"Paolini3-Brisingr" - читать интересную книгу автора (Volodyk)CHRISTOPHER PAOLINI BRISINGR O LE SETTE PROMESSE DI ERAGON AMMAZZASPETTRI SAPHIRA SQUAMEDILUCE L'EREDITÀ LIBRO TERZO (Brisingr, 2008) SINOSSI DI Eragon, un ragazzo di quindici anni, si vede comparire davanti una lucida pietra blu durante una battuta di caccia sulla catena montuosa conosciuta come la Grande Dorsale. Porta la pietra con sé alla fattoria dove vive con suo zio Garrow e il cugino Roran, vicino al piccolo villaggio di Carvahall. Sono stati Garrow e la sua defunta moglie Marian ad allevare Eragon: non si è mai saputo nulla dell'identità di suo padre, mentre la madre, Selena, sorella di Garrow, ha fatto perdere le tracce subito dopo aver dato alla luce Eragon. Dopo qualche tempo, la pietra blu si frantuma e ne emerge un cucciolo di drago. È una femmina, e non appena Eragon la tocca, sul palmo della mano gli compare un luccicante marchio d'argento: fra le loro menti si crea un inscindibile legame che fa di Eragon uno dei leggendari Cavalieri dei Draghi. Eragon battezza la dragonessa Saphira, dopo aver ascoltato il cantastorie del villaggio, Brom, narrare di un drago con quel nome. L'ordine dei Cavalieri dei Draghi fu fondato al termine della terribile guerra fra elfi e draghi, migliaia di anni prima, allo scopo di impedire ulteriori ostilità fra le due razze. I Cavalieri diventarono garanti di pace, maestri, guaritori, filosofi e potenti stregoni: era proprio il vincolo con il drago a conferire al Cavaliere straordinarie capacità magiche. Sotto la loro guida, il paese di Alagaësia visse un'epoca d'oro. Quando gli umani giunsero in Alagaësia, anche alcuni di loro furono accolti nell'ordine. Dopo molti anni di pace, i bellicosi Urgali uccisero il drago di un giovane Cavaliere umano di nome Galbatorix. Reso folle dallo strazio della perdita e dal rifiuto degli anziani di concedergli un altro drago, Galbatorix elaborò un piano per distruggere i Cavalieri. Rapì un altro drago - che chiamò Shruikan, assoggettandolo al proprio volere con oscuri sortilegi - e radunò intorno a sé un gruppo di tredici traditori: i Rinnegati. Con l'aiuto dei suoi crudeli discepoli, Galbatorix uccise tutti i Cavalieri, compreso il loro capo, Vrael, e si autoproclamò re di Alagaësia. Le sue azioni scellerate costrinsero gli elfi a ritirarsi nei più profondi recessi della loro foresta, mentre i nani si eclissarono nelle gallerie e nelle caverne dei Monti Beor, e da allora nessuna delle due razze osò più avventurarsi fuori dai propri nascondigli. La tensione fra Galbatorix e le altre razze perdura da oltre un secolo, e i Rinnegati sono tutti morti per ragioni diverse. È in questa fragile condizione politica che Eragon si ritrova coinvolto suo malgrado. Alcuni mesi dopo la nascita di Saphira, due stranieri dall'aria minacciosa e dal corpo deforme giungono nel villaggio di Carvahall. Sono i Ra'zac e vanno in cerca della pietra blu, l'uovo di Saphira. Eragon e Saphira riescono a fuggire, ma le ripugnanti creature radono al suolo la casa di Garrow e lo uccidono. Il ragazzo giura solennemente di rintracciare i Ra'zac per ucciderli. Mentre sta per partire da Carvahall, viene avvicinato da Brom il cantastorie, che sa tutto di Saphira e gli offre la propria compagnia. Brom dona a Eragon una spada rossa, Zar'roc, appartenuta a uno dei Cavalieri dei Draghi, ma si rifiuta di dirgli dove l'ha trovata. Durante le lunghe tappe del loro viaggio Eragon impara da Brom molte cose, fra cui l'arte della scherma e l'uso della magia. Quando perdono le tracce dei Ra'zac, Brom suggerisce di andare a Teirm, una città portuale dove vive un suo vecchio amico, Jeod, che forse potrebbe aiutarli a scoprire il covo dei Ra'zac. A Teirm i due vengono a sapere che i Ra'zac vivono vicino alla città di Dras-Leona, ed Eragon incontra un'erborista, Angela, che gli predice il futuro. Anche Solembum, il gatto mannaro che si accompagna all'erborista, pronuncia fatidiche parole di ammonimento. Nel corso del viaggio verso Dras-Leona, Brom rivela di essere un agente dei Varden - un gruppo di ribelli che lottano per la destituzione di Galbatorix - e di essersi nascosto a Carvahall in attesa della comparsa di un nuovo Cavaliere dei Draghi. Vent'anni prima, Brom aveva rubato l'uovo di Saphira a Galbatorix e in quel frangente aveva ucciso Morzan, il primo e l'ultimo dei Rinnegati. Restano soltanto altre due uova di drago, ed entrambe sono ancora nelle mani di Galbatorix. Vicino a Dras-Leona, Eragon e Brom s'imbattono nei Ra'zac, che feriscono mortalmente Brom, intervenuto per proteggere Eragon. I Ra'zac vengono messi in fuga da un giovane misterioso di nome Murtagh. Prima di esalare l'ultimo respiro, Brom confessa di essere stato a suo tempo un Cavaliere e che anche la sua dragonessa uccisa si chiamava Saphira. Eragon e Saphira decidono di unirsi ai Varden, ma nella città di Gil'ead Eragon viene catturato e portato al cospetto di Durza, un potente e malvagio Spettro al servizio di Galbatorix. Con l'aiuto di Murtagh, Eragon evade dalla prigione, portando con sé l'elfa Arya, un'altra prigioniera di Durza nonché ambasciatrice dei Varden. Arya è stata avvelenata e ha immediato bisogno delle cure mediche dei Varden. Inseguiti da un contingente di Urgali, Eragon, Saphira, Murtagh e Arya fuggono attraversando tutto il territorio di Alagaësia per raggiungere il quartier generale dei Varden, annidato fra i giganteschi Monti Beor, alti oltre dieci miglia. Le circostanze costringono Murtagh - che non vuole andare dai Varden - a confessare di essere figlio di Morzan. Murtagh deplora i misfatti del padre e racconta di essere fuggito dalla corte di Galbatorix per seguire il proprio destino. Inoltre rivela a Eragon che la spada Zar'roc un tempo era appartenuta proprio a suo padre. Mentre stanno per essere sopraffatti dagli Urgali, Eragon e i suoi amici vengono salvati dai Varden, che vivono nel Farthen Dûr, la montagna cava che ospita la capitale dei nani, Tronjheim. Una volta all'interno, Eragon viene condotto al cospetto di Ajihad, il capo dei Varden, mentre Murtagh viene imprigionato a causa dei suoi natali. Eragon conosce il re dei nani, Rothgar, e la figlia di Ajihad, Nasuada, e la sua mente viene scrutata dai Gemelli, due viscidi stregoni al servizio di Ajihad. Eragon e Saphira impartiscono anche una benedizione a una neonata orfana dei Varden. All'improvviso giunge la notizia che un esercito di Urgali si sta avvicinando attraverso le gallerie scavate nei monti dai nani. Nella battaglia che segue, Eragon viene separato da Saphira e si trova a combattere Durza da solo. Molto più forte di qualsiasi essere umano, in pochi istanti lo Spettro ha la meglio su Eragon, infliggendogli una profonda ferita che gli solca la schiena dalla spalla fino al fianco. Ma in quel momento Arya e Saphira irrompono nella sala dall'alto - mandando in frantumi il grande Zaffiro Stellato che ne copriva la volta - ed Eragon approfitta dell'attimo di distrazione di Durza per colpirlo dritto al cuore. Liberati dai sortilegi di Durza, gli Urgali si disperdono e vengono ricacciati nelle gallerie. Nello stato d'incoscienza in cui versa dopo la battaglia, Eragon entra in contatto telepatico con Togira Ikonoka, lo Storpio Che è Sano, che lo invita a raggiungerlo a Ellesméra, la capitale degli elfi, per trovare finalmente una risposta ai suoi molti interrogativi. Quando Eragon riprende i sensi scopre di avere una terribile cicatrice che gli deturpa la schiena. Sgomento, si rende conto di aver sconfitto Durza per pura fortuna e di avere assoluto bisogno di riprendere il proprio addestramento. Alla fine del Libro Primo, Eragon decide di partire per andare in cerca di Togira Ikonoka per completare la sua istruzione. Eragon e Saphira decidono di andare a Ellesméra per iniziare l'addestramento con lo Storpio Che è Sano. Prima della partenza, il re dei nani, Rothgar, propone a Eragon di entrare a far parte del proprio clan, il Dûrgrimst Ingeitum. Eragon accetta: in questo modo acquisisce i pieni diritti legali dei nani e la facoltà di partecipare ai loro consigli. Arya e Orik, figlio adottivo di Rothgar, accompagnano Eragon e Saphira nel loro viaggio verso la terra degli elfi. Fanno tappa a Tarnag, una città dei nani dove vengono accolti con benevolenza, anche se Eragon scopre che un clan in particolare non vede di buon occhio lui e Saphira: l'Az Sweldn rak Anhûin. Il loro odio per i Cavalieri e i draghi deriva dal fatto che molti membri del loro clan sono stati massacrati dai Rinnegati. Il gruppo arriva finalmente nella Du Weldenvarden, la foresta degli elfi. A Ellesméra, Eragon e Saphira si presentano a Islanzadi, che non è solo la regina degli elfi, ma anche la madre di Arya. Conoscono anche lo Storpio Che è Sano, un vecchio elfo di nome Oromis. Anche lui è un Cavaliere: negli ultimi cento anni, Oromis e il suo drago, Glaedr, sono riusciti a tenere nascosta la propria esistenza a Galbatorix, cercando nel frattempo un modo per detronizzare il re. Purtroppo Oromis e Glaedr sono afflitti da vecchie ferite che impediscono loro di combattere: a Glaedr manca una zampa, mentre Oromis, che a suo tempo era stato catturato e torturato dai Rinnegati, è incapace di controllare grandi dosi di magia e soggetto a improvvise crisi debilitanti. Eragon e Saphira iniziano l'addestramento, fatto sia di lezioni collettive che individuali. Eragon apprende altri dettagli della storia delle razze di Alagaësia, si allena con la spada e impara l'antica lingua, strumento essenziale per l'uso della magia. Nel corso dei suoi studi scopre di aver commesso un terribile errore quando lui e Saphira hanno benedetto l'orfanella nel Farthen Dûr: invece di dire: "Che tu possa essere protetta dalla sventura" come intendeva, in realtà ha detto: "Che tu possa essere una protezione dalla sventura." Ha così condannato la bambina a proteggere gli altri da sofferenze e disgrazie. Mentre Saphira compie rapidi progressi come allieva di Glaedr, l'addestramento di Eragon è rallentato dalla cicatrice che gli è rimasta dopo il duello con Durza. Non è solo un marchio che lo sfigura, ma a volte, senza alcun preavviso, gli provoca spasmi molto dolorosi, che lo lasciano esausto. Eragon teme che le convulsioni gli impediranno di migliorare sia come mago che come guerriero. Nel frattempo Eragon comincia a rendersi conto di essere attratto da Arya. Le confessa i suoi sentimenti, ma lei lo respinge e poco dopo fa ritorno dai Varden. Gli elfi festeggiano l'Agaetí Blödhren, la Celebrazione del Giuramento di Sangue, una cerimonia in cui Eragon subisce una sorta di magica metamorfosi che lo trasforma in un ibrido, per metà umano e per metà elfo. La cicatrice scompare, ed Eragon acquisisce la stessa forza sovrumana degli elfi. Anche il suo aspetto cambia: ora il ragazzo ha un aspetto vagamente elfico. È a questo punto che viene a sapere che i Varden sono in procinto di dare battaglia all'Impero e hanno un disperato bisogno di lui e di Saphira. Mentre erano lontani, infatti, Nasuada ha spostato i Varden dal Farthen Dûr nel Surda, un paese confinante con le propaggini meridionali dell'Impero che fino a quel momento è riuscito a conservare l'autonomia da Galbatorix. Eragon e Saphira partono da Ellesméra insieme a Orik, dopo aver promesso a Oromis e Glaedr di tornare appena possibile per completare l'addestramento. Nel frattempo anche Roran, il cugino di Eragon, vive una serie di mirabolanti avventure. Galbatorix ha mandato a Carvahall i Ra'zac e una legione di soldati imperiali per catturarlo al fine di usarlo contro Eragon, ma Roran riesce a fuggire sulla Grande Dorsale. Insieme agli altri abitanti del villaggio cerca di mettere in fuga i soldati, ma parecchi uomini muoiono nel tentativo. Quando Sloan il macellaio - che odia Roran e si oppone al fidanzamento del giovane con sua figlia Katrina - lo tradisce rivelando ai Ra'zac il suo nascondiglio, di notte le ripugnanti creature attaccano il giovane nella sua camera da letto. Con una fuga rocambolesca Roran riesce a mettersi in salvo, ma i Ra'zac rapiscono Katrina. Roran convince gli abitanti di Carvahall a lasciare il villaggio per cercare asilo dai Varden nel Surda. Si mettono in viaggio verso ovest per raggiungere la costa, dove sperano di poter trovare una nave che li porti nel Surda. Con grande tenacia e coraggio, Roran guida la popolazione oltre il valico della Grande Dorsale fino a Teirm, sulla costa. Nella città portuale incontrano Jeod, che rivela a Roran che Eragon è un Cavaliere e che l'obiettivo della prima missione dei Ra'zac a Carvahall era Saphira. Jeod si offre di aiutare Roran e i suoi compaesani a raggiungere il Surda, dove, una volta al sicuro fra i Varden, Roran potrà contare su Eragon per salvare Katrina. Jeod e gli abitanti di Carvahall si impadroniscono di una nave e fanno vela per il Surda. Eragon e Saphira arrivano dai Varden, che si stanno preparando alla battaglia. Eragon viene a sapere che l'orfanella a cui ha inflitto il fardello della sua benedizione si chiama Elva e che, sebbene sia ancora molto piccola, ha l'aspetto di una bambina di quattro anni e la voce e il modo di fare di un'adulta. L'incantesimo di Eragon la condanna a sentire il dolore di tutte le persone che vede e la costringe a proteggerle; se si oppone all'impulso, lei stessa ne soffre. Eragon, Saphira e i Varden si apprestano a combattere le truppe imperiali sulle Pianure Ardenti, una vasta distesa di terra da cui si levano fumi e bagliori dovuti a fuochi di torba sotterranei. La comparsa di un altro Cavaliere in groppa a un drago rosso lascia tutti sgomenti. Il nuovo Cavaliere uccide Rothgar, il re dei nani, e poi ingaggia un selvaggio duello con Eragon e Saphira. Quando Eragon riesce a strappargli via l'elmo, scopre sbigottito che si tratta di Murtagh. Murtagh non era morto nell'agguato degli Urgali sotto il Farthen Dûr. Erano stati gli infidi Gemelli a ordire la trappola per uccidere Ajihad e catturare Murtagh per portarlo da Galbatorix. Il re ha costretto Murtagh a giurargli fedeltà nell'antica lingua, e ora Murtagh e il suo giovane drago, Castigo, sono schiavi di Galbatorix. Murtagh dichiara che il giuramento non gli permetterà mai di disobbedire al re, anche se Eragon lo implora di abbandonare Galbatorix e di unirsi ai Varden. Murtagh riesce a sopraffare Eragon e Saphira con una prova di forza inspiegabile, ma alla fine decide di lasciarli liberi in nome della vecchia amicizia. Prima di andarsene, strappa Zar'roc dalle mani di Eragon, sostenendo che gli spetta di diritto in qualità di primogenito di Morzan. Non contento, rivela a Eragon di non essere l'unico figlio di Morzan: Eragon e Murtagh sono fratelli, entrambi figli di Selena, la sposa di Morzan. I Gemelli avevano scoperto la verità scrutando i ricordi di Eragon il giorno stesso che era arrivato nel Farthen Dûr. Ancora sconvolto per la rivelazione di Murtagh sulle sue origini, Eragon si ritira con Saphira e si unisce a Roran e agli abitanti di Carvahall, giunti sulle Pianure Ardenti appena in tempo per aiutare i Varden a vincere la battaglia. Roran combatte da eroe e uccide i Gemelli. Alla fine Eragon e Roran fanno pace - Roran riteneva il cugino responsabile indiretto della morte di Garrow - ed Eragon gli giura che lo aiuterà a salvare Katrina dai Ra'zac. I CANCELLI DELLA MORTE Eragon scrutava l'oscura torre di pietra, nascondiglio dei mostri che avevano ucciso suo zio Garrow. Era immobile, disteso sul ventre, dietro il crinale di una duna sabbiosa disseminata di fili d'erba, cespugli di rovi e piccoli cactus simili a boccioli di rosa. Gli steli secchi dell'anno prima gli punsero i palmi quando prese a strisciare lento sui gomiti per ottenere una visuale migliore dell'Helgrind, che svettava sulla pianura come un pugnale nero estratto dalle viscere della terra. Il sole morente proiettava lunghe ombre sinuose sulle basse colline e - a ovest, in lontananza - illuminava la superficie del lago di Leona, trasformando l'orizzonte in una tremolante fascia d'oro. Eragon sentiva il respiro regolare di suo cugino Roran, disteso al suo fianco, ma l'emissione d'aria, che di norma sarebbe stata impercettibile, risuonava straordinariamente amplificata al suo sviluppatissimo udito, uno dei molti cambiamenti che aveva subito durante l'Agaetí Blödhren, la Celebrazione del Giuramento di Sangue degli elfi. D'un tratto la sua attenzione fu catturata da una colonna di gente che marciava lenta verso la base dell'Helgrind, con tutta probabilità proveniente da Dras-Leona, a diverse miglia di distanza. In testa alla colonna c'era un drappello di ventiquattro individui fra uomini e donne, coperti da pesanti indumenti di pelle. I componenti del gruppo si muovevano in modo strano, con differenti andature: chi zoppicava, chi si trascinava, chi camminava gobbo, chi si contorceva; alcuni saltellavano sulle grucce o usavano le braccia per spingersi avanti su gambe troppo corte. Eragon notò che a ciascuno dei ventiquattro individui mancava un braccio, o una gamba, o in certi casi tutt'e due le cose. Il capo sedeva impettito su una lettiga portata in spalla da sei schiavi unti d'olio. Un'impresa eccezionale, pensò Eragon, visto che l'uomo o la donna - impossibile distinguere - altro non era che un torso e una testa, su cui poggiava un'ornata cresta di cuoio alta tre piedi. «I sacerdoti dell'Helgrind» mormorò rivolto a Roran. «Sanno usare la magia?» «Può darsi. Non voglio rischiare di esplorare l'Helgrind con la mente finché non se ne vanno, perché se ci sono degli stregoni sentiranno il mio tocco, per quanto leggero, e capiranno che siamo qui.» Dietro i sacerdoti procedeva una doppia fila di giovani uomini ammantati di stoffe dorate. Ciascuno portava un'intelaiatura di metallo rettangolare suddivisa in dodici barre orizzontali da cui pendevano campane di ferro grosse quanto una rapa. Metà dei giovani scuotevano con vigore lo strumento quando avanzavano col piede destro, generando una straziante cacofonia di note, mentre gli altri lo scuotevano quando avanzavano col piede sinistro, in un clangore di lingue di ferro contro gole di ferro che riecheggiava lugubre per le colline. Gli accoliti accompagnavano i rintocchi delle campane con grida, lamenti e ululati in un'estasi di passione. Nelle retrovie di quella grottesca processione arrancava una coda di abitanti di Dras-Leona: nobili, mercanti, commercianti, esponenti dei ranghi militari più elevati, e una variegata moltitudine di operai, mendicanti e soldati semplici. Eragon si domandò se fra di loro ci fosse anche il governatore di DrasLeona, Marcus Tàbor. I sacerdoti si fermarono sul margine del cumulo di pietrisco franato che orlava l'Helgrind e si disposero su entrambi i lati di un masso color ruggine dalla sommità levigata. Quando tutta la colonna si fu radunata davanti all'altare grezzo, la creatura sulla lettiga si mosse e cominciò a cantilenare con una voce disarmonica quanto i luttuosi rintocchi delle campane. Le declamazioni dello sciamano giungevano spezzate dalle raffiche di vento, ma Eragon colse qualche frase nell'antica lingua - pronunciata in maniera approssimativa o alterata - inframmezzata da parole nella lingua dei nani e in quella degli Urgali, il tutto tenuto insieme da un arcaico dialetto della lingua madre di Eragon. Quel poco che riuscì a capire lo fece rabbrividire, perché il sermone parlava di cose che sarebbe stato meglio lasciare sepolte, di un odio perverso covato per secoli negli oscuri recessi del cuore degli uomini per essere riesumato dopo la scomparsa dei Cavalieri, di sangue e di follia, e di orridi rituali compiuti sotto una luna nera. Al termine della depravata orazione, due dei sacerdoti di rango inferiore corsero a sollevare dalla lettiga il loro signore - o signora, chi poteva saperlo - per depositarlo sull'altare. A quel punto il Sommo Sacerdote impartì un secco ordine. Due spade gemelle d'acciaio scintillarono come stelle quando si levarono per poi calare di colpo. Un fiotto di sangue sgorgò da ciascuna spalla del Sommo Sacerdote, colò sul torso fasciato di cuoio e inondò il masso prima di spargersi sulla ghiaia. Altri due sacerdoti si affrettarono a raccogliere il sangue in diversi calici che, riempiti fino all'orlo, distribuirono fra i membri della congregazione, che bevvero avidi. «Puah!» commentò Roran sottovoce. «Non mi avevi detto che questi stupidi idolatri esaltati e sanguinari erano «Non è proprio così. Non mangiano la carne.» Quando tutti si furono bagnati la gola, i servili novizi riportarono il Sommo Sacerdote sulla lettiga e fasciarono le spalle della creatura con bende di lino candido. Grandi corolle rosse sbocciarono sulla stoffa immacolata. Il Sommo Sacerdote non pareva affatto indebolito dalle ferite, poiché si rivolse ai fedeli dalle labbra lorde di sangue ed esclamò: «Ora siete veramente i miei Fratelli e le mie Sorelle, poiché avete gustato la linfa delle mie vene, qui, all'ombra dell'onnipotente Helgrind. Sangue chiama sangue, e se mai la vostra Famiglia dovesse aver bisogno di aiuto, fate il possibile per la Chiesa e per tutti coloro che riconoscono il potere del nostro Temuto Signore... Per affermare e confermare la nostra devozione al Triumvirato, recitate con me i Nove Giuramenti... In nome di Gorm, Ilda e Angvara il Crudele, giuriamo di rendere omaggio almeno tre volte al mese, nell'ora che precede il crepuscolo, e di offrire parte di noi stessi per soddisfare la fame perenne del nostro Grande e Terribile Signore... Giuriamo di osservare i comandamenti del libro di Tosk... Giuriamo di portare sempre il Bregnir sul nostro corpo e di astenerci dal dodicesimo dei dodici e dal tocco di una corda annodata, affinché non corrompa...» Il ruggito più forte del vento coprì le parole del Sommo Sacerdote. Poi Eragon vide gli astanti prendere un piccolo coltello ricurvo e incidersi a turno l'incavo del gomito per bagnare l'altare con il proprio sangue. Qualche minuto dopo, il vento calò ed Eragon udì ancora il sacerdote. «... e le cose che desiderate e bramate vi saranno concesse come ricompensa per la vostra obbedienza... Il rito è concluso. Tuttavia, se fra di voi c'è qualcuno tanto audace da dimostrare la vera forza della sua fede, che si mostri!» I devoti s'irrigidirono, protesi in avanti con espressioni rapite, come se fosse proprio quello che stavano aspettando. Per lunghi istanti di silenzio parve che le loro aspettative sarebbero andate deluse, ma poi uno degli accoliti ruppe le righe e gridò: «Eccomi!» Con un ruggito di esultanza, i confratelli presero a scuotere i campanacci a un ritmo così selvaggio e incalzante che la folla cadde preda di una frenesia irresistibile, e tutti cominciarono a saltare e a gridare come forsennati. La musica ossessiva accese una scintilla di eccitazione nel cuore di Eragon - malgrado la sua repulsione per la scena - risvegliando la sua parte più primitiva e brutale. Spogliatosi delle vesti dorate fino a restare soltanto con un paio di braghe di pelle, il giovane dai capelli neri balzò in piedi sull'altare, sollevando un ventaglio di gocce cremisi. Con il viso rivolto verso l'Helgrind, cominciò a tremare, come colto da un attacco epilettico, gli spasmi a tempo con i rintocchi crudeli delle campane di ferro. La testa gli ciondolava dal collo, gli angoli della bocca schiumavano, le braccia si agitavano come serpenti irritati. I muscoli gli si ricoprirono di sudore finché non scintillò come una statua di bronzo negli ultimi bagliori del tramonto. Le campane raggiunsero un ritmo parossistico; ogni nota strideva con l'altra. A quel punto il giovane tese una mano dietro di sé. Un sacerdote gli depose nel palmo l'elsa di uno strumento bizzarro: un'arma a un solo filo, lunga due piedi e mezzo, con il codolo pieno inserito in due guance saldate, una rudimentale guardia crociata e una larga lama piatta che terminava con una svasatura dentellata, vagamente somigliante a un'ala di drago. Era un'arma disegnata per un unico scopo: trapassare armatura, ossa e tendini con la stessa facilità che avrebbe incontrato davanti a un otre pieno d'acqua. Il giovane la sollevò puntandola verso il picco più alto dell'Helgrind. Poi si lasciò cadere su un ginocchio e, con un grido incoerente, si amputò la mano destra. Il sangue sprizzò sulle rocce dietro l'altare. Eragon fece una smorfia e distolse lo sguardo, ma non poté fare a meno di udire le grida strazianti del giovane. In battaglia aveva assistito a molte amputazioni, ma gli sembrava una follia mutilarsi di proposito quando era così facile restare menomati nella vita di tutti i giorni. I fili d'erba della duna frusciarono quando Roran spostò il peso del corpo, borbottando qualche imprecazione che si smarrì nel folto della sua barba. Poi fu di nuovo silenzio. Mentre un sacerdote si prendeva cura della ferita del giovane - arrestando l'emorragia con un incantesimo - un novizio liberò due degli schiavi che portavano la lettiga del Sommo Sacerdote, ma solo per incatenarli di nuovo per le caviglie a un anello di ferro infisso nell'altare. Poi gli accoliti estrassero alcuni fagotti da sotto i mantelli e li accatastarono sul terreno, lontano dalla portata degli schiavi. Conclusa la cerimonia, i sacerdoti e il resto del corteo imboccarono la strada del ritorno a Dras-Leona, continuando a gemere, a cantilenare e a suonare per tutto il tragitto. Il giovane fanatico, adesso monco, arrancava alle spalle del Sommo Sacerdote. Un sorriso beato gli illuminava il volto. «Incredibile» disse Eragon, e liberò un sospiro represso non appena la colonna scomparve oltre una collina distante. «Incredibile cosa?» «Ho viaggiato fra i nani e gli elfi, ma nulla di quello che ho visto fare loro è lontanamente paragonabile alle stranezze di queste persone, questi «Sono dei mostri, tali e quali ai Ra'zac.» Roran indicò l'Helgrind con un cenno del capo. «Adesso puoi scoprire se Katrina è lì dentro?» «Ci provo. Ma tienti pronto a scappare.» Eragon chiuse gli occhi e lentamente dilatò la coscienza verso l'esterno, spostandosi dalla mente di un essere vivente all'altro, come rivoli d'acqua che scorrono nella sabbia. Toccò animate comunità di insetti