie identità a un livello mai raggiunto prima, annullando ogni differenza fra di loro per diventare una singola entità. Ruggirono, si slanciarono in avanti e si aprirono una strada verso la prima linea. Una volta raggiunta, Eragon non seppe più distinguere di chi fosse la bocca che eruttò selvagge lingue di fuoco che avvolsero una decina di soldati, cuocendoli nelle proprie armature, né di chi fosse il braccio che roteò Zar'roc per abbatterla sull'elmo di un nemico.

L'odore metallico del sangue impregnava l'aria, mentre cortine sfrangiate di fumo ondeggiavano sulle Pianure Ardenti, ora nascondendo ora rivelando masse, grovigli, schiere e battaglioni di corpi in fermento. In alto, i voraci spazzini del cielo aspettavano il lauto banchetto, mentre il sole proseguiva il suo cammino verso lo zenit.

Dalle menti di coloro che li attorniavano, Eragon e Saphira colsero frammenti di immagini di come apparivano agli altri. Saphira veniva sempre notata per prima: un'enorme, furiosa creatura con zanne e artigli macchiati di rosso, che uccideva chiunque le capitasse a tiro con violente zampate e guizzi di coda e turgide vampate di fuoco che travolgevano interi plotoni. Le sue fulgide squame brillavano come tante stelle incandescenti che abbagliavano i nemici con i loro riflessi. Poi, al suo fianco, scorgevano Eragon. La sua rapidità era superiore alla capacità di reazione dei soldati; con una forza sovrumana schiantava scudi con un colpo solo, squarciava armature e spezzava le armi di chi gli si opponeva. Le frecce e le lance scagliate contro di lui cadevano sul terreno fetido a dieci piedi di distanza, fermate dai suoi incantesimi di protezione.

Fu più difficile per Eragon - e di conseguenza, per Saphira - combattere contro quelli della sua stessa razza rispetto a quanto lo era stato combattere contro gli Urgali nel Farthen Dùr. Ogni volta che vedeva un volto terrorizzato o guardava nella mente di un soldato, pensava: Potrei essere io. Ma lui e Saphira non potevano concedersi nessuna compassione; se un soldato si parava davanti a loro, moriva.

Tre volte i nemici tentarono una sortita, e tre volte Eragon e Saphira uccisero ogni soldato delle prime file dell'Impero, prima di ritirarsi nel corpo centrale dei Varden per non essere accerchiati. Al termine dell'ultima incursione, Eragon si vide costretto a ridurre o eliminare alcuni incantesimi che proteggevano Arya, Orik, Nasuada, Saphira e se stesso per impedire al dispendio di energia di stancarlo troppo presto. Perché, pur essendo grande la sua forza, lo erano anche le necessità della battaglia.

Pronta? chiese a Saphira, dopo un breve momento di tregua. La dragonessa ringhiò un assenso. Un nugolo di frecce sibilò verso Eragon nell'istante in cui si rituffò nella mischia. Fulmineo come un elf o, ne schivò la maggior parte, dato che la magia non lo proteggeva più da simili proiettili, ne parò dodici con lo scudo e barcollò quando una lo colpì al ventre e una al fianco. Nessuna delle due perforò l'armatura, ma gli mozzarono il fiato e gli lasciarono lividi grossi quanto una mela. Non fermarti! Hai sopportato dolori ben più grandi di questo, si disse. Piombando su un gruppo di otto soldati, Eragon menò fendenti a destra e a manca, facendo volare le picche, con Zar'roc che sfolgorava come una mortale saetta. Ma il combattimento gli aveva rallentato i riflessi, e un soldato riuscì a trapassargli l'usbergo con la picca, lacerandogli il tricipite sinistro.

I soldati impietrirono quando Saphira ruggì.

Eragon approfittò della distrazione per fortificarsi con l'energia conservata nel rubino del pomo di Zar'roc e poi uccidere gli ultimi tre uomini.

Spazzando il terreno con la coda, Saphira gli sgomberò la via da una ventina di soldati. Nel breve lasso di tempo, Eragon si guardò la carne viva e pulsante del braccio e disse: «Waise heill.» Si guarì anche i lividi, ricorrendo non solo al rubino, ma anche ai diamanti nella cintura di Beloth il Savio.

Poi i due ricominciarono a combattere.

Eragon e Saphira riempirono le Pianure Ardenti di cataste di cadaveri, ma l'Impero non accennava a fermarsi o a ritirarsi. Per ogni uomo che uccidevano, un altro prendeva il suo posto. Un senso d'impotenza cominciò a gravare sul cuore di Eragon nel vedere la massa di soldati nemici costringere via via i Varden a indietreggiare verso l'accampamento. Vide la sua stessa disperazione specchiata nei volti di Nasuada, Arya, re Orrin e persino di Angela, quando li incontrò sul campo di battaglia.

Tutto il nostro addestramento e non riusciamo ancora a fermare l'Impero, fu il suo grido di angoscia. Sono troppi! Non possiamo andare avanti così all'infinito. E Zar'roc e la cintura sono quasi esaurite.

Puoi attingere energia da quello che ti circonda, se necessario.

No, a meno che non riesca a uccidere un altro degli stregoni di Galbatorix per prenderla dai soldati. Altrimenti farei soltanto del male ai Varden, dato che non ci sono piante o animali qui attorno.

Col passare delle ore, Eragon si sentiva sempre più stanco e dolorante; privato di molte delle sue arcane difese, accumulò decine di ferite minori. Il braccio sinistro era intorpidito per aver assorbito gli innumerevoli colpi che gli avevano deformato lo scudo. Un fiotto di sangue caldo, misto a sudore, gli colava da un taglio sulla fronte accecandolo di continuo. E aveva la sensazione di avere almeno un dito rotto.

Saphira non stava meglio. Le armature dei soldati le laceravano le mucose della bocca, decine di spade e di frecce le perforavano le ali indifese, e un giavellotto le trapassò la corazza, ferendola a una spalla. Eragon vide arrivare il giavellotto e cercò di deviarlo con un incantesimo, ma fu troppo lento. Ogni volta che Saphira si muoveva, inondava il terreno con una pioggia di gocce di sangue.

Accanto a loro, caddero tre guerrieri di Orik e due Kull.

E il sole iniziò la sua parabola discendente.

Mentre Eragon e Saphira si preparavano per il loro settimo e ultimo assalto, a est risuonò uno squillo di tromba, limpido e potente, e re Orrin gridò: «I nani sono qui! I nani sono qui!»

I nani? Eragon battè le palpebre e si guardò intorno, confuso. Non vedeva altro che soldati nemici. Poi si riscosse in un fremito di eccitazione. I nani! Balzò in groppa a Saphira, che spiccò subito il volo, e rimase per qualche istante librata sulle ali malconce per osservare il campo di battaglia.

Era vero: un grande esercito avanzava da est verso le Pianure Ardenti. Alla sua testa marciava re Rothgar, con la sua cotta di maglia d'oro, l'elmo tempestato di gemme, e Volund, l'antica mazza da guerra, stretta nel pugno di ferro. Il re dei nani alzò Volund in segno di saluto quando scorse Eragon e Saphira.

Eragon ululò a pieni polmoni e ricambiò il gesto sventolando in aria Zar 'roc. Grazie a una scarica di rinnovato vigore dimenticò le ferite, e si sentì di nuovo gagliardo e feroce. Saphira aggiunse la propria voce alla sua, e i Varden la guardarono colmi di speranza, mentre i soldati imperiali esitavano per la paura.

«Cos'hai visto?» gridò Orik quando Saphira tornò a terra. «È Rothgar? Quanti guerrieri ha portato?» Ebbro di entusiasmo, Eragon si levò sulle staffe ed esclamò: «Animo, amico mio, re Rothgar è qui! E a quanto pare ha portato con sé ogni singolo nano! Schiacceremo l'Impero!» Quando gli uomini smisero di esultare, aggiunse: «Ora brandite le vostre spade e ricordate a questi codardi pidocchiosi perché devono avere paura di noi. All'attacco!» Proprio mentre Saphira stava per slanciarsi contro i soldati, Eragon sentì un secondo grido, questa volta provenire da ovest: «Una nave! Una nave che risale il fiume!»

«Maledizione!» ringhiò. Non possiamo permettere che una nave porti rinforzi all'Impero. Si mise in contatto con Trianna e le disse: Di' a Nasuada che ce ne occuperemo io e Saphira. Affonderemo la nave, se appartiene a Galbatorix. Come desideri, Argetlam, rispose la maga.

Senza un attimo di esitazione, Saphira si alzò in volo, tracciando cerchi sempre più ampi sulla pianura devastata e fumante. Mentre il clamore incessante della battaglia scemava con l'altezza, Eragon trasse un profondo respiro e si schiarì la mente. Sotto di loro, rimase sorpreso nel vedere come si erano frammentati gli eserciti. L'Impero e i Varden si erano disintegrati in una miriade di piccoli gruppi che si fronteggiavano in lungo e in largo per tutte le Pianure Ardenti. Fu in questo caos che si inserirono i nani, attaccando l'Impero su un fianco, come aveva fatto Orrin in precedenza con la cavalleria.

Eragon perse di vista la battaglia quando Saphira virò a sinistra e cabrò oltre le nubi verso il fiume Jiet. Una raffica di vento spazzò via il fumo di torba e svelò un grande veliero a tre alberi che risaliva l'acqua arancione controcorrente, spinto da due ordini di remi. La nave era scalfita e danneggiata, e non batteva alcuna bandiera che rivelasse la sua appartenenza.

Eragon si preparò a distruggere il veliero. Mentre Saphira scendeva in picchiata, Eragon fece roteare Zar'roc sulla testa e lanciò il suo terribile grido di guerra.

Convergenza

Roran era in piedi a prua dell'Ala di Drago e ascoltava il rumore dei remi che sferzavano l'acqua. Aveva appena finito il suo turno di voga e un dolore freddo e pulsante gli trafiggeva la spalla destra. Dovrò convivere per sempre con questo ricordo dei Ra'zac? Si asciugò il sudore dalla fronte e ignorò il disagio, concentrandosi sul fiume, oscurato da un banco di nuvole caliginose.

Elain lo raggiunse al parapetto. Si posò una mano sul ventre gonfio. «L'acqua ha un brutto aspetto» disse. «Forse dovevamo restare a Dauth, invece che andare in cerca di altri guai.»

Roran sospettò con timore che la donna avesse ragione. Dopo aver superato l'Occhio del Cinghiale, avevano veleggiato verso est, oltre le Isole Meridionali, per avvicinarsi alla costa. Entrati nella foce del fiume Jiet, erano arrivati al porto surdano di Dauth. Il tempo di toccare terra e le loro scorte erano oramai esaurite; gli uomini anche. Roran aveva avuto tutte le intenzioni di restare a Dauth, specie dopo aver ricevuto un'entusiastica accoglienza da parte del governatore, ledy Alarice. Ma questo era stato prima di venire a sapere dell'esercito di Galbatorix. Se i Varden fossero stati sconfitti, non avrebbe mai più rivisto Katrina. Così, con l'aiuto di Jeod, aveva convinto Horst e molti altri compaesani che se volevano vivere nel Surda, liberi dall'Impero, dovevano risalire iljiume Jiet per dare man forte ai Varden. Fu un'impresa difficile, ma alla fine Roran prevalse. E una volta che ebbero messo al corrente ledy Alarice delle loro intenzioni, l'alta funzionarla li rifornì di tutto il necessario.

Da allora, Roran si era chiesto spesso se aveva fatto la scelta giusta. Ormai nessuno più sopportava di vivere sulYAla di Drago. La gente era tesa e di malumore, e la situazione era peggiorata dalla consapevolezza di navigare dritti verso una battaglia. È stato puro egoismo da parte mia? si chiedeva. Lo faccio davvero per il bene del villaggio, o soltanto perché mi avvicinerò di un altro passo a Katrina?

«Forse dovevamo» rispose a Elain.

Insieme guardarono un denso strato di fumo raccogliersi nel cielo fino a oscurare il sole, filtrando la luce residua fino a tingere ogni cosa al di sotto di una nauseante sfumatura di arancio. Creava un crepuscolo innaturale come Roran non avrebbe mai immaginato. I marinai sul ponte si guardarono intorno intimoriti e mormorarono scongiuri, mostrando amuleti di pietra contro il malocchio.

«Ascolta» disse Elain, inclinando la testa di lato. «Cos'è?»

Roran tese le orecchie e colse il debole tintinnio del metallo che cozzava contro il metallo. «Quello» rispose «è il suono del nostro destino.» Voltandosi, gridò: «Capitano, una battaglia dritta di fronte a noi!»

«Gli uomini alle baliste!» ruggì Uthar. «Raddoppia il tempo ai remi, Bonden. Ogni uomo abile si tenga pronto, altrimenti userò le vostre budella come guanciali!»

Roran rimase dov'era, mentre l'Ala di Drago esplodeva in un fermento di attività. Malgrado l'aumento del rumore, poteva ancora sentire le spade e gli scudi che si scontravano in lontananza. Ormai si sentivano anche le grida degli uomini, come i ruggiti di qualche bestia gigantesca.

Volse il capo quando Jeod si unì a loro a prua. La faccia del mercante era pallida. «Sei mai stato in battaglia prima d'ora?» gli chiese Roran.

Il pomo d'Adamo di Jeod sobbalzò quando l'uomo deglutì e scosse la testa. «Ho combattuto molte volte al fianco di Brom, ma mai niente del genere.»

«È un debutto per entrambi, allora.»

La cortina di fumo si assottigliò a destra, aprendosi su un panorama agghiacciante di terra scura che eruttava fuoco e fetidi vapori arancione, coperta da una massa di uomini che lottavano. Era impossibile distinguere quali fossero i Varden e quali i soldati imperiali, ma era evidente che la battaglia poteva pendere in qualunque direzione, con la spinta giusta. Possiamo darla noi, quella spinta.

Poi una voce echeggiò sull'acqua quando un uomo sulla riva gridò: «Una nave! Una nave che risale il fiume!» «Sarà meglio che tu scenda» disse Roran a Elain. «Non

è sicuro se resti qui.» Lei annuì e corse al boccaporto di

prua, scese la scaletta e chiuse la botola dietro di sé. Un

momento dopo, Horst balzò sulla prua e porse a Roran uno degli scudi di Fisk.

«Ho pensato che ti servisse» disse Horst.

«Grazie. Ho...»

Roran s'interruppe quando l'aria vibrò, come per una potente esplosione. Thud. I denti gli sbatterono. Thud. Le orecchie gli fecero male per la pressione. Subito dopo il secondo colpo, arrivò un terzo thud e con esso un grido altissimo che riconobbe, perché lo aveva sentito tante volte da ragazzo. Guardò in alto e vide un gigantesco drago color zaffiro scendere in picchiata dalle nubi. E seduto sul drago, a cavallo fra il collo e le spalle, c'era suo cugino, Eragon.

Non era l'Eragon che ricordava. Era come se un artista avesse preso i lineamenti di Eragon e li avesse migliorati, raffinati, resi più nobili e felini. Questo Eragon era vestito come un principe, indossava un'elegante armatura - sebbene insozzata dalla guerra - e nella mano destra brandiva una lama di un rosso iridescente. Questo Eragon, Roran capì, avrebbe ucciso senza esitazione. Questo Eragon era potente e implacabile... Questo Eragon avrebbe potuto distruggere i Ra'zac e le loro mostruose cavalcature, e aiutarlo a liberare Katrina.

Sbattendo le ali translucide, il drago si fermò davanti alla nave. Poi Eragon incontrò lo sguardo di Roran. Fino a quel momento, Roran non aveva creduto completamente alla storia di Jeod su Eragon e Brom. Ora, mentre fissava suo cugino, un'ondata di emozioni contrastanti lo travolse. Eragon è un Cavaliere! Sembrava inconcepibile che il ragazzino smilzo, indocile e smanioso con cui era cresciuto si fosse trasformato in quel temibile guerriero. Vederlo vivo riempì Roran di una gioia inaspettata. Eppure, allo stesso tempo, una terribile, familiare collera gli attanagliò le viscere al pensiero del ruolo che Eragon aveva avuto nella morte di Garrow e nell'assedio di Carvahall. In quei pochi secondi, Roran non capì se amava od odiava Eragon.

S'irrigidì allarmato quando un enorme essere sconosciuto gli toccò la mente. Da quella entità emanò la voce di Eragon. Roran?

«Sì.»

Pensa le tue risposte e io le sentirò. C'è tutta Carvahall con te?

Quasi tutta.

Come avete fatto... No, non possiamo perdere tempo per le spiegazioni. Restate qui finché la battaglia non sarà decisa. Ancora meglio, scendete di nuovo lungo il fiume, fin dove l'Impero non possa raggiungervi.

Dobbiamo parlare, Eragon. Hai molte risposte da darmi.

Eragon esitò, preoccupato, poi disse: Lo so. Ma non ora, più tardi. Senza che gli venisse dato un ordine, il drago si allontanò dalla nave e volò a est, inghiottito dalla nebbia rossastra che aleggiava sulle Pianure Ardenti. Con voce rotta dall'emozione, Horst esclamò: «Un Cavaliere! Un vero Cavaliere! Non avrei mai pensato di vedere quel giorno, e men che mai che sarebbe stato Eragon.» Scrollò il capo. «A quanto pare dicevi la verità, eh, Gambelunghe?» Jeod rispose con un sogghigno, l'espressione raggiante come quella di un bambino.

Le loro parole suonarono mute a Roran, che fissava il ponte con la sensazione di essere pronto a scoppiare di tensione da un momento all'altro. Un'orda di domande irrisolte lo assaliva. Si costrinse a ignorarle. Non posso pensare a Eragon in questo momento. Dobbiamo combattere. I Varden devono sconfiggere l'Impero.

Una marea crescente di furia lo consumò. Aveva già sperimentato quella frenesia scatenata che gli consentiva di superare qualsiasi ostacolo, di spostare oggetti che di solito non riusciva a muovere, di affrontare un nemico in battaglia e non avere paura. Lo afferrò una febbre nelle vene, che gli accelerava il respiro e gli faceva martellare il cuore nel petto.

Si allontanò di scatto dal parapetto, corse per tutta la lunghezza della nave fino al cassero, dove Uthar era al timone, e disse: «Dirigi a terra.»

«Cosa?»

«Dirigi a terra, ti dico! Resta qui con i tuoi uomini e usate le baliste per distruggere tutto quello che potete, impedite all'Ala di Drago di essere abbordata, e proteggete le nostre famiglie con le vostre vite. Chiaro?»

Uthar lo guardò con occhi di ghiaccio, e Roran temette che non avrebbe accettato i suoi ordini. Poi il vecchio lupo di mare borbottò e disse: «Signorsì, Fortemartello.»

I passi pesanti di Horst preannunciarono il suo arrivo sul cassero. «Che cosa intendi fare, Roran?» «Fare?» Roran scoppiò a ridere e si volse di scatto per trovarsi faccia a faccia col fabbro. «Fare? Ebbene, intendo cambiare il destino di Alagaésia!»

Il drago rosso

Eragon quasi non si accorse che Saphira lo stava riportando nel cuore della mischia. Sapeva che Roran era in mare, ma non aveva mai sospettato che si stesse dirigendo verso il Surda, né che si sarebbero rivisti in quel modo. E gli occhi di Roran! Occhi che lo avevano fissato esprimendo dubbio, sollievo, collera... accusa. In essi, Eragon aveva letto che suo cugino Roran conosceva il suo ruolo nella morte di Garrow e non lo aveva ancora perdonato.

Fu soltanto quando una spada rimbalzò su uno dei suoi schinieri che Eragon riportò l'attenzione a quanto accadeva intorno a sé. Liberò un grido selvaggio e calò Zar'roc di taglio, uccidendo il soldato che lo aveva colpito. Criticandosi per essere stato così distratto, chiamò Trianna e disse: È una nave amica. Spargi la voce che nessuno di loro venga attaccato. E chiedi a Nasuada, come favore personale, di mandare alla nave un araldo che spieghi loro la situazione e si assicuri che restino fuori dallo scontro.

Come desideri, Argetlam.

Sul fronte occidentale della battaglia, dov'era atterrata, Saphira attraversò le Pianure Ardenti in pochi grandi balzi, fermandosi davanti a Rothgar e ai nani. Eragon smontò e si presentò al re, che disse: «Salve, Argetlam! Salve, Saphira! A quanto pare gli elfi hanno compiuto su di te quanto avevano promesso.» Al suo fianco c'era Orik. «No, sire, sono stati i draghi.»

«Davvero? Ascolterò con piacere le tue avventure quando questa sporca guerra sarà finita. Sono lieto che tu abbia accettato di entrare a far parte del Dùrgrimst Ingietum. È un onore averti come membro della mia famiglia.» , «L'onore è mio.»

Rothgar sorrise, poi si rivolse a Saphira. «Non ho dimenticato la tua promessa di riportare Isidar Mithrim al suo antico splendore, drago. In questo stesso momento, i nostri artigiani stanno ricostruendo lo Zaffiro Stellato al centro di Tronjheim. Non vedo l'ora che torni come prima.»

La dragonessa inchinò la testa. Manterrò la mia promessa.

Quando Eragon ripetè le sue parole, Rothgar protese un dito tozzo e nodoso, e picchiettò una delle piastre metalliche che le coprivano i fianchi. «Vedo che porti la nostra corazza. Spero che ti sia servita.»

Mi è molto servita, re Rothgar, disse Saphira tramite Eragon. Mi ha protetta da molte ferite.

Rothgar raddrizzò la schiena e levò Volund, uno scintillio feroce negli occhi infossati. «Allora, vogliamo marciare e mettere ancora una volta alla prova il frutto delle nostre forge?» Volse indietro lo sguardo ai suoi guerrieri e gridò: «Akh sartos oen dùrgrimst!»

«Vor Rothgarz korda! Vor Rothgarz korda!»

Eragon guardò Orik, che tradusse per lui con un potente ruggito: «Per il martello di Rothgar!» Unendosi Eragon corse con il re dei nani verso la marea cremisi dei soldati nemici, con Saphira al suo fianco. Con l'aiuto dei nani, le sorti della battaglia volsero dividendole, schiacciandole, costringendo l'esercito conquistato nel corso della mattinata. I loro sforzi furono aiutati dall'effetto sortito dai veleni di Aftgela. Molti ufficiali nemici agivano in maniera irrazionale, dando ordini che rendevano più facile per i Varden penetrare nelle schiere nemiche, seminando morte e distruzione al loro passaggio. I soldati parvero capire che la fortuna non li assisteva più, e a centinaia si arresero, o disertarono per rivoltarsi contro i loro ex compagni, o abbandonarono le armi e fuggirono. E il sole scivolò verso i fulgidi colori del pomeriggio.

Eragon stava combattendo contro due soldati, quando sopra di loro volò un giavellotto fiammeggiante che andò a conficcarsi in una delle tende dei comandanti imperiali, incendiando la stoffa. Liberatosi dei suoi avversari, Eragon guardò indietro e vide decine di proiettili infuocati levarsi dalla nave sul fiume Jiet. Che intenzioni hai, Roran? si chiese Eragon, prima di scagliarsi contro un nuovo gruppo di soldati.

In quel momento, un corno echeggiò dalla retroguardia dell'Impero, poi un altro e un altro ancora. Qualcuno cominciò a battere un potente tamburo, e per qualche istante il campo di battaglia rimase immobile, mentre tutti si voltavano verso la fonte del rumore. Sotto gli occhi di Eragon, una figura sinistra si staccò dall'orizzonte a nord per levarsi nel cielo livido delle Pianure Ardenti. I corvi e gli altri rapaci si dispersero davanti all'ombra nera e frastagliata, che si librava immobile nelle calde correnti ascensionali. Lì per lì Eragon pensò a un Lethrblaka, una delle cavalcature dei Ra'zac. Poi un raggio di luce trapassò le nubi, illuminando di lato la figura.

Un drago rosso fluttuava sopra di loro, sfolgorando nei raggi obliqui del sole come un letto di braci rosso sangue. Le membrane delle sue ali erano del colore del vino visto in controluce. I suoi artigli, le zanne e le aguzze punte dorsali erano bianche come la neve. Gli occhi vermigli sprizzavano terribili bagliori. In sella sedeva un uomo che indossava un'armatura d'acciaio splendente e brandiva uno spadone a una mano e mezza.

Eragon trasalì, sgomento. Galbatorix è riuscito afar schiudere un altro uovo!