operosi, lucertole e serpenti che si nascondevano fra le rocce calde, diverse specie di uccelli e svariati piccoli mammiferi. Insetti e animali erano affaccendati in previsione della notte imminente: chi si ritirava al sicuro della propria tana, chi, come i predatori notturni, sbadigliava e si stiracchiava per prepararsi alla caccia. Come tutti gli altri sensi, anche la capacità di Eragon di toccare i pensieri degli altri esseri diminuiva con la distanza. Quando la sua sonda psichica arrivò ai piedi dell'Helgrind, ormai riusciva a percepire soltanto gli animali più grandi, e comunque in maniera assai debole. Procedeva con cautela, pronto a battere in ritirata se gli fosse capitato di sfiorare le menti dei loro obiettivi: i Ra'zac e i genitori-cavalcature dei Ra'zac, i giganteschi Lethrblaka. Eragon si esponeva così solo perché i Ra'zac non erano capaci di usare la magia, e non credeva che fossero dei frangisenno, nonmaghi addestrati a combattere con la telepatia. I Ra'zac e i Lethrblaka non avevano bisogno di ricorrere a questi mezzi quando il loro alito bastava a tramortire il più robusto degli uomini. E sebbene la sua indagine incorporea rischiasse di farli scoprire, Eragon, Roran e Saphira dovevano sapere se i Ra'zac avevano imprigionato Katrina - la fidanzata di Roran - nell'Helgrind, per decidere se la loro sarebbe stata una missione di salvataggio oppure di cattura e interrogatorio. Eragon frugò a lungo, solerte, in ogni anfratto. Quando tornò in sé, si accorse che Roran lo fissava con l'espressione di un lupo famelico. I suoi occhi grigi ardevano di un misto di rabbia, speranza e angoscia così violento da far pensare che le sue emozioni sarebbero potute esplodere da un momento all'altro per incenerire qualunque cosa nel suo campo visivo, in una vampa di inimmaginabile intensità, capace di sciogliere persino le rocce. Eragon lo capiva. Il padre di Katrina, Sloan il macellaio, aveva tradito Roran rivelando ai Ra'zac dove si nascondeva. Quando non erano riusciti a catturarlo, i Ra'zac avevano rapito Katrina dalla Valle Palancar, lasciando gli abitanti di Carvahall al loro destino di morte o schiavitù per mano dei soldati del re Galbatorix. Non potendo inseguire Katrina, Roran era riuscito - appena in tempo - a convincere i suoi compaesani ad abbandonare le loro case e a seguirlo sulla Grande Dorsale, proseguendo via mare lungo la costa finché non si erano uniti alle forze ribelli dei Varden. Le vicissitudini che avevano patito erano state tante, e terribili, ma per quanto complicato, il viaggio aveva fatto sì che Roran ed Eragon si ritrovassero. Eragon sapeva dove si trovava il covo dei Ra'zac e aveva promesso a Roran di aiutarlo a salvare Katrina. Roran gli aveva spiegato di essere riuscito nell'impresa perché la forza della sua passione lo aveva spinto ad adottare misure estreme temute ed evitate dagli altri, e questo gli aveva permesso di confondere i nemici. Lo stesso fervore s'impadronì di Eragon. Si sarebbe gettato nel fuoco senza alcun riguardo per la propria incolumità se qualcuno a lui caro fosse stato in pericolo. Amava Roran come un fratello e, visto che Roran avrebbe sposato Katrina, aveva esteso il suo concetto di famiglia anche a lei. D'altro canto, Eragon e Roran erano gli ultimi eredi della discendenza, poiché Eragon aveva ripudiato ogni legame con il fratello di sangue, Murtagh, e di conseguenza Roran era il suo unico parente; e adesso c'era anche Katrina. I nobili sentimenti di fratellanza non erano l'unica forza che spronava i due. Un altro obiettivo li ossessionava: la vendetta! Anche se lo scopo principale era strappare Katrina alle grinfie dei Ra'zac, i due guerrieri - uomo mortale e Cavaliere dei Draghi - avevano intenzione di uccidere i mostruosi servitori del re Galbatorix che avevano torturato a morte Garrow, padre di Roran, come un padre per Eragon. Ecco perché l'informazione ora in possesso del giovane Cavaliere aveva per lui la stessa importanza che aveva per Roran. «Credo di averla percepita» disse. «Non ne sono del tutto sicuro, perché siamo molto lontani dall'Helgrind e non ho mai toccato la sua mente prima, ma «Sta male? È ferita? Maledizione, Eragon, non mi nascondere niente. Le hanno fatto del male?» «Al momento non soffre. Più di questo non posso dire, perché ci è voluta tutta la mia forza per individuare appena il bagliore della sua coscienza; non sono riuscito a comunicare con lei.» Eragon evitò di dire che aveva percepito anche una seconda persona, sulla cui identità nutriva qualche sospetto e la cui presenza, se confermata, lo preoccupava moltissimo. «Quello che Roran aggrottò la fronte, strinse i pugni e fissò torvo la montagna rocciosa, che cominciava a confondersi con le ombre violacee del crepuscolo. Con voce bassa e atona, come se stesse parlando da solo, disse: «Tanto non ha importanza se hai ragione o se ti sbagli.» «Come mai?» «Stanotte non attaccheremo comunque: la notte è il momento in cui i Ra'zac sono più forti, e se per caso si trovano da queste parti, sarebbe da stupidi affrontarli mentre siamo in svantaggio. Giusto?» «Giusto.» «Perciò aspettiamo l'alba.» Roran indicò gli schiavi incatenati all'altare insanguinato. «Se allora quei poveri disgraziati saranno scomparsi, sapremo che i Ra'zac sono qui e proseguiremo col nostro piano. Altrimenti malediremo la sfortuna di non averli incontrati, libereremo gli schiavi, salveremo Katrina e torneremo dai Varden con lei prima che Murtagh ci rintracci. In un modo o nell'altro, dubito che i Ra'zac lasceranno a lungo Katrina senza sorveglianza, non se Galbatorix vuole lasciarla in vita per poterla usare contro di me.» Eragon annuì. Avrebbe voluto liberare subito gli schiavi, ma quel gesto avrebbe messo in allarme i loro nemici. E se i Ra'zac fossero venuti a prendersi la cena, lui e Saphira non sarebbero potuti intervenire comunque. Una battaglia in campo aperto fra un drago e i Lethrblaka avrebbe attirato l'attenzione di ogni uomo, donna e bambino nel raggio di molte leghe. Ed Eragon non credeva che lui, Saphira o Roran sarebbero sopravvissuti se Galbatorix avesse saputo che si trovavano da soli entro i confini del suo impero. Distolse lo sguardo dai due derelitti. Dopo essersi scambiati un tacito cenno, Eragon e Roran cominciarono a strisciare all'indietro dal crinale della duna dove si erano nascosti. Una volta in fondo, si alzarono, si volsero e si misero a correre tenendosi il più chini possibile, tra due file di colline. La leggera depressione si fece sempre più profonda, fino a diventare una stretta gola scavata dalle inondazioni, fiancheggiata da lastre di ardesia. Mentre procedevano a zigzag fra gli alberi di ginepro che costellavano la gola, Eragon alzò lo sguardo e, tra il folto degli aghi, intravide le prime costellazioni brillare nel cielo notturno, fredde e affilate come schegge di ghiaccio su un drappo di velluto. Poi tornò a guardare il terreno per non inciampare e continuò a correre con Roran verso il loro bivacco più a sud. INTORNO AL FALÒ Il piccolo cumulo di braci pulsava come il cuore di una bestia gigantesca. Di tanto in tanto, una venatura di scintille dorate serpeggiava lungo la superficie del legno per poi svanire in una fessura incandescente. I resti morenti del falò che Eragon e Roran avevano acceso proiettavano una fievole luce rossastra che illuminava un tratto di suolo roccioso, qualche cespuglio grigio piombo, l'indistinta massa di un ginepro poco distante e nient'altro. Eragon sedeva con i piedi nudi rivolti alle braci per godersi il piacevole calore, la schiena contro le ruvide squame della muscolosa zampa di Saphira. Di fronte, Roran era seduto a cavalcioni su di un vecchio tronco cavo, indurito e sbiancato dal sole e dalle intemperie. Ogni volta che si muoveva, il tronco emetteva un acuto scricchiolio che feriva le orecchie di Eragon. Nella conca regnava il silenzio. Perfino la brace ardeva senza rumore. Roran aveva raccolto soltanto rami secchi senza nemmeno una bolla di umidità per evitare qualsiasi filo di fumo che occhi indiscreti potessero individuare. Eragon aveva appena finito di raccontare a Saphira com'era andata la giornata. In genere non aveva bisogno di dirle ciò che aveva fatto, giacché i pensieri, i sentimenti e le altre emozioni fluivano tra di loro come acqua fra le sponde di un lago. Ma in quella circostanza si era reso necessario, dato che Eragon aveva accuratamente schermato la propria mente durante la missione di ricognizione, tranne quando l'aveva usata per esplorare il covo dei Ra'zac. Dopo parecchio tempo Saphira sbadigliò, mostrando la sua spaventosa chiostra di denti. Eragon scostò la schiena indolenzita dalle dure squame di Saphira e prese il bastone di legno di biancospino che giaceva al suo fianco. Se lo rigirò fra le mani, ammirando il gioco di luci sul levigato intrico di radici in cima e l'aguzzo puntale di metallo graffiato in fondo. Roran gli aveva spinto il bastone fra le mani prima di lasciare i Varden sulle Pianure Ardenti, dicendo: "Tieni. Me lo ha fatto Fisk dopo che il Ra'zac mi aveva morso la spalla. So che hai perduto la tua spada, e potrebbe esserti utile... Se vuoi un'altra spada non c'è problema, ma ho scoperto che non c'è duello che non si possa vincere con qualche colpo di bastone ben assestato." Nel ricordare il bastone che Brom portava sempre con sé, Eragon aveva deciso di non procurarsi una nuova spada a favore di quel bastone nodoso di biancospino. Dopo aver perso Zar'roc, non aveva alcun desiderio di possederne un'altra, che sarebbe stata di sicuro inferiore. Quella notte aveva irrobustito sia il bastone che il martello di Roran con alcuni incantesimi per impedire alle due armi di spezzarsi se non in condizioni di estrema sollecitazione. All'improvviso una serie di ricordi inconsapevoli gli affiorò alla mente: Eragon batté le palpebre, disorientato, mentre il fragore e il furore della battaglia svanivano e il gradevole aroma del ginepro prendeva il posto dell'odore del sangue. Si passò la lingua sui denti per lavar via l'amaro sapore di bile che gli riempiva la bocca. Il solo nome gli suscitava un tumulto di emozioni contrastanti. Da una parte, Murtagh gli piaceva. Aveva salvato lui e Saphira dai Ra'zac dopo la loro prima, sventurata visita a Dras-Leona; aveva rischiato la vita per aiutare Eragon a fuggire da Gil'ead; aveva combattuto con onore nella battaglia del Farthen Dûr; e, malgrado i tormenti che avrebbe senza dubbio patito come conseguenza del suo atto, aveva scelto d'interpretare gli ordini di Galbatorix in un modo che gli consentisse di lasciare liberi Eragon e Saphira dopo la battaglia delle Pianure Ardenti invece di farli suoi prigionieri. Non era colpa di Murtagh se i Gemelli lo avevano rapito; o se l'uovo del drago rosso, Castigo, si era schiuso davanti a lui; o se Galbatorix aveva scoperto i loro veri nomi, con cui aveva estorto a entrambi il giuramento di fedeltà nell'antica lingua. Nulla di tutto questo era imputabile a Murtagh. Lui era una vittima del fato, dal giorno stesso in cui era nato. Eppure... Murtagh poteva anche servire Galbatorix contro la propria volontà, e aborrire le atrocità che il re lo costringeva a commettere, ma una parte di lui sembrava compiacersi del potere appena acquisito. Durante la recente battaglia fra i Varden e l'esercito imperiale sulle Pianure Ardenti, Murtagh aveva individuato il re dei nani, Rothgar, e lo aveva ucciso, anche se Galbatorix non gli aveva ordinato espressamente di farlo. Murtagh aveva lasciato andare Eragon e Saphira, certo, ma solo dopo averli sconfitti in un feroce duello senza esclusione di colpi e aver ascoltato impassibile Eragon che lo implorava di liberarli. E soprattutto, Murtagh aveva tratto un innegabile piacere dall'angoscia inflitta a Eragon nel rivelargli che erano entrambi figli di Morzan, primo e ultimo dei Rinnegati, i tredici Cavalieri dei Draghi che avevano tradito i propri compagni consegnandoli a Galbatorix. Ora, a quattro giorni dalla battaglia, Eragon pensò a un'altra possibile spiegazione: Quale che fosse la verità, Eragon sospettava che Murtagh avesse accettato il suo nuovo ruolo per la stessa ragione per cui un cane, continuamente bastonato senza motivo, un giorno si ribella e morde la mano al padrone. Murtagh era stato sempre bastonato dalla vita, e quella era la sua occasione per ribellarsi a un mondo che non si era mai dimostrato benevolo nei suoi riguardi. Ma anche se il cuore di Murtagh poteva ancora celare un fievole barlume di bontà, lui ed Eragon erano condannati a essere mortali nemici, perché le promesse fatte da Murtagh nell'antica lingua lo vincolavano a Galbatorix in maniera indissolubile, e per sempre. Il giovane si riscosse e annuì, grato alla dragonessa per il suo intervento. Si sforzava di non rimuginare su Murtagh e sui loro genitori, ma certi pensieri lo assalivano quando meno se lo aspettava. Inspirò ed espirò a lungo per schiarirsi la mente, nel tentativo di tornare al qui e ora, ma non ci riuscì. La mattina dopo la grande battaglia sulle Pianure Ardenti - mentre i Varden erano impegnati a riunirsi e organizzarsi per inseguire l'esercito imperiale, ritiratosi di parecchie miglia a monte del fiume Jiet - Eragon era andato da Nasuada e Arya per spiegare la situazione di Roran e chiedere il permesso di aiutare il cugino. Invano: le due donne si erano opposte con veemenza a quello che Nasuada aveva definito "un piano sconsiderato che avrà conseguenze catastrofiche per tutta Alagaësia se per caso qualcosa va storto!" L'accalorata discussione era proseguita così a lungo che alla fine Saphira era intervenuta con un ruggito da scuotere le pareti della tenda del comandante. Poi aveva detto: Era difficile, rifletté Eragon, discutere con un drago. I dettagli del discorso di Saphira erano complessi, ma la struttura del suo intervento fu sincera e diretta. Saphira sosteneva Eragon perché comprendeva quanto significasse per lui quella missione, e dal canto suo Eragon sosteneva Roran per affetto e senso del dovere, e perché sapeva che il cugino avrebbe tentato di liberare Katrina con o senza di lui, e che Roran non sarebbe mai stato capace di sconfiggere i Ra'zac da solo. Per giunta, finché l'Impero avesse tenuto Katrina prigioniera, Roran e di conseguenza Eragon sarebbero stati vulnerabili alle manipolazioni di Galbatorix. Se l'usurpatore avesse minacciato di uccidere Katrina, Roran non avrebbe avuto altra scelta se non cedere ai suoi ricatti. Sarebbe stato preferibile, quindi, ricucire questa breccia nelle loro difese prima che i nemici avessero modo di sfruttarla. Quanto al momento, era perfetto. Né Galbatorix né i Ra'zac si sarebbero aspettati un'incursione nel cuore dell'Impero quando i Varden erano impegnati a combattere le truppe imperiali ai confini del Surda. Murtagh e Castigo erano stati visti volare verso Urû'baen - senza dubbio per ricevere una punizione - e Nasuada e Arya erano d'accordo con Eragon nel ritenere che i due avrebbero proseguito verso nord per affrontare la regina Islanzadi e il suo esercito, una volta che gli elfi avessero fatto la prima mossa rivelando la loro presenza. Tra l'altro, sarebbe stato meglio eliminare i Ra'zac prima che cominciassero a terrorizzare e demoralizzare i guerrieri Varden. Saphira aveva quindi sottolineato, nella maniera più diplomatica possibile, che se Nasuada avesse esercitato la sua signoria su Eragon e gli avesse proibito di partecipare alla missione, il loro legame sarebbe stato avvelenato da un rancore e da un dissidio tali che avrebbero potuto mettere a rischio la causa dei Varden. Un debole sorriso affiorò sulle labbra di Eragon al ricordo della scena. La gravità della dichiarazione di Saphira, unita alla sua inoppugnabile logica, aveva convinto Nasuada e Arya a concedere la loro approvazione, per quanto a malincuore. Più tardi Nasuada aveva detto: "Eragon, Saphira, noi confidiamo nel vostro discernimento. Per il vostro bene, e per il nostro, spero che questa spedizione vada a buon fine." Eragon non era sicuro di aver interpretato in modo corretto le sue parole, che potevano essere tanto di sincero augurio quanto di velata minaccia. Eragon aveva passato il resto della giornata a preparare le bisacce, a studiare le mappe dell'Impero con Saphira e a evocare tutti gli incantesimi necessari, come quello per contrastare i tentativi di Galbatorix o dei suoi servi di divinare Roran. Il mattino dopo, Eragon e Roran erano saliti in groppa a Saphira, che si era subito alzata in volo. Dopo aver bucato la coltre di nubi arancioni che incombeva sulle Pianure Ardenti, la dragonessa aveva virato verso nordest, continuando a volare senza fermarsi finché il sole, attraversato tutto l'arco del cielo, non si era tuffato dietro l'orizzonte in un glorioso tripudio di raggi rossi e gialli. La prima tappa del viaggio li aveva portati ai confini dell'Impero, in una zona scarsamente abitata. Poi avevano cambiato direzione, volando a ovest verso Dras-Leona e l'Helgrind, continuando a viaggiare di notte per evitare di essere notati da uno dei tanti piccoli villaggi sparsi per la grande pianura che li separava dalla loro meta. Eragon e Roran erano stati costretti ad avvolgersi in mantelli e pellicce, e a indossare guanti di lana e cappelli di feltro, perché Saphira aveva deciso di volare a un'altezza superiore a quella della maggior parte dei ghiacciai del paese - dove l'aria gelida e rarefatta trafiggeva i polmoni come una pugnalata - di modo che se un contadino intento a curare un agnello malato nel campo o una sentinella dalla vista acuta avessero guardato in alto mentre passava, l'avrebbero scambiata per un'aquila. Ovunque andassero, Eragon vedeva i segni della guerra imminente: accampamenti di soldati, carri carichi di viveri raggruppati in cerchio per la notte, e file di uomini con collari di ferro, strappati alle loro case per combattere per Galbatorix. La quantità di risorse messe in campo contro di loro era davvero impressionante. Verso la fine della seconda notte, l'Helgrind era comparso in lontananza: una massa di pinnacoli frastagliati, foschi e sinistri nella livida luce prima dell'alba. Saphira era atterrata nella conca dove si erano accampati, e avevano trascorso dormendo gran parte del giorno precedente alla ricognizione. Una colonna di scintille ambrate si sprigionò dai carboni che languivano quando Roran vi gettò sopra un ramo secco. Notò lo sguardo di Eragon e si strinse nelle spalle. «Freddo» disse. Prima che Eragon avesse modo di rispondere, si udì un fruscio prolungato e stridente, simile a quello di una spada sguainata. Eragon non pensò; si gettò nella direzione opposta, rotolando su se stesso, poi si rialzò, accovacciato, con il bastone di biancospino pronto a parare un colpo in arrivo. Roran fu altrettanto fulmineo. Afferrò lo scudo da terra, balzò dal tronco dov'era seduto ed estrasse il martello dalla cintura, tutto nel giro di pochi secondi. Rimasero immobili, in attesa di un agguato. Il cuore martellava nel petto di Eragon e i muscoli gli tremavano per la tensione mentre aguzzava la vista nel buio, in cerca del più piccolo movimento. Quando furono trascorsi alcuni minuti senza che accadesse nulla, Eragon dilatò la mente per controllare l'ambiente circostante. «Nessuno» disse. Poi, attingendo al luogo più profondo del suo essere, da dove scaturiva la magia, mormorò: «Brisingr raudhr!» Un pallido globo di luce rossastra si materializzò a pochi passi da lui e lì rimase a fluttuare, all'altezza degli occhi, riversando nella conca un chiarore liquido. Eragon si spostò appena e il fuoco fatuo imitò il suo movimento, come se fossero collegati da un filo invisibile. Insieme, Eragon e Roran andarono verso il punto da dove era venuto il rumore, scendendo nella gola stretta e rocciosa che tagliava verso est. Impugnavano le armi lunghe e si fermavano a ogni passo, pronti a difendersi in qualsiasi momento. A circa dieci iarde dal bivacco, Roran fece cenno a Eragon di fermarsi e gli indicò una lastra di ardesia sull'erba che non c'era quando erano passati poco prima. Roran s'inginocchiò e strofinò una scheggia di ardesia più piccola sulla lastra, producendo lo stesso stridore che avevano già udito. «Dev'essere caduta dall'alto» disse Eragon, esaminando le pareti della gola, e concesse al fuoco fatuo di spegnersi. Roran annuì e si alzò, spazzolandosi il terriccio dai pantaloni. Mentre tornava da Saphira, Eragon rifletté sulla rapidità con cui avevano reagito. Sentiva ancora il cuore contratto in un groppo che faceva male a ogni battito, le mani tremanti, il corpo indolenzito come se avesse corso ininterrottamente per miglia e miglia. Roran doveva aver pensato la stessa cosa, perché disse: «Li vedi mai?» «Chi?» «Gli uomini che hai ucciso. Li vedi mai nei tuoi sogni?» «A volte.» Il bagliore pulsante della brace illuminava il viso di Roran dal basso, disegnandogli dense ombre sulla bocca e sulla fronte, e dando un'aria truce ai suoi occhi infossati sotto le palpebre socchiuse. Parlò lentamente, come se avesse difficoltà a esprimersi. «Non ho mai voluto essere un guerriero. Da ragazzo sognavo combattimenti e gloria, come fanno tutti i maschi a quell'età, ma la terra era la cosa più importante per me. Quella, e la nostra famiglia... E adesso invece ho ucciso... ho ucciso... ho ucciso... e tu più di me.» Il suo sguardo era smarrito in qualcosa di distante che soltanto lui poteva vedere. «Quei due uomini a Narda... Te l'ho mai raccontato?» Lo aveva già fatto, ma Eragon fece no con la testa e rimase in silenzio. «C'erano delle guardie al cancello principale... Erano due, e quella a destra aveva i capelli bianchissimi. Me lo ricordo perché non poteva avere più di ventiquattro, venticinque anni. Portavano i colori di Galbatorix, ma parlavano come gente di Narda. Non erano soldati di professione. Probabilmente erano soltanto uomini che avevano deciso di proteggere le proprie case dagli Urgali, dai pirati, dai briganti... Non avremmo alzato un dito contro di loro. Te lo giuro, Eragon, non faceva parte del nostro piano. Ma non ho avuto scelta. Mi hanno riconosciuto. Ho tagliato la gola a quello coi capelli bianchi... È stato come quando papà sgozzava un maiale. E poi l'altro, gli ho spaccato il cranio. Sento ancora le ossa cedere... Ricordo ogni colpo che ho inferto, contro i soldati a Carvahall, contro quelli sulle Pianure Ardenti... Sai, quando chiudo gli occhi a volte non riesco a dormire perché la mia mente è accecata dal bagliore degli incendi che abbiamo appiccato ai magazzini del molo di Teirm. E in quei momenti sono convinto che impazzirò.» Eragon si accorse di stringere il bastone così forte che le nocche gli si erano sbiancate e i tendini sporgevano dai polsi. «Già» disse. «All'inizio erano solo Urgali, poi uomini e Urgali, e adesso quest'ultima battaglia... So che quello che facciamo è giusto, ma Eragon fissava le braci. La dragonessa aveva detto una verità che lui esitava a riconoscere, perché se avesse ammesso che si può provare piacere nella violenza, sarebbe diventato una persona disprezzabile. Così restò muto. Di fronte a lui, Roran sembrava altrettanto turbato. Con voce più morbida, Saphira disse: Eragon si alzò e si avvicinò alle bisacce, da cui prese il piccolo orcio di terracotta che Orik gli aveva donato prima che partissero. Bevve due lunghi sorsi di idromele di lamponi e si sentì riscaldare lo stomaco. Con un sogghigno, passò l'orcio a Roran, che mandò giù un bel sorso. Parecchie bevute dopo, quando l'idromele era riuscito nell'impresa di risollevargli l'umore, Eragon disse: «Domani potremmo avere un problema.» «Che intendi?» Eragon si rivolse anche a Saphira. «Ricordi quando ho detto che noi... io e Saphira... potevamo affrontare i Ra'zac facilmente?» «Sì.» «Be', ci stavo pensando mentre tenevamo d'occhio l'Helgrind, e non ne sono più tanto sicuro. Esiste praticamente un numero infinito di modi di fare qualcosa con la magia. Per esempio, se voglio accendere un fuoco, posso farlo col calore ricavato dall'aria o dal terreno; posso creare una fiamma di pura energia; posso attirare un fulmine; posso concentrare un raggio di sole su un punto preciso; posso usare l'attrito, e così via.» «Quindi?» «Quindi il problema è: anche se posso ricorrere a differenti incantesimi per svolgere un'azione, per «Ancora non capisco cosa c'entra questo con domani.» «... potrebbe aver messo delle difese intorno ai Ra'zac...» ... ... ... «... dover fare affidamento...» «Basta!» esclamò Roran, con un sorriso sofferente. «Basta, vi prego. Mi viene il mal di testa quando fate così.» Eragon rimase a bocca aperta: fino a quel momento non si era reso conto che lui e Saphira stavano parlando a turno. Da una parte, quella novità gli fece piacere perché indicava un livello superiore di intesa: agivano come un'entità unica che li rendeva molto più potenti di quanto non fossero ciascuno per sé. Dall'altra però lo turbava, perché una simile affinità, per sua stessa natura, riduceva l'individualità di ciascuno. Richiuse la bocca e ridacchiò. «Scusa. Ciò che mi preoccupa è questo: se Galbatorix è stato abbastanza previdente da prendere certe precauzioni, allora la forza delle armi potrebbe essere l'unico mezzo con cui uccidere i Ra'zac. Se le cose stanno così...» «Allora domani vi sarei d'intralcio.» «Sciocchezze. Magari sarai più lento dei Ra'zac, ma sono sicuro che darai loro motivo di temere la tua arma, Roran Fortemartello.» Il complimento fece piacere a Roran. «Il pericolo maggiore per te è se i Ra'zac o i Lethrblaka riescono a separarti da me e Saphira. Dobbiamo restare uniti per essere tutti più sicuri. Io e Saphira cercheremo di tenere occupati i Ra'zac e i Lethrblaka, ma qualcuno potrebbe sfuggirci. Quattro contro due è una proporzione che va bene solo quando fai parte dei quattro.» A Saphira Eragon disse: Eragon a malincuore le diede ragione. Continuando la conversazione a cui era stato ammesso, Roran disse: «La magia è una cosa complicata.» Il tronco su cui era seduto gemette quando raddrizzò la schiena per posare i gomiti sulle ginocchia. «Già» convenne Eragon. «La parte più difficile è cercare di anticipare ogni possibile incantesimo. Io passo un sacco di tempo a chiedermi come fare a difendermi se verrò attaccato «Saresti capace di rendermi forte e veloce come te?» Eragon rifletté sulla proposta per qualche minuto prima di rispondere. «Non vedo come. L'energia necessaria dovrebbe venire da qualche fonte. Potremmo donartela io e Saphira, ma a quel punto perderemmo tanta forza e velocità quante ne otterresti tu.» Quello che non disse fu che avrebbe potuto assimilare energia anche dalle piante e dagli animali vicini, ma a un prezzo terribile: la morte degli esseri più piccoli da cui si estraeva la forza vitale. La tecnica era un segreto che Eragon non si sentiva di rivelare a cuor leggero. Non sarebbe stata comunque utile a Roran, perché intorno all'Helgrind non c'erano abbastanza piante o animali da poter nutrire il corpo di un uomo. «Allora potresti insegnarmi a usare la magia?» Quando Eragon esitò, Roran aggiunse: «Non adesso, è chiaro. Non c'è tempo, e io non mi aspetto che uno possa diventare un mago da un giorno all'altro. Ma insomma, perché no? Siamo cugini. Abbiamo lo stesso sangue. E sarebbe un vantaggio preziosissimo.» «Non so come una persona che non è un Cavaliere possa imparare a usare la magia» confessò Eragon. «Non è una cosa che ho studiato.» Si guardò intorno, raccolse da terra un sasso rotondo e piatto e lo lanciò a Roran, che lo prese al volo. «Tieni, prova con questo. Concentrati e cerca di sollevare il sasso in aria, dicendo "Stenr rïsa".» «Stenr rïsa?» «Esatto.» Roran guardò il sasso che teneva nel palmo con un'espressione concentrata che rammentò a Eragon i giorni del proprio addestramento con Brom. Provò una fitta di nostalgia ricordando quando il vecchio cantastorie lo allenava senza dargli tregua. Roran aggrottò le sopracciglia, serrò le labbra e ringhiò «Stenr rïsa!» con una tale potenza che Eragon pensò che il sasso sarebbe schizzato via dalla paura. Non accadde nulla. Con la fronte sempre più aggrottata, Roran ripeté il comando: «Stenr risa!» Il sasso diede prova di una profonda mancanza di collaborazione. «Be'» disse Eragon, «continua a provarci. È l'unico consiglio che posso darti. Ma...» e alzò un dito in segno di ammonimento «... se per caso ci riuscissi, vieni subito da me, o se io non sono nei dintorni, rivolgiti a un altro mago. Potresti uccidere te stesso o qualcun altro se prendi a fare esperimenti con la magia senza conoscerne le regole. E ricorda: se pronunci un incantesimo che richiede troppa energia, muori. Non fare niente che vada oltre le tue possibilità, non cercare di riportare in vita i morti, e non cercare di disfare niente.» Roran annuì, lo sguardo ancora fisso sulla pietra. «Magia a parte, mi sono appena ricordato che c'è qualcosa di molto più importante che devi imparare.» «Ah, sì?» «Sì. Devi essere capace di nascondere i tuoi pensieri alla Mano Nera, al Du Vrangr Gata, e agli altri come loro. Adesso possiedi molte informazioni che potrebbero nuocere ai Varden. È essenziale, quindi, che impari bene a celarle non appena saremo tornati. Finché non saprai difenderti dalle spie, né Nasuada né io né nessun altro potrà affidarti informazioni che potrebbero aiutare i nostri nemici.» «Capisco. Ma perché hai incluso il Du Vrangr Gata in questa lista? È al servizio tuo e di Nasuada.» «È vero, ma anche fra i nostri alleati ci sono molti che darebbero il braccio destro...» sorrise per la sottigliezza della frase «... pur di scoprire i nostri piani e i nostri segreti. E anche i tuoi, sappilo. Sei diventato qualcuno, Roran. In parte per le tue gesta, in parte perché siamo parenti.» «Lo so. È strano essere riconosciuti da qualcuno che non hai mai visto prima.» «Appunto.» Gli venne la tentazione di fare molte altre osservazioni pertinenti, ma si trattenne; l'argomento meritava di essere approfondito un'altra volta. «Ora che sai cosa significa sentirsi toccati da una mente estranea, dovresti imparare a espandere la tua e a toccare le altre.» «Non sono sicuro di volerlo imparare.» «Non importa: potresti anche non essere capace di farlo. Ma prima di scoprirlo, devi imparare a difenderti.» Il cugino inarcò un sopracciglio. «Come?» «Scegli qualcosa... un suono, un'immagine, un'emozione, qualsiasi cosa... e lascia che cresca nella tua mente fino a bloccare ogni altro pensiero.» «Tutto qui?» «Non è facile come credi. Avanti. Provaci. Quando ti senti pronto, fammelo sapere e io vedrò se ci riesci davvero.» Passarono alcuni minuti. Poi, a un cenno delle dita di Roran, Eragon dilatò la propria coscienza verso il cugino, desideroso di scoprire fino a che punto era arrivato. Il raggio mentale lanciato a piena potenza da Eragon andò a urtare contro il muro composto dai ricordi che Roran aveva di Katrina e si fermò. Non riusciva a trovare una breccia, nessun varco o cedimento, nessun modo per infiltrarsi nell'impenetrabile barriera che si trovava davanti. In quel momento l'intera identità di Roran era fondata sui suoi sentimenti per Katrina: le sue difese erano più forti di tutte quelle che Eragon aveva incontrato prima, perché la mente di Roran era priva di qualsiasi altra cosa che Eragon potesse afferrare o usare per ottenere il controllo sul cugino. Poi Roran spostò la gamba sinistra e dal legno del tronco si levò un sonoro scricchiolio. A quel punto, il muro contro cui Eragon aveva urtato si disintegrò in decine di frammenti, mentre un'orda di pensieri estranei distraeva Roran: Approfittando della confusione di Roran, Eragon entrò di slancio nella sua mente e con la forza di volontà immobilizzò Roran prima che potesse schermarsi. «Ci proverò» promise Roran. In tono più dolce, Eragon disse: «La ami molto, vero?» La sua era più una constatazione che una domanda - la risposta era ovvia - che non era nemmeno sicuro di voler fare. L'amore era un argomento che Eragon non aveva mai affrontato col cugino prima, nonostante le molte ore trascorse insieme negli anni passati, a chiacchierare dei pregi delle giovani donne di Carvahall e dintorni. «Com'è successo?» «Lei mi piaceva. Io piacevo a lei. A che cosa servono i dettagli?» «Coraggio» lo esortò Eragon. «Ero troppo arrabbiato per chiedertelo prima che partissi per Therinsford, e non ci siamo più visti fino a quattro giorni fa. Sono curioso.» La pelle intorno agli occhi di Roran si stirò e si raggrinzì mentre lui si massaggiava le tempie. «Non c'è molto da dire. Ho sempre avuto un debole per lei. Non ci pensavo prima di diventare uomo, ma dopo i riti di passaggio ho cominciato a chiedermi chi avrei sposato, chi avrei voluto come madre dei miei figli. Durante una delle nostre visite a Carvahall, vidi Katrina fermarsi davanti alla casa di Loring per cogliere una rosa muscosa che cresceva all'ombra delle grondaie. Sorrise mentre guardava il fiore... Era un sorriso così dolce, così felice, che in quell'istante ho deciso che volevo farla sorridere ancora, e ancora, e che avrei voluto vedere quel sorriso fino alla fine dei miei giorni.» Lacrime gli brillarono negli occhi, ma non caddero, e un istante dopo Roran batté le palpebre e le lacrime svanirono. «Ho paura di aver fallito.» Dopo un'opportuna pausa, Eragon disse: «L'hai corteggiata? A parte avermi usato come messaggero con Katrina, cos'altro hai fatto?» «Mi fai delle domande come se cercassi istruzioni.» «Non è vero. Stai fantasticando...» «Abbi coraggio tu, ora» disse Roran. «Lo capisco quando menti. Ti viene quel sorrisetto da stupido e ti diventano rosse le orecchie. Gli elfi possono averti dato un volto nuovo, ma non sei del tutto cambiato. Cosa c'è fra te e Arya?» La potenza dell'intuito di Roran turbò Eragon. «Niente! La luna ti ha annebbiato il cervello.» «Sii sincero. Pendi dalle sue labbra come se ogni sua parola fosse un diamante, e la guardi come un morto di fame guarderebbe una tavola imbandita.» Un filo di fumo grigio esalò dalle narici di Saphira, accompagnato da un rombo soffocato. Eragon ignorò la risata repressa del drago e disse: «Arya è un'elfa.» «E molto bella. Orecchie a punta e occhi a mandorla sono difetti perdonabili se paragonati al suo fascino. Anche tu somigli a un gatto, adesso.» «Arya ha più di cento anni.» Questa nuova informazione colse Roran di sorpresa. Sgranò gli occhi ed esclamò: «Incredibile! Sembra poco più di un'adolescente.» «Infatti.» «Be', sono ragioni, quelle che mi stai dando, Eragon, ma il cuore di rado segue la ragione. Insomma, ti piace o no?» Roran capì che non era il caso di stuzzicare oltre il cugino. «Allora rispondi alla mia prima domanda e dimmi come stanno le cose fra te e Arya. Hai parlato con lei o con la sua famiglia di questa cosa? Ho scoperto che non è saggio lasciar incancrenire questi argomenti.» «Sì» rispose Eragon, fissando il bastone di biancospino levigato. «Ho parlato con lei.» «E il risultato?» Quando Eragon non rispose subito, Roran si lasciò sfuggire un'esclamazione delusa. «Estorcerti le risposte è più difficile che tirar fuori Birka dal fango.» Eragon sorrise al nome di Birka, uno dei loro cavalli da tiro. «Saphira, ci pensi tu a risolvere questo enigma? Altrimenti temo che non riuscirò mai a ottenere una spiegazione soddisfacente.» «Nessun risultato. Nulla di nulla. Lei non mi vuole.» Eragon parlò con distacco, come se stesse commentando la sventura di un altro, ma dentro gli ribolliva un torrente di dolore così forte e impetuoso che Saphira si ritrasse da lui. «Mi dispiace» disse Roran. Eragon si sforzò di deglutire per sciogliere il groppo che gli serrava la gola, il macigno che gli gravava sul cuore, il viluppo che gli annodava lo stomaco. «Succede.» «Forse adesso ti sembra impossibile» disse Roran, «ma sono sicuro che incontrerai un'altra donna che ti farà dimenticare questa Arya. Ci sono moltissime ragazze... e anche qualche donna sposata, scommetto... che darebbero qualunque cosa per catturare l'attenzione di un Cavaliere. Non avrai nessuna difficoltà a trovare una moglie fra le tante bellezze di Alagaësia.» «E tu che cosa avresti fatto, se Katrina avesse rifiutato la tua corte?» La domanda zittì Roran: era chiaro che non riusciva a immaginare come avrebbe reagito in quel caso. Eragon continuò. «Al contrario di quello che tu, Arya e chiunque altro sembrate pensare, io so che esistono altre donne desiderabili in Alagaësia e che le persone possono innamorarsi più di una volta nella vita. Senza dubbio, se passassi i miei giorni in compagnia delle dame della corte di re Orrin, alla fine potrei invaghirmi di una di loro. Ma il mio cammino non è così facile. Anche se riuscissi a deviare il mio affetto su di un'altra... e il cuore, come hai osservato, è una bestia notoriamente volubile... la domanda è sempre la stessa: sarebbe giusto?» «La tua lingua è diventata contorta come le radici di un fico» disse Roran. «Parla chiaro.» «D'accordo. Quale donna umana potrebbe anche solo cominciare a capire chi e cosa sono, o l'entità dei miei poteri? Chi potrebbe condividere la mia vita? Direi pochissime, forse soltanto una delle maghe. E in questo gruppo ristretto, o fra le donne in generale, quante sono immortali?» Roran scoppiò in una risata fragorosa che riecheggiò nella conca. «Sarebbe come chiedere la luna, o...» S'interruppe di colpo. I suoi muscoli si tesero come se dovesse spiccare un balzo, poi rimase impietrito. «Non sarai...?» «Sì.» Roran si sforzò di trovare le parole. «È una conseguenza del tuo mutamento a Ellesméra o del fatto di essere un Cavaliere?» «È una conseguenza del fatto di essere Cavaliere.» «Questo spiega perché Galbatorix non è morto.» «Già.» Il ramo che Roran aveva aggiunto al fuoco si spezzò con un leggerissimo schiocco. La brace doveva aver riscaldato il legno nodoso in un punto dove una piccola sacca d'acqua o di linfa, sfuggita chissà come ai raggi del sole per molti decenni, era esplosa in vapore. «L'idea è così... enorme da essere quasi inconcepibile» disse Roran. «La morte fa parte di quello che siamo. Ci guida. Ci forgia. Ci fa impazzire. Puoi ancora essere umano se non sei più mortale?» «Non sono invincibile» precisò Eragon. «Posso ancora morire per un colpo di spada o di freccia. E posso ancora ammalarmi di un morbo incurabile.» «Ma se eviti questi pericoli, vivrai per sempre.» «Se li evito, sì. Io e Saphira continueremo a esistere.» «Suona come una benedizione e una condanna al tempo stesso.» «Già. Ecco perché in tutta onestà non posso sposare una donna che invecchierà e morirà mentre io resto inalterato nel tempo; una simile esperienza sarebbe crudele per entrambi. D'altro canto, trovo alquanto deprimente il pensiero di prendere una moglie dopo l'altra nel corso dei secoli.» «E non puoi rendere qualcuno immortale con la magia?» chiese Roran. «Si possono annerire i capelli bianchi, spianare le rughe e togliere le cataratte, e se proprio vuoi esagerare, puoi regalare a un sessantenne il corpo che aveva a vent'anni. Ma gli elfi non hanno mai scoperto il modo di ringiovanire la mente di una persona senza distruggere i suoi ricordi. E chi vorrebbe mai cancellare la propria identità di tanto in tanto, in cambio dell'immortalità? Quello che continuerebbe a vivere sarebbe un estraneo. E nemmeno un cervello vecchio in un corpo giovane è la soluzione, perché anche una salute di ferro... ciò di cui siamo fatti noi umani può durare soltanto un secolo o poco più. Né si può arrestare l'invecchiamento. Questo implica tutta una serie di altri problemi... Oh, gli elfi e gli umani hanno tentato in mille modi diversi di sconfiggere la morte, ma nessuno ha avuto successo.» «In altre parole» disse Roran, «per te è più sicuro amare Arya che lasciare il cuore libero perché lo conquisti una donna umana.» «Chi altri potrei sposare se non un'elfa? Soprattutto considerato il mio aspetto.» Eragon frenò l'istinto di sfiorare le estremità puntute delle sue orecchie, un gesto diventato ormai un'abitudine. «Quando vivevo a Ellesméra, mi era facile accettare il cambiamento che i draghi mi avevano imposto. In fondo mi avevano elargito molti altri doni. E poi gli elfi si sono dimostrati più amichevoli nei miei confronti dopo l'Agaetí Blödhren. È stato solo quando sono tornato dai Varden che mi sono reso conto di quanto ero cambiato... E questo mi turba: non sono più soltanto un umano, ma non sono ancora nemmeno un elfo. Sono a metà strada: un misto, un mezzosangue.» «Su col morale!» esclamò Roran. «Non preoccuparti di vivere per sempre. Galbatorix, Murtagh, i Ra'zac o perfino uno dei soldati imperiali potrebbe trafiggerci da un momento all'altro. Un uomo saggio dovrebbe ignorare il futuro e bere e festeggiare mentre ha ancora l'opportunità di godere di questo mondo.» «So che cosa avrebbe ribattuto papà.» «Già, e poi ci avrebbe dato una sonora legnata.» Scoppiarono a ridere insieme, poi il silenzio che tanto spesso dilagava nelle loro discussioni prese di nuovo il sopravvento: un vuoto fatto in parti uguali di stanchezza, familiarità e delle molte differenze scavate dal destino fra coloro che un tempo avevano vissuto vite che erano soltanto variazioni di una stessa melodia. Eragon scrutò la nera volta del firmamento, giudicando l'ora dalla posizione delle stelle: la notte era più vecchia di quanto pensasse. «Saggio consiglio» disse. «Avrei preferito avere ancora un paio di giorni per riposare prima di attaccare l'Helgrind. La battaglia delle Pianure Ardenti ha prosciugato l'energia di Saphira e la mia, e non ci siamo ancora del tutto ripresi, dato che abbiamo volato fin qui e trasferito energia nella cintura di Beloth il Savio le ultime due sere. Sono ancora tutto indolenzito e ho più lividi di quanti ne riesca a contare. Guarda...» Slacciò i cordoncini del polsino della manica sinistra e arrotolò il morbido làmarae - un tessuto che gli elfi fabbricavano con lana intrecciata e fili di ortica - rivelando un solco giallastro nel punto in cui lo scudo gli aveva premuto sull'avambraccio. «Ah!» disse Roran. «E quel segnetto sarebbe un livido? Mi sono fatto più male io stamattina quando ho battuto l'alluce. Adesso ti faccio vedere io un livido di cui andare fieri.» Si slacciò lo stivale sinistro, se lo tolse e arrotolò la gamba del pantalone per esporre una striatura nera larga un pollice che gli attraversava il quadricipite. «Mi sono beccato l'asta della lancia di un soldato che si girava.» «Notevole, ma io ho di meglio.» Eragon si sfilò la casacca dalla testa, liberò la camicia dalla cintura dei pantaloni e si voltò di fianco per mostrare a Roran un'ampia lividura sulle costole e un'altra simile sul ventre. «Frecce» spiegò. Poi scoprì l'avambraccio destro, rivelando un'escoriazione gemella dell'altra, che si era procurato deviando un colpo di spada col bracciale. Allora Roran gli mostrò una collezione di chiazze bluastre irregolari, ciascuna grande quanto una moneta d'oro, che andavano dall'ascella sinistra fino alla base della colonna vertebrale, il risultato di una caduta su un cumulo di pietre e un'armatura a sbalzo. Eragon studiò le lesioni, poi ridacchiò e disse: «Puah, sembrano punture di spine! Ti sei perso e sei andato a finire in un cespuglio di rose? Ti faccio vedere io qualcosa che le farà vergognare.» Si tolse tutti e due gli stivali, si alzò e si calò i pantaloni, restando in camicia e braghe di lana. «Batti questa, se ci riesci» disse, e mostrò l'interno delle cosce. Una violenta combinazione di colori gli maculava la pelle, come un frutto esotico che maturava in maniera irregolare, dal verde acido al viola purulento. «Ahia» disse Roran. «Come te lo sei fatto?» «Sono saltato giù da Saphira durante il duello aereo con Murtagh e Castigo. Ecco come sono riuscito a ferire Castigo. Saphira si è gettata in picchiata sotto di me per prendermi al volo prima che mi schiantassi al suolo, ma sono atterrato sul suo dorso un po' più forte di quanto avrei voluto.» Roran fece una smorfia e rabbrividì. «E continua fino a...» Lasciò la frase in sospeso e fece un vago gesto con la mano verso l'alto. «Purtroppo sì.» «Devo ammetterlo, è un gran bel livido. Dovresti esserne orgoglioso: non è da tutti procurarselo in quel modo, e proprio lì.» «Sono contento che lo apprezzi.» «Bene» proseguì Roran. «Tu puoi anche avere il livido più grosso, ma i Ra'zac mi hanno lasciato una ferita con cui non puoi competere, dato che i draghi, come mi pare di capire, ti hanno cancellato la cicatrice dalla schiena.» Mentre parlava si era liberato della camicia ed era entrato nel cono di luce pulsante creato dalla brace. Eragon spalancò gli occhi per un istante prima di riprendersi e nascondere lo sconcerto dietro un'espressione più neutra. Si rimproverò di aver esagerato pensando Una lunga cicatrice raggrinzita, rossa e lucida, avvolgeva la spalla destra di suo cugino, partendo dalla clavicola per arrivare a metà del braccio. Era chiaro che il Ra'zac gli aveva reciso parte del muscolo e le due metà non si erano ricongiunte. Un malsano gonfiore deformava la pelle sotto la cicatrice, dove le fibre muscolari si erano ritratte su se stesse. Più in alto, la pelle era affondata, formando una depressione profonda mezzo pollice. «Roran! Avresti dovuto mostrarmela giorni fa. Non avevo idea che i Ra'zac ti avessero ferito in questo modo... Riesci a muovere il braccio?» «Non di lato o all'indietro» disse Roran, dandogli una dimostrazione. «Davanti riesco ad alzare la mano solo così... fino all'altezza del torace.» Con una smorfia riabbassò il braccio. «E comunque mi costa fatica. Devo tenere il pollice fermo, altrimenti il braccio s'intorpidisce. Ho scoperto che il modo migliore è farlo ruotare da dietro e calarlo sulla cosa che cerco di afferrare. Mi sono sbucciato le nocche non sai quante volte prima di imparare il trucco.» Eragon si rigirò il bastone fra le mani. Con un sospiro, Eragon posò il bastone per terra e fece un cenno a Roran. «Vieni, ti guarisco io.» «Puoi farlo?» «Certo.» Per un istante il viso di Roran s'illuminò di eccitazione, poi il giovane esitò e corrugò la fronte. «Adesso? È prudente?» «Come ha detto Saphira, meglio curarti ora che ne ho l'occasione, perché la tua ferita potrebbe costarti la vita o mettere in pericolo gli altri.» Roran si avvicinò ed Eragon posò la mano destra sulla rossa cicatrice; intanto espandeva la coscienza per abbracciare gli alberi e le piante e gli animali che popolavano la conca, tranne quelli che ritenne troppo deboli per sopravvivere al suo incantesimo. Poi cominciò a intonare un canto nell'antica lingua. L'incantesimo evocato era lungo e complesso. Guarire una ferita del genere andava ben oltre la semplice ricrescita di nuova pelle, ed era un'operazione molto difficile. Eragon si affidò alle formule curative che aveva studiato a Ellesméra e che aveva impiegato lunghe settimane a mandare a memoria. Il marchio argentato sul suo palmo, il gedwëy ignasia, risplendette incandescente quando Eragon sprigionò la magia. Un istante dopo, emise un gemito involontario quando si sentì morire tre volte: due piccoli uccelli appollaiati su un ginepro poco distante e un serpente annidato fra le rocce. Davanti a lui, Roran gettò indietro la testa e arricciò le labbra in un muto ululato mentre il muscolo della spalla si allungava e si contorceva sotto la pelle palpitante. E poi finì. Eragon trasse un lungo respiro tremante e si prese la testa fra le mani, approfittando del fatto che il suo viso era celato per asciugarsi le lacrime prima di esaminare il risultato della sua opera. Vide Roran contrarre e rilassare le spalle più volte, poi stiracchiare le braccia e muoverle in cerchio. Roran aveva le spalle ampie e rotonde, il risultato di anni trascorsi a scavare buche per le palizzate, a sollevare massi, a raccogliere il fieno col forcone. Suo malgrado, Eragon provò una punta d'invidia. Poteva anche essere più forte di suo cugino, ma non sarebbe mai stato muscoloso come lui. Roran sogghignò. «È tornata come prima! Anzi, meglio. Ti ringrazio.» «Figurati.» «È stata una sensazione stranissima. Come se fossi sul punto di sgusciare fuori dalla pelle. E prudeva da morire; quasi mi mettevo a...» «Mi prendi un po' di pane dalla bisaccia, per favore? Ho fame.» «Abbiamo appena cenato.» «Devo mangiare qualcosa dopo aver usato la magia in questo modo.» Eragon tirò su col naso, trasse un fazzoletto dalla tasca e si pulì. Poi tirò su col naso di nuovo. Quello che aveva detto non era del tutto vero. Era il tributo di vita che aveva estorto alla natura a turbarlo, non la magia in sé, e temeva di vomitare se non avesse mangiato qualcosa per placare lo stomaco. «Non sarai malato?» chiese Roran. «No.» Con il ricordo delle morti appena provocate che gli opprimeva il cuore, Eragon tese una mano verso l'orcio di idromele al suo fianco, sperando di arginare la marea di foschi pensieri. Qualcosa di grosso, pesante e aguzzo gli inchiodò la mano al suolo. Eragon trasalì, alzò lo sguardo e vide la punta di una delle unghie d'avorio di Saphira pungergli la carne. La grande palpebra della dragonessa schioccò calando sull'iride scintillante che lo fissava. Dopo un lungo istante, Saphira levò la zampa ed Eragon ritrasse la mano. Deglutì e afferrò il bastone ancora una volta, cercando di ignorare l'idromele e di concentrarsi su ciò che era immediato e concreto invece che indugiare in cupe riflessioni. Roran andò a prendere mezza pagnotta di pane lievitato dalla sua bisaccia, poi si fermò e con un sorriso appena accennato chiese: «Non preferiresti un po' di carne? La mia non l'ho mangiata tutta.» Tese lo spiedo che aveva ricavato da un ramo di ginepro, dov'erano infilzati tre bei pezzi di carne arrostita dalla crosticina dorata. Al naso sensibile di Eragon il profumo arrivò saporoso e pungente, carico di ricordi delle notti passate sulla Grande Dorsale e delle cene invernali quando lui, Roran e Garrow si stringevano intorno alla stufa, lieti della reciproca compagnia, mentre fuori imperversava la bufera. Gli venne l'acquolina in bocca. «È ancora calda» disse Roran, e agitò lo spiedo davanti agli occhi di Eragon. Con un grande sforzo di volontà, Eragon scosse la testa. «No, mi basta il pane.» «Sicuro? È perfetta: né troppo cotta, né troppo al sangue, e con la giusta dose di condimento. È così saporita che quando dai un morso ti sembra di mangiare il miglior arrosto di Elain.» «No, non posso.» «Guarda che ti piacerà.» «Roran, smettila di provocarmi e dammi quel pezzo di pane!» «Ah, lo vedi, stai già meglio. Magari quello che ti serve non è il pane, ma qualcuno che ti stuzzichi un po'.» Eragon lo fulminò con un'occhiata, poi, più veloce di qualsiasi umano, strappò il pane dalla mano di Roran. Il gesto parve divertire ancora di più il cugino. Mentre Eragon addentava il cibo, Roran disse: «Non capisco come fai a sopravvivere mangiando solo frutta, pane e verdura. Un uomo deve mangiare carne se vuole mantenersi in forze. Non ti manca?» «Più di quanto immagini.» «E allora perché insisti a torturarti così? Ogni creatura a questo mondo se vuole sopravvivere deve mangiare altri esseri viventi... anche se sono solo piante. È così che siamo fatti. Perché vuoi sovvertire l'ordine naturale delle cose?» Eragon si strinse nelle spalle. «Ne abbiamo già discusso. Voi fate come vi pare. Io non dico a voi né a nessun altro come dovete vivere. Ma non posso, in tutta coscienza, mangiare una creatura di cui ho condiviso pensieri e sensazioni.» La punta della coda di Saphira fremette e le squame crocchiarono contro un masso rotondo che sporgeva dal terreno. Roran esitò, come se non sapesse se la richiesta della dragonessa era seria e, in tal caso, in che modo sottrarsi con garbo a un tale obbligo non desiderato e decisamente oneroso. Scoccò un'occhiata implorante a Eragon, che scoppiò a ridere, sia per l'espressione di Roran che per la situazione. La risata sonora di Saphira si unì a quella di Eragon e riverberò in tutta la conca. Le sue zanne scintillarono rosse alla luce della brace. Un'ora dopo che i tre si erano sistemati per la notte, Eragon giaceva al fianco di Saphira, avvolto in diversi strati di coperte per ripararsi dal freddo della notte. Tutto era silenzioso e immobile. Sembrava quasi che uno stregone avesse evocato un incantesimo sulla terra e che ogni cosa fosse immersa in un sonno eterno, destinata a rimanere cristallizzata e