L'uomo d'acciaio alzò la mano sinistra e un fulmine di energia rossa crepitò dal suo palmo, colpendo Rothgar in pieno petto. Gli stregoni dei nani gridarono di dolore quando l'energia dei loro corpi fu consumata nel tentativo di fermare l'attacco. Stramazzarono al suolo, morti, mentre Rothgar si stringeva il petto e crollava esanime. I nani ulularono di disperazione vedendo cadere il loro re.

«No!» gridò Eragon, e Saphira ruggì la sua ira. Eragon guardò il Cavaliere nemico con odio. Ti ucciderò per questo. in favore dei Varden. Insieme respinsero le milizie

di Galbatorix ad abbandonare le posizioni che al coro,

imperiali, avevano Ma sapeva che in quel momento lui e Saphira erano troppo stanchi per affrontare un avversario così potente. Guardandosi intorno, Eragon scorse un cavallo riverso nel fango, con una lancia infilata nel costato. Lo stallone era ancora vivo. Eragon gli posò una mano sul collo e mormorò: Dormi, fratello. Poi trasferì dentro di sé e in Saphira gli ultimi residui di energia del cavallo; non bastò a far recuperare loro tutte le forze, ma almeno alleviò il dolore ai muscoli e impedì alle loro membra di tremare ancora.

Rinvigorito, Eragon balzò su Saphira, gridando: «Orik, prendi il comando dei tuoi!» In lontananza, vide Arya guardarlo preoccupata. La scacciò dalla propria mente e si strinse le cinghie intorno alle gambe. Poi Saphira si lanciò contro il drago rosso, agitando le ali a ritmo forsennato per acquistare la necessaria velocità.

Spero che ricordi le lezioni di Glaedr, le disse, impugnando più saldamente lo scudo.

Saphira non rispose, ma ruggì i suoi pensieri contro l'altro drago. Traditore! Distruttore di uova e di giuramenti, assassino! Poi, insieme, lei ed Eragon assalirono le menti dell'altra coppia, cercando di abbattere le loro difese. La coscienza del Cavaliere emanava uno strano sentore, come se contenesse una moltitudine di entità; decine di voci distinte sussurravano nei recessi della sua mente, come spiriti imprigionati che imploravano di essere liberati. Nell'istante in cui entrarono in contatto, il Cavaliere reagì con una scarica di pura energia più violenta di quanto perfino Oromis fosse in grado di richiamare. Eragon si ritrasse dietro le proprie barriere, recitando freneticamente un brano della filastrocca che Oromis gli aveva insegnato per simili frangenti:

Sotto un freddo cielo d'aprile, c'era un omino dalla spada lucente. Saltava e colpiva con furia febbrile, combattendo la massa di ombre incalzante...

L'assedio che cingeva la sua mente si dissolse quando Saphira e il drago rosso si scontrarono, e fu come l'urto di due meteore incandescenti. Si strinsero in un abbraccio feroce, le zampe di dietro che sferravano calci nel ventre dell'altro; gli artigli stridevano sulla corazza metallica di Saphira e sulle squame piatte del drago rosso. Quest'ultimo era più piccolo di Saphira, ma aveva le zampe e le spalle più massicce. Riuscì ad allontanarla con una zampata per un istante, poi tornarono a lanciarsi l'uno contro l'altra, tentando di azzannarsi il collo a vicenda.

Eragon non potè far altro che stringere forte Zar'roc, mentre i draghi avvinghiati precipitavano verso il suolo, continuando a sferrarsi furiosi colpi di zampe e di coda. A meno di cinquanta iarde dal suolo delle Pianure Ardenti, Saphira e il drago rosso si districarono, affannandosi per riprendere quota. Quando ebbe frenato la caduta, Saphira inarcò il collo, come un serpente pronto a colpire, ed eruttò un torrente di fuoco.

Non raggiunse mai il suo bersaglio; a dodici piedi dal drago rosso, il fuoco si biforcò, passandogli ai lati senza fare alcun danno. Dannazione, pensò Eragon. Mentre il drago rosso spalancava le fauci per il contrattacco, Eragon gridò: «Skòlir nosu fra brisingr!» Appena in tempo. L'esplosione fu terribile intorno a loro, ma non sfiorò neppure le squame di Saphira.

Saphira e il drago rosso cabrarono attraverso il fumo denso per raggiungere il cielo limpido e freddo al di sopra, sfrecciando avanti e indietro nel tentativo di prendere posizione al di sopra dell'avversario. Il drago rosso azzannò la coda di Saphira, e lei ed Eragon urlarono di dolore condiviso. Ansante per lo sforzo, Saphira eseguì una gran volta all'indietro, finendo alle spalle del drago, che si avvitò a sinistra e cercò di risalire a spirale al di sopra di lei. Mentre i draghi duellavano con acrobazìe sempre più complesse, Eragon avvertì un'interferenza nelle Pianure Ardenti: i maghi del Du Vrangr Gata erano assaliti da due nuovi stregoni dell'Impero, molto più potenti di quelli che li avevano preceduti. Avevano già ucciso un membro del Du Vrangr Gata e stavano abbattendo le barriere di un secondo. Eragon sentì Trianna gridargli con la mente: Ammazzaspettri! Devi aiutarci! Non riusciamo a fermarli. Uccideranno tutti i Varden. Aiutaci, è...

La sua voce si perse quando il Cavaliere s'insinuò nella sua coscienza. «Ora basta» sibilò Eragon a denti stretti, mentre lottava per resistere all'assalto. Sporgendosi dal collo di Saphira, vide il drago rosso risalire verso di loro. Eragon non osò aprire la mente per parlare con Saphira, ma gridò ad alta voce: «Prendimi!» Con due colpi di Zar'roc, tagliò le cinghie che gli serravano le gambe e balzò giù dal dorso di Saphira.

È una follia, pensò, ridendo per l'ebbrezza e la vertigine della caduta libera. Il vento gli strappò via l'elmo e gli fece lacrimare gli occhi. Liberandosi dello scudo, Eragon allargò le braccia e le gambe, come gli aveva insegnato Oromis, per stabilizzare il volo. Di sotto, il Cavaliere d'acciaio notò il suo gesto. Il drago rosso scartò a sinistra, ma non riuscì lo stesso a evitarlo. Eragon guidò Zar'roc in un affondo fulmineo quando vide passare accanto a sé il fianco del drago, e sentì la lama penetrare nella carne del polpaccio della creatura, prima che la gravità lo attirasse più in basso. Il drago ruggì di dolore.

L'impatto fece compiere a Eragon una serie di capovolte in aria; il tempo di riuscire a bloccare le rotazioni e aveva bucato la coltre di nubi per piombare inesorabilmente sulle Pianure Ardenti. Avrebbe potuto fermarsi con la magia, se necessario, ma questo lo avrebbe prosciugato delle ultime riserve di energia. Si guardò oltre le spalle. Andiamo, Saphira, dove sei?

Per tutta risposta, la dragonessa comparve come una saetta dalla cortina di fumo livido, le ali aderenti al corpo. Sgusciò sotto di lui e aprì le ali per frenare la picchiata. Attento a non finire impalato su una delle sue punte, Eragon tornò in sella, accogliendo con sollievo il ritorno del proprio peso mentre lei riprendeva quota.

Non farmelo fare mai più, ringhiò lei.

Lui osservò il sangue fumante che scorreva lungo la lama di Zar'roc. Ha funzionato, però.

La sua soddisfazione scomparve quando si rese conto che l'acrobazìa aveva messo Saphira alla mercé del drago rosso. La creatura si avventò su di lei, impedendole ogni via di fuga per costringerla al suolo. Saphira cercava di manovrare sotto di lui, ma ogni volta che lo faceva, il drago si tuffava su di lei a fauci spalancate, colpendola con le ali per farle cambiare rotta.

I draghi continuarono a rincorrersi e a urtarsi finché le lingue non penzolarono dalle bocche, le code si afflosciarono e i due smisero di battere le ali, lasciandosi planare.

La mente ancora una volta chiusa a ogni contatto, amichevole o meno, Eragon gridò ad alta voce: «Atterra, Saphira; così è inutile. Lo combatterò a piedi.»

Con un grugnito di esausta rassegnazione, Saphira discese sullo spiazzo aperto più vicino, un piccolo altopiano roccioso sulla riva occidentale del fiume. L'acqua rosseggiava del sangue della carneficina. Non appena Saphira ebbe toccato terra, Eragon balzò di sella e saggiò il terreno con i piedi: era liscio e compatto, senza ostacoli su cui inciampare. Annuì, compiaciuto.

Qualche secondo dopo, il drago rosso spazzò l'aria sopra di loro e atterrò sul lato opposto del pianoro. Teneva la zampa posteriore sinistra sollevata dal terreno, per non pesare sulla ferita, un lungo squarcio che gli aveva quasi reciso il muscolo. Era scosso da violenti tremiti, come un cane malato. Cercò di saltellare, poi si fermò e ringhiò contro Eragon. Il Cavaliere nemico si liberò delle cinghie e scivolò lungo il fianco sano del suo drago. Poi gli girò intorno per esaminare la ferita. Eragon lo lasciò fare; sapeva quanto dolore doveva provare l'uomo nel vedere il danno inflitto al suo compagno. Ma aspettò troppo a lungo, perché il Cavaliere mormorò qualche parola indecifrabile, e in tre secondi la ferita del drago fu risanata.

Eragon rabbrividì di terrore. Come ha fatto a guarirla così in fretta, e con una formula così breve? Eppure, chiunque fosse, il nuovo Cavaliere non era certo Galbatorix, che cavalcava un drago nero.

Eragon si appigliò a quella consapevolezza mentre avanzava per affrontarlo. Mentre si incontravano al centro dell'altopiano, Saphira e il drago rosso si fronteggiavano girando uno intorno all'altra sullo sfondo. Il Cavaliere afferrò il suo spadone con entrambe le mani e lo fece roteare sopra la testa. Nel momento in cui lo calava con forza, Eragon sollevò Zar'roc per difendersi, e le due lame cozzarono in un'esplosione di scintille rosse. Eragon respinse l'avversario ed eseguì una serie di manovre complesse, sferrando e parando colpi, mentre danzava leggero sulle punte dei piedi e costringeva il Cavaliere a indietreggiare verso il ciglio del pianoro.

Quando arrivarono al margine, il Cavaliere mantenne la posizione, parando tutti gli assalti di Eragon, che pure erano fulminei e improvvisi. È come se riuscisse ad anticipare le mie mosse, pensò Eragon, frustrato. Se fosse stato fresco e riposato, gli sarebbe stato facile battere l'avversario, ma così non riusciva ad averne ragione. Il Cavaliere non possedeva la prontezza e la forza di un elfo, ma le sue capacità tecniche erano superiori a quelle di Vanir e paragonabili a quelle di Eragon.

Eragon provò una fitta di panico quando si accorse che la carica di energia iniziale si andava esaurendo in fretta, e che non era riuscito a infliggere all'avversario più di qualche ammaccatura sul pettorale scintillante. Le ultime riserve di potere conservate nel rubino di Zar'roc e nella cintura di Beloth il Savio bastarono appena a sostenere i suoi sforzi per un altro minuto. Il Cavaliere fece un passo avanti. Poi un altro. In men che non si dica, i due contendenti erano tornati al centro del pianoro, dove continuarono a scambiarsi colpi.

Zar'roc era diventata così pesante che Eragon riusciva a stento a sollevarla. La spalla gli bruciava, e lui ansimava come un mantice, e aveva il volto madido di sudore. Nemmeno il desiderio di vendicare la morte di Rothgar poteva aiutarlo a superare la stanchezza.

A un tratto scivolò e cadde. Deciso a non essere ucciso mentre era a terra, si rialzò con uno scatto di reni e si slanciò contro il Cavaliere, che gli fece volare via Zar'roc di mano con una semplice torsione del polso.

Il modo in cui il Cavaliere tracciò un florilegio nell'aria con il suo spadone - facendolo roteare rapidamente al suo fianco

- parve d'un tratto familiare a Eragon, come la sua abilità nella scherma. Riprese rapido la sua spada, fissò con orrore crescente lo spadone a una mano e mezza del suo nemico, poi la fessura nella visiera del suo elmo scintillante, e gridò: «Io ti conosco!»

In un impeto di furia, si avventò sul Cavaliere, bloccando le spade di entrambi fra i loro corpi, infilò le dita sotto il bordo dell'elmo e glielo strappò dalla testa.

Al centro del pianoro, ai margini delle Pianure Ardenti di Alagaésia, c'era Murtagh.

Eldest

Murtagh sorrise. Poi disse: «Thrysta vindr» e un globo compatto d'aria si formò fra di loro, colpendo Eragon al petto per spedirlo a venti iarde di distanza.

Eragon sentì Saphira ringhiare mentre lui atterrava di schianto sulla schiena. La sua visione baluginò di lampi rossi e neri, mentre si raggomitolava su se stesso aspettando che il dolore scemasse. Qualunque piacere avesse provato nella ricomparsa di Murtagh fu spazzato via dalle macabre circostanze del loro incontro. Una instabile miscela di orrore, confusione e rabbia ribolliva dentro di lui.

Abbassata la spada, Murtagh puntò la mano guantata d'acciaio contro di lui, con l'indice teso. «Non ti arrendi mai.» Eragon si sentì scorrere un brivido gelido lungo la schiena, nel riconoscere la scena della premonizione che aveva avuto navigando sull'Az Ragni verso Hedarth: Un uomo annaspava nel fango con l'elmo ammaccato e l'armatura insanguinata, il volto celato da un braccio alzato. Una mano guantata d'acciaio entrò nella visuale di Eragon, con l'indice teso verso l'uomo riverso, implacabile e crudele come il fato stesso. Passato e futuro si erano ricongiunti. Il destino di Eragon stava per compiersi.

Rialzandosi in piedi a fatica, Eragon tossì e disse: «Murtagh... com'è possibile che tu sia vivo? Ho visto gli Urgali trascinarti sotto terra. Ho cercato di divinarti con la cristallomanzia, ma ho visto soltanto tenebre.» Murtagh proruppe in una risata amara. «Non hai visto niente, come io non ho visto niente tutte le volte che ho tentato di raggiungerti mentre ero a Urù'baen.»

«Ma tu sei morto!» esclamò Eragon, illogico. «Sei morto nelle gallerie del Farthen Dùr. Arya ha trovato i tuoi abiti insanguinati.»

Un'ombra passò sul volto di Murtagh. «No, non sono morto. È stata opera dei Gemelli. Hanno preso il controllo di un gruppo di Urgali e hanno ordito la trappola per uccidere Ajihad e catturare me. Poi mi hanno stregato perché non potessi scappare e mi hanno trasportato a Urù'baen.»

Eragon scuoteva il capo, incapace di comprendere quanto era successo. «Ma perché hai accettato di servire Galbatorix? Mi hai detto che lo odiavi. Mi hai detto...»

«Accettato!» Murtagh rise di nuovo, questa volta con una nota isterica. «Io non ho accettato un bel niente. Prima di tutto, Galbatorix mi ha punito per aver rinnegato gli anni di protezione quando ero ragazzo a Urù'baen, per aver sfidato la sua volontà ed essere fuggito. Poi mi ha estorto tutte le informazioni in mio possesso su di te, Saphira e i Varden.» «Ci hai traditi! Io piangevo per te, e tu ci tradivi!»

«Non ho avuto scelta.»

«Ajihad aveva ragione a diffidare di te. Avrebbe dovuto lasciarti marcire in cella, così niente di tutto...» «Non ho avuto scelta!» ringhiò Murtagh. «Quando l'uovo di Castigo si è schiuso per me, Galbatorix ci ha costretti a giurargli fedeltà nell'antica lingua. Non possiamo disobbedirgli.»

Pietà e disgusto crebbero in Eragon. «Sei diventato come tuo padre.»

Uno strano scintillio balenò negli occhi di Murtagh. «No, non come mio padre. Io sono più forte di Morzan. Galbatorix mi ha insegnato cose sulla magia che tu non ti sogni neppure... Formule così potenti che gli elfi non osano nemmeno pensare, codardi come sono. Parole nell'antica lingua che erano andate perdute finché Galbatorix non le ha riscoperte. Modi per manipolare l'energia... Segreti, segreti terribili, che possono distruggere i nemici e realizzare i sogni.» Eragon ripensò alle lezioni di Oromis e replicò: «Cose che dovevano restare segrete.»

«Se le conoscessi, non diresti così. Brom era un dilettante, niente di più. E gli elfi... bah! Tutto quello che sanno fare è restare nascosti nella loro foresta in attesa di essere conquistati.» Murtagh fece scorrere lo sguardo su Eragon. «Sembri un elfo, adesso. È stata Islanzadi a farti questo?» Quando Eragon rimase in silenzio, Murtagh sorrise e scrollò le spalle. «Non importa. Scoprirò presto la verità.» Si fermò, aggrottò la fronte e guardò a oriente. Seguendo il suo sguardo, Eragon vide i Gemelli schierati in prima linea con l'Impero, impegnati a scagliare globi di energia sui Varden e sui nani. La cortina di fumo gli impediva di accertarlo, ma Eragon era sicuro che i due stregoni calvi stessero ridendo mentre trucidavano gli uomini di cui un tempo si professavano amici. Quello che i Gemelli mancarono di osservare - ma che era chiaramente visibile dal punto di osservazione elevato di Eragon e Murtagh - era che Roran stava strisciando verso di loro da un lato.

Eragon si sentì mancare il cuore quando riconobbe il cugino. Pazzo! Vattene via di lì! Ti uccideranno! Non appena ebbe aperto la bocca per evocare un incantesimo che avrebbe trasportato Roran lontano dal pericolo - per quanto gli sarebbe costato - Murtagh disse: «Aspetta. Voglio vedere cosa fa.»

«Perché?»

Un bieco sorriso increspò il volto di Murtagh. «I Gemelli si sono divertiti a torturarmi mentre ero loro prigioniero.» Eragon lo squadrò con sospetto. «Non gli farai del male? Non avvertirai i Gemelli?»

«Vel ernradhin iet ai Shur'tugal.» La mia parola di Cavaliere.

Insieme videro Roran nascondersi dietro un mucchio di cadaveri. Eragon s'irrigidì quando i Gemelli guardarono verso la pila. Per un momento, ebbe l'impressione che lo avessero individuato, ma poi si volsero, e Roran balzò allo scoperto. Fece roteare il martello e colpì uno dei Gemelli sul capo, spaccandogli il cranio. Il Gemello superstite cadde in terra, in preda alle convulsioni, ed emise un grido inarticolato prima di incontrare la sua fine sotto il martello di Roran. Poi Roran piantò un piede sui cadaveri dei nemici, levò il martello al cielo e lanciò un ululato di vittoria.

«E adesso?» chiese Eragon, distogliendo lo sguardo dal campo di battaglia. «Mi ucciderai?»

«No. Galbatorix ti vuole vivo.»

«Per quale motivo?»

Murtagh sollevò un angolo della bocca in un bieco sorriso. «Non lo sai? Ha! Mi sorprende. Lui non ti vuole per te stesso, ma per lei.» Indicò con il pollice Saphira alle sue spalle. «Il drago racchiuso nell'ultimo uovo di Galbatorix, l'ultimo uovo di drago al mondo, è un maschio. Saphira è l'unica femmina esistente. Se si accoppierà, darà vita a una nuova stirpe di draghi. Capisci, adesso? Galbatorix non vuole distruggere i draghi. Al contrario, vuole Saphira per ripristinare i Cavalieri. Non può uccidervi, se vuole vedere realizzata la sua visione... E che visione, sapessi, Eragon. Dovresti sentirlo mentre te la descrive: così non penseresti troppo male di lui. È così spregevole che voglia riunire Alagaésia sotto un unico vessillo, eliminare le guerre e rifondare i Cavalieri?»

«Ma se è stato lui per primo la causa della loro distruzione!» i

«E non a torto» ribattè Murtagh. «Erano vecchi, grassi e corrotti. Gli elfi li controllavano e li usavano per soggiogare gli umani. Dovevano essere eliminati per poter cominciare daccapo.»

Un furioso cipiglio alterò i lineamenti di Eragon. Prese a camminare avanti e indietro sul pianoro, col respiro affannato, poi indicò il campo di battaglia e disse: «Come puoi giustificare tutta quella sofferenza con i vaneggiamenti di un pazzo? Galbatorix non ha fatto altro che bruciare e uccidere e accumulare potere per se stesso. È un bugiardo. Un assassino. Un abile manipolatore. E tu lo sai! È il motivo per cui all'epoca ti rifiutasti di lavorare per lui.» Eragon fece una pausa, poi assunse un tono più mite: «Posso capire che tu sia stato costretto ad agire contro la tua volontà e che non sia responsabile per la morte di Rothgar. Ma puoi sempre fuggire. Sono sicuro che Arya e io troveremo il modo di neutralizzare i vincoli con cui ti tiene legato Galbatorix... Unisciti a me, Murtagh. Puoi fare tanto per i Varden. Con noi sarai lodato e ammirato, invece che maledetto, temuto e odiato.»

Per un momento, quando Murtagh abbassò lo sguardo sul suo spadone, Eragon sperò che avrebbe accettato. Ma poi Murtagh mormorò: «Non puoi aiutarmi, Eragon. Nessuno tranne Galbatorix può scioglierci dal nostro giuramento, e lui non lo farà mai... Conosce i nostri veri nomi, Eragon... Siamo suoi schiavi per sempre.»

Per quanto si sforzasse, Eragon non potè fare a meno di provare compassione per la disgrazia di Murtagh. Con espressione solenne, disse: «Allora lascia che vi uccida.»

«Ucciderci! E perché dovrei lasciartelo fare?»

Eragon scelse le parole con cautela. «Per liberarti dal controllo di Galbatorix. E per salvare la vita di centinaia, migliaia di persone. Non è una causa abbastanza nobile per sacrificare te stesso?»

Murtagh scosse il capo. «Forse per te, ma la vita mi è troppo dolce per separarmene. La vita di nessuno è più importante della mia o di quella di Castigo.»

Malgrado la sua riluttanza, malgrado tutta la terribile situazione, Eragon capì allora cosa andava fatto. Rinnovando l'attacco alla mente di Murtagh, si lanciò su di lui, spiccando un balzo con entrambi i piedi, deciso a colpirlo dritto al cuore.

«Letta!» latrò Murtagh.

Eragon rimbalzò all'indietro e fu immobilizzato da catene invisibili che gli serravano braccia e gambe. Alla sua destra, Saphira sprigionò un getto di fuoco e si avventò su Murtagh come un gatto su un topo.

«Risa!» ordinò Murtagh, allungando una mano ad artiglio come per prenderla.

Saphira strillò sorpresa quando l'incantesimo di Murtagh la bloccò a mezz'aria, tenendola sospesa a diversi piedi dal suolo. Per quanto si divincolasse, non riusciva a toccare terra né ad alzarsi in volo.

Come fa a essere ancora umano e a possedere una forza del genere? si chiese Eragon. Perfino con le mie nuove facoltà, un tale sforzo mi farebbe mancare il respiro e mi taglierebbe le gambe. Ricorrendo alla sua esperienza nel contrastare gli incantesimi di Oromis, Eragon disse: «Brakka du vanyali sem huildar Saphira un eka!»

Murtagh non accennò nemmeno a fermarlo, ma si limitò a scoccargli un'occhiata vacua, come se considerasse la resistenza di Eragon un fastidioso inconveniente. Scoprendo i denti, Eragon raddoppiò gli sforzi. Le sue mani divennero fredde, le ossa gli dolevano, il battito cardiaco rallentò mentre l'energia si consumava. Di sua iniziativa, Saphira unì le proprie forze alle sue, dandogli accesso alle formidabili risorse del suo corpo. Passarono cinque secondi... Venti secondi... Una vena pulsava nel collo di Murtagh.

Un minuto...

Un minuto e mezzo... Spasmi involontari scuotevano il corpo di Eragon. Le cosce e i polpacci gli tremavano, e le gambe gli avrebbero ceduto, se fosse stato libero di muoversi.

Due minuti...

Eragon fu costretto a rinunciare alla magia, altrimenti sarebbe svenuto e finito nel vuoto. Si accasciò, sfinito. In altre occasioni aveva provato paura, ma soltanto perché pensava di poter fallire. Ora aveva paura perché non sapeva che cosa Murtagh fosse in grado di fare.

«Non puoi nemmeno sperare di competere con me» disse Murtagh. «Nessuno è alla mia altezza, tranne Galbatorix.» Avvicinatosi a Eragon, gli posò la punta dello spadone sulla gola, facendogli il solletico alla pelle. Eragon resistette all'impulso di ritrarsi. «Sarebbe così facile riportarti a Urù'baen.»