immutata per sempre sotto lo sguardo vigile delle stelle tremanti. Senza muoversi, Eragon sussurrò con la mente: Confortato, Eragon fissò il vuoto fra le stelle e rallentò la respirazione, scivolando nello stato di trance che ormai sostituiva in lui il sonno profondo. Pur restando consapevole di ciò che lo circondava, sullo sfondo delle brillanti costellazioni vide i protagonisti dei suoi sogni a occhi aperti farsi avanti per compiere azioni oscure e confuse, com'era loro abitudine. ATTACCO ALL'HELGRIND Mancavano quindici minuti all'alba quando Eragon si svegliò. Schioccò le dita due volte per svegliare Roran, poi raccolse le coperte e le arrotolò in uno stretto fagotto. Alzatosi a fatica, Roran fece lo stesso con il suo giaciglio. Si scambiarono un'occhiata, percorsi da un fremito d'eccitazione. «Se muoio» disse Roran, «ti prenderai cura di Katrina?» «Lo farò.» «Dille che sono andato in battaglia con la gioia nel cuore e il suo nome sulle labbra.» «Lo farò.» Eragon mormorò una breve frase nell'antica lingua. Il calo di energia fu quasi impercettibile. «Ecco fatto. Servirà a filtrare l'aria davanti a noi e ci proteggerà dagli effetti paralizzanti del fiato dei Ra'zac.» Dalla bisaccia trasse l'involto di tela grezza dove aveva conservato la sua cotta di maglia e lo aprì. Il corsaletto un tempo scintillante era ancora incrostato di sangue dalla battaglia sulle Pianure Ardenti, e il misto di sangue rappreso, sudore e incuria aveva permesso alla ruggine d'infiltrarsi fra gli anelli. La maglia però era integra, dato che Eragon l'aveva riparata prima di partire per l'Impero. Eragon indossò il corsaletto di maglia con il dorso di cuoio, arricciando il naso per il lezzo di morte e disperazione che lo impregnava, poi si legò i bracciali agli avambracci e i gambali agli stinchi. Sulla testa infilò una calotta imbottita, un cappuccio di maglia e un semplice elmo d'acciaio. Aveva perduto il proprio - quello che aveva indossato nel Farthen Dûr e che i nani avevano inciso con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum - insieme allo scudo durante il duello aereo fra Saphira e Castigo. Le mani erano protette da guanti di maglia. Roran si vestì allo stesso modo, con uno scudo di legno in più. Lo scudo era contornato da una fascia di ferro morbido che serviva a parare meglio i colpi e a trattenere la spada del nemico. Non c'era scudo a proteggere il braccio sinistro di Eragon: servivano tutte e due le mani per manovrare il bastone di biancospino. A tracolla, Eragon portava la faretra che gli aveva donato la regina Islanzadi. Oltre alle venti frecce di legno di quercia dall'impennaggio di piume di cigno, conteneva l'arco di filigrana d'argento che la regina aveva cantato per lui da un albero di tasso. L'arco era già incordato e pronto all'uso. Saphira grattò il terriccio sotto i piedi con impazienza. Dopo aver appeso bisacce e vettovaglie ai rami di un albero di ginepro, Eragon e Roran si arrampicarono sul dorso di Saphira. Non furono costretti a perdere tempo per sellarla; la dragonessa aveva tenuto addosso la bardatura per tutta la notte. Eragon sentì sotto di sé il calore del cuoio sagomato. Afferrò saldamente la punta cervicale che aveva davanti - per sorreggersi in caso di brusche virate - mentre Roran gli cingeva la vita con un braccio muscoloso, l'altra mano impegnata a brandire il martello. Una lastra di ardesia s'incrinò sotto il peso di Saphira quando la dragonessa si accovacciò per prendere lo slancio e spiccare un unico balzo verso il ciglio del dirupo che affacciava sulla gola, dove rimase in equilibrio per un istante prima di spiegare le ali possenti. Le sottili membrane emisero un cupo ronzio quando Saphira le dispose perpendicolari al cielo. In quella posizione, sembravano due azzurre vele traslucide. «Non mi stringere così» borbottò Eragon. «Scusa» disse Roran, allentando l'abbraccio. Non poterono più parlarsi, perché Saphira balzò di nuovo. Una volta raggiunto il culmine dello slancio, la dragonessa abbassò le ali con un sonoro fruscio prolungato e si spinse verso l'alto. A ogni battito d'ali si avvicinavano sempre di più ai sottili strati di nubi. Mentre Saphira virava verso l'Helgrind, Eragon scoccò un'occhiata a sinistra e scoprì che, grazie all'altezza, riusciva a scorgere un buon tratto del Lago di Leona, a qualche miglio di distanza. Un denso strato di nebbia, grigia e spettrale nel tenue chiarore dell'aurora, aleggiava sull'acqua, come se sulla superficie liquida ardesse un enorme fuoco fatuo. Eragon aguzzò la vista, ma nonostante i suoi occhi da falco non riuscì a distinguere la sponda opposta né le propaggini meridionali della Grande Dorsale. Provò una fitta di nostalgia: non vedeva le montagne della sua infanzia da quando aveva lasciato la Valle Palancar. A nord sorgeva Dras-Leona, una massa enorme e indistinta che si stagliava tozza contro il muro di nebbia che ne orlava i confini occidentali. L'unico edificio che Eragon riuscì a identificare fu la cattedrale dove i Ra'zac lo avevano attaccato; la sua guglia torreggiava sul resto della città come una punta di lancia munita di barbigli. Eragon sapeva che da qualche parte, nella piana che scorreva sotto di loro, c'erano ancora i resti dell'accampamento dove i Ra'zac avevano ferito a morte Brom. Si lasciò invadere ancora una volta dal furore e dalla pena che aveva provato quel giorno lontano - come anche all'epoca della morte di Garrow e della distruzione della fattoria - affinché quei violenti sentimenti gli infondessero il coraggio, anzi, la brama di affrontare i Ra'zac in battaglia. Un ventaglio di luce dorata si levò all'orizzonte quando spuntò la cupola fiammeggiante del disco solare. Il mondo, che fino a un istante prima era stato avvolto da un'uniforme coltre grigiastra, s'illuminò di tutti i colori dell'arcobaleno: la nebbia risplendette azzurrina, l'acqua scintillò di un blu intenso, le mura che cingevano il centro di Dras-Leona rivelarono il loro sudicio intonaco di fango giallo, gli alberi si rivestirono di ogni possibile sfumatura di verde e il terreno avvampò di rosso e arancio. L'Helgrind, tuttavia, rimase com'era sempre: nero. Mentre si avvicinavano, la montagna di pietra s'ingrandiva a vista d'occhio. Perfino dall'alto appariva inquietante. Nel tuffarsi verso la base dell'Helgrind, Saphira fece una virata a sinistra così stretta che Eragon e Roran sarebbero precipitati se non avessero avuto le gambe legate alla sella. La dragonessa sfrecciò intorno alla massicciata di ghiaia e sopra l'altare dove i sacerdoti dell'Helgrind celebravano i loro riti. Il vento s'insinuò sotto la visiera dell'elmo di Eragon, che fu assordato dal potente sibilo. «Allora?» gridò Roran, che non riusciva a vedere davanti. «Gli schiavi sono spariti!» Eragon si sentì come schiacciato da un peso enorme quando Saphira interruppe bruscamente la picchiata per risalire a spirale intorno all'Helgrind, in cerca dell'ingresso del covo dei Ra'zac. Una ragnatela di venature bianche adornava le pareti in ombra dei dirupi e dei pilastri, dove la brina si era raccolta nelle fessure della roccia. Non c'era altro a disturbare la cupezza dei neri bastioni battuti dai venti dell'Helgrind. Non crescevano alberi sui pendii rocciosi, non c'erano arbusti o ciuffi d'erba o muschi o licheni; le aquile non osavano fare il nido sulle cornici frastagliate della torre. Fedele al suo nome, l'Helgrind era un luogo di morte, e si ergeva ammantato nelle pieghe rigide e affilate delle sue scarpate e dei suoi crepacci come uno spettro scheletrico sorto a perseguitare la terra. Espandendo la mente, Eragon trovò conferma della presenza delle due persone che aveva scoperto imprigionate all'interno dell'Helgrind il giorno prima, ma lo turbò il fatto di non riuscire a localizzare i Ra'zac o i Lethrblaka. Saphira rispose alla sua domanda appollaiandosi su una sporgenza di roccia franosa distante qualche passo. Nel farlo, per un attimo perse l'equilibrio, e batté le ali per recuperarlo. Invece di urtare contro la massa compatta dell'Helgrind, la punta dell'ala destra affondò nella roccia e ne riemerse. Protesa in avanti, Saphira allungò la punta del muso verso la roccia, fermandosi a uno o due pollici di distanza, come in attesa che scattasse qualche trappola; poi continuò ad avanzare. Squama dopo squama, la testa di Saphira scivolò nell'Helgrind, finché di lei non rimasero visibili che il collo, il torso e le ali. Con un guizzo dei muscoli possenti, Saphira abbandonò la sporgenza di roccia e fece seguire alla testa il resto del corpo. Eragon fece appello a tutto il suo autocontrollo per non coprirsi il volto nel tentativo disperato di proteggersi mentre la parete rocciosa gli correva incontro. Un istante dopo, si ritrovò a fissare una vasta caverna con la volta soffusa dal tiepido chiarore del mattino. Le squame di Saphira rifrangevano la luce, proiettando migliaia di tremuli puntini azzurri sulle pareti di roccia. Voltando la testa, Eragon non vide roccia alle loro spalle: soltanto l'ingresso della grotta e uno squarcio del panorama sottostante. Sorrise amaro. Non gli era venuto in mente che Galbatorix avesse potuto nascondere la tana dei Ra'zac con la magia. Roran imprecò fra i denti e disse: «La prossima volta prima di fare una cosa del genere, avvertimi.» Chino in avanti, Eragon cominciò a slacciare le cinghie che gli tenevano le gambe legate alla sella, studiando nel frattempo l'ambiente in cerca di pericoli. L'ingresso della caverna era un ovale irregolare, alto cinquanta piedi e largo una sessantina, che si apriva su di una camera grande il doppio. In fondo, a un buon tiro di freccia di distanza, la grotta terminava in un cumulo di lastre rocciose addossate l'una all'altra alla rinfusa. Una ragnatela di scalfitture solcava il pavimento, prova delle innumerevoli volte che i Lethrblaka avevano spiccato il volo, erano atterrati e avevano camminato su quella superficie. Come misteriosi buchi di serratura, sui lati della caverna si aprivano cinque basse gallerie e un arco ogivale abbastanza alto da far passare Saphira. Eragon studiò con attenzione le gallerie, ma erano nere come la pece e apparentemente vuote, un fatto a cui trovò conferma con una rapida esplorazione della mente. Strani mormorii confusi riecheggiavano dalle profondità dell'Helgrind, evocando immagini di La caratteristica più notevole della grotta, tuttavia, era il misto di odori che la pervadeva. Sotto l'odore predominante della pietra fredda, Eragon fiutò il tanfo dell'umidità e della muffa, e anche qualcosa di peggio: il fetore dolciastro e nauseabondo della carne in putrefazione. Dopo essersi slacciato le ultime cinghie, Eragon scavalcò il dorso di Saphira e restò seduto in sella di lato, pronto a saltare giù. Altrettanto fece Roran dall'altra parte. Un attimo prima di lanciarsi, Eragon udì, confusi fra i diversi fruscii che gli solleticavano le orecchie, una serie di picchiettii simultanei, come se qualcuno colpisse la roccia con delle piccozze. Il rumore si ripeté mezzo secondo dopo. Volse la testa in direzione del rumore, e Saphira lo imitò. Un'enorme figura deforme si avventò dall'arco ogivale. Occhi neri, sporgenti, senza palpebre. Becco lungo diversi piedi. Ali da pipistrello. Torso nudo, glabro, vibrante di muscoli. Artigli come punte di lancia. Saphira guizzò di lato nel tentativo di schivare il Lethrblaka, ma fu inutile. La creatura cozzò contro il fianco destro della dragonessa con quella che a Eragon parve la potenza e la furia di una valanga. Quanto accadde subito dopo, Eragon non lo capì, perché lo scontro lo spedì in aria senza che riuscisse a formulare un solo pensiero coerente. Il volo terminò bruscamente così com'era iniziato quando il giovane finì di schiena contro qualcosa di duro e piatto, per poi cadere a terra picchiando la testa un'altra volta. Il secondo, violento impatto gli sottrasse quel poco di aria che gli restava nei polmoni. Stordito, rimase raggomitolato su un fianco, ansante, e tentò di riprendere una parvenza di controllo sulle membra inerti. Il tono angosciato della dragonessa fu come una sferzata di energia per Eragon. Mentre la vita gli tornava nella braccia e nelle gambe, protese la mano per afferrare il bastone caduto lì accanto. Piantò il puntale di ferro in una fessura nella roccia e si issò facendo forza sul ramo di biancospino. Barcollò. Uno sciame di puntini rossi gli danzò davanti agli occhi. La situazione era così confusa che non sapeva dove guardare prima. Saphira e il Lethrblaka rotolavano avvinghiati nella grotta, distribuendo calci, unghiate e morsi con tanta ferocia da scheggiare la roccia. Il clamore della lotta doveva essere assordante, ma per Eragon si azzuffavano in silenzio: le orecchie non gli funzionavano. Tuttavia avvertiva le vibrazioni sotto i piedi, mentre le colossali creature si schiantavano di qua e di là, minacciando di schiacciare chiunque capitasse loro vicino. Un torrente di fuoco azzurro eruttò dalle fauci di Saphira e avvolse il lato sinistro della testa del Lethrblaka in una vampa infernale così ardente da riuscire a fondere l'acciaio. Le fiamme curvarono intorno al Lethrblaka senza procurare alcun danno alla creatura. Imperturbato, il mostro si avventò col becco contro il collo di Saphira, costringendola a interrompere la fiammata per difendersi. Fulmineo come una freccia scoccata da un arco, il secondo Lethrblaka uscì dall'arco per avventarsi sul fianco di Saphira e spalancando il becco aguzzo emise un orribile stridio, così forte che Eragon si sentì accapponare la pelle e avvertì un gelido nodo di terrore formarsi nello stomaco. Digrignò i denti: quello lo aveva sentito. L'odore adesso, con entrambi i Lethrblaka presenti, era paragonabile al fetore nauseabondo di una decina di libbre di carne rancida lasciate a fermentare in un barile di letame per una settimana in piena estate. Eragon si tappò la bocca con la mano, lo stomaco sottosopra, e rivolse altrove la sua attenzione per non vomitare. A qualche passo di distanza, Roran giaceva rannicchiato contro la parete della grotta addosso alla quale era stato scagliato. Sotto lo sguardo preoccupato di Eragon, il cugino riuscì a mettersi carponi e poi in piedi. Aveva gli occhi vitrei e barcollava come un ubriaco. Alle spalle di Roran, da una delle gallerie emersero i due Ra'zac. Con le mani deformi impugnavano lunghe spade livide di antica fattura. A differenza dei loro genitori, i Ra'zac avevano dimensioni e forma vagamente umane. Erano rivestiti da capo a piedi da un esoscheletro nero come l'ebano, che si intravvedeva a stento, dato che perfino nell'Helgrind indossavano mantelli e cappucci scuri. Si spostavano con una rapidità impressionante, con improvvisi movimenti a scatti simili a quelli degli insetti. Eppure Eragon non riusciva ancora a percepirli, e nemmeno i Lethrblaka. Levando in alto la mano destra, Eragon gridò: «Tienili a bada per un minuto» gridò, sperando che Roran lo sentisse. Roran afferrò il senso, perché si riparò con lo scudo e levò il martello preparandosi a combattere. L'enorme potenza in ogni singolo, terribile colpo dei Lethrblaka aveva già esaurito le difese magiche contro il pericolo fisico che Eragon aveva eretto intorno a Saphira. Senza più barriere a ostacolarli, i Lethrblaka avevano inflitto una serie di graffi - lunghi ma poco profondi - alle cosce della dragonessa e l'avevano infilzata tre volte col becco: ferite piccole, ma profonde e molto dolorose. Dal canto suo, Saphira aveva aperto uno squarcio nel torace di un Lethrblaka e staccato con un morso buona parte della coda dell'altro. Il sangue dei Lethrblaka, notò Eragon sbigottito, era di un verdazzurro metallico, simile alla patina verdastra che si forma sul rame ossidato. Le due creature cambiarono tattica e si allontanarono da Saphira, ma continuarono ad accerchiarla, avventandosi su di lei di tanto in tanto per tenerla a bada in attesa che si stancasse o del momento propizio per ucciderla con un colpo di becco. Saphira era meglio equipaggiata dei Lethrblaka per il combattimento corpo a corpo, grazie alle squame - più dure e resistenti della loro pellaccia grigia - e ai denti - di gran lunga più letali del loro becco in uno scontro ravvicinato - ma in quella situazione, con il basso soffitto della caverna che le dava scarsa libertà di manovra per saltare o volare, aveva non poche difficoltà a tenere testa a due creature che l'attaccavano contemporaneamente. Eragon temeva che se anche avesse avuto la meglio, i Lethrblaka l'avrebbero mutilata prima che lei li uccidesse. Il giovane Cavaliere trasse un profondo respiro e lanciò un singolo incantesimo che conteneva ciascuna delle dodici tecniche per uccidere che Oromis gli aveva insegnato. Lo formulò con estrema cautela, pronunciando una frase dopo l'altra di modo che, se le difese di Galbatorix lo avessero respinto, avrebbe potuto arrestare il flusso di magia. Altrimenti l'incantesimo avrebbe potuto consumargli le forze fino a ucciderlo. La precauzione si rivelò quanto mai opportuna. Nel lanciarlo, Eragon si accorse subito che la magia non aveva effetto sui Lethrblaka, e rinunciò all'assalto. Non che si fosse aspettato di avere successo con le tradizionali parole di morte, ma aveva dovuto almeno provarci, nella remota possibilità che Galbatorix avesse commesso qualche errore o negligenza nel creare le difese per i Lethrblaka e la loro progenie. Alle sue spalle, Roran gridò: «Yah!» Un istante dopo, una spada cozzò sul suo scudo; poi si udirono il tintinnio della maglia metallica che si lacerava e il clangore di una seconda spada che rimbalzava sull'elmo. Fu così che Eragon si accorse che il suo udito stava migliorando. I Ra'zac continuavano ad attaccare, ma ogni volta le loro armi scivolavano sull'armatura di Roran, o mancavano il suo volto e il suo corpo di un soffio, anche se mulinavano le lame con una stupefacente rapidità. Roran era troppo lento per contrattaccare, ma i Ra'zac non riuscivano a ferirlo. Sibilavano di frustrazione e sputavano una serie ininterrotta di invettive, che suonavano ancora più immonde per come i becchi duri e chioccianti alteravano le parole. Eragon sorrise fra sé. Il bozzolo di incantesimi che aveva tessuto intorno a Roran stava funzionando. Sperava che l'invisibile rete di energia reggesse finché lui non avesse trovato il modo di fermare i Lethrblaka. All'improvviso, i due Lethrblaka strillarono all'unisono, e tutto tremò e si fece grigio intorno a Eragon. Per un istante perse ogni determinazione e non riuscì a muoversi, poi si riebbe, scrollandosi come fanno i cani, per liberarsi dalla loro nefanda influenza. Il suono stridulo gli ricordò due bambini che urlano di dolore. Allora cominciò a cantare nell'antica lingua, più in fretta che poteva senza rischiare di sbagliare pronuncia. Ogni frase, ed erano una schiera, conteneva il potenziale per provocare una morte istantanea, e ogni morte era diversa dall'altra. Mentre Eragon recitava il suo improvvisato soliloquio, Saphira subì un'altra ferita sul fianco sinistro. Per contro spezzò un'ala del suo aggressore, riducendo con gli artigli la sottile membrana in tante striscioline. Ancora spalle a spalle col cugino, Eragon avvertì i contraccolpi trasmessi dalla schiena di Roran alla sua, mentre i Ra'zac sferravano attacchi in rapida successione. Il più grosso cominciò ad aggirare Roran, nel tentativo di attaccare direttamente Eragon. Poi, nel frastuono di acciaio contro acciaio e acciaio contro legno, e di artigli contro pietra, si udì lo stridore di una spada che lacerava una maglia, seguito da un rumore liquido. Roran gridò, ed Eragon sentì un fiotto di sangue inzuppargli il polpaccio destro. Con la coda dell'occhio si accorse che la creatura gibbosa spiccava un salto verso di lui, la spada a lamina puntata come a volerlo impalare. Il mondo parve contrarsi intorno alla lama aguzza e sottile, la punta scintillò come una scheggia di cristallo, ogni graffio un filo d'argento pulsante nella chiara luce dell'alba. Eragon ebbe il tempo di formulare un solo altro incantesimo prima di dedicarsi al Ra'zac per impedirgli d'infilzarlo con la spada, trafiggendolo tra il fegato e i reni. Cessò l'attacco diretto contro i Lethrblaka e gridò: «Garjzla, letta!» Era un incantesimo rozzo, evocato in fretta, con poche parole, eppure funzionò. Gli occhi bulbosi del Lethrblaka con l'ala spezzata divennero due ammassi di specchi, ciascuno un emisfero perfetto: la magia di Eragon rifletté la luce che altrimenti sarebbe entrata nelle pupille del Lethrblaka e, accecata, la creatura inciampò, frustando l'aria nel vano tentativo di colpire Saphira. Eragon fece roteare il bastone di biancospino fra le mani e deviò la spada del Ra'zac quando era a meno di un pollice dalle sue costole. Il Ra'zac atterrò davanti a lui e fece scattare il collo in avanti. Eragon balzò all'indietro quando vide un becco corto e tozzo comparire da sotto il cappuccio. L'appendice chitinosa schioccò a un soffio dal suo occhio destro. Con un singolare distacco, Eragon ebbe modo di notare che la lingua del Ra'zac era violacea, ricoperta di barbigli, e si contorceva come un serpente senza testa. Unendo le mani al centro del bastone, Eragon spinse avanti le braccia e colpì il Ra'zac sul torace incavato. Il mostro fu scaraventato a diverse iarde di distanza, rimbalzò sulla parete di roccia e atterrò su mani e ginocchia. Eragon aggirò Roran, che aveva il fianco sinistro intriso di sangue, e parò la spada dell'altro Ra'zac. Fece una finta, diede un colpetto alla lama del Ra'zac per provocarlo, e quando il Ra'zac tentò un affondo contro la sua gola, fece mulinare l'altra estremità del bastone e deviò il colpo. Senza un attimo di tregua, Eragon si slanciò in avanti e piantò l'estremità di legno del bastone nell'addome del Ra'zac. Se Eragon avesse impugnato Zar'roc, la creatura sarebbe morta all'istante. Ma qualcosa si spezzò dentro il Ra'zac, che rotolò sul pavimento della grotta per diversi passi. Subito però si rimise in piedi di scatto, lasciando una scia di sangue bluastro sulla roccia scabra. Assunse una posizione di attesa mentre i due Ra'zac convergevano su di lui: non aveva scelta se non resistere all'attacco simultaneo, perché era l'unica cosa che si frapponeva fra quei mangiacarogne artigliati e Roran. Cominciò a formulare lo stesso incantesimo che aveva funzionato contro il Lethrblaka, ma i Ra'zac sferrarono una rapida successione di fendenti dal basso e dall'alto prima che lui riuscisse a pronunciare una sola sillaba. Le spade si abbatterono sul legno di biancospino con un tonfo sordo, ma non riuscirono a intaccare né a graffiare il legno stregato. Sinistra, destra, in alto, in basso. Eragon non pensava: agiva e reagiva sotto gli affondi incessanti dei Ra'zac. Il bastone era l'ideale per combattere più avversari, perché si poteva colpire e parare con entrambe le estremità, spesso simultaneamente, ed Eragon lo trovò utilissimo in quel frangente. Ansimava; il sudore gli gocciolava dalla fronte e si raccoglieva agli angoli degli occhi; aveva la schiena e le ascelle madide. La foschia rossastra della battaglia gli annebbiava la vista e pulsava al ritmo delle contrazioni del suo cuore. Non si sentiva mai così vivo, e così spaventato, come quando combatteva. Le sue difese magiche erano deboli, dato che aveva dedicato la maggior parte della sua attenzione a Saphira e Roran. Quando alla fine si esaurirono, il Ra'zac più piccolo lo ferì al lato esterno del ginocchio sinistro. Non una ferita mortale, ma pur sempre grave, perché la gamba sinistra non riusciva più a sostenere il peso del corpo. Afferrando il bastone dal puntale, Eragon lo roteò come una mazza e colpì con violenza la testa di un Ra'zac. La creatura crollò a terra, ma era impossibile dire se fosse morta o soltanto svenuta. Avanzando contro il Ra'zac rimasto, Eragon lo colpì alle braccia e alle spalle e, con un'improvvisa torsione del polso, gli fece volare via la spada dalla mano. Prima che Eragon potesse finirlo, il Lethrblaka accecato e con l'ala rotta attraversò in volo la grotta e si schiantò contro la parete opposta, provocando una pioggia di detriti rocciosi staccatosi dal soffitto. La scena e il fragore furono così impressionanti che Eragon, Roran e il Ra'zac si rannicchiarono d'istinto. Balzando sul Lethrblaka ferito, che aveva appena colpito con un calcio, Saphira affondò le zanne nella nuca muscolosa della creatura. Il Lethrblaka si dimenò in un estremo tentativo di liberarsi, poi Saphira scrollò la testa da un lato e dall'altro e gli spezzò la spina dorsale. Levandosi al di sopra del cadavere insanguinato, la dragonessa squassò la grotta con un selvaggio ruggito di trionfo. L'altro Lethrblaka non esitò. Si avventò su Saphira e le affondò gli artigli sotto il bordo delle squame, trascinandola in un vortice incontrollato. Le due creature rotolarono avvinghiate fino all'imboccatura della grotta, rimasero in bilico sul ciglio per un istante e poi piombarono di sotto, continuando a lottare. Allontanarsi dal raggio di azione di Eragon era una tattica astuta da parte del Lethrblaka, perché al giovane era difficile scagliare un incantesimo su ciò che non poteva percepire con almeno uno dei cinque sensi. Eragon si volse di scatto, appena in tempo per vedere i due Ra'zac svanire nelle viscere della galleria più vicina, il più grande abbandonato contro il più piccolo. Chiuse gli occhi e identificò le menti dei prigionieri dell'Helgrind, mormorò qualche frase nell'antica lingua e poi si rivolse a Roran. «Ho sigillato l'ingresso della cella di Katrina, così i Ra'zac non potranno usarla come ostaggio. Soltanto tu e io possiamo aprire quella porta, adesso.» «Bene» disse Roran a denti stretti. «Non puoi fare qualcosa per questa?» Col mento indicò il punto che premeva con la mano destra. Il sangue gli scorreva fra le dita. Eragon tastò la ferita. Non appena la toccò, Roran trasalì e fece un salto indietro. «Sei fortunato» disse Eragon. «La spada ha colpito una costola.» Con una mano sulla ferita e l'altra sui dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio, Eragon attinse al potere che aveva conservato nelle