Eragon lo guardò dritto negli occhi. «Non farlo. Lasciami andare.»

«Hai appena tentato di uccidermi.»

«Tu avresti fatto lo stesso al posto mio.» Davanti al silenzio e allo sguardo inespressivo di Murtagh, Eragon disse: «Eravamo amici, un tempo. Abbiamo combattuto insieme. Galbatorix non può averti corrotto al punto da farti dimenticare... Se lo fai, Murtagh, sarai perduto per sempre.»

Passò un lungo minuto. L'unico suono era il clamore degli eserciti che si scontravano. Un rivoletto di sangue colava lungo il collo di Eragon dal punto in cui la spada lo feriva. Saphira frustava l'aria con la coda, impotente. Alla fine Murtagh disse: «Mi è stato ordinato di tentare di catturare te e Saphira.» Fece una pausa. «Ho tentato... Fai in modo di non incrociare più il mio cammino, Eragon. Galbatorix mi farà giurare nell'antica lingua di non mostrare più tanta clemenza la prossima volta che ci incontreremo.» Abbassò lo spadone.

«Stai facendo la cosa giusta» disse Eragon. Provò a indietreggiare, ma era ancora paralizzato.

«Forse. Ma prima di lasciarti andare...» Dopo aver teso una mano, Murtagh strappò Zar'roc dalla stretta di Eragon e slacciò il fodero rosso della spada dalla cintura di Beloth il Savio. «Se sono diventato come mio padre, allora avrò la spada di mio padre. Castigo è il mio drago, e un castigo sarà per tutti i miei nemici. Perciò è più che giusto che io impugni la spada Miseria. Miseria e Castigo, una coppia perfetta. Per giunta, Zar'roc doveva andare al primogenito di Morzan, il suo Eldest, e non al figlio minore. Mi appartiene di diritto.»

Per Eragon, fu come un pugno allo stomaco. Non può essere.

Un sorriso crudele comparve sul volto di Murtagh.

«Non ti ho mai detto il nome di mia madre, vero? E tu non mi hai mai detto quello della tua. Te lo dico adesso: Selena. Selena era mia madre, come anche la tua. I Gemelli scoprirono il legame mentre ti frugavano nella testa. Galbatorix è , rimasto particolarmente colpito da questa notizia.»

«Tu menti!» gridò Eragon. Non poteva sopportare il pensiero di essere il figlio di Morzan. Brom lo sapeva? Oromis lo sapeva? Perché non me l'hanno detto? Rammentò allora che Angela gli aveva predetto che qualcuno della sua famiglia lo avrebbe tradito. Aveva ragione.

Murtagh scosse il capo e ripetè le stesse parole nell'antica lingua, poi avvicinò le labbra all'orecchio di Eragon e sussurrò: «Tu e io, Eragon, siamo uguali. Immagini speculari l'uno dell'altro. Non puoi negarlo.»

«Ti sbagli» ringhiò Eragon, lottando contro l'incantesimo. «Non siamo affatto uguali. Io non ho più una cicatrice sulla schiena.» il Murtagh trasalì come se lo avessero colpito, poi il suo volto si fece duro e gelido. Si portò Zar'roc al petto. «E sia. Prendo la mia eredità da te, fratello. Addio.»

Poi raccolse l'elmo da terra e salì in groppa a Castigo. Non una volta si girò a guardare Eragon, mentre il drago si accovacciava, dispiegava le ali e si levava in volo, allontanandosi dal pianoro per puntare a nord. Solo quando Castigo svanì oltre l'orizzonte, la ragnatela di magia si dissolse, ed Eragon e Saphira furono liberi.

Gli artigli della dragonessa ticchettarono sulla roccia quando atterrò. Si avvicinò a Eragon e gli sfiorò il braccio con il muso. Come stai, piccolo mio?

Sto bene, rispose lui. Ma non era vero, e lei lo sapeva.

Eragon si avvicinò al ciglio dell'altopiano e scrutò le Pianure Ardenti e l'esito della battaglia: perché la battaglia era finita. Con la morte dei Gemelli, i Varden e i nani avevano riconquistato il terreno perduto, ed erano riusciti a mettere in rotta le formazioni di soldati confusi, spingendoli verso il fiume o ricacciandoli là da dove erano venuti. Sebbene il grosso delle forze fosse rimasto intatto, l'Impero aveva suonato la ritirata, senza dubbio per ricostituire l'esercito e prepararsi a un secondo tentativo di invasione del Surda. A terra rimasero cumuli di cadaveri di entrambi gli schieramenti, tanti umani e tanti nani da popolare un'intera città. Dense volute di fumo nero si levavano dai corpi che erano caduti sui fuochi di torba.

Ora che la battaglia si era conclusa, i falchi e le aquile, le cornacchie e i corvi discesero come un sudario sul campo. Eragon chiuse gli occhi. Le lacrime gli scorrevano da sotto le palpebre.

Avevano vinto, ma lui aveva perso.

Un abbraccio fraterno

Eragon e Saphira avanzavano fra i cadaveri disseminati sulle Pianure Ardenti, muovendosi adagio per le ferite e la stanchezza. Incontrarono altri superstiti che vagavano per il campo di battaglia, con gli occhi spenti che in realtà non vedevano, ma si smarrivano in lontananza.

Ora che la sete di sangue si era placata, Eragon non provava altro che una profonda sofferenza. La battaglia non aveva alcun senso per lui. È una tragedia che così tanti siano morti per opporsi a un unico pazzo. Si fermò per evitare un gruppo di frecce conficcate nel fango, e fu allora che notò lo squarcio sulla coda di Saphira, dove Castigo l'aveva azzannata, come pure molte altre ferite. Vieni, prestami la tua forza; ti guarirò.

Pensa prima ai feriti che sono in pericolo di vita.

Sicura?

Sicura, piccolo mio.

Con un cenno di assenso, Eragon si chinò e guarì il collo disarticolato di un soldato imperiale prima di spostarsi su uno dei Varden. Non faceva distinzioni fra amici e nemici, e trattava entrambi ai limiti delle sue capacità. Era così assorto nei propri pensieri, da prestare poca attenzione al lavoro che compiva. Avrebbe voluto rinnegare la rivelazione di Murtagh, ma tutto quello che Murtagh aveva detto di sua madre - della loro madre - coincideva con le poche cose che Eragon sapeva di lei: Selena che lasciava Carvahall una ventina d'anni prima; Selena che tornava una sola volta per dare alla luce Eragon; Selena che non s'era mai più vista. La sua mente tornò a quando lui e Murtagh erano arrivati nel Farthen Dùr. Murtagh gli aveva raccontato come sua madre si era all'improvviso dileguata dal castello mentre Morzan era a caccia di Brom, Jeod e dell'uovo di Saphira. Dopo che Morzan ebbe scagliato Zar'toc contro Murtagh quasi uccidendolo, la mamma deve avergli tenuto nascosta la seconda gravidanza, ed essere tornata a Carvahall per proteggermi da Morzan e Galbatorix.

Lo confortava sapere che Selena lo aveva amato tanto, ma questo non bastava a lenire il dolore che provava per la sua morte e la consapevolezza che non si sarebbero mai incontrati; per quanto legata a un filo sottile, aveva sempre coltivato la speranza che i suoi genitori fossero ancora vivi. Nel suo cuore non albergava più alcun desiderio di conoscere suo padre, ma con profonda amarezza si rammaricava di essere stato privato dell'opportunità di riallacciare il rapporto con sua madre.

Da quando era abbastanza grande da sapere di essere un orfano, Eragon si era sempre chiesto chi fosse suo padre, e perché la madre lo avesse fatto allevare da suo fratello Garrow con la moglie Marian. Le risposte alle sue domande erano arrivate così all'improvviso, e da una fonte così inaspettata, e in un momento così poco propizio, che non riusciva ancora a dare un senso a tutta la storia. Ci sarebbero voluti mesi, se non anni, prima di riuscire a riconciliarsi con la verità.

Eragon aveva sempre pensato che sarebbe stato felice di scoprire l'identità di suo padre. Ora che la conosceva, era disgustato. Quando era più piccolo, si era sempre divertito a fantasticare su suo padre, immaginandolo come un essere nobile e importante, anche se sapeva che era molto più probabile il contrario. Eppure non gli era mai venuto in mente, nemmeno nei sogni più bizzarri, di poter essere il figlio di un Cavaliere, meno che mai di uno dei Rinnegati. I sogni si erano trasformati in un incubo.

Sono stato generato da un mostro... Mio padre è stato colui che ha tradito i Cavalieri consegnandoli a Galbatorix. Eragon era stravolto.

No... Mentre guariva la colonna vertebrale spezzata di un uomo, osservò la situazione da una nuova prospettiva, che gli restituiva un briciolo di fiducia in se stesso. Morzan potrà anche avermi generato, ma non era mio padre. Garrow era mio padre. È stato lui ad allevarmi. A insegnarmi a vivere con onestà e rettitudine, con integrità. Io sono quello che sono grazie a lui. Versino Brom e Oromis sono miei padri più di Morzan. E mio fratello è Roran, non Murtagh. Annuì, deciso a tenersi aggrappato a quella convinzione. Fino ad allora non aveva mai accettato completamente Garrow come padre. E anche se Garrow era morto, riconoscerlo come tale gli dava un senso di sollievo, di vicinanza, e lo aiutò a mitigare l'orrore per Morzan.

Sei diventato saggio, osservò Saphira.

Saggio? Eragon scosse il capo. No, ho soltanto imparato a pensare. Questa è stata la lezione di Oromis. Eragon ripulì da uno strato di sporco il volto di un giovanissimo portabandiera, per assicurarsi che fosse morto, poi si raddrizzò, facendo una smorfia quando i muscoli protestarono con una fitta. Ti rendi conto che Brom doveva sapere tutto questo, vero? Perché altrimenti avrebbe scelto di nascondersi a Carvahall mentre aspettava che tu nascessi? Voleva tenere d'occhio il figlio del suo nemico. Lo turbava pensare che Brom l'avesse potuto ritenere una minaccia. E aveva ragione. Guarda che cosa mi è successo!

Saphira gli arruffò i capelli con una ventata d'alito caldo. Ricorda però una cosa: quali che fossero le ragioni di Brom, lui ha sempre cercato di proteggerci dal pericolo. È morto per salvarti dai Ra'zac.

Lo so... Credi che non me l'abbia detto perché temeva che potessi emulare Morzan, come ha fatto Murtagh? Certo che no.

Lui la guardò, incuriosito. Come fai a esserne tanto sicura? Lei alzò il capo, rifiutandosi di incontrare il suo sguardo o di rispondere. Pensala come vuoi, allora. Inginocchiandosi accanto a uno degli uomini di re Orrin, che aveva un freccia conficcata nel ventre, Eragon gli bloccò le braccia per impedirgli di contorcersi. «Calmati.»

«Acqua» si lamentò l'uomo. «Per amor del cielo... un po' d'acqua. Ho la gola secca come... sabbia. Ti prego, Ammazzaspettri.» Il sudore gli imperlava il viso.

Eragon sorrise, tentando di confortarlo. «Posso darti da bere subito, ma sarebbe meglio aspettare che ti abbia guarito. Ce la fai? Dopo, ti prometto che potrai avere tutta l'acqua che vuoi.»

«Me lo prometti, Ammazzaspettri?»

«Te lo prometto.»

L'uomo fremette per un'altra ondata di dolore prima di dire: «Va bene.»

Con l'aiuto della magia, Eragon estrasse la freccia, poi insieme a Saphira si adoperò per riparare gli organi interni dell'uomo, usando parte dell'energia dell'uomo stesso per alimentare l'incantesimo. Ci vollero parecchi minuti. Dopo, l'uomo si esaminò la pancia, si premette le mani sulla pelle intatta, poi guardò Eragon, con gli occhi colmi di lacrime. «Io... Ammazzaspettri, tu...»

Eragon gli porse la sua borraccia. «Tieni, bevi. Ne hai molto più bisogno di me.»

Cento iarde più in là, Eragon e Saphira superarono un muro di fumo acre e trovarono Orik e altri dieci nani - fra cui alcune donne - accovacciati intorno alla salma di Rothgar, adagiato su quattro scudi, risplendente nella sua armatura d'oro. I nani si strappavano i capelli e si picchiavano il petto, rivolgendo le loro lamentazioni al cielo. Eragon chinò la testa e mormorò: «Stydja unin mor'ranr, Rothgar Kònungr.»