gemme. «Waíse heill!» Una serie di piccole onde increspò il fianco di Roran mentre la magia ricuciva la pelle e il muscolo. Poi Eragon guarì la propria ferita, lo squarcio sul ginocchio sinistro. Una volta finito, si alzò e guardò verso il punto dov'era scomparsa Saphira. Il loro legame mentale si andava assottigliando via via che la dragonessa si allontanava verso il Lago di Leona all'inseguimento del Lethrblaka. Avrebbe tanto voluto aiutarla, ma sapeva che al momento Saphira avrebbe dovuto cavarsela da sola. «Sbrigati» disse Roran. «Ci stanno sfuggendo!» «Giusto.» Soppesando il bastone, Eragon s'incamminò nella galleria semibuia, con lo sguardo che guizzava da una sporgenza rocciosa all'altra, ben sapendo che i Ra'zac avrebbero potuto tendergli un agguato in ogni momento. Si muoveva adagio, affinché i passi non echeggiassero nel tunnel tortuoso. Quando si appoggiò alla roccia per reggersi, scoprì che era coperta da una sostanza viscida. Dopo una ventina di iarde avevano fatto così tante curve che la grotta principale non si vedeva più e piombarono in una tenebra così assoluta che nemmeno Eragon riusciva a scorgere niente. «Forse per te è diverso, ma io non posso combattere al buio» sussurrò Roran. «Se creo una luce, i Ra'zac non si avvicineranno, non adesso che ho trovato un incantesimo che su di loro funziona. Resteranno nascosti finché non ce ne andremo. Dovremo ucciderli mentre ne abbiamo l'opportunità.» «E io che faccio? È più facile urtare contro una roccia e rompermi il naso che trovare quei due scarafaggi... Potrebbero strisciarci alle spalle e assalirci di sorpresa.» «Ssst... Tieniti stretto alla mia cintura e stai pronto a chinarti.» Eragon non riusciva a vedere, ma poteva ancora sentire, fiutare, toccare e gustare, e questo gli permetteva di avere un'idea abbastanza precisa di quanto c'era nei dintorni. Il pericolo maggiore era rappresentato da un eventuale attacco a distanza dei Ra'zac, magari armati di arco, ma era sicuro di avere i riflessi abbastanza pronti da poter salvare se stesso e Roran da una freccia. Una corrente d'aria gli solleticò la pelle, poi si interruppe e prese a soffiare nella direzione opposta mentre la pressione dall'esterno aumentava e diminuiva. Il ciclo si ripeteva a intervalli irregolari, creando ondate invisibili che lo sfioravano come il getto spumeggiante di una fontana. Il suo respiro e quello di Roran risuonavano forti e rauchi in confronto allo strano assortimento di rumori che si propagava nella galleria. Eragon sentì il Fra gli odori, nessuno gli era sconosciuto: sudore, sangue, umidità e muffa. Passo dopo passo, Eragon e Roran si addentravano sempre di più nelle viscere dell'Helgrind, seguendo la galleria in discesa che spesso si diramava in più direzioni: se Eragon non avesse usato la mente di Katrina come punto di riferimento, si sarebbero di certo persi. In alcuni punti il percorso si restringeva e il soffitto si abbassava, tanto che una volta Eragon batté la testa e fu colto da uno snervante attacco di claustrofobia. Dopo quella che parve un'eternità di tenebra - anche se Eragon sapeva che non potevano essere passati più di dieci, quindici minuti - e dopo aver disceso un centinaio di gradini nel cuore dell'Helgrind, Eragon si fermò quando sentì che il pavimento tornava pianeggiante. Trasmettendo i propri pensieri a Roran, disse: Roran rimase in silenzio per qualche istante. Ripresero ad avanzare, trovando la strada a tentoni nel corridoio basso e squadrato con il pavimento di roccia sconnessa. Eragon dovette dedicare la maggior parte della sua attenzione a dove metteva i piedi per non inciampare. Per questo motivo, poco mancò che non si accorgesse del fruscio di stoffa e del debole Si appiattì contro il muro, trascinando Roran con sé. Nello stesso momento, qualcosa gli sfiorò la faccia, scavandogli un solco nella guancia destra. La carne gli bruciava come se l'avessero cauterizzata. «Kveykva!» gridò Eragon. Una luce rossa fiammeggiò splendente come il sole di mezzogiorno. Non avendo origine, illuminava ogni superficie in maniera uniforme, senza proiettare ombre, e conferiva alle cose un curioso aspetto piatto. L'improvviso fulgore abbagliò Eragon, ma per il Ra'zac di fronte a lui fu anche peggio: la creatura fece cadere l'arco, si coprì la faccia col cappuccio e lanciò uno stridio acuto e lacerante. Un secondo grido, uguale al primo, rivelò a Eragon che l'altro Ra'zac era alle loro spalle. Eragon si voltò in tempo per vedere Roran caricare il secondo Ra'zac con il martello alzato. Il mostro, disorientato, barcollò all'indietro, ma fu troppo lento. Il martello calò. «Per mio padre!» gridò Roran. E colpì ancora. «Per la nostra casa!» Il Ra'zac era già morto, ma Roran brandì il martello ancora una volta. «Per Carvahall!» Il colpo finale frantumò il carapace del Ra'zac come la scorza di una zucca secca. Nell'impietosa luce rossa, la pozza di sangue che si andava allargando sembrava viola. Mulinando il bastone per deviare la freccia o la spada che era sicuro stesse per colpirlo, Eragon si volse per affrontare il Ra'zac superstite. La galleria davanti a lui era vuota. Imprecò. Allora si avvicinò a grandi passi alla figura deforme riversa sul pavimento. Alzò il bastone e lo calò con tutta la forza sul torace del Ra'zac morto, con uno schianto secco. «Era tanto che volevo farlo» disse Eragon. «Anch'io.» Lui e Roran si scambiarono un'occhiata. «Ahh!» esclamò Eragon, e si premette il palmo sulla guancia mentre il dolore aumentava. «Bolle!» disse Roran. «Fa' qualcosa!» «Senza la magia non dovremmo preoccuparci di Galbatorix.» Ora che aveva l'opportunità di esaminare il corridoio nei dettagli, Eragon notò che le pareti di pietra erano intervallate da una ventina di porte di ferro. Puntò il dito e disse: «La nona a destra. Vai a prenderla. Io controllo le altre celle. I Ra'zac potrebbero averci lasciato qualche cosa d'interessante.» Roran annuì. Si accovacciò e frugò il cadavere ai suoi piedi, ma non trovò alcuna chiave. Si strinse nelle spalle. «Dovrò usare le maniere forti.» Corse alla porta indicata, lasciò cadere lo scudo e cominciò a lavorare ai cardini col martello. Ogni colpo produceva un fragore assordante. Eragon non si offrì di aiutarlo. Il cugino non avrebbe gradito la sua assistenza in quel momento, e per giunta c'era qualcos'altro da fare. Andò alla prima cella, mormorò tre parole, poi, quando il chiavistello scattò, aprì la porta. La piccola stanza conteneva soltanto una catena nera e un cumulo di ossa putrefatte. Non che si fosse aspettato altro che quei miseri resti; già sapeva dove si trovava l'oggetto della sua ricerca, ma per non destare i sospetti di Roran continuò a far finta di indagare. Altre due porte si aprirono e si chiusero al tocco delle dita di Eragon. Poi, quando si spalancò la porta della quarta cella, il tremulo bagliore del fuoco fatuo illuminò proprio l'uomo che Eragon aveva sperato di non trovare: Sloan. SEPARAZIONE Il macellaio sedeva accasciato contro la parete della cella, con tutte e due le braccia incatenate a un anello di ferro sopra la testa. I vestiti laceri coprivano a stento il corpo pallido ed emaciato: le ossa sporgevano da sotto la pelle esangue, percorsa da vene bluastre. Sui polsi le manette avevano provocato ulcere che stillavano sangue e siero. I pochi capelli rimasti, diventati grigi o bianchi, gli pendevano in sudice ciocche sulla faccia butterata. Destato dal clangore del martello di Roran, Sloan alzò il mento verso la luce e, con voce tremante, chiese: «Chi è là? Chi c'è?» Col movimento, la rada cortina di capelli davanti alla sua faccia si aprì, mostrando le orbite incassate nel cranio. Dove avrebbero dovuto esserci le palpebre, lembi di pelle frastagliata orlavano le vuote cavità nere. L'area intorno era livida e squamosa. Con raccapriccio, Eragon capì che i Ra'zac gli avevano cavato gli occhi a colpi di becco. Esitò, indeciso sul da farsi. Il macellaio aveva rivelato ai Ra'zac che Eragon aveva trovato l'uovo di Saphira. In più, aveva ucciso la sentinella di Carvahall, Byrd, e tradito l'intero villaggio consegnandolo all'Impero. Se lo avesse portato davanti ai suoi compaesani, senza ombra di dubbio lo avrebbero dichiarato colpevole e condannato a morte per impiccagione. A Eragon sembrava giustissimo che il macellaio morisse per i suoi crimini, quindi non era questa la fonte della sua incertezza, quanto piuttosto il fatto che Roran amava Katrina, e che Katrina, malgrado quello che aveva fatto Sloan, probabilmente nutriva ancora dell'affetto per suo padre. Assistere a un processo pubblico che avrebbe condannato a morte Sloan sarebbe stato penoso per lei e, di riflesso, anche per Roran. Una prova simile avrebbe potuto creare del malanimo fra i due, tanto da mettere in pericolo il fidanzamento. Ed Eragon era convinto che riportare Sloan con loro avrebbe seminato discordia fra lui, Roran, Katrina e gli altri abitanti di Carvahall, incendiando gli animi al punto da distrarli dalla loro battaglia contro l'Impero. «Che volete?» chiese Sloan. Voltò la testa da una parte e dall'altra, nel tentativo di sentire meglio. «Vi ho già detto tutto quello che sapevo!» Eragon si maledisse per la propria esitazione. La colpevolezza di Sloan non era in discussione: era un traditore e un assassino. Qualunque giudice lo avrebbe condannato a morte. Malgrado la fondatezza dei suoi ragionamenti, era pur sempre Sloan quello rannicchiato davanti a lui, un uomo che Eragon conosceva da una vita. Il macellaio poteva essere una persona spregevole, ma il bagaglio di ricordi ed esperienze che Eragon condivideva con lui generava un senso di intimità che turbava la sua coscienza. Uccidere Sloan sarebbe stato come uccidere Horst o Loring o uno qualsiasi degli altri abitanti di Carvahall. Ancora una volta, Eragon si preparò a pronunciare la parola fatale. Un'immagine gli comparve davanti agli occhi: Guardò indietro: Roran spezzò l'ultimo cardine della porta della cella di Katrina, lasciò cadere il martello e si preparò a caricare la porta per abbatterla con una spallata; poi ci ripensò e provò a sollevarla dall'intelaiatura. La porta si alzò di pochi millimetri, poi si bloccò, inclinandosi da un lato. «Ehi, vieni a darmi una mano!» gridò. «Non voglio correre il rischio che le cada addosso.» Eragon guardò il macellaio. Non aveva più tempo per pensieri raminghi. Doveva scegliere. In un modo o nell'altro, doveva decidere... «Eragon!» Alzando una mano, come fosse una benedizione, Eragon mormorò: «Slytha.» Le manette di Sloan sferragliarono mentre l'uomo si accasciava inerte, cadendo in un sonno profondo. Non appena fu sicuro che l'incantesimo aveva avuto effetto, Eragon chiuse a chiave la porta della cella e innalzò di nuovo una barriera di difese magiche. «Cosa c'era lì dentro?» chiese Roran, quando Eragon lo raggiunse, posizionandosi dall'altro lato della porta. «Sloan.» Eragon afferrò meglio la porta. «È morto.» Roran sgranò gli occhi. «Come?» «A quanto pare gli hanno spezzato il collo.» Per un istante, Eragon temette che Roran non gli avrebbe creduto. Poi il cugino sbuffò e disse: «Meglio così, immagino. Pronto? Uno, due, tre...» Insieme sollevarono la massiccia porta dalla sua intelaiatura e la scagliarono dall'altra parte del corridoio. La galleria di pietra restituì un boato echeggiante. Senza un attimo di esitazione, Roran si precipitò all'interno della cella, illuminata da una singola candela. Eragon lo seguì, mantenendosi a debita distanza. Katrina si rannicchiò nell'angolo più lontano di una brandina di ferro. «Lasciatemi in pace, schifosi bastardi! Io...» S'interruppe, folgorata, quando Roran si fece avanti. Il suo viso era pallido per la mancanza di sole e striato di sudiciume, ma in quel momento s'illuminò di un tale stupore e di un amore così tenero che Eragon pensò di non aver mai visto tanta radiosa bellezza. Senza distogliere lo sguardo da Roran, Katrina si alzò e con una mano tremante gli accarezzò una guancia. «Sei venuto.» «Sì, sono venuto.» Roran proruppe in un singhiozzo di gioia mentre la cingeva con le braccia, attirandola a sé. Rimasero persi nel loro abbraccio per un lungo momento. Poi Roran si ritrasse e la baciò tre volte sulle labbra. Katrina arricciò il naso ed esclamò: «Ti sei fatto crescere la barba!» Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, questa fu così inaspettata - e la ragazza aveva un'espressione tanto turbata e sorpresa - che Eragon ridacchiò sottovoce. Per la prima volta, Katrina si accorse della sua presenza. Il suo sguardo vagò alle sue spalle, poi si fermò sul suo viso, che studiò con evidente stupore. «Eragon? Sei tu?» «Sì.» «È un Cavaliere dei Draghi, adesso» disse Roran. «Un Cavaliere? Vuoi dire...» Le parole le vennero a mancare; la rivelazione parve turbarla profondamente. Scoccando un'occhiata a Roran, quasi in cerca di protezione, si strinse ancora di più a lui e si spostò dall'altro lato: sembrava che volesse allontanarsi da Eragon. A Roran disse: «Come... come avete fatto a trovarci? Chi altri c'è con voi?» «Dopo, dopo. Dobbiamo andarcene dall'Helgrind prima che il resto dell'Impero venga a stanarci.» «Aspettate! E mio padre? L'avete trovato?» Roran guardò Eragon, poi tornò a guardare Katrina e in tono sommesso le disse: «Siamo arrivati troppo tardi.» Katrina fu percorsa da un brivido. Chiuse gli occhi, e una lacrima solitaria le scese sulla guancia sudicia, lasciando una scia più chiara. «Così sia.» Mentre parlavano, Eragon cercava disperato un modo per occuparsi di Sloan, tenendo nascosti i propri pensieri a Saphira; sapeva che la dragonessa avrebbe disapprovato il luogo dove lo stavano portando le sue elucubrazioni. Nella sua mente prendeva forma un piano. Bizzarro, irto di pericoli e incertezze, l'unico realizzabile date le circostanze. Senza altri indugi, Eragon entrò in azione. Aveva tante cose da fare e pochissimo tempo a disposizione. «Jierda!» esclamò, puntando il dito. Con una pioggia di scintille azzurrognole e frammenti di metallo, gli anelli che cingevano le caviglie di Katrina si spezzarono. La ragazza trasalì, stupefatta. «Magia...» sussurrò. «Un incantesimo facile.» Katrina si ritrasse dal suo tocco quando Eragon tese una mano verso di lei. «Katrina, devo assicurarmi che Galbatorix o uno dei suoi maghi non ti abbia stregata con qualche trappola o costretta a giurare delle cose nell'antica lingua.» «L'antica...» Roran la interruppe. «Eragon! Fallo quando saremo all'accampamento. Non possiamo più restare qui.» «No.» Eragon fece un brusco gesto con la mano. «Devo farlo adesso.» Con la fronte aggrottata, Roran si fece da parte e permise a Eragon di mettere le mani sulle spalle di Katrina. «Guardami negli occhi» le disse Eragon. La fanciulla annuì e obbedì. Era la prima volta che Eragon aveva l'occasione di usare le formule che Oromis gli aveva insegnato per riconoscere l'opera di un altro mago, ed ebbe difficoltà a ricordare ogni singola parola letta sulle pergamene di Ellesméra. I suoi vuoti di memoria erano così gravi che in tre diverse occasioni dovette ricorrere a sinonimi per completare la formula. A lungo Eragon fissò gli occhi splendenti di Katrina e mormorò frasi nell'antica lingua, esaminando di tanto in tanto - col permesso della ragazza - uno dei suoi ricordi per scoprire se qualcuno li aveva alterati. Fu più delicato che poté, al contrario dei Gemelli, che gli avevano frugato nella mente senza tante cerimonie il giorno stesso che era arrivato nel Farthen Dûr. Roran vigilava, camminando avanti e indietro davanti alla porta aperta. A ogni istante la sua agitazione cresceva: si rigirava il martello fra le mani, battendo la testa dell'arnese contro la coscia, come se tenesse il tempo di un brano musicale. Alla fine Eragon liberò Katrina. «Fatto.» «Cos'hai trovato?» chiese lei con un filo di voce. Si strinse le braccia intorno al corpo, la fronte solcata da rughe di apprensione, mentre attendeva il verdetto. Il silenzio riempì la cella mentre Roran si fermava davanti alla soglia. «Niente, se non i tuoi pensieri. Sei libera da qualsiasi incantesimo.» «Ma certo che è libera» grugnì Roran, e la prese di nuovo fra le braccia. Insieme, i tre uscirono dalla cella. «Brisingr, iet tauthr» disse Eragon, facendo un cenno al fuoco fatuo che ancora fluttuava sotto la volta del corridoio. Al suo comando, il globo lucente gli sfrecciò sopra la testa, dove rimase a galleggiare come un turacciolo fra le onde. Eragon li guidò sulla via del ritorno, attraverso il labirinto di gallerie, verso la grotta dov'erano atterrati. Arrancando sulla roccia viscida, vigilava nel timore di un attacco del Ra'zac superstite e nel contempo erigeva difese per proteggere Katrina. Alle sue spalle, sentiva lei e Roran scambiarsi una serie di frasi interrotte. «Ti amo... Horst e gli altri sono salvi... Sempre... Per te... Sì... Sì... Sì... Sì.» La fiducia e l'affetto che li univano erano così profondi che Eragon si sentì pervadere da una dolorosa fitta di struggimento. Quando furono a una decina di iarde dalla caverna principale, ed era ormai possibile vedere grazie alla fievole luce che ne scaturiva, Eragon spense il fuoco fatuo. Dopo appena qualche passo, Katrina rallentò, si appiattì contro la parete della galleria e si coprì il viso. «Non posso. C'è troppa luce. Mi fa male agli occhi.» Roran si affrettò a pararsi davanti a lei, proteggendola con la sua ombra. «Quand'è stata l'ultima volta che sei stata all'aperto?» «Non lo so...» Una traccia di panico s'insinuò nella sua voce. «Non lo so! Mai, da quando mi hanno portata qui. Roran, diventerò cieca?» La fanciulla tirò su col naso e cominciò a piangere. Le sue lacrime sorpresero Eragon. La ricordava come una donna di grande forza e coraggio. D'altro canto aveva passato molte settimane rinchiusa al buio, senza sapere che cosa la aspettava. «No, stai bene. Hai solo bisogno di riabituarti alla luce del sole.» Roran le accarezzò i capelli. «Andiamo, non abbatterti. Andrà tutto bene... Sei al sicuro, adesso. Al sicuro, Katrina. Mi senti?» «Sì.» Pur detestando l'idea di sciupare una delle tuniche che gli avevano donato gli elfi, Eragon strappò una striscia di tessuto dall'orlo del proprio indumento. La porse a Katrina e disse: «Legatela sugli occhi. Attraverso la stoffa riuscirai a vedere abbastanza da non rischiare di cadere o urtare qualcosa.» Lei lo ringraziò e si legò la benda sugli occhi. Ripresero a camminare, e pochi istanti dopo il trio emerse nella caverna inondata di sole e di sangue - più odorosa di prima per i vapori tossici che emanavano dal cadavere del Lethrblaka - proprio mentre Saphira sbucava dall'arco ogivale sulla parete opposta. Nel vederla, Katrina trasalì e si strinse a Roran, affondandogli le dita nella carne del braccio. Eragon disse: «Katrina, permetti che ti presenti Saphira. Io sono il suo Cavaliere. Ti capisce se le parli.» «È un onore, o drago» riuscì a dire Katrina, poi piegò le ginocchia in un debole tentativo di riverenza. Saphira ricambiò con un cenno della testa. Poi si rivolse a Eragon. Indicando la dragonessa, Eragon disse agli altri: «Coraggio, salitele in groppa. Io vi raggiungo fra un istante.» Katrina esitò, poi guardò Roran, che annuì e mormorò: «Va tutto bene. È stata Saphira a portarci qui.» La coppia aggirò il cadavere del Lethrblaka per salire in groppa a Saphira, che si era appiattita sul ventre per facilitare loro il compito. Intrecciando le dita a formare un appoggio, Roran sollevò Katrina, che s'inerpicò sulla zampa di Saphira. Da lì, usò i cappi delle cinghie della sella come i pioli di una scaletta e arrivò sulle spalle della dragonessa, dove sedette a cavalcioni. Come una capra di montagna che balza da una roccia all'altra, Roran fece lo stesso percorso. Eragon si avvicinò per esaminare Saphira, valutando la gravità delle ferite: unghiate, colpi di becco, tagli, lacerazioni e lividi. Oltre a quello che vedeva, si affidò a ciò che la dragonessa sentiva. Alla prova dei fatti, Eragon impiegò parecchi minuti per restituire a Saphira la piena salute. Le ferite erano così gravi che per formulare tutti gli incantesimi necessari fu costretto a svuotare di energia la cintura di Beloth il Savio e perfino a ricorrere alle immense riserve di forza di Saphira. Ogni volta che si spostava da una ferita più grande a una più piccola, la dragonessa protestava, gli diceva che era uno sciocco e lo pregava di lasciarla in pace, ma lui ignorò le sue lamentele. Alla fine, Eragon si accasciò a terra, esausto per il grande dispendio di energie necessario agli incantesimi curativi e la fatica del combattimento. Indicando i punti dove il Lethrblaka l'aveva trafitta col becco, disse: «Andiamo!» lo chiamò Roran. «Sbrigati!» Eragon scosse la testa. «No. Io resto qui.» «Tu...» cominciò a dire Roran, ma fu interrotto dal feroce ringhio di Saphira. La dragonessa frustò con la coda la parete della grotta e artigliò il terreno con le zampe, tanto che ossa e pietra parvero gridare, percorsi da un dolore straziante. «Ascoltate!» gridò Eragon. «Uno dei Ra'zac è ancora vivo. E pensate a ciò che potrebbe esserci d'altro nell'Helgrind: pergamene, pozioni, informazioni sulle attività dell'Impero... cose che possono rivelarsi molto utili. I Ra'zac potrebbero persino avere delle uova nascoste qui da qualche parte. Se così fosse, devo distruggerle prima che Galbatorix se ne impossessi.» Poi, rivolto soltanto a Saphira, aggiunse: «Come farai a uscire dai confini dell'Impero?» chiese Roran. «Correrò. Sono veloce come un elfo ormai, lo sai.» La punta della coda di Saphira ebbe un fremito, ma fu l'unico avvertimento che Eragon ricevette prima che la dragonessa si avventasse su di lui, con una zampa tesa. Eragon s'infilò nel tunnel una frazione di secondo prima che la zampa di Saphira si abbattesse sul punto dov'era fermo. Saphira si arrestò con uno scivolone davanti all'imbocco della galleria e ruggì, delusa di non poterlo seguire nell'angusto passaggio. La sua mole sbarrava quasi tutta la luce. La roccia tremò intorno a Eragon quando la dragonessa cominciò a sgretolare l'ingresso con le unghie e con i denti, staccando grossi blocchi di pietra. I suoi ringhi ferali e la vista del suo muso, irto di zanne lunghe quanto un avambraccio umano, provocarono a Eragon un brivido di paura. Capì come si deve sentire un coniglio acquattato nel suo rifugio con un lupo che cerca di stanarlo. «Ganga!» gridò. «Ganga! Ti voglio bene, Saphira, ma dovete andare.» La dragonessa si ritrasse di qualche iarda dalla galleria e tirò su col naso, miagolando come una gatta. Eragon odiava renderla infelice, e odiava doverla mandare via: era come separarsi da una parte di sé. Il dolore di Saphira che fluiva attraverso il loro legame mentale, unito alla sua stessa angoscia, quasi lo paralizzò. In qualche modo trovò la fermezza per dire: «Ganga! Non tornare indietro a prendermi e non mandare nessuno a cercarmi. Starò bene. Ganga! Ganga!» Saphira ululò di frustrazione e poi, a malincuore, si avvicinò all'imboccatura della grotta. In sella, Roran disse: «Eragon, andiamo! Non fare lo stupido. Sei troppo importante per rischiare...» Un vortice di movimento e rumore inghiottì il resto della frase mentre Saphira si lanciava fuori della caverna. Nel cielo limpido le sue squame brillarono come una miriade di diamanti azzurri. Eragon pensò che era magnifica: fiera, nobile, più bella di qualsiasi altra creatura vivente. Nessun cervo o leone poteva competere con la maestà di un drago in volo. Lei disse: Eragon rimase a guardarla finché non scomparve dalla sua visuale e lui non poté più restarle accanto con la mente. Poi, col cuore pesante come piombo, raddrizzò le spalle, volse la schiena al sole e a tutte le cose vive e luminose, e ricominciò a scendere nei tunnel delle tenebre. CAVALIERE E RA'ZAC Eragon sedeva immerso nel bagliore freddo del suo fuoco fatuo cremisi, nel corridoio fiancheggiato di celle vicino al cuore dell'Helgrind. Teneva il bastone di traverso sulle gambe. La sua voce riverberava sulla roccia mentre ripeteva incessantemente una frase nell'antica lingua. Non era magia, ma un messaggio per il Ra'zac superstite. La sostanza era questa: «Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia. Tu sei ferito, e io sono stanco. I tuoi compagni sono morti, e io sono solo. Siamo pari. Ti prometto che non userò la magia contro di te, né ti ferirò o ti intrappolerò con incantesimi già evocati. Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia...» Il tempo trascorso a parlare gli parve infinito: un vuoto temporale in un'atmosfera spettrale, inalterato per un'eternità di parole ripetute che per lui non avevano più significato né ordine. D'un tratto i suoi pensieri tacquero, ed Eragon si sentì pervadere da una strana calma. Rimase con la bocca aperta, poi la chiuse e rimase in vigile attesa. A trenta piedi da lui c'era il Ra'zac. Sangue gli gocciolava dall'orlo del mantello logoro. «Il mio padrone non desssidera che ti uccida» sibilò. «Ma questo non ha più importanza per te, adesso.» «No. Ssse cado sssotto i tuoi colpi, che sssia Galbatorix a occuparsssi di te. Lui ha più cuori di te.» Eragon si mise a ridere. «Cuori? Io sono il campione del popolo, non lui.» «Ssstupido ragazzo.» Il Ra'zac inclinò la testa di lato, guardando oltre, verso il cadavere dell'altro Ra'zac riverso sul pavimento del tunnel. «Lei era la mia compagna di covata. Sssei diventato più forte dalla prima volta che ci sssiamo incontrati, Ammazzassspettri.» «Se così non fosse, sarei morto.» «Sssei disssposto a fare un patto con me, Ammazzassspettri?» «Che genere di patto?» «Io sssono l'ultimo della mia razza, Ammazzassspettri. Sssiamo antichi e non voglio esssere dimenticato. Nelle tue ssstorie e nelle tue canzoni, ricorderai ai tuoi compagni umani il terrore che issspiravamo nella tua razza?... Ricordaci come «Perché dovrei fare questo per te?» Abbassando il becco sull'esile torace, il Ra'zac ridacchiò e cinguettò qualche istante. «Perché» disse «ti rivelerò un sssegreto, sssì, lo farò.» «Allora parla.» «Dammi prima la tua parola, potresssti imbrogliarmi.» «No. Prima parla tu, poi deciderò se stringere il patto oppure no.» Passò più di un minuto senza che nessuno dei due si muovesse, anche se Eragon teneva i muscoli tesi, pronto a un attacco a sorpresa. Dopo un'altra serie di ticchettii col becco, il Ra'zac disse: «Ha quasssi ssscoperto il «Chi?» «Galbatorix.» «Il nome di cosa?» Il Ra'zac sibilò di frustrazione. «Non possso dirtelo! Il «Mi devi dire di più.» «Non possso.» «Allora niente patto.» «Che tu sssia maledetto, Cavaliere! Che tu non posssa mai trovare tana o rifugio o pace della mente in quesssta tua terra. Che tu posssa lasciare Alagaësssia e non tornare mai più!» Eragon si sentì rizzare i peli sulla nuca al freddo tocco della paura. Nella sua mente echeggiarono le parole di Angela l'erborista, quando aveva lanciato gli ossi di drago davanti a lui e gli aveva letto il futuro e predetto lo stesso destino. Una lunga scia di sangue separava Eragon dal suo nemico, che scostò il lembo del mantello fradicio per rivelare un arco con la freccia già incoccata. Con un gesto fulmineo sollevò l'arma e lasciò partire il dardo, mirando al petto di Eragon. Eragon deviò la freccia con il bastone. Come se il tentativo non fosse stato altro che un preliminare imposto dall'etichetta prima di passare al vero confronto, il Ra'zac si chinò a posare l'arco per terra, poi raddrizzò la gobba, e con deliberata lentezza sguainò la spada a lamina da sotto il mantello. Nel frattempo Eragon si era alzato per assumere una posizione frontale, con i pugni stretti intorno al bastone. Si lanciarono l'uno contro l'altro. Il Ra'zac cercò di menare un fendente dalla clavicola all'anca di Eragon, ma il giovane scartò di lato e schivò il colpo. Con un affondo, infilò il puntale metallico del bastone sotto il becco del Ra'zac, insinuandolo fra le placche che proteggevano la gola della creatura. Il Ra'zac fu scosso da un brivido e stramazzò a terra. Eragon fissò il suo più odiato nemico, guardò gli occhi neri senza palpebre, e improvvisamente gli cedettero le ginocchia e vomitò, accasciato contro la parete del corridoio. Si asciugò la bocca e liberò il bastone, mormorando: «Per nostro padre. Per la nostra casa. Per Carvahall. Per Brom... Ho avuto la mia vendetta. Che tu possa marcire qui per sempre, Ra'zac.» Si avviò alla cella di Sloan, si gettò in spalla il macellaio, ancora sprofondato nel sonno stregato, e ripercorse i propri passi per tornare alla grotta principale dell'Helgrind. Lungo la strada, si fermò spesso per adagiare Sloan a terra ed esaminare una stanza o una nicchia che non aveva visitato prima. Scoprì diversi strumenti di tortura e quattro fiaschette di metallo contenenti olio di Seithr, che subito distrusse perché nessun altro potesse usare quell'acido corrosivo per scopi malvagi. La calda luce del sole gli bruciò le guance quando emerse dal labirinto di gallerie. Trattenendo il fiato, oltrepassò in fretta il cadavere del Lethrblaka e si fermò sul ciglio della vasta caverna. Fece scorrere lo sguardo lungo lo strapiombo dell'Helgrind fino alle colline ai suoi piedi. A ovest vide una nuvola arancione gonfiarsi e muoversi lungo la strada che collegava l'Helgrind a Dras-Leona: cavalli in avvicinamento. Il lato destro gli faceva male per lo sforzo di sostenere il peso di Sloan, così passò il macellaio sull'altra spalla. Batté le palpebre per liberarsi dalle goccioline di sudore che gli imperlavano le ciglia e si spremette le meningi in cerca di una soluzione al problema di come scendere, con Sloan in spalla, per gli oltre cinquemila piedi che lo separavano dal suolo. «Quasi un miglio» mormorò. «Se ci fosse un sentiero, potrei scendere facilmente, anche portando Sloan. Dovrò ricorrere alla magia... già, ma in questo caso mi toccherebbe concentrare troppa energia in un periodo di tempo limitato e rischierei di uccidermi. Come mi ha insegnato Oromis, il corpo non è in grado di convertire le proprie riserve in energia tanto in fretta da evocare la maggior parte degli incantesimi per più di qualche secondo. Ho a disposizione soltanto una determinata quantità di energia in una determinata frazione di tempo, e una volta esaurita quella, devo aspettare finché non mi riprendo... E parlare da solo non mi porta da nessuna parte.» Stringendo la presa su Sloan, Eragon puntò lo sguardo su una stretta cengia a circa cento piedi più in basso. Si librò di un paio di pollici dal pavimento della grotta. «Fram» disse, e l'incantesimo lo spinse fuori dall'Helgrind nel vuoto, dove rimase sospeso come una nuvoletta solitaria. Pur essendo abituato a volare con Saphira, non vedere altro che aria sotto di sé gli procurava ancora un certo disagio. Manipolando il flusso di magia, Eragon discese rapidamente dalla tana dei Ra'zac - che la parete illusoria di roccia nascose di nuovo - fino alla cengia. Quanto atterrò, lo stivale gli scivolò su una pietra viscida. Per una manciata di terrificanti secondi, agitò il braccio libero per recuperare l'equilibrio, ma non guardò di sotto per paura di sbilanciarsi. La gamba sinistra gli scivolò oltre il bordo della cengia, facendolo sbandare di lato. Gridò. Ma prima che potesse ricorrere alla magia per salvarsi, la caduta si arrestò bruscamente perché il piede sinistro si era infilato in una fessura della roccia. I bordi della spaccatura gli affondarono nel polpaccio dietro il gambale, ma lui non ci badò, perché in quel modo almeno il volo si era interrotto. Eragon appoggiò la schiena all'Helgrind, usando la parete di roccia per sostenere il corpo inerte di Sloan. «Non è andata troppo male» si disse. Lo sforzo gli era costato, ma non tanto da non poter continuare. «Ce la faccio.» Inspirò aria fresca, aspettando che i battiti del cuore rallentassero; gli sembrava di aver corso venti iarde di scatto, con Sloan in spalla. «Ce la faccio...» Gli uomini a cavallo catturarono di nuovo la sua attenzione. Erano parecchio più vicini rispetto a poco prima e galoppavano sull'arido terreno a un ritmo preoccupante. Con un grugnito, Eragon si staccò dalla parete dell'Helgrind. Disse di nuovo «Audr» e di nuovo si levò in aria. Questa volta ricorse alla forza di Sloan - per quanto esigua - oltre che alla propria. Insieme planarono come due strani uccelli lungo il fianco accidentato dell'Helgrind, verso un'altra cengia abbastanza larga da offrire un appoggio sicuro. Fu in questo modo che Eragon orchestrò la discesa. Non procedeva in linea retta, ma tenendo un'angolatura che lo fece curvare a destra intorno all'Helgrind, affinché la sua mole li nascondesse ai cavalieri. Più si avvicinavano al suolo, più rallentavano. La stanchezza prese il sopravvento, riducendo la distanza che Eragon poteva percorrere in un unico tratto, e gli era sempre più difficile recuperare nelle pause tra uno sforzo e l'altro. Perfino alzare un dito ormai gli costava una fatica enorme, e fu avvolto nelle calde pieghe di una strana nebbia che gli ottenebrava i sensi e i pensieri, tanto che persino la roccia più dura gli parve soffice come un cuscino per riposare i muscoli indolenziti. Quando alla fine toccò il terreno riarso dal sole - troppo stanco per non franare nella polvere con Sloan in spalla - Eragon rimase con le braccia ripiegate sotto il torace e fissò con gli occhi ridotti a fessure le gialle inclusioni di citrino nel piccolo sasso a un paio di pollici dal suo naso. Sloan gli pesava sulla schiena come una pila di lingotti di ferro. L'aria gli uscì sibilando dai polmoni, ma parve non voler rientrare. La vista gli si oscurò come se una nuvola avesse coperto il sole. Un intervallo letale separava ogni battito del suo cuore, e quando arrivava, la pulsazione non era più forte di un fievole sfarfallio. Eragon non era più capace di pensieri coerenti, ma in un angolo remoto del cervello era consapevole che stava morendo. Non aveva paura: al contrario, la prospettiva lo confortava, perché era stanco oltre ogni dire, e la morte lo avrebbe liberato dal suo logoro involucro di carne donandogli finalmente il riposo eterno. D'un tratto sopra la sua testa arrivò un bombo grosso quanto il suo pollice. L'insetto gli volò intorno all'orecchio, poi si fermò sul sasso saggiando i cristalli di citrino, che erano dello stesso giallo brillante dei fiori di campo sulle colline. La peluria del bombo riluceva nel fulgore del mattino - ogni setola si stagliava nitida davanti agli occhi di Eragon - e le ali frementi producevano un delicato ronzio. Le zampette erano impolverate di polline. Il bombo era così vibrante di vita e così bello che la sua presenza infuse in Eragon una nuova voglia di vivere. Un mondo che conteneva una creatura così stupefacente come quel bombo era un mondo in cui valeva la pena di vivere. Con la sola forza di volontà, liberò la mano sinistra da sotto il torace e afferrò lo stelo legnoso di un arbusto vicino. Come una sanguisuga o una zecca o un altro parassita, estrasse la vita dalla pianta, lasciandola vizza e floscia. Il flusso di energia che lo percorse gli fece tornare il senno: adesso aveva paura. Oltre al desiderio di vivere appena riconquistato, non provava altro che terrore. Trascinandosi sui gomiti, afferrò un altro arbusto e ne trasferì la vitalità nel proprio corpo, poi un terzo e un quarto, e così via, fino a riguadagnare completamente le forze. Si alzò e si guardò indietro: sentì un sapore amaro in bocca quando vide la scia di piante morte che aveva lasciato alle sue spalle. Eragon sapeva di aver abusato della magia e che il suo comportamento avrebbe condannato i Varden a una sicura sconfitta se lui fosse morto. Col senno di poi, si vergognò della propria stupidità. Tornò da Sloan e riprese in spalla il macellaio ancora inerte. Poi si avviò a grandi balzi verso est, allontanandosi dall'Helgrind verso il riparo del letto di un torrente asciutto. Dieci minuti dopo, quando si fermò per controllare gli inseguitori, vide una nube di polvere turbinare alla base dell'Helgrind, segno che i cavalieri erano arrivati alla nera torre di roccia. Eragon sorrise. Gli emissari di Galbatorix erano troppo lontani perché eventuali stregoni tra le loro fila potessero individuare la mente sua o di Sloan. Lieto di non doversi preoccupare di un attacco imminente, Eragon riprese il suo ritmo di corsa, una falcata fluida e costante che avrebbe potuto mantenere per l'intera giornata. Sopra di lui il sole splendeva caldo e abbagliante. Davanti a lui una natura arida e selvaggia si estendeva per miglia e miglia prima di lambire i margini di qualche villaggio sperduto. E nel suo cuore ardevano una nuova gioia e una nuova speranza. Almeno i Ra'zac erano morti! Alla fine la sua sete di vendetta era stata placata. Alla fine aveva estinto il suo debito con Garrow e Brom. E alla fine si era liberato del sudario di paura e di rabbia che lo aveva avvolto da quando i Ra'zac erano comparsi per la prima volta a Carvahall. Per ucciderli si era spinto più lontano di quanto avesse previsto, ma l'avventura era conclusa, ed era stata una grande avventura. Si crogiolò nella soddisfazione di aver portato a termine quella difficile impresa, pur con l'aiuto di Roran e Saphira. Malgrado ciò, si rese conto con sorpresa che il suo trionfo aveva un sapore dolceamaro, contaminato da un inspiegabile senso di perdita. La caccia ai Ra'zac era stata uno degli ultimi legami con la sua vita nella Valle Palancar, ed era riluttante ad abbandonarlo, nonostante fosse zuppo di sangue. La vendetta gli aveva dato uno scopo nella vita quando non ne aveva nessuno: era la ragione che lo aveva spinto ad abbandonare casa. Ma ora dentro di lui si era creato un vuoto dove prima aveva covato l'odio per i Ra'zac. Il fatto di poter rimpiangere la fine di una missione così terribile lo atterrì, ed Eragon giurò a se stesso che non avrebbe più commesso lo stesso errore. L'euforia gli alleggerì il passo. Con la fine dei Ra'zac, Eragon sentiva di poter finalmente vivere la sua vita fondandola non su chi era stato, ma su chi era diventato: un Cavaliere dei Draghi. Sorrise all'orizzonte frastagliato, e mentre correva si mise a ridere, incurante del rischio di essere sentito. La sua voce riverberò fra le sponde del torrente in secca, e tutto ciò che aveva intorno gli parve nuovo, bellissimo e pieno di promesse. GIUDIZIO E CONDANNA Lo stomaco di Eragon brontolò. Giaceva sulla schiena, le gambe ripiegate sotto le ginocchia - un esercizio per allungare i muscoli delle cosce dopo aver corso più a lungo e recando un peso maggiore di quanto gli fosse mai capitato prima - quando il sonoro borbottio eruppe dalle sue viscere. Il rumore fu così inaspettato che Eragon si alzò a sedere di scatto, cercando il bastone a tentoni. Il vento fischiava sulla landa deserta. Il sole era tramontato e senza la sua luce tutto aveva assunto una sfumatura blu e viola. Nulla si muoveva, tranne i fili d'erba nella brezza e Sloan, che apriva e chiudeva le dita in risposta a chissà quale visione nel suo sonno stregato. Un freddo pungente annunciava l'arrivo della vera notte. Eragon si rilassò e si concesse un lieve sorriso. La sua allegria si spense non appena si rese conto del motivo del suo disagio. Combattere i Ra'zac, evocare incantesimi e portare il peso morto di Sloan in spalla per la maggior parte della giornata gli aveva fatto venire una tale fame che se avesse potuto viaggiare indietro nel tempo avrebbe divorato l'intero banchetto che i nani avevano preparato in suo onore durante la visita a Tarnag. Il ricordo dell'aroma del Nagra arrostito - il cinghiale gigante - caldo, fragrante, condito di miele e spezie, grondante di lardo, gli fece venire l'acquolina in bocca. Il problema era la mancanza di viveri. Procurarsi l'acqua era facile: gli bastava estrarre l'umidità dal terreno ogni volta che ne sentiva il bisogno. Ma trovare del cibo in quella terra desolata era molto più difficile, e per giunta lo poneva di fronte a un dilemma morale che aveva sperato di evitare. Oromis aveva dedicato molte lezioni ai diversi climi e alle varie regioni geografiche di Alagaësia. Perciò quando Eragon si allontanò dal bivacco per studiare l'area attorno riuscì a riconoscere la maggior parte delle piante che incontrò sul suo cammino. Soltanto un paio erano commestibili e di queste nessuna era abbastanza grande o abbondante da offrire a due uomini adulti un pasto decente in un ragionevole lasso di tempo. Gli animali del posto avevano nascosto scorte di bacche e frutti nelle loro tane, ma Eragon non aveva idea di dove cercare. Né pensava che un topo del deserto avesse potuto ammassare più di qualche boccone di cibo. Non gli restavano che due possibilità, nessuna delle quali lo allettava. Poteva - come aveva fatto in precedenza - estrarre energia dalle piante e dagli insetti intorno al bivacco. Il prezzo sarebbe stato lasciare una zona morta, una piaga della terra dove niente, nemmeno il più piccolo organismo, sarebbe sopravvissuto. Per giunta, anche se utili a lui e Sloan, le trasfusioni di energia erano ben poco gratificanti, perché non riempivano lo stomaco. Oppure poteva andare a caccia. Eragon aggrottò la fronte e infilò il puntale del bastone nel terreno, scavando una piccola buca. Dopo aver condiviso pensieri e desideri di tanti animali, l'idea di mangiarne uno gli ripugnava. Malgrado ciò non poteva correre il rischio d'indebolirsi e di farsi catturare dall'Impero solo per risparmiare la vita di un coniglio. Come avevano sottolineato sia Saphira che Roran, ogni essere vivente sopravvive cibandosi di altri esseri viventi. Nonostante gli argomenti che trovava per giustificarla, l'idea continuava a disgustarlo. Per quasi mezz'ora rimase impalato dov'era, incapace di fare quello che la logica gli diceva essere necessario. Poi si accorse di quanto era tardi e si rimproverò di aver perso tempo: aveva bisogno di ogni minuto di riposo ancora a disposizione. Facendosi forza, Eragon diffuse tentacoli di coscienza nel territorio circostante finché non riconobbe due grosse lucertole e una colonia di roditori raggomitolati in una tana di sabbia: uno strano incrocio fra un ratto, un coniglio e uno scoiattolo. «Deyja» disse Eragon, e uccise le lucertole e uno dei roditori. Le creature morirono all'istante, senza soffrire, ma il giovane digrignò i denti nell'estinguere le luminose fiammelle delle loro menti. Recuperò le lucertole con le sue mani, rovesciando i sassi sotto cui stavano nascoste, ma estrasse il roditore dalla sua tana con la magia. Fu attento a non svegliare gli altri animali mentre attirava il cadavere in superficie; gli sembrava crudele terrorizzarli con la consapevolezza che un predatore invisibile poteva ucciderli anche nella tana più remota. Sventrò, scuoiò e pulì le lucertole e il roditore, seppellendo i resti in una buca profonda per nasconderli ai mangiacarogne. Raccolse qualche sasso piatto e rotondo da disporre in circolo e accese un fuoco su cui cominciò ad arrostire la carne. Senza sale non poteva condire il cibo a dovere, ma alcune delle piante locali sprigionarono un gradevole aroma quando le sbriciolò fra le dita, le strofinò sulle carcasse e le infilò qua e là a ciuffetti. Il roditore fu il primo a cuocere, essendo più piccolo delle lucertole. Eragon lo tolse dal fuoco e lo portò alla bocca. Fece una smorfia, e sarebbe rimasto paralizzato in una morsa di repulsione se non avesse dovuto occuparsi del fuoco e delle lucertole. Le due attività lo distrassero al punto che, senza pensarci, obbedì all'imperativo della fame e mangiò. Il primo morso fu il peggiore: il pezzo di carne gli rimase bloccato in gola, e il sapore del grasso caldo minacciò di farlo vomitare. Rabbrividì, deglutì a vuoto due volte, e la nausea passò. Dopo fu più facile. In un certo senso era contento che la carne fosse insipida, perché la mancanza di gusto lo aiutava a dimenticare che cosa stava masticando. Consumò tutto il roditore e parte di una lucertola. Strappando coi denti l'ultimo morso da una coscia sottile, sospirò di soddisfazione, poi esitò, turbato nel rendersi conto che, suo malgrado, si era goduto il pasto. Aveva avuto tanta fame che la misera cena gli era sembrata deliziosa, una volta superate le remore. Alla luce della brace del falò, Eragon studiò le mani di Sloan: il macellaio era sdraiato a un paio di iarde di distanza, dove Eragon l'aveva adagiato. Un reticolo di sottili cicatrici bianche gli solcava le lunghe dita ossute, con le nocche sporgenti e le unghie lunghe, che ai tempi di Carvahall erano sempre meticolosamente curate, ora spezzate, frastagliate e intrise di sudiciume. Le cicatrici erano la testimonianza degli errori, pochi, per la verità, commessi da Sloan negli anni in cui aveva maneggiato i coltelli. La pelle era rugosa e segnata dal tempo, con le vene che sporgevano come vermi bluastri, eppure i muscoli al di sotto erano duri e tonici. Eragon si sedette a gambe incrociate e posò le braccia sulle ginocchia. «Non posso lasciarlo andare» mormorò. Se lo avesse fatto, Sloan avrebbe potuto rintracciare Roran e Katrina, una prospettiva che Eragon riteneva inaccettabile. Per giunta, anche se non aveva intenzione di uccidere Sloan, credeva che il macellaio meritasse comunque una punizione per i suoi crimini. Eragon non era stato particolarmente amico di Byrd, ma sapeva che era un brav'uomo, un lavoratore onesto, e ricordava con affetto la moglie di Byrd, Felda, e i loro figli, dato che lui, Garrow e Roran avevano mangiato e dormito a casa loro in diverse occasioni. L'assassinio di Byrd perciò rappresentava un atto particolarmente crudele ai suoi occhi; era convinto che la famiglia della sentinella meritasse giustizia, una giustizia di cui non avrebbe mai saputo. Ma quale poteva essere la giusta punizione? Si alzò, si avvicinò a Sloan e si chinò per mormorargli all'orecchio: «Vakna.» Con un sussulto, Sloan si svegliò, artigliando il terreno con le mani scheletriche. Quel poco di pelle che restava delle palpebre tremolò per istinto, come se il macellaio volesse aprirle per guardarsi intorno. Invece rimase intrappolato nella sua tenebra. Eragon disse: «Tieni, mangia questo.» E spinse l'altra metà della sua lucertola verso Sloan, che non poteva vedere il cibo ma di sicuro ne aveva sentito il profumo. «Dove sono?» chiese Sloan. Con le mani tremanti cominciò a tastare le rocce e le piante davanti a sé. Si toccò i polsi e le caviglie, e quando scoprì che non aveva più i ceppi gli si dipinse in volto un'espressione confusa. «Gli elfi... e anche i Cavalieri dei tempi che furono... chiamavano questo posto Mírnathor. I nani lo definiscono Werghadn, e gli umani Landa Grigia. Ma se questo non risponde alla tua domanda, ti dirò che ci troviamo parecchie leghe a sud-est dell'Helgrind, dov'eri prigioniero.» Sloan mormorò la parola «Sì.» «E mia...» «Basta con le domande. Prima mangia.» Il suo tono aspro ebbe sul macellaio l'effetto di una frustata: Sloan trasalì e afferrò con le dita incerte la lucertola. Eragon lasciò la presa e tornò al suo posto accanto al falò, dove raccolse manciate di terriccio da gettare sulla brace per impedire al bagliore arancione di tradire la loro presenza, nell'improbabile caso che qualcuno passasse nelle vicinanze. Dopo un timido boccone iniziale per capire che cosa aveva in mano, Sloan affondò i denti nella lucertola e strappò un grosso pezzo dalla carcassa. A ogni morso s'infilava in bocca quanta più carne poteva, e masticava solo una o due volte prima di mandare giù e ricominciare. Ripulì ogni osso con la maestria di un uomo che conosceva profondamente com'erano fatti gli animali e qual era il modo più rapido per sezionarli, e li accumulò in una pila ordinata alla sua sinistra. Quando l'ultimo boccone - la coda della lucertola - svanì nella pancia di Sloan, Eragon gli porse l'altro rettile ancora intero. Sloan grugnì un ringraziamento e continuò a ingozzarsi, senza nemmeno asciugare il grasso che gli colava sul mento. La seconda lucertola era troppo grossa perché il macellaio riuscisse a finirla. Si fermò a metà della cassa toracica, e posò il resto della carcassa sul cumulo di ossa. Poi raddrizzò la schiena, si passò il dorso della mano sulla bocca, si scostò i capelli dietro le orecchie e disse: «Ti ringrazio, straniero, per la tua ospitalità. Era tanto tempo che non mangiavo come si deve e quasi apprezzo più il tuo cibo che la libertà... Se posso chiedertelo, conosci mia figlia Katrina e sai cosa le è successo? Era prigioniera con me nell'Helgrind.» Dalla sua voce trapelava un misto di emozioni: rispetto, timore e sottomissione in presenza di un'autorità sconosciuta; speranza e trepidazione per il destino di sua figlia; e una determinazione incrollabile, come le montagne della Grande Dorsale. L'unico elemento che Eragon si aspettava di sentire, e invece mancava, era lo sprezzo beffardo con cui Sloan era solito rivolgersi a lui quando si incontravano a Carvahall. «È con Roran.» Sloan rimase a bocca aperta. «Roran! Come ha fatto ad arrivare fin qui? I Ra'zac hanno preso anche lui? Oppure...» «I Ra'zac e le loro cavalcature sono morti.» «Li hai Eragon fu pervaso da una sensazione di destino ineluttabile, come fosse diventato lo strumento di quel signore spietato, e rispose di conseguenza, parlando con deliberata lentezza, affinché ogni parola colpisse con la forza di un maglio e trasmettesse tutta la potenza della sua dignità, della sua posizione e della sua collera. «Io sono Eragon e molto di più. Sono Argetlam e Ammazzaspettri e Spadarossa. Il mio drago è Saphira, conosciuta anche come Bjartskular e Lingua di Fuoco. Siamo stati allievi di Brom, che fu Cavaliere prima di noi, e dei nani e degli elfi. Abbiamo combattuto gli Urgali e uno Spettro e Murtagh, che è il figlio di Morzan. Serviamo i Varden e i popoli di Alagaësia. E ti ho portato qui, Sloan Aldensson, per emettere la condanna che ti meriti, assassino di Byrd e traditore di Carvahall.» «Tu menti! Non puoi...» «Mentire?» ruggì Eragon. «Io non mento!» Espandendo di colpo la mente, avvolse la coscienza di Sloan nella propria e costrinse il macellaio ad accettare ricordi che confermavano la verità delle sue affermazioni. Voleva anche che Sloan percepisse il suo potere e capisse che non era più interamente umano. E pur riluttante ad ammetterlo, Eragon godette nell'esercitare il controllo su un uomo che gli aveva spesso creato problemi e lo aveva tormentato con il suo scherno e con gli insulti rivolti sia a lui che alla sua famiglia. Mezzo minuto dopo si ritrasse. Sloan continuò a tremare, ma non crollò a terra implorante come Eragon aveva pensato. Al contrario, l'atteggiamento del macellaio si fece duro e glaciale. «Maledizione» disse. «Non ti devo nessuna spiegazione, Eragon Figlio di Nessuno. Ma sappi questo: ho fatto quello che ho fatto per amore di Katrina, e nient'altro.» «Lo so. Ed è l'unica ragione per cui sei ancora in vita.» «Allora fa' di me quello che vuoi. Non m'importa, basta che lei sia sana e salva... Be', avanti! Cosa mi aspetta? Frustate? Una marchiatura a fuoco? Mi hanno già strappato gli occhi, che ne diresti di prendermi una mano? Oppure mi lascerai qui a morire di fame, o alla mercé degli uomini dell'Impero?» «Non ho ancora deciso.» Sloan annuì con un brusco cenno del capo e si strinse negli abiti logori per ripararsi dal freddo della notte. Se ne stava seduto impettito, con un cipiglio militaresco, fissando con le nere orbite vuote le ombre che lambivano il bivacco. Non supplicò. Non chiese pietà. Non negò i propri crimini né cercò di blandire Eragon. Si limitò a restare seduto in attesa, armato di un perfetto stoicismo. Il suo coraggio impressionò Eragon. La buia landa desolata che li circondava sembrava sconfinata, e al tempo stesso dava a Eragon la sensazione che convergesse su di lui, una sensazione che accrebbe la sua ansia per la decisione che doveva prendere. Abbandonando per un momento il problema della punizione, Eragon si soffermò a pensare alle cose che conosceva di Sloan: l'immenso amore del macellaio per Katrina - per quanto ossessivo, egoista e malsano, un tempo era stato puro e misurato; il suo odio e il suo timore per la Grande Dorsale, fonte del suo cordoglio per la moglie defunta, Ismira, che era caduta sfracellandosi fra quei picchi ammantati di nubi; il suo allontanamento dai restanti rami della famiglia; il