Dopo un po', Orik li notò e si alzò, il viso rosso di pianto, la treccia della barba disfatta. Barcollò verso Eragon e senza tante cerimonie chiese: «Hai ucciso il responsabile di questa tragedia?»

«È fuggito.» Eragon non riuscì a spiegare che il Cavaliere era Murtagh.

Orik si battè un palmo con il pugno. «Barzuln!»

«Ma ti giuro su ogni pietra di Alagaésia che come membro del Dùrgrimst Ingietum farò di tutto per vendicare la morte di Rothgar.»

«Sì, Eragon. Tu sei il solo, oltre agli elfi, abbastanza forte da eliminare quel maledetto assassino. E quando lo troverai. .. riduci le sue ossa in polvere, strappagli i denti e versagli piombo fuso nelle vene, perché soffra ogni minuto di vita che ha rubato a Rothgar.»

«Non è stata una buona morte? Rothgar non avrebbe voluto morire in battaglia, con Volund in mano?» «In battaglia, certo, affrontando un nemico faccia a faccia. Non ucciso dal trucco di uno stregone...» Scuotendo la testa, Orik volse lo sguardo verso Rothgar, poi incrociò le braccia e abbassò il mento sul petto. Trasse alcuni respiri affannati. «Quando i miei genitori morirono di vaiolo, Rothgar mi ridiede la vita. Mi accolse nel suo palazzo. Mi nominò suo erede. Perderlo...» Orik si strinse la punta del naso fra il pollice e l'indice, per coprirsi il volto. «Perderlo è come perdere mio padre un'altra volta.»

Il dolore nella sua voce era così evidente che Eragon sentì di condividere il cordoglio del nano. «Ti capisco» disse. «Lo so, Eragon... Lo so.» Dopo un momento, Orik si asciugò gli occhi e indicò i dieci nani. «Prima di qualunque altra cosa, dobbiamo riportare Rothgar nel Farthen Dùr, perché possa essere sepolto con i suoi predecessori. Il Dùrgrimst Ingietum dovrà poi scegliere un nuovo grimstborith, e poi i tredici capiclan, compresi quelli che vedi qui, sceglieranno il nostro nuovo re fra di loro. Quello che accadrà dopo, non lo so. Questa tragedia rafforzerà alcuni clan e volgerà altri contro la nostra causa...» Scrollò di nuovo il capo.

Eragon gli posò una mano sulla spalla. «Non preoccuparti di questo, per ora. Non devi far altro che chiederlo, e il mio braccio e la mia volontà saranno al tuo servizio... Perché non vieni nella mia tenda a brindare alla memoria di Rothgar?» «Mi piacerebbe, ma non adesso. Non finché non avremo finito di implorare gli dei di assicurare a Rothgar un sereno passaggio nell'altra vita.» Lasciato Eragon, Orik tornò nel cerchio di nani e aggiunse la sua voce alle lamentazioni. Riprendendo il cammino per le Pianure Ardenti, Saphira disse: Rothgar era un grande re.

Sì, e un grande amico. Eragon sospirò. Dovremmo trovare Arya e Nasuada. Ormai non sono più in grado di guarire nemmeno un graffio, e loro devono sapere di Murtagh.

Sono d'accordo.

Si avviarono verso l'accampamento dei Varden, ma dopo appena qualche passo Eragon vide Roran venirgli incontro dal fiume Jiet. Si sentì prendere dalla trepidazione. Roran si fermò davanti a loro, con i piedi divaricati e ben piantati nel suolo, mentre la mascella si contraeva nello sforzo di parlare, ma era come se non riuscisse a emettere alcun suono. Poi sferrò a Eragon un pugno sul mento.

Sarebbe stato facile per Eragon evitarlo, e invece gli permise di colpirlo, ritraendosi appena quel tanto da evitare che Roran si sbucciasse le nocche.

E provò dolore.

Con una smorfia, Eragon affrontò il cugino. «Credo di essermelo meritato.»

«Stanne certo. Dobbiamo parlare.»

«Ora?»

«Non posso più aspettare. I Ra'zac hanno catturato Katrina, e mi serve il tuo aiuto per andarla a liberare. Katrina è in mano loro da quando siamo fuggiti da Carvahall.»

È così, allora. In quel momento Eragon capì perché Roran gli era parso tanto cupo e tormentato, e perché aveva portato l'intero villaggio nel Surda. Brom aveva ragione: Galbatorix ha mandato di nuovo i Ra'zac nella Valle Palancar. Aggrottò la fronte, dibattuto fra le sue responsabilità verso Roran e i suoi obblighi verso Nasuada. «C'è qualcosa che devo fare prima, poi potremo parlare. D'accordo? Puoi venire con me, se ti va.»

«Ti accompagno.»

Mentre avanzavano sulla terra martoriata, Eragon continuava a rivolgere occhiate furtive a Roran. Poi, a bassa voce, disse: «Mi sei mancato.»

Roran esitò, poi rispose con un brusco cenno della testa. Qualche passo dopo, disse: «Questa è Saphira, giusto? Jeod ha detto che si chiama così.»

«Sì.»

Saphira scrutò Roran con un occhio scintillante. Lui sostenne il suo esame senza distogliere lo sguardo, una cosa che pochi riuscivano a fare. Ho sempre voluto conoscere il compagno di cova di Eragon.

«Sa parlare!» esclamò Roran, quando Eragon ripetè le sue parole. Questa volta Saphira si rivolse direttamente alla sua mente. Cosa? Credevi che fossi muta come una lucertola del deserto?

Roran battè le palpebre. «Ti chiedo scusa. Non sapevo che i draghi fossero intelligenti.» Un sorriso amaro gli increspò le labbra. «Prima i Ra'zac e gli stregoni, ora nani, Cavalieri e draghi parlanti. A quanto pare il mondo è impazzito.» «A quanto pare.»

«Ho visto che duellavi con l'altro Cavaliere. L'hai ferito? Per questo è fuggito?»

«Aspetta. Lo saprai fra poco.»

Quando raggiunsero il padiglione che Eragon stava cercando, sollevò i lembi dell'ingresso ed entrò, seguito da Roran e dalla testa di Saphira. Al centro della tenda, Nasuada era seduta sul bordo del tavolo, impegnata in un'accesa discussione con Arya, mentre una cameriera l'aiutava a togliersi l'armatura ammaccata. La ferita alla coscia era stata guarita.

Nasuada s'interruppe a metà di un frase quando scorse i nuovi arrivati. Balzò giù dal tavolo e gettò le braccia al collo di Eragon, gridando: «Dov'eri finito? Credevamo che fossi morto o peggio.»

«Invece no.»

«La candela brucia ancora» mormorò Arya.

Facendo un passo indietro, Nasuada disse: «Non siamo più riusciti a vedere che cosa vi stava accadendo, dopo che tu e Saphira siete atterrati sul pianoro. Quando il drago rosso si è allontanato, e tu non tornavi, Arya ha cercato di mettersi in contatto con te, ma non sentiva niente, così abbiamo pensato...» Le mancò la voce. «Stavamo appunto discutendo del modo migliore per trasportare il Du Vrangr Gata e un intero battaglione di soldati dall'altra parte del fiume.»

«Mi dispiace. Non volevo farvi preoccupare. Solo che ero così stanco che mi sono dimenticato di abbassare le barriere mentali.» Poi Eragon presentò Roran. «Nasuada, vorrei presentarti mio cugino Roran. Ajihad deve avertene parlato. Roran, ledy Nasuada, capo dei Varden e mia signora. E questa è Arya Svit-kona, ambasciatrice degli elfi.» Roran s'inchinò a entrambe.

«È un vero onore conoscere il cugino di Eragon» disse Nasuada.

«Un vero onore» le fece eco Arya.

Quando ebbero finito le presentazioni, Eragon spiegò come l'intero villaggio di Carvahall era arrivato a bordo dell'Ala di Drago, e che Roran era il responsabile della morte dei Gemelli.

Nasuada inarcò un sopracciglio scuro. «I Varden sono in debito con te, Roran, per aver fermato la loro empietà. Chissà quali altre scelleratezze avrebbero potuto compiere i Gemelli prima che Eragon o Arya avessero il tempo di affrontarli. Ci hai aiutato a vincere questa battaglia, e non lo dimenticherò. Le nostre scorte sono limitate, ma provvedere affinchè ogni uomo e donna a bordo della vostra nave sia vestito e sfamato, e i malati curati.»

Roran s'inchinò ancora di più. «Grazie, ledy Nasuada.»

«Se non fossimo così a corto di tempo, mi piacerebbe sapere come e perché tu e il tuo villaggio siete sfuggiti agli uomini di Galbatorix, avete viaggiato fino al Surda, e ci avete trovati. Anche il solo elenco dei fatti nudi e crudi è di per sé un racconto straordinario. Intendo comunque conoscere i dettagli, specie perché sospetto riguardino Eragon, ma adesso devo occuparmi di questioni più urgenti.»

«Certo, ledy Nasuada.»

«Puoi andare, dunque.»

«Ti prego» intervenne Eragon, «lascia che resti. È giusto che sappia anche lui.»

Nasuada lo guardò, perplessa. «Va bene. Se lo desideri. Ma adesso basta con le chiacchiere. Veniamo al dunque. Dicci del Cavaliere!»

A beneficio di Roran, Eragon cominciò con una breve storia delle ultime tre uova di drago - due delle quali si erano ormai schiuse - spiegando chi fossero Morzan e Murtagh. Poi continuò descrivendo il duello suo e di Saphira con Castigo e il misterioso Cavaliere, dando particolare rilievo ai suoi poteri straordinari. «Quando si è rigirato la spada nella mano, mi sono reso conto che avevo già duellato contro di lui, così gli sono balzato addosso e gli ho strappato l'elmo.» Eragon fece una pausa.

«Era Murtagh, vero?» chiese Nasuada in tono sommesso.

«Come...?»

La donna sospirò. «Se i Gemelli erano sopravvissuti, va da sé che lo era anche Murtagh. Ti ha detto cosa è successo davvero quel giorno nel Farthen Dùr?»

Così Eragon raccontò come i Gemelli avevano tradito i Varden, reclutato gli Urgali e rapito Murtagh. Una lacrima scivolò sulla guancia di Nasuada. «È un peccato che sia accaduto a Murtagh, dopo che ne aveva già passate tante. Mi piaceva la sua compagnia a Tronjheim e credevo che fosse nostro alleato, malgrado le sue origini. Mi è difficile pensarlo come nemico.» Poi si rivolse a Roran. «Si direbbe che io sia personalmente in debito con te per aver eliminato i traditori che hanno assassinato mio padre.» Padri, madri, fratelli, cugini, pensò Eragon. Ogni cosa si stringe intorno alla famiglia. Facendo appello a tutto il suo coraggio, completò il racconto con il furto di Zar'roc da parte di Murtagh e la sua terribile rivelazione finale.

«Non è possibile» mormorò Nasuada.

Eragon lesse spavento e repulsione sul volto di Roran, prima che riuscisse a nascondere le proprie emozioni. Questo lo ferì più di ogni altra cosa.

«Forse Murtagh mentiva» suggerì Arya.

«Non vedo come. Quando ho insistito, mi ha ripetuto la stessa cosa nell'antica lingua.»

Un lungo, sgradevole silenzio riempì il padiglione.

Poi Arya disse: «Nessun altro deve saperlo. I Varden sono già abbastanza demoralizzati per la presenza di un nuovo Cavaliere. E resteranno ancora più sconvolti quando sapranno che si tratta di Murtagh, con cui hanno combattuto e di cui si sono fidati nel Farthen Dùr. Se si sparge la voce che Eragon Ammazzaspettri è il figlio di Morzan, gli uomini perderanno ogni illusione e nessuno vorrà più unirsi a noi. Nemmeno re Orrin dovrà saperlo.»

Nasuada si massaggiò le tempie. «Temo che tu abbia ragione. Un nuovo Cavaliere...» Scosse il capo. «Sapevo che un'eventualità del genere era possibile, ma non credevo che si sarebbe realizzata, dato che le ultime uova di Galbatorix continuavano a non schiudersi.»

«C'è una certa logica» osservò Eragon.

«La nostra missione è due volte difficile, ora. Oggi abbiamo vinto, ma l'Impero è ancora molto più numeroso, e adesso ci troviamo ad affrontare non uno ma due Cavalieri, entrambi molto più potenti di te, Eragon. Credi di poter sconfiggere Murtagh con l'aiuto dei maghi elfici?»