suo orgoglio nel lavoro; le storie che Eragon aveva sentito sull'infanzia di Sloan; e l'esperienza stessa di Eragon su ciò che significava vivere a Carvahall. Eragon raccolse quell'insieme di nozioni sparse e frammentarie e cominciò a studiarle, come se fossero le tessere di un mosaico da ricomporre. Non sempre ci riuscì, ma insistette, e alla fine tracciò una miriade di collegamenti fra gli eventi e le emozioni della vita di Sloan, e da qui costruì un'intricata ragnatela, il cui disegno rappresentava la vera essenza di Sloan. Una volta tessuto l'ultimo filo della ragnatela, Eragon ebbe la sensazione di aver finalmente compreso le ragioni del comportamento di Sloan. E per questo provò compassione. Anzi, più che compassione: sentiva di capire Sloan, di aver isolato gli elementi fondamentali della sua personalità, quegli aspetti che non si possono eliminare senza cambiare irrevocabilmente la persona. A quel punto gli vennero in mente tre parole nell'antica lingua che sembravano incarnare Sloan e, senza pensarci, le mormorò sottovoce. Era impossibile che Sloan le avesse sentite, eppure il macellaio si mosse, le sue mani abbandonate sulle cosce si contrassero e sul suo viso comparve una smorfia di disagio. Eragon sentì un gelido formicolio al fianco sinistro, e gli venne la pelle d'oca sulle braccia e sulle gambe mentre osservava il macellaio. Prese in considerazione diverse spiegazioni per la reazione di Sloan, ciascuna più complicata della precedente, ma soltanto una sembrava plausibile, e al tempo stesso assai improbabile. Sussurrò le tre parole ancora una volta. E ancora una volta Sloan si agitò, ed Eragon lo sentì borbottare: «... mi è passata vicino la morte.» Eragon si lasciò sfuggire un sospiro tremante. Non riusciva ancora a crederci, ma il suo esperimento non lasciava spazio ad altri dubbi: per puro caso, si era imbattuto nel vero nome di Sloan. La scoperta lo turbò profondamente. Conoscere il vero nome di qualcuno era una pesante responsabilità, poiché conferiva potere assoluto su quella persona. A causa dei rischi connessi, gli elfi rivelavano di rado il proprio vero nome, e quando lo facevano, era solo davanti a coloro di cui si fidavano senza riserve. Eragon non aveva mai conosciuto il vero nome di nessuno prima di allora. Si era sempre aspettato che, se un giorno fosse capitato, sarebbe stato un dono da parte di qualcuno che amava. Carpire il vero nome di Sloan senza il suo permesso era una svolta negli eventi a cui Eragon era impreparato, un evento che non sapeva come controllare. Poi pensò che per aver indovinato il vero nome di Sloan doveva aver compreso il macellaio molto meglio di quanto capisse se stesso, perché non aveva la più pallida idea di quale fosse il proprio. Quella rivelazione fu come una doccia fredda. Sospettava che - data la natura dei suoi nemici - non sapere tutto di sé avrebbe potuto rivelarsi fatale. Giurò allora di dedicare più tempo all'introspezione e alla scoperta del proprio vero nome. Quali che fossero i dubbi e le incertezze suscitati dal vero nome di Sloan, la rivelazione gli fece nascere un abbozzo di idea su che cosa fare del macellaio. Una volta elaborato il concetto di base, impiegò un'altra decina di minuti per rifinire il piano e assicurarsi che funzionasse nella maniera voluta. Sloan inclinò la testa dalla sua parte quando Eragon si alzò dal bivacco e si allontanò nella notte rischiarata dalle stelle. «Dove vai?» chiese Sloan. Eragon non rispose. Camminò nella landa desolata fino a trovare un macigno basso e piatto, coperto di licheni, con un incavo al centro. «Adurna rïsa» disse. Intorno al masso, una miriade di minuscole gocce d'acqua filtrarono dal terreno e si condensarono in tanti rivoletti d'argento che risalirono il macigno e si raccolsero nello spazio concavo. Quando l'acqua cominciò a traboccare e a tornare nel terreno, solo per essere riportata in superficie dal suo incantesimo, Eragon recise il flusso di magia. Aspettò che la superficie dell'acqua diventasse perfettamente immobile - tanto da sembrare uno specchio in cui si riflettevano le stelle del firmamento - e poi disse «Draumr kópa» e molte altre parole, recitando un incantesimo che gli avrebbe permesso non solo di vedere una persona a distanza, ma anche di parlare con lei. Oromis gli aveva insegnato le variazioni della divinazione due giorni prima che lui e Saphira partissero da Ellesméra per il Surda. L'acqua si fece tutta nera, quasi che qualcuno avesse spento le stelle come candele. Uno o due secondi dopo, una forma ovale scintillò al centro dell'acqua ed Eragon vide l'interno di una grande tenda bianca, illuminata dalla luce senza fiamma di una Erisdar rossa, una delle lanterne magiche degli elfi. Di norma, Eragon non sarebbe stato capace di divinare una persona o un luogo che non aveva mai visto prima, ma lo specchio degli elfi era stato stregato per trasmettere un'immagine di quanto lo circondava a chiunque lo avesse evocato. Allo stesso modo, l'incantesimo di Eragon avrebbe proiettato un'immagine di se stesso e dell'ambiente dove si trovava sulla superficie dello specchio. Questo consentiva a estranei di entrare in relazione reciproca da qualsiasi punto della terra, una facoltà molto preziosa in tempi di guerra. Un elfo longilineo, dai capelli d'argento e dall'armatura ammaccata, entrò nel campo visivo di Eragon, che riconobbe in lui Lord Däthedr, uno dei consiglieri della regina Islanzadi, un amico di Arya. Se Däthedr rimase sorpreso nel vedere Eragon, non lo mostrò; chinò il capo, si toccò le labbra con l'indice e il medio della mano destra, e disse con la sua voce flautata: «Atra esterní ono thelduin, Eragon Shur'tugal.» Passando mentalmente all'antica lingua, Eragon ripeté il gesto con le dita e disse: «Atra du evarínya ono varda, Däthedrvodhr.» Däthedr disse, ancora nella sua lingua madre: «Sono lieto di vedere che stai bene, Ammazzaspettri. Arya Dröttningu ci ha informati della tua missione qualche giorno fa, e siamo stati molto in pensiero per la tua sorte e per quella di Saphira. Confido che sia andato tutto bene.» «Sì, ma ho incontrato un problema imprevisto e, se posso, vorrei consultarmi con la regina Islanzadi per chiederle il suo saggio parere.» Gli occhi da gatto di Däthedr si ridussero a due fessure ancora più sottili e oblique, che gli diedero un'espressione feroce e indecifrabile. «So che non lo chiederesti se non fosse della massima importanza, Eragon-vodhr, ma attento: la corda troppo tesa di un arco può facilmente spezzarsi e ferire l'arciere, non solo scoccare la freccia... Se così ti aggrada, allora aspetta, e andrò a chiamare la regina.» «Aspetterò. Ti sono riconoscente per l'aiuto, Däthedrvodhr.» Quando l'elfo volse le spalle allo specchio, Eragon fece una smorfia. Detestava il formalismo degli elfi, e detestava ancora di più la fatica d'interpretare le loro frasi enigmatiche. La sua ansia cresceva col passare dei minuti. «Andiamo» mormorò. Guardò da una parte e dall'altra per assicurarsi che nessuna persona o animale potesse coglierlo di sorpresa mentre era intento a fissare la pozza d'acqua. Con un rumore di stoffa strappata, il lembo che chiudeva l'ingresso della tenda si levò di colpo e la regina Islanzadi entrò come un turbine, fermandosi davanti allo specchio. Indossava un lucido corsaletto dorato a placche, arricchito da una cotta di maglia, un paio di schinieri e un elmo tempestato di opali e altre pietre preziose che le tratteneva la fluente chioma corvina. Un mantello rosso orlato di bianco le scendeva in ampie pieghe dalle spalle. Nella mano sinistra, Islanzadi impugnava una spada sguainata. Alla destra sembrava indossare un guanto cremisi, ma dopo un istante Eragon si accorse che quello che le ricopriva le dita e il polso era sangue. La regina inarcò le sopracciglia oblique quando vide Eragon. Con quella espressione, la somiglianza con Arya era sorprendente, anche se la sua statura e il suo portamento erano molto più notevoli di quelli della figlia. Era bellissima e terribile, come una spaventosa dea guerriera. Eragon si toccò le labbra con le dita, poi voltò la mano destra portandola al petto, secondo il gesto degli elfi che indica lealtà e rispetto, e recitò la frase di esordio del saluto tradizionale, parlando per primo, com'era consuetudine nel rivolgersi a una persona di rango superiore. Islanzadi gli diede la risposta di rito, ed Eragon, nel tentativo di compiacerla e di dimostrarle che conosceva le loro usanze, concluse con la terza frase facoltativa del saluto: «E che la pace regni nel tuo cuore.» La ferocia dell'atteggiamento di Islanzadi si mitigò un poco, e un debole sorriso le affiorò sulle labbra, come se avesse intuito la manovra di Eragon per blandirla. «E nel tuo, Ammazzaspettri.» La sua voce bassa e corposa conteneva tracce del fruscio degli aghi di pino e del mormorio dei ruscelli e della musica suonata con flauti di canna. Rinfoderò la spada e si avvicinò a un tavolinetto da campo, dove si lavò il sangue dalla mano con l'acqua di una brocca. «La pace è cosa assai rara di questi tempi, temo.» «La battaglia è stata dura, maestà?» «Lo sarà presto. Il mio popolo si sta ammassando lungo il margine occidentale della Du Weldenvarden, dove ci prepariamo a uccidere o a essere uccisi restando vicini agli alberi che tanto amiamo. Siamo una razza dispersa e non marciamo in ranghi serrati e file ordinate come fanno gli altri... per non arrecare danno alla terra... perciò ci occorre del tempo per radunarci dagli angoli più remoti della foresta.» «Capisco. Solo che...» Eragon cercò un modo per porre la domanda senza suonare scortese. «Se la battaglia non è ancora cominciata, non posso fare a meno di chiedermi come mai la tua mano è sporca di sangue.» Islanzadi si scrollò le goccioline d'acqua dalla mano, mostrandogli il perfetto avambraccio color ambra, e in quel momento Eragon si rese conto che era stata lei la modella per la scultura delle due braccia intrecciate all'ingresso della sua casa sull'albero a Ellesméra. «Non è più sporca. L'unica macchia che lascia il sangue su una persona si trova sulla sua anima, non sul suo corpo. Ho detto che la battaglia si farà più dura in un prossimo futuro, non che dobbiamo ancora cominciare.» Abbassò la manica della tunica fino al polso. Dalla cintura ingioiellata che le cingeva la vita sottile trasse un guanto intessuto di fili d'argento e se lo infilò. «Tenevamo sotto osservazione la città di Ceunon, perché era nostra intenzione attaccare lì per prima cosa. Due giorni fa, i nostri ricognitori hanno individuato squadre di uomini e muli che da Ceunon puntavano verso la Du Weldenvarden. Abbiamo pensato che volessero raccogliere del legname ai margini della foresta, come spesso accade. È una pratica che tolleriamo, perché sappiamo che gli umani hanno bisogno del legno, e gli alberi ai margini della foresta sono giovani e quasi al di là della nostra sfera d'influenza, e perché prima non avevamo mai voluto esporci. Le squadre però non si sono fermate ai margini, ma si sono addentrate nella Du Weldenvarden, seguendo le piste lasciate dagli animali che evidentemente conoscevano bene. Cercavano gli alberi più alti e grossi... alberi antichi come Alagaësia stessa, alberi che erano già vecchi e sviluppati quando i nani scoprirono il Farthen Dûr. Quando li hanno trovati, hanno cominciato ad abbatterli.» La sua voce vibrava di collera. «Dai loro commenti, abbiamo compreso il motivo per cui erano lì. Galbatorix voleva impossessarsi degli alberi più grandi per ricostruire le macchine d'assedio e gli arieti perduti durante la battaglia delle Pianure Ardenti. Se le loro motivazioni fossero state pure e oneste, avremmo potuto perdonare la perdita di uno dei sovrani della nostra foresta. Magari anche due. Ma non ventotto.» Eragon fu percorso da un brivido. «Che cosa avete fatto?» chiese, anche se sospettava di conoscere già la risposta. Islanzadi alzò il mento con aria altera. «Io ero presente con due dei nostri ricognitori. Insieme abbiamo Eragon rabbrividì. Perfino durante il suo duello con Durza, non aveva mai incontrato una simile determinazione e spietatezza. Islanzadi agitò una mano. «È una questione insignificante. Una volta entrati nelle mura della città, abbiamo i nostri metodi per assicurarci che nessuno ci si opponga. Non è la prima volta che combattiamo la tua razza.» La regina si tolse l'elmo, e i capelli le ricaddero in lunghe ciocche nere che le incorniciarono il viso. «Non mi ha fatto piacere sapere della tua missione sull'Helgrind, ma posso dedurre che l'attacco si è già concluso, e con successo?» «Sì, Maestà.» «Allora le mie obiezioni sono superflue. Comunque sia, Eragon Shur'tugal, ti avverto: non mettere a repentaglio la tua vita in altre simili imprese inutilmente pericolose. È crudele quanto sto per dirti, ma è pur sempre vero: la tua vita è molto più importante della felicità di tuo cugino.» «Avevo giurato a Roran di aiutarlo.» «Vuol dire che i tuoi giuramenti sono avventati, e non consideri le conseguenze.» «Avresti voluto che abbandonassi le persone a me care? Se lo avessi fatto, sarei diventato una persona spregevole e inaffidabile: un ben misero ricettacolo delle speranze di coloro che credono che in un modo o nell'altro sconfiggerò Galbatorix. E poi finché Katrina era ostaggio di Galbatorix, Roran era vulnerabile alle sue manipolazioni.» La regina inarcò un sopracciglio sottile come un rasoio. «Una debolezza che avresti potuto impedire a Galbatorix di sfruttare se avessi insegnato a Roran certi giuramenti nella nostra lingua, la lingua della magia... Non ti sto consigliando di abbandonare i tuoi amici o la tua famiglia. Sarebbe pura follia. Ma cerca di tenere bene a mente la posta in gioco: l'integrità di Alagaësia. Se falliamo adesso, la tirannia di Galbatorix si estenderà a tutte le razze, e il suo regno continuerà. Tu sei la punta della lancia dei nostri sforzi, e se la punta si spezza e va perduta, allora la nostra lancia rimbalzerà sull'armatura del nostro nemico, e tutti noi saremo perduti.» Frammenti di licheni crepitarono sotto le dita di Eragon quando strinse l'orlo della roccia concava per reprimere l'impulso di rispondere acido che ogni guerriero degno di quel nome deve possedere una spada o qualche altra arma, oltre a una lancia. Era frustrato dalla piega che aveva preso la conversazione e desideroso di cambiare argomento più in fretta possibile; non aveva cercato la regina per farsi rimproverare come un bambino. D'altro canto, consentire all'impazienza di guidare le sue azioni non avrebbe giovato alla sua causa. Quindi mantenne la calma e rispose: «Ti prego di credere, Maestà, che prendo molto, molto sul serio le tue preoccupazioni. Posso soltanto dire che se non avessi aiutato Roran mi sarei sentito infelice quanto lui, e molto di più se Roran fosse andato a liberare Katrina da solo e fosse morto nell'impresa. In entrambi i casi, sarei stato troppo sconvolto per essere di aiuto a chiunque. Non possiamo almeno convenire che siamo in disaccordo sull'argomento? Nessuno dei due riuscirà a convincere l'altro.» «Molto bene» disse Islanzadi. «Lasceremo la questione in sospeso... per il momento. Ma non credere di poter evitare un'altra indagine sulla tua decisione, Eragon Cavaliere dei Draghi. A mio avviso dimostri un atteggiamento infantile verso le tue maggiori responsabilità, e questo è un problema serio. Ne parlerò con Oromis; sarà lui a decidere che fare con te. Ma adesso dimmi, perché hai voluto questa udienza?» Eragon serrò la mascella più volte prima di riuscire a spiegare in tono civile gli eventi della giornata, le ragioni delle sue azioni in merito a Sloan e la punizione che aveva escogitato per il macellaio. Quando ebbe finito, Islanzadi si volse di scatto e prese a misurare la tenda a lunghi passi, agili e flessuosi come quelli di una gatta, poi si fermò e disse: «Hai scelto di restare indietro, nel cuore dell'Impero, per salvare la vita di un assassino traditore. Sei solo con quest'uomo, a piedi, senza viveri né armi tranne la magia, e i tuoi nemici sono vicini. Vedo che i miei ammonimenti erano più che giustificati. Tu...» «Maestà, se devi arrabbiarti con me, ti prego di farlo in un altro momento. Voglio risolvere la questione al più presto, così da poter riposare un po' prima dell'alba. Ho parecchie miglia da coprire domani.» La regina annuì. «La tua sopravvivenza è ciò che più conta. D'accordo, mi arrabbierò dopo che avremo parlato... Quanto alla tua richiesta, una cosa del genere non ha precedenti nella nostra storia. Se fossi stata al tuo posto, avrei ucciso Sloan e mi sarei liberata del problema una volta per tutte.» «So che lo avresti fatto. Una volta ho visto Arya uccidere un girfalco ferito, dicendo che la sua morte era inevitabile e preferiva risparmiargli ore di agonia. Forse avrei dovuto fare la stessa cosa con Sloan, ma non ho potuto. Credo che sarebbe stata una decisione di cui mi sarei pentito per il resto della mia vita, o peggio, che mi avrebbe reso più facile uccidere in futuro.» Islanzadi sospirò, e all'improvviso parve molto stanca. Eragon ricordò che anche lei aveva combattuto quel giorno. «Oromis sarà anche stato il tuo maestro ufficiale, ma da come ti comporti dimostri di essere soprattutto un allievo di Brom. Anche lui si cacciava tutte le volte nelle situazioni più complicate, proprio come fai tu. Sempre smanioso di trovare le sabbie mobili più insidiose per tuffartici dentro.» Eragon nascose un sorriso, lusingato dal paragone. «E Sloan?» chiese. «Il suo destino è nelle tue mani, adesso.» Lentamente, Islanzadi sedette su uno sgabello accanto al tavolino da campo, posò le mani in grembo e guardò un lato dello specchio magico. I suoi gesti si fecero enigmatici: una splendida maschera imperturbabile che nascondeva pensieri e sentimenti impossibili da decifrare, per quanto Eragon si sforzasse. Alla fine la regina parlò. «Poiché ti è sembrato giusto risparmiare la vita di quest'uomo, correndo non pochi rischi e a costo di enorme fatica, non posso negarti ciò che mi hai chiesto per non vanificare il tuo sacrificio. Se Sloan sopravviverà al cimento che hai previsto per lui, allora Gilderien il Saggio gli permetterà di passare, ed egli avrà vitto e alloggio. Di più non posso prometterti, perché ciò che accadrà dopo dipenderà da Sloan stesso. Ma se le condizioni che hai stabilito saranno rispettate, allora sì, daremo luce alle sue tenebre.» «Ti ringrazio, Maestà. Sei molto generosa.» «No, non generosa. Questa guerra non mi consente di essere generosa; sono soltanto concreta. Vai e fa' quello che devi, ma sii prudente, Eragon Ammazzaspettri.» «Maestà.» Eragon s'inchinò. «Se posso chiederti un ultimo favore... Vorresti tenere il segreto su di me con Arya, Nasuada e il resto dei Varden? Non voglio che si preoccupino per me più di quanto non sia necessario, e comunque avranno presto mie notizie da Saphira.» «Prenderò in considerazione la tua richiesta.» Eragon aspettò, ma quando la regina rimase in silenzio e fu chiaro che non intendeva annunciare la propria decisione, s'inchinò una seconda volta e disse ancora: «Ti ringrazio.» L'immagine splendente sulla superficie dell'acqua tremolò e scomparve quando Eragon pose fine all'incantesimo usato per crearla. Si accoccolò sui talloni e alzò lo sguardo verso la miriade di stelle per riabituare gli occhi al loro fioco chiarore. Poi si allontanò dalla roccia e ripercorse il cammino fra erba e cespugli fino al bivacco, dove Sloan sedeva ancora impettito e rigido come una statua di marmo. Eragon urtò un ciottolo con un piede e il rumore annunciò la sua presenza. Il macellaio volse la testa di scatto, come un uccello spaventato. «Hai preso la tua decisione?» chiese. «Sì» rispose Eragon. Si fermò e si accovacciò davanti all'uomo, posando una mano per terra per sostenersi. «Ascoltami bene, perché non lo ripeterò. Hai fatto quello che hai fatto per amore di Katrina, o almeno così dici. Che tu lo ammetta o no, io sono convinto che c'erano altre ragioni per volerla tenere separata da Roran: rabbia, odio, vendetta, e il tuo profondo cordoglio.» Le labbra di Sloan divennero due sottili linee esangui. «Ti sbagli.» «No, non credo. Dato che la mia coscienza m'impedisce di ucciderti, la tua punizione sarà la più terribile che sono riuscito a concepire escludendo la morte. Sono convinto che quello che hai detto prima è vero, che Katrina per te è più importante di qualsiasi altra cosa. Perciò la tua punizione sarà non vedere o toccare tua figlia e non parlarle mai più fino alla fine dei tuoi giorni, e vivere sapendo che lei è con Roran e che sono felici insieme, senza di te.» Sloan inspirò a denti stretti. «Questa è la punizione? Ha! Non puoi applicarla: non hai prigione dove rinchiudermi.» «Non ho finito. L'applicherò facendoti giurare nella lingua degli elfi, la lingua della verità e della magia, di osservare i termini della tua condanna.» «Non puoi costringermi a dare la mia parola» ringhiò Sloan. «Nemmeno se mi torturi.» «Posso, invece, e senza torturarti. In più ti imporrò il desiderio irrefrenabile di viaggiare verso nord finché non raggiungerai la città elfica di Ellesméra, nel cuore della Du Weldenvarden. Potrai cercare di resistere all'impulso, se vuoi, ma per quanto tu ti opponga, l'incantesimo ti irriterà come un prurito irrefrenabile finché non gli obbedirai e arriverai nel regno degli elfi.» «Non hai il coraggio di uccidermi con le tue mani?» esclamò Sloan. «Sei troppo vigliacco per tagliarmi la gola, così mi farai vagare cieco e smarrito in questa terra desolata finché le intemperie o le bestie non mi uccideranno?» Sputò alla sinistra di Eragon. «Non sei altro che la feccia degenere di un caprone ulceroso. Sei un bastardo, sei un cane rognoso; uno zotico incrostato di letame; una carogna vomitevole, un rospo velenoso; prole deforme e grufolante di una lurida scrofa. Non ti darei la mia ultima briciola di pane se stessi morendo di fame, una goccia d'acqua se stessi bruciando, né una sepoltura da mendicante se fossi morto. Hai una poltiglia putrefatta al posto del midollo e funghi guasti al posto del cervello. Sei soltanto un moccioso senza nerbo!» Eragon pensò che c'era qualcosa di oscenamente affascinante in quella serie di insulti, ma la sua ammirazione non gli impedì di provare il desiderio di strangolare il macellaio, o almeno di rispondergli a tono. Lo frenò il sospetto che Sloan stesse cercando di farlo infuriare di proposito, affinché uno scatto d'ira lo spingesse a dargli una morte rapida e immeritata. Invece disse: «Sarò anche un bastardo, ma non un assassino.» Sloan trasse un rapido respiro, ma prima che potesse riprendere il suo torrente di insulti, Eragon aggiunse: «Ovunque andrai, non sentirai la fame, e le bestie selvatiche non ti attaccheranno. Evocherò speciali incantesimi intorno a te, che impediranno a uomini e animali di molestarti e costringeranno gli animali a darti sostentamento quando ne avrai bisogno.» «Non puoi farlo» mormorò Sloan. Perfino nello scarso chiarore delle stelle, Eragon vide che gli ultimi residui di colore svanivano dal suo viso, lasciandolo pallido come uno straccio. «Non hai i mezzi. Non hai il diritto.» «Io sono un Cavaliere dei Draghi. Ho gli stessi diritti di un re o di una regina.» Poi Eragon, che non aveva alcun interesse a prolungare la conversazione con Sloan, pronunciò il vero nome del macellaio a voce abbastanza alta perché l'altro potesse udirlo. Un'espressione di orrore e scoperta deformò il volto di Sloan, che gettò le braccia al cielo e ululò come se lo avessero pugnalato. Il suo grido risuonò indifeso, rauco e disperato: il grido di un uomo condannato per sua stessa natura a un destino a cui non poteva sfuggire. Ricadde in avanti sulle mani e rimase in quella posizione a singhiozzare, il volto coperto dai capelli scarmigliati. Eragon lo osservò, sconvolto dalla sua reazione. Poi chiuse il cuore davanti alla disperazione di Sloan e si accinse a fare quanto aveva detto. Ripeté il vero nome di Sloan e parola per parola istruì il macellaio sui giuramenti nell'antica lingua, per assicurarsi che Sloan non avrebbe mai più incontrato o cercato di incontrare Katrina. Sloan si oppose con lacrime e gemiti, digrignando i denti, ma per quanto lottasse non poteva far altro che obbedire ogni volta che Eragon invocava il suo vero nome. E quando ebbero finito con i giuramenti, Eragon evocò i cinque incantesimi che avrebbero guidato Sloan verso Ellesméra, lo avrebbero protetto dalla violenza e avrebbero indotto gli uccelli e gli animali e i pesci che vivevano nei laghi e nei fiumi a nutrirlo. Eragon formulò gli incantesimi in maniera tale che traessero energia da Sloan e non da se stesso. La mezzanotte era un ricordo sbiadito quando Eragon concluse l'ultimo sortilegio. Ebbro di stanchezza, si appoggiò al bastone di biancospino. Sloan giaceva raggomitolato ai suoi piedi. «Finito» disse Eragon. Un gorgoglio lamentoso si levò dalla figura accasciata. Sembrava che Sloan volesse dire qualcosa. Accigliato, Eragon s'inginocchiò al suo fianco. Le guance di Sloan erano macchiate di rosso dove si era scorticato a sangue con le unghie. Gli colava il naso e le lacrime gli scorrevano dall'angolo dell'orbita sinistra, la meno sfregiata delle due. Eragon fu preso da un profondo senso di colpa e di compassione: non gli dava alcun piacere vedere Sloan in quello stato. Era un uomo distrutto, privato di tutto quello che riteneva prezioso nella vita, comprese le sue illusioni, ed era stato Eragon a distruggerlo. Si sentiva sporco, come se avesse fatto qualcosa di vergognoso. Un altro gemito proruppe dalle labbra di Sloan, poi l'uomo disse: «... solo un pezzo di corda. Non volevo... Ismira... No, no, per favore, no...» I rantoli del macellaio si spensero, e nel silenzio Eragon posò la mano sul braccio di Sloan, che si irrigidì a quel contatto. «Eragon» mormorò. «Eragon... sono cieco, e tu mi mandi a vagare da solo in questa terra desolata. Sono un reietto e uno spergiuro. So chi sono e non posso sopportarlo. Aiutami... uccidimi! Liberami da questa agonia.» D'impulso, Eragon pose il ramo di biancospino nella mano destra di Sloan