«Forse. Ma dubito che sia tanto sciocco da combattere loro e me insieme.» per lunghi minuti, discussero degli effetti che Murtagh poteva avere sulla loro campagna, e delle strategie per ridurli o eliminarli. Alla fine Nasuada disse: «Basta così. Non possiamo decidere ora, sporchi, stanchi e ottenebrati dalla battaglia. Andate a riposarvi, e riprenderemo il discorso domattina.»

Quando Eragon si volse per andarsene, Arya si avvicinò e lo guardò dritto negli occhi. «Non farti affliggere troppo da questa storia. Tu non sei tuo padre e non sei tuo fratello. La loro infamia non è la tua.»

«Giusto» disse Nasuada. «E non pensare che questo sminuisca la nostra stima nei tuoi riguardi.» Gli prese il viso fra le mani. «Io ti conosco, Eragon. Hai il cuore buono. Il nome di tuo padre non può cambiarlo.»

Eragon si sentì pervadere da un tiepido calore. Guardò una donna, poi l'altra, e infine girò il polso e lo avvicinò al petto, traboccante di gratitudine per la loro amicizia. «Grazie.» Una volta tornati all'aperto, Eragon si pose le mani sui fianchi e trasse un profondo respiro di aria fumosa. La giornata volgeva al tramonto, e lo sgargiante arancio del giorno aveva lasciato il posto a una caliginosa luce dorata che avvolgeva l'accampamento e il campo di battaglia, conferendogli una strana bellezza. «Così adesso lo sai» mormorò Eragon.

Roran si strinse nelle spalle. «Il sangue non mente.»

«Non dirlo» ringhiò Eragon. «Non dirlo mai più.»

Roran lo studiò per parecchi istanti. «Hai ragione; è stato un pensiero orribile. Mi mangerei la lingua.» Si grattò la barba e guardò con gli occhi socchiusi il grande disco del sole che lambiva l'orizzonte. «Nasuada non è quello che mi aspettavo.»

La frase strappò una risata stanca a Eragon. «Quello che ti aspettavi era suo padre, Ajihad. Ma lei è abile quanto lui, se non di più.» «La sua pelle è tinta?»

«No, è il suo colore naturale.»

In quel momento, Eragon avvertì Jeod, Horst e una ventina di altri uomini di Carvahall di affrettarsi verso di loro. Nello svoltare da dietro una tenda, videro Saphira e rallentarono. «Horst!» esclamò Eragon, e corse verso il fabbro per abbracciarlo forte. «Che bello rivederti!»

Horst guardò Eragon a bocca aperta, poi un ampio sorriso gli illuminò il volto. «Che mi venga un colpo se anch'io non sono contento di rivederti, Eragon. Ti sei raffinato, da quando sei partito.»

«Vuoi dire da quando sono fuggito.»

Incontrare i vecchi compaesani fu una strana esperienza per Eragon. Le traversie avevano così alterato alcuni di loro che quasi non li riconosceva. E lo trattavano in maniera diversa, con un misto di rispetto e timore reverenziale. Gli sembrava di vivere un sogno, dove tutto quello che è familiare diventa remoto. Rimase turbato da come si sentiva fuori posto fra di loro.

Quando Eragon arrivò davanti a Jeod, si fermò. «Hai saputo di Brom?»

«Ajihad mi mandò un messaggio, ma vorrei sapere com'è andata da te.»

Eragon annuì con aria grave. «Non appena ne avremo l'occasione, siederemo insieme e parleremo a lungo.» Poi Jeod si avvicinò a Saphira e s'inchinò. «È una vita che aspetto di vedere un drago, e adesso in una sola giornata ne ho visti due. Sono davvero fortunato. Tuttavia sei tu il drago che volevo conoscere.»

Chinando il collo, Saphira sfiorò Jeod sulla fronte. L'uomo rabbrividì al contatto. Ringrazialo da parte mia per aver contribuito a salvarmi da Galbatorix. Altrimenti sarei ancora a languire nella stanza del tesoro del re. Era amico di Brom, e quindi è nostro amico.

Dopo che Eragon ebbe ripetuto le sue parole, Jeod disse: «Atra esterni ono thelduin, Saphira Bjartskular» sorprendendoli con la sua conoscenza dell'antica lingua.

«Dove eri finito?» chiese Horst a Roran. «Ti abbiamo cercato in lungo e in largo dopo che sei corso a caccia di quei due stregoni.»

«Non importa. Tornate alla nave e fate sbarcare tutti; i Varden ci daranno vitto e alloggio. Stanotte dormiremo sulla terraferma!» Gli uomini esultarono.

Eragon guardò con interesse come Roran impartiva ordini. Quando alla fine Jeod e i compaesani si furono allontanati, Eragon disse: «Si fidano di te. Perfino Horst ti obbedisce. Parli a nome di tutta Carvahall, adesso?» «Sì.»

Le tenebre avanzavano cupe sulle Pianure Ardenti quando giunsero alla piccola tenda a due posti che i Varden avevano assegnato a Eragon. Poiché Saphira non poteva nemmeno

infilare la testa nell'apertura, si accovacciò sul terreno lì fuori e si preparò a fare la guardia.

Non appena avrò recuperato le forze, mi occuperò delle tue ferite, le promise Eragon.

Lo so. Non restare alzato fino a tardi, stanotte.

All'interno della tenda, Eragon trovò una lanterna a olio che accese con l'acciarino e la pietra focaia. Poteva vederci benissimo al buio, ma Roran aveva bisogno della luce.

Si sedettero l'uno di fronte all'altro: Eragon sulla branda accostata a un lato della tenda, Roran su uno sgabello che trovò in un angolo. Eragon non sapeva come cominciare, così rimase in silenzio, fissando la fiamma tremula della lanterna.

Nessuno dei due si muoveva.

Dopo interminabili minuti, Roran disse: «Dimmi com'è morto mio padre.»

«Nostro padre.» Eragon rimase calmo quando l'espressione di Roran si indurì. Con voce gentile, disse: «Ho diritto di chiamarlo padre quanto te. Guarda nel tuo cuore; lo sai che è vero.»

«D'accordo. Nostro padre. Com'è morto?»

Eragon aveva raccontato l'episodio diverse volte, ma in questa occasione non nascose nulla. Invece del solito elenco di eventi, descrisse quello che aveva pensato e provato da quando aveva scoperto l'uovo di Saphira, nel tentativo di far capire a Roran perché aveva fatto quello che aveva fatto. Non era mai stato così in ansia prima. «Ho sbagliato a tenere nascosta Saphira al resto della famiglia» concluse Eragon, «ma temevo che avreste insistito perché la uccidessi, e non mi rendevo conto del pericolo in cui ci metteva tutti. Se lo avessi fatto... Dopo che Garrow morì, decisi di andarmene per rintracciare i Ra'zac, e per evitare di mettere ancora Carvahall in pericolo.» Gli sfuggì una risata amara. «Non ha funzionato, ma se fossi rimasto, i soldati sarebbero arrivati prima. E allora chi può sapere che cosa sarebbe successo? Forse sarebbe arrivato lo stesso Galbatorix a far visita alla Valle Palancar. Io posso essere la ragione per cui Garrow... papà... è morto, ma non è mai stata mia intenzione, come non avrei mai voluto che tu o gli altri abitanti di Carvahall soffriste per le mie scelte...» Fece un gesto di disperata impotenza. «Ho fatto meglio che ho potuto, Roran.»

«E il resto? Brom che era un Cavaliere, il salvataggio di Arya a Gil'ead, l'uccisione di uno Spettro nella capitale dei nani... è tutto successo davvero?»

«Sì.» A grandi linee, Eragon tracciò il quadro completo di quanto gli era capitato da quando era fuggito con Brom, compreso il suo soggiorno a Ellesméra e la sua trasformazione durante l'Agaeti Blòdhren.

Chinandosi in avanti, Roran appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si strinse le mani e fissò il terreno fra i piedi. Era impossibile per Eragon decifrare le sue emozioni senza toccargli la mente, cosa che decise di non fare perché sapeva che sarebbe stato un terribile errore invadere l'intimità di Roran.

Roran rimase in silenzio così a lungo che Eragon cominciò a chiedersi se avrebbe mai parlato. Poi: «Hai commesso degli errori, ma non più grandi dei miei. Garrow è morto perché hai tenuto nascosta Saphira. Molti sono morti perché mi sono rifiutato di consegnarmi all'Impero... Siamo ugualmente colpevoli.» Alzò lo sguardo, poi lentamente tese la mano destra. «Fratello?»

«Fratello» disse Eragon.

Afferrò il braccio di Roran, poi lo attirò a sé, e i due si strinsero in un abbraccio fraterno, dandosi grosse pacche sulla schiena e dondolandosi insieme come facevano da ragazzi. Quando si separarono, Eragon si asciugq gli occhi col dorso della mano. «Galbatorix dovrà arrendersi, ora

che ci siamo riuniti» scherzò. «Chi può resisterci?» Si sedette di nuovo sulla branda. «Ora dimmi, come hanno fatto i Ra'zac a rapire Katrina?»

Ogni traccia di gioia svanì di colpo dal viso di Roran. Cominciò a parlare con voce bassa e monotona, ed Eragon ascoltò sempre più stupito mentre Roran tesseva un racconto di attacchi, assedi, e tradimenti; della partenza da Carvahall, dell'attraversamento della Grande Dorsale, e dell'incendio dei moli di Teirm, e della navigazione su un mostruoso gorgo.

Alla fine Eragon disse: «Sei un uomo molto più valoroso di me. Io non avrei potuto fare la metà delle cose che hai fatto tu. Combattere sì, ma non convincere tutti a seguirmi.»

«Non avevo scelta. Quando hanno preso Katrina...» La voce di Roran si spezzò. «Potevo arrendermi e morire, oppure tentare di sfuggire alla trappola di Galbatorix, a ogni costo.» Fissò i suoi occhi ardenti su Eragon. «Ho mentito e bruciato e ucciso per arrivare qui. Non devo più preoccuparmi di proteggere gli abitanti di Carvahall; ci penseranno i Varden, d'ora in poi. Adesso non ho che un unico scopo nella vita, trovare e liberare Katrina, se non è già morta. Mi aiuterai, Eragon?»

Eragon si alzò e andò a prendere le bisacce nell'angolo della tenda dove i Varden le avevano depositate. Prese una ciotola di legno e la fiaschetta d'argento con il faelnirv stregato che gli aveva dato Oromis. Bevve un piccolo sorso di liquore per rinvigorirsi e sussultò quando il liquido gli bruciò la gola, facendogli formicolare i nervi di gelido fuoco. Poi versò del faelnirv nella ciotola fino a formare una piccola pozza di liquido.

«Guarda.» Attingendo alla nuova energia, Eragon disse: «Draumr kópa.»

Il liquore tremolò e divenne nero. Dopo qualche secondo, una piccola scintilla di luce comparve al centro della ciotola, mostrando Katrina. Era accasciata contro una parete invisibile, le mani sospese sopra la testa da catene invisibili, i capelli ramati che le piovevano sul viso.

«È viva!» Roran si chinò sulla ciotola, afferrandola come se volesse tuffarsi nel faelnirv e raggiungere Katrina. La sua speranza e la sua determinazione si fusero con un'espressione di affetto così tenero che Eragon capì che soltanto la morte avrebbe impedito a Roran di salvarla.

Incapace di trattenere l'incantesimo più a lungo, Eragon lasciò che l'immagine svanisse. Si appoggiò alla parete della tenda per sostenersi. «Sì» mormorò con voce debole, «è viva. E con tutta probabilità si trova imprigionata sull'Helgrind, il covo dei Ra'zac.» Eragon afferrò Roran per le spalle. «La risposta alla tua domanda, fratello, è sì. Partirò per DrasLeona con te. Ti aiuterò a liberare Katrina. E allora, insieme,

tu e io, uccideremo i Ra'zac e vendicheremo nostro padre.»

Fine del Libro Secondo

La storia continuerà con Il Libro Terzo dell'Eredità Glossario

L'antica lingua

Adurna: acqua

Agaetì Blòdhren: Celebrazione del Giuramento di Sangue

Aiedail: Stella del Mattino

Argetlam: Mano d'Argento

Atra esterni ono thelduin/Mon'ranr lifa unin hjarta onr/Un du evarinya ono varda: Che la fortuna ti assista/che la pace regni nel tuo cuore/e che le stelle ti proteggano. Atra gùlai un ilian tauthr ono un atra ono waìse skolir fra rauthr: Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere una protezione dalla sventura.

Atra nosu waise vardo fra eld hórnya: Che possiamo essere protetti da orecchie indiscrete.

Bjartskular: Squamediluce

Blòthr: fermo; fermati

Brakka du vanyali sem huildar Saphira un eka!: Riduci la magia che blocca Saphira e me!

Brisingr: fuoco

Dagshelgr: giorno sacro

Draumr kópa: Rifletti l'immagine.

Du Fells Nàngoròth: le Montagne Funeste

Du Fyrn Skulblaka: la Guerra dei Draghi

Du Vòllar Eldrvarya: le Pianure Ardenti

Du Vrangr Gata: il Tortuoso Cammino

Du Weldenvarden: la Foresta dei Guardiani

Dvergar: nani

Ebrithil: maestro

Edur: uno sperone roccioso; un promontorio

Eka ai fricai un Shur'tughal: Sono un Cavaliere e un amico.

Elda: appellativo onorifico di grande rispetto (genere neutro)

Eyddr eyreya onr!: Svuota le orecchie!

Fairth: quadro realizzato con mezzi magici

Finiarel: appellativo onorifico per un giovane uomo di grandi promesse

Fricai Andlàt: morte amica (un fungo velenoso)

Gala O Wyrda brunhvitr/Abr Berundal vandr-fódhr/ Burthro laufsblàdar ekar undir/Eom kona dauthleikr... : Cantami oh fato dalla bianca fronte/dello sfortunato Berundal/nato sotto foglie di quercia/da donna mortale... Ganga aptr: Vai indietro.

Ganga fram: Vai avanti.

Gath sem oro un lam iet: Congiungi la freccia alla mia mano.

Gedwéy ignasia: palmo luccicante

Géuloth du knìfr!: Smussa la lama!

Haldthin: stramonio

Helgrind: i Cancelli della Morte

Hlaupa: corri

Hljòdhr: silente

Jierda: spezza; colpisci

Kodthr: prendi

Kvetha Fricai: Salute, amico.

Lethrblaka: pipistrello; le cavalcature dei Ra'zac (letteralmente, volatile di cuoio)

Letta: ferma

Letta orya thorna!: Ferma quelle frecce!

Liduen Kvaedhì: Poetica Scrittura

Losna kalfya iet: Liberami i polpacci.

Malthinae: lega/trattieni/confina

Nalgask: miscela di cera d'api e olio di noci usata per idratare la pelle

Osthato Chetòwa: il Saggio Dolente

Reisa du adurna: Solleva/Alza l'acqua.

Risa: levita

Sé mor'ranr ono firma: Che tu possa trovare la pace.

Sé onr sverdar sitja hvass!: Che la tua spada resti affilata!

Sé orùm thornessa hàvr sharjalvi lifs: Che questo serpente abbia il moto della vita.

Skòlir: protezione; scudo

Skòlir nosu fra brisingr!: Proteggici dal fuoco!

Skòliro: protetto

Skulblaka: drago (letteralmente, volatile di squame)

Stydja unin mor'ranr, Rothgar Kònungr: Riposa in pace, re

Rothgar. Svit-kona: appellativo onorifico e formale per una donna elfica di grande saggezza

Thrysta: spingi; comprimi

Thrysta vindr: Comprimi l'aria.

Togira Ikonoka: lo Storpio Che è Sano

Varden: Guardiani

Vel einradhin iet ai Shur'tugal: La mia parola di Cavaliere.

Vinr Àlfakyn: Amico degli Elfi

Vodhr: appellativo onorifico maschile di medio rispetto

Vor: appellativo onorifico per un caro amico

Waise heill: guarisci

Wiol ono: per te

Wyrda: fato; destino

Wyrdfell: nome elfico per i Rinnegati

Yawé: pegno di fiducia

Zar'roc: Miseria

La lingua dei nani

Akh sartos oen dùrgrimst!: Per la famiglia e il clan!

Ascùdgamln: pugni d'acciaio

Astim Hefthyn: Guardavista (iscrizione su una collana donata a Eragon)

Az Ragni: il Fiume

Az Sweldn rak Anhùin: le Lacrime di Anhùin

Azt jok jordn rast: Allora potete passare.

Barzul: augurare a qualcuno la malasorte

Barzul knurlar!: Che siano maledetti!

Barzuln: augurare a qualcuno una serie ininterrotta di sventure

Beor: orso delle cavèrne (parola elfica)

Dùrgrimst: clan (letteralmente, il nostro casato/la nostra dimora)

Età: no

Etzil nithgech!: Fermatevi qui!

Farthen Dùr: Nostro Padre

Feldùnost: barbabianca (una specie di capra nativa dei Monti Beor)

Formv Hrethcarach... formv Jurgencarmeitder nos età goroth bahst Tarnag, dùr encesti rak kythn! Jok is warrev az barzulegùr dùr dùrgrimst, Az Sweldn rak Anhùin, mògh tor rak Jurgenvren? Né ùdim etal os rast knurlag. Knurlag ana...: Questo Ammazzaspettri... questo Cavaliere dei Draghi non può entrare a Tarnag, la più sacra delle nostre città! Dimentichi che la sventura del nostro clan, le Lacrime di Anhùin, ha origine dalla Guerra dei Draghi? Non lo lasceremo passare. Lui è...

Grimstborith: capoclan

Grimstcarvlorss: patrona del casato

Gùntera Arùna: benedizione di Gùntera -H"rt dùrgrimst? Fild rastn?: Quale clan?TCni passa?

Hirna: statua; effigie

Hùthvir: arma costituita da un bastone a doppia lama, usata dal Dùrgrimst Quan

Ignh az voth!: Portate il cibo!

Ilf gauhnith: una particolare espressione che significa "È buono e sano", di norma pronunciata dal padrone di casa, retaggio dei tempi in cui avvelenare gli ospiti era abbastanza comune fra i clan

Ingietum: metallurgici; fabbri

Isidar Mithrim: Zaffiro Stellato

Jok is frekk dùrgrimstvren?: Vuoi una guerra di clan?

Knurl: pietra; roccia

Knurla: nano (letteralmente, uomo di pietra)

Knurlag qana qirànù Dùrgrimst Ingietum! Barzul ana Rothgar oer volfild: È stato fatto membro del clan Ingietum! Maledetto sia Rothgar e tutti quelli...

Knurlagn: uomini

Knurlhiem: Testa di Pietra

Knurlnien: Cuore di Pietra

Nagra: cinghiale gigante, nativo dei Monti Beor

Oei: sì; affermativo

Orile Thrifkz menthiv oen Hrethcarach Eragon rak Dùrgrimst Ingietum. Wharn, az vanyali-carharùg Arya. Né oc Ùndinz grimstbelardn: Orik, figlio di Thrifk, ed Eragon Ammazzaspettri del clan Ingietum. E la messaggera degli elfi, Arya. Siamo ospiti di Ùndin.

Os il dom qirànù cam dùr thargen, zeitmen, oen grimst vor formv edaris rak skilfz. Narho is belgond...: Che la nostra carne, il nostro onore e la nostra casa siano fatti una cosa soltanto con questo mio sangue. Mi impegno a... Otho: fede

Ragni Hefthyn: Guardiani del Fiume y Shrrg: lupo gigante, nativo dei Monti Beor

Smer voth: Servite il cibo.

Tronjheim: Elmo dei Giganti

Urzhad: orso delle cavèrne

Vanyali: elfo (I nani hanno mutuato questa parola dall'antica lingua, dove in realtà significa magia) Vor Rothgarz korda!: Per il martello di Rothgar!

Vrron: basta

Werg: un'esclamazione di disgusto (nella lingua dei nani, l'equivalente di bleah) La lingua degli Urgali

Ahgrat ukmar: È deciso.

Drajl: larve

Nar: titolo di grande rispetto (genere neutro)

Ringraziamenti

Rvetha Fricàya. Come molti autori che si dedicano alla composizione di un poema epico della lunghezza della Trilogia dell'Eredità, ho scoperto che la creazione di Eragon, e ora di Eldest, è diventata la mia ricerca personale, un percorso in continua evoluzione come quello di Eragon.

Quando ho ideato Eragon avevo quindici anni, non più un bambino, non ancora un uomo; ero appena uscito dal liceo, e non sapevo ancora quale cammino avrei intrapreso nella vita; ero un giovane fantasy-dipendente, stregato dalla magia di questo genere letterario che affollava i miei scaffali. Fra lo scrivere Eragon, il pubblicizzarlo in tutto il mondo e, adesso, l'aver completato Eldest, sono arrivato all'età adulta. Ho compiuto ventun anni ormai e con mio continuo stupore ho già pubblicato due romanzi. Sono convinto che al mondo siano successe cose ben più prodigiose, ma mai a me.

Il viaggio di Eragon è stato il mio viaggio: essere strappato da una remota comunità rurale, costretto a vagare per la terra in una disperata corsa contro il tempo; sopportare un intenso, duro addestramento; raggiungere il successo contro ogni aspettativa; affrontare le conseguenze della fama; e alla fine trovare un po' di pace.

Proprio come nella narrativa, quando il protagonista determinato e armato delle migliori intenzioni - ma non tanto brillante, vi pare? - viene aiutato lungo la via da una schiera di personaggi più saggi, anch'io sono stato aiutato da un certo numero di straordinarie persone di talento. E sono:

A casa: la mamma, per avermi ascoltato tutte le volte che dovevo parlare di un problema che riguardava la trama o i personaggi, e per avermi dato il coraggio di buttare dodici pagine di testo e riscrivere l'ingresso di Eragon a Ellesméra (che dolore!); il papà, come sempre, per il suo significativo lavoro di editing; e la mia cara sorella Angela, per essersi degnata di riprendere il suo ruolo di fattucchiera e per aver contribuito ai suoi dialoghi effervescenti. Alla Writer House: il mio agente, il grande e potente mastro di Clausole, Simon Lipskar, che rende possibile ogni cosa (Mervyn Peake!); e il suo impavido assistente Daniel Lazar, che impedisce al mastro di Clausole di venire sepolto da una valanga di manoscritti, molti dei quali temo siano dovuti al successo di Eragon.

Alla Knopf: il mio editor, Michelle Frey, che è andata ben oltre il semplice dovere e ha reso Eldest migliore di quanto sarebbe stato altrimenti; il direttore della pubblicità, Judith Haut, per aver ancora una volta dimostrato che nessuna promozione è al di là della sua portata (dovreste sentire come ruggisce!); Isabel Warren-Lynch, impareggiabile art director che con Eldest ha superato se stessa; John Jude Palencar, per l'immagine di copertina che mi piace ancora di più di quella di Eragon; il caporedattore Artie Bennett, che ha svolto un lavoro magnifico nel controllare tutte le parole oscure in questa trilogia e probabilmente conosce molto meglio di me l'antica lingua, anche se il suo Urgali lascia un po' a desiderare; Chip Gibson, gran maestro della divisione ragazzi della Random House; Nancy Hinkel, direttore editoriale straordinario Joan De Mayo,

direttore delle vendite (applausi, inchini e ovazioni!) e la sua squadra; Daisy Kline, che con la sua équipe ha creato il meraviglioso materiale di marketing; Linda Palladino, Rebecca Price e Timothy Terthune della produzione; un mare di grazie a Pam White e alla sua squadra, che hanno portato Eragon ai quattro angoli del mondo; Melissa Nelson, per il design; Alison Kolani, per la revisione delle bozze; Michele Burke, l'assistente devoto e instancabile di Michelle Frey; e tutti coloro alla Knopf che mi hanno sostenuto.

Alla Listening Library: Gerard Doyle, per aver dato vita al mondo di Alagaésia; Taro Meyer, per aver colto perfettamente la pronuncia delle mie lingue; Jacob Bronstein, per aver tirato le fila; e Tim Ditlow, editore della Listening Library.

Grazie a tutti voi. Manca soltanto un altro volume e giungeremo alla fine di questo racconto. Un altro manoscritto di affanni, estasi e perseveranza... Un altro codice di sogni.

Restate con me, se vi piace, e scopriremo insieme dove ci porta questo cammino, in questo mondo come in Alagaésia. Sé onr sverdar sitja hvass!

Christopher Paolini 23 agosto 2005