e disse: «Prendi il mio bastone. Ti guiderà nel tuo viaggio.» «Uccidimi!» «No.» Un grido spezzato sgorgò dalla gola di Sloan, mentre si agitava e tempestava di pugni il terreno. «Sei crudele, crudele!» Senza più energie, il macellaio si raggomitolò ancora di più, ansimando e piangendo. Chino su Sloan, Eragon avvicinò la bocca all'orecchio del macellaio e mormorò: «Non sono crudele, perciò ti do una speranza. Se raggiungerai Ellesméra, troverai una casa che ti aspetta. Gli elfi si prenderanno cura di te e ti permetteranno di fare ciò che vorrai per il resto della tua vita, ma a un patto: una volta entrato nella Du Weldenvarden, non potrai più uscirne... Sloan, ascoltami. Quando ero tra gli elfi, ho imparato che il vero nome di una persona può cambiare col tempo. Capisci cosa significa? Ciò che sei non è fissato per l'eternità. Un uomo può rinnovarsi, se solo lo vuole.» Sloan non rispose. Eragon gli lasciò il bastone accanto. Andò dall'altra parte del bivacco e si distese. Con gli occhi già chiusi, mormorò un incantesimo che lo destasse all'alba e poi si concesse di scivolare nell'abbraccio consolante del suo riposo vigile. La Landa Grigia era fredda, buia e inospitale quando un basso ronzio risuonò nella mente di Eragon. «Letta» disse, e il rumore cessò. Gemendo mentre si stiracchiava i muscoli indolenziti, si alzò e levò le braccia sopra la testa, scrollandole per far circolare il sangue. La schiena gli faceva così male che si augurò di non dover essere costretto a brandire un'arma troppo presto. Abbassò le braccia e guardò verso Sloan. Il macellaio se n'era andato. Eragon sorrise nel vedere una serie di orme, accompagnate dall'impronta rotonda della punta del bastone, che si allontanavano dal bivacco. Le tracce erano confuse e incerte, ma puntavano a nord, verso la grande foresta degli elfi. Eragon guardò ancora un po' le impronte, poi spostò lo sguardo sull'orizzonte e disse: «Buona fortuna.» Stanco ma soddisfatto, volse le spalle alle orme di Sloan e cominciò a correre per la Landa Grigia. Sapeva che a sud-ovest si trovavano le antiche formazioni di arenaria dove Brom riposava in pace nel suo sepolcro di diamante. Avrebbe voluto fare una deviazione per andare a rendergli omaggio, ma non osò, perché se Galbatorix aveva scoperto quel luogo, di certo aveva mandato i suoi agenti anche lì in cerca di Eragon. «Tornerò» disse. «Te lo prometto, Brom: un giorno tornerò.» E continuò a correre. ♦ ♦ ♦ LA PROVA DEI LUNGHI COLTELLI «Ma siamo la tua gente!» Fadawar, un uomo alto, il naso affilato e la pelle scura, parlava con lo stesso accento forte e con le vocali alterate che Nasuada ricordava di aver sentito durante la sua infanzia nel Farthen Dûr, quando arrivavano gli emissari della tribù di suo padre e lei sedeva sonnecchiando sulle gambe di Ajihad mentre gli uomini parlavano e fumavano erba di cardo. Nasuada alzò lo sguardo su Fadawar, rimpiangendo di non essere almeno sei pollici più alta per poter guardare negli occhi il condottiero e i suoi quattro attendenti. Era abituata a stare fra uomini che torreggiavano su di lei, ma la sconcertava il fatto di trovarsi in un gruppo di persone con la pelle del suo stesso colore. Era un'esperienza nuova, non essere oggetto degli sguardi curiosi e dei commenti sussurrati della gente. Era in piedi davanti allo scranno intagliato dove teneva udienza - una delle pochissime vere sedie che i Varden avevano portato con sé nel corso della campagna militare - nel rosso padiglione di comando. Il sole stava per tramontare e i suoi raggi obliqui filtravano da un vetro istoriato, colorando ogni cosa di un'intensa sfumatura cremisi. Un tavolo lungo e basso, coperto di documenti e mappe, occupava metà del padiglione. Appena fuori dall'ingresso, Nasuada sapeva che i sei elementi della sua guardia personale - due umani, due nani e due Urgali - aspettavano con le armi sguainate, pronti ad attaccare al minimo segnale di pericolo. Jörmundur, il suo ufficiale più anziano e fidato, le aveva assegnato delle guardie personali dal giorno stesso in cui Ajihad era morto, però mai così tante e per tanto tempo. Il giorno dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Jörmundur aveva espresso una profonda e assillante preoccupazione per la sua sicurezza, una preoccupazione, sosteneva, che spesso lo teneva sveglio di notte, con i bruciori di stomaco. Dato che un sicario aveva cercato di ucciderla ad Aberon, e Murtagh era riuscito nell'intento con re Rothgar meno di una settimana prima, era opinione di Jörmundur che Nasuada dovesse istituire un reparto speciale per proteggere se stessa. Lei aveva obiettato che una tale misura era esagerata, ma Jörmundur non aveva voluto sentire ragioni: aveva minacciato di lasciare il proprio incarico se lei si fosse rifiutata di adottare quelle che lui riteneva le dovute precauzioni. Alla fine Nasuada aveva capitolato, ma solo per passare tutta l'ora seguente a discutere sul numero di guardie del reparto. Jörmundur ne avrebbe volute dodici o anche di più, al suo servizio ventiquattr'ore su ventiquattro, mentre lei ne voleva quattro o anche meno. Si accordarono per sei, che a Nasuada sembravano comunque troppe. Temeva di apparire pavida, o peggio, di voler intimidire coloro che le si avvicinavano. Ma ancora una volta le sue proteste caddero nel vuoto. Quando accusò Jörmundur di essere un vecchio fifone cocciuto, lui si mise a ridere e ribatté: «Meglio un vecchio fifone cocciuto che un giovane temerario morto prima del tempo.» Dato che i membri della guardia cambiavano ogni sei ore, in tutto i guerrieri impegnati a proteggere Nasuada erano trentaquattro, compresi i dieci supplementari a disposizione per sostituire i compagni in caso di malattia, ferite o morte. Era Nasuada che aveva insistito per reclutare gli elementi da tutte e tre le razze mortali schierate contro Galbatorix. La sua speranza era di accrescere la solidarietà fra di loro, e di trasmettere l'idea che lei rappresentava gli interessi di tutte le razze sotto il suo comando, non solo degli umani. Avrebbe incluso anche gli elfi, ma al momento Arya era l'unica elfa che combatteva con i Varden e i loro alleati, e i dodici maghi che Islanzadi aveva inviato a proteggere Eragon dovevano ancora arrivare. Con grande disappunto aveva notato che gli umani e i nani mostravano ostilità nei riguardi dei colleghi Urgali, una reazione che aveva previsto ma non era stata capace di evitare o mitigare. Sapeva che ci voleva ben più di una battaglia condivisa per alleggerire le tensioni fra razze che si erano combattute e odiate per più generazioni di quante se ne potessero contare. Però trovava incoraggiante il fatto che i guerrieri del reparto avessero deciso di chiamarsi Falchineri, un gioco di parole che si riferiva sia al colore della sua pelle sia al fatto che gli Urgali la chiamavano Lady Furianera. Davanti a Jörmundur non lo avrebbe mai ammesso, ma Nasuada aveva ben presto cominciato ad apprezzare il senso di sicurezza che le infondevano le guardie. Oltre a essere esperti nell'uso delle armi da loro scelte - spade per gli umani, asce per i nani, e un variegato assortimento di curiosi armamenti per gli Urgali - molti guerrieri erano anche maghi provetti. E le avevano tutti giurato lealtà imperitura nell'antica lingua. Dal giorno in cui i Falchineri avevano assunto l'incarico non avevano mai lasciato Nasuada da sola con un'altra persona, fatta eccezione per Farica, la sua cameriera. Almeno fino a quel momento. Nasuada li aveva fatti uscire dal padiglione perché sapeva che il suo incontro con Fadawar avrebbe potuto condurre a uno spargimento di sangue che il loro senso del dovere li avrebbe indotti a prevenire. Tuttavia non era del tutto disarmata. Aveva un pugnale nascosto fra le pieghe dell'abito e un coltello più piccolo infilato nel corpetto della sottoveste. E poi c'era Elva, la bambina veggente, celata da un pannello di stoffa dietro lo scranno di Nasuada, pronta a intervenire se necessario. Fadawar batté impaziente il suo scettro sul terreno. L'asta cesellata, alta quattro piedi, era d'oro massiccio, come tutto il resto del suo straordinario assortimento di gioielli: fasce d'oro gli coprivano gli avambracci; un pettorale d'oro martellato gli proteggeva il torace; lunghe e pesanti catene d'oro gli pendevano al collo; dischi d'oro bianco lavorati a sbalzo gli allungavano i lobi delle orecchie; e sulla testa troneggiava una corona d'oro sfavillante di tali proporzioni che Nasuada non poté fare a meno di domandarsi come facesse il collo di Fadawar a sopportare quel peso senza ingobbirsi e in che modo quel monumentale pezzo di architettura restasse fermo al suo posto. Sembrava che avessero dovuto imbullonare l'enorme struttura, alta almeno due piedi e mezzo, al suo piedistallo d'osso per impedirle di crollare. Gli uomini di Fadawar erano abbigliati allo stesso modo, anche se con meno opulenza. L'oro che ostentavano serviva a proclamare non soltanto la loro ricchezza ma anche la posizione sociale e le gesta compiute, come pure la maestria dei famosi artigiani della loro tribù. Che fossero nomadi o cittadini, i popoli dalla pelle nera di Alagaësia erano da tempo rinomati per la qualità della loro arte orafa, che al suo meglio rivaleggiava con quella dei nani. Anche Nasuada possedeva alcuni pezzi pregiati, ma aveva scelto di non indossarli. Il suo misero vestiario non poteva competere con lo splendore di Fadawar. Per giunta, credeva non fosse prudente affiliarsi con un gruppo in particolare, per quanto fosse ricco o influente, quando doveva trattare e parlare con tutte le diverse fazioni dei Varden. Se avesse dimostrato parzialità verso l'uno o l'altro gruppo, avrebbe minato la propria capacità di controllarli tutti. Ed era questo il principale argomento di discussione con Fadawar. Fadawar batté ancora una volta lo scettro per terra. «Il sangue è la cosa più importante! Prima vengono le responsabilità verso la famiglia, poi verso la tribù, poi verso il capo militare, poi verso gli dei del cielo e della terra, e dopo, soltanto dopo, verso il tuo re e la tua nazione, se li hai. Così Unulukuna ha voluto che vivessero gli uomini, ed è così che dobbiamo vivere se vogliamo essere felici. Sei così sfrontata da voler sputare sulle scarpe del Vegliardo? Se un uomo non aiuta la sua famiglia, da chi potrà sperare di ricevere aiuto? Gli amici vanno e vengono, ma la famiglia è per sempre.» «Tu mi chiedi» replicò Nasuada «di concedere incarichi di prestigio ai tuoi uomini perché sei cugino di mia madre e perché mio padre è nato fra di voi. Sarei ben felice di accontentarti se i tuoi uomini sapessero ricoprire quelle posizioni meglio di chiunque altro fra i Varden, ma niente di ciò che hai detto finora mi ha convinta. E prima che tu faccia ancora sfoggio della tua aurea eloquenza, sappi che i tuoi appelli al nostro legame di sangue non hanno senso per me. Prenderei in maggior considerazione la tua richiesta se avessi fatto qualcosa di concreto per sostenere mio padre, invece di limitarti a mandare nel Farthen Dûr ninnoli d'oro e vuote promesse. Soltanto ora che ho vinto e che la mia influenza è cresciuta ti sei fatto avanti. Be', i miei genitori sono morti, e io dico che non ho famiglia se non me stessa. Voi siete la mia gente, sì, ma niente di più.» Gli occhi di Fadawar si ridussero a due fessure. Levò il mento e disse: «L'orgoglio di una donna è sempre insensato. Fallirai senza il nostro appoggio.» Fadawar era passato alla propria lingua nativa, costringendo Nasuada a rispondere allo stesso modo. Lo odiò per questo. L'eloquio stentato e i toni incerti mettevano in risalto la sua scarsa dimestichezza con la lingua d'origine, segno che non era cresciuta nella loro tribù ed era un'estranea. Una manovra volta a screditare la sua autorità. «I nuovi alleati sono sempre bene accetti» disse Nasuada. «Tuttavia non posso indulgere in favoritismi, né tu dovresti averne bisogno. I tuoi uomini sono prodi e valorosi, perfettamente in grado di scalare i ranghi dei Varden senza dover dipendere dalla carità degli altri. Siete forse cani affamati che implorano gli avanzi della mia tavola, o siete uomini capaci di sfamarsi da soli? Se ne siete capaci, allora non vedo l'ora di lavorare con voi per migliorare la compagine dei Varden e sconfiggere Galbatorix.» «Bah!» esclamò Fadawar. «La tua offerta è falsa come te. Noi non faremo il lavoro dei servi: noi siamo gli eletti. Tu ci insulti. Te ne stai lì a sorridere, ma il tuo cuore è pieno di veleno di scorpione.» Nasuada represse un moto di rabbia e cercò di rabbonire il condottiero. «Non intendevo offenderti. Stavo solo cercando di spiegare la mia posizione. Non nutro alcuna animosità nei riguardi delle tribù nomadi, né alcun affetto particolare. È una cosa tanto disdicevole?» «È peggio che disdicevole, è tradimento bello e buono! Tuo padre ci ha fatto certe richieste sulla base della nostra parentela, e adesso tu ignori i nostri servigi e ci tratti come poveri mendicanti!» Nasuada si rassegnò. «Invece sì!» «Non è vero. Ma se anche lo fosse, la posizione dei Varden è troppo precaria perché io vi dia qualcosa in cambio di niente. Tu mi chiedi dei favori, ma allora dimmi, cos'hai da offrirmi in cambio? Finanzierai la causa dei Varden col vostro oro e i vostri gioielli?» «Non direttamente, ma...» «Mi concederai i tuoi artigiani senza che debba pagarti nessun compenso?» «Non possiamo...» «E allora come intendi guadagnarti questi favori? Non puoi pagarmi con i tuoi guerrieri: i tuoi uomini già combattono per me, che siano fra i Varden o nell'esercito di re Orrin. Accontentati di quello che hai, capitano, e non pretendere niente di più di quanto ti spetta.» «Tu stravolgi la verità per i tuoi scopi egoistici. Io pretendo quello che mi spetta! Ecco perché sono qui. Continui a parlare, ma le tue parole sono vuote, mentre con le tue azioni ci tradisci!» I bracciali d'oro tintinnarono mentre gesticolava, come se si stesse rivolgendo a un pubblico di migliaia di persone. «Tu ammetti che siamo la tua gente. Dunque segui ancora le nostre tradizioni e veneri ancora i nostri dei?» «Sì» rispose. «Allora io dichiaro che sei inadatta a guidare i Varden e, com'è mio diritto, ti sfido alla Prova dei Lunghi Coltelli. Se vinci, ci inchineremo davanti a te e non metteremo mai più in discussione la tua autorità. Ma se perdi dovrai farti da parte, e io prenderò il tuo posto come capo dei Varden.» Nasuada notò lo scintillio di avidità negli occhi di Fadawar. «Non ti sbagli.» «Allora accetto la tua sfida, a patto che, se vinco, la tua corona e il tuo scettro diventino miei. D'accordo?» Fadawar aggrottò la fronte e annuì. «D'accordo.» Batté lo scettro per terra con una tale violenza che per un istante l'asta rimase in piedi da sola, poi afferrò il primo bracciale del polso sinistro e cominciò a sfilarlo. «Aspetta» disse Nasuada. Si avvicinò al tavolo che occupava l'altra metà del padiglione, prese una campanella d'ottone e la suonò due volte. Fece una pausa, e poi la suonò altre quattro volte. Dopo appena un paio di secondi, Farica entrò nella tenda. Squadrò gli ospiti di Nasuada da capo a piedi, poi fece un inchino e disse: «Sì, mia signora?» Nasuada fece un cenno a Fadawar. «Adesso possiamo procedere.» Poi si rivolse alla cameriera: «Aiutami a togliere il vestito. Non voglio sciuparlo.» L'anziana donna fu turbata dalla richiesta. «Qui, mia signora? Davanti a questi... uomini?» «Sì, qui. E sbrigati! Non ho alcuna intenzione di mettermi a discutere con una serva.» Si rese conto di essere stata sgarbata, ma il cuore le batteva fortissimo ed era diventata incredibilmente, terribilmente sensibile: la sottoveste di morbido lino le sembrava ruvida come un sacco di iuta. Non era il momento per dare prova di pazienza e cortesia. La sua attenzione adesso era tutta concentrata sulla prova imminente. Nasuada rimase immobile mentre Farica scioglieva le stringhe del suo abito, che partivano dalle scapole e arrivavano fino alle reni. Una volta allentate le stringhe, Farica aiutò Nasuada a sfilare le braccia dalle maniche, e il guscio di tessuto drappeggiato le ricadde ai piedi, lasciandola seminuda, coperta appena dalla candida sottoveste. Nasuada ricacciò indietro un brivido mentre i quattro guerrieri la osservavano, sentendosi vulnerabile sotto i loro sguardi cupidi. Li ignorò e fece un passo avanti, scavalcando il vestito che Farica si affrettò a raccogliere dalla polvere. Di fronte a Nasuada, Fadawar era intento a sfilarsi tutti i pesanti bracciali d'oro, rivelando le maniche ricamate della camicia. Quando ebbe finito, si tolse la massiccia corona dalla testa e la porse a uno degli attendenti. Voci da fuori interruppero i preparativi. Un giovane araldo - si chiamava Jarsha, ricordò Nasuada - entrò nel padiglione e si fermò a due passi dall'ingresso, annunciando: «Re Orrin del Surda, Jörmundur dei Varden, Trianna del Du Vrangr Gata, e Naako e Ramusewa della tribù Inapashunna.» Per tutto il tempo, Jarsha tenne lo sguardo debitamente rivolto al soffitto, poi girò sui tacchi e al suo posto entrò il gruppo che aveva annunciato, con re Orrin in testa. Il re vide Fadawar per primo e lo salutò dicendo: «Ah, capitano, questa sì che è una sorpresa... Confido che tu e...» S'interruppe sbalordito nel vedere Nasuada. «Ma... che significa tutto questo?» «Vorrei saperlo anch'io» borbottò Jörmundur, stringendo l'elsa della spada e fissando accigliato chiunque osasse guardarla in maniera troppo sfacciata. «Vi ho convocati qui» disse Nasuada «per assistere in qualità di testimoni alla Prova dei Lunghi Coltelli tra me e Fadawar, e per riferire in seguito, a chiunque voglia saperlo, l'esito del confronto.» I due membri anziani della tribù Inapashunna, Naako e Ramusewa, parvero allarmati dalla rivelazione; con le teste vicine, cominciarono a confabulare tra di loro. Trianna incrociò le braccia - rivelando la spirale d'oro a forma di serpente che le cingeva il polso sottile - ma non tradì altra emozione. Jörmundur lanciò un'imprecazione e disse: «Hai smarrito il senno, mia signora? Questa è follia. Non puoi...» «Posso, e lo farò.» «Mia signora, se lo fai, allora io...» «Prendo atto del tuo dissenso, ma la mia decisione è irrevocabile. E proibisco a chiunque di interferire.» Nasuada intuì che Jörmundur aveva una gran voglia di disobbedirle, ma per quanto desiderasse proteggerla, la lealtà era sempre stata la caratteristica più spiccata del suo ufficiale. «Ma Nasuada» disse re Orrin, «questa prova non è quella in cui...» «Sì, è quella.» «Maledizione, allora! Ritirati da questa follia sconsiderata. Deve averti dato di volta il cervello per...» «Ho già dato la mia parola a Fadawar.» L'atmosfera nel padiglione si fece pesante come una coltre di velluto. Il fatto che Nasuada avesse dato la sua parola significava che non poteva rimangiarsi la promessa senza passare per una spergiura, una persona abietta che gli uomini d'onore avrebbero soltanto potuto maledire e mettere al bando. Orrin esitò un istante, poi insistette. «A quale scopo? Voglio dire, se perdi...» «Se perdo, i Varden non risponderanno più a me, ma a Fadawar.» Nasuada si era aspettata un coro di proteste. Invece seguì un silenzio in cui la collera ardente che animava i lineamenti di re Orrin si raffreddò, si stemperò e acquistò una qualità tagliente. «Non gradisco affatto la tua scelta di mettere a repentaglio la nostra causa.» A Fadawar disse: «Non vorresti ripensarci e liberare Nasuada dal suo impegno? Ti ricompenserò profumatamente se accetti di abbandonare questa tua malsana ambizione.» «Sono già ricco quanto mi basta» replicò Fadawar. «Non ho bisogno del tuo oro di bassa lega. No, non c'è nulla, tranne la Prova dei Lunghi Coltelli, che mi possa ricompensare per le calunnie che Nasuada ha indirizzato al mio popolo e a me.» «Adesso fammi da testimone» disse Nasuada a Orrin. Orrin serrò con rabbia le pieghe del mantello, ma s'inchinò e disse: «D'accordo, farò da testimone.» Dalle ampie maniche dei loro abiti, i quattro guerrieri di Fadawar estrassero dei piccoli tamburi di pelle di capra. Si accovacciarono, misero i tamburi fra le ginocchia e cominciarono a suonare un ritmo così forsennato che le mani divennero nere macchie indistinte. La musica primitiva cancellò tutti gli altri suoni, come anche il vortice di pensieri che tormentava Nasuada. Il suo cuore pareva tenere il tempo con il ritmo frenetico che l'assordava. Senza smettere di suonare, il più anziano degli uomini di Fadawar si frugò nella veste e trasse due lunghi coltelli ricurvi, che lanciò verso il punto più alto della tenda. Nasuada guardò i coltelli roteare in aria, affascinata dalla bellezza del movimento. Quando le arrivò vicino, Nasuada alzò un braccio e afferrò al volo un coltello. L'impugnatura tempestata di opali le graffiò il palmo. Fadawar fu altrettanto lesto a intercettare la propria lama. Nasuada lo vide arrotolarsi la manica sinistra fino al gomito e ne studiò l'avambraccio, sodo e muscoloso. Ma non era questo che le importava: le doti atletiche non servivano a vincere quel tipo di sfida. Quello che Nasuada cercava erano le cicatrici che, se c'erano, dovevano solcare la parte morbida dell'avambraccio. Ne contò cinque. Dato che era stato lui a lanciare la sfida, fu lui a cominciare. Tese il braccio sinistro con il palmo rivolto verso l'alto, posò il coltello sull'avambraccio, appena sotto l'incavo del gomito, e passò la lama lucida e affilata sulla carne. La pelle si aprì come una fragola matura e il sangue sgorgò dall'incisione cremisi. Il suo sguardo incontrò quello di Nasuada. Lei sorrise e si posò il coltello sul braccio. Il metallo era freddo come il ghiaccio. La loro era una prova di resistenza per scoprire chi avrebbe sopportato più tagli. La convinzione era che chiunque aspirasse a diventare capotribù, o persino capo militare, doveva essere disposto a sopportare più dolore di chiunque altro per il bene del suo popolo. Altrimenti come potevano le tribù essere certe che il loro capo avrebbe anteposto gli interessi della comunità ai propri desideri personali? Nasuada era convinta che quella pratica incoraggiasse l'estremismo; d'altro canto, capiva come attraverso quel gesto si potesse guadagnare la fiducia della gente. Anche se la Prova dei Lunghi Coltelli era una tradizione esclusiva delle tribù dalla pelle scura, battere Fadawar avrebbe rafforzato la sua posizione anche fra i Varden e, sperava, fra i sudditi di re Orrin. In silenzio offrì una breve preghiera a Gokukara, la dea mantide religiosa, poi premette il coltello. L'acciaio affilato le penetrò la carne così facilmente che Nasuada si sforzò di non andare troppo a fondo. Rabbrividì. Avrebbe voluto gettare il coltello, stringersi la ferita e urlare. Non fece nessuna di queste cose. Tenne il muscolo rilassato; se lo avesse contratto, il dolore sarebbe stato molto più intenso. E continuò a sorridere, mentre la lama le lacerava il corpo. Il taglio durò appena tre secondi, ma in quegli istanti la sua carne offesa lanciò migliaia di grida di protesta, e ciascun grido rischiò di farla smettere. Mentre abbassava il coltello, notò che gli uomini della tribù continuavano a battere sui tamburi, ma lei non sentiva altro che il battito del proprio cuore. Fadawar si ferì una seconda volta. I nervi tesi del collo spiccarono in rilievo, mentre la vena giugulare si gonfiava fin quasi a scoppiare. Nasuada capì che toccava di nuovo a lei. Sapere quello che l'aspettava non fece che aumentare il suo timore. L'istinto di conservazione - un istinto che l'aveva preservata in molte altre occasioni - lottò contro l'ordine che il suo cervello inviava al braccio e alla mano. Disperata, cercò di concentrarsi sul desiderio di salvare i Varden e sconfiggere Galbatorix: le due cause a cui aveva dedicato la sua intera esistenza. Con gli occhi della mente, vide suo padre e Jörmundur ed Eragon e i Varden, e pensò: Procedette con l'incisione. Un istante dopo, Fadawar si aprì un altro squarcio nell'avambraccio, e altrettanto fece Nasuada. Il quarto taglio seguì subito dopo. E il quinto... Nasuada si sentì pervadere da uno strano torpore. Era molto stanca, e aveva freddo. Si rese conto che la sopportazione del dolore poteva non essere decisiva quanto chi sarebbe svenuto per primo a causa dell'emorragia. Rivoletti di sangue le scorrevano sul polso e fra le dita, raccogliendosi in una pozza ai suoi piedi. Una pozza simile, se non più grande, si allargava intorno agli stivali di Fadawar. I rossi tagli paralleli sul braccio del capitano ricordarono a Nasuada le branchie di un pesce, un pensiero che le parve stranamente buffo: si morse la lingua per non ridere. Con un ringhio, Fadawar si procurò il sesto taglio. «Fai di meglio, strega incapace!» gridò al di sopra del rullo di tamburi, e cadde su un ginocchio. Nasuada fece di meglio. Fadawar tremò spostando il coltello dalla mano destra alla sinistra: la tradizione imponeva un massimo di sei ferite per braccio, altrimenti si rischiava di recidere le vene e i tendini più vicini al polso. Quando Nasuada imitò la sua mossa, re Orrin scattò fra i due, gridando: «Basta! Non vi permetterò di continuare. Vi state uccidendo.» Tese una mano verso Nasuada, ma indietreggiò quando lei lo minacciò col coltello. «Non t'immischiare» ringhiò la regina a denti stretti. Fadawar si tagliò l'avambraccio destro. Uno schizzo di sangue fiottò dai muscoli rigidi. Nasuada non riuscì a fare a meno di gemere quando il coltello le lacerò la carne. La lama affilata la bruciò come un ferro incandescente. A metà dell'incisione, il braccio sinistro ebbe uno spasmo. Il coltello le sfuggì e le procurò una lunga ferita slabbrata, due volte più profonda delle precedenti. Trattenne il fiato cercando di combattere il dolore atroce. Per l'ottava volta, Fadawar posò il coltello sopra l'avambraccio, tenendolo sospeso a un quarto di pollice dalla pelle livida. Rimase immobile mentre il sudore gli gocciolava sugli occhi e le ferite stillavano lacrime rosse. Sembrava che il coraggio stesse per abbandonarlo, poi, d'improvviso, ringhiò e con un colpo deciso si sfregiò il braccio. La sua esitazione infuse nuovo vigore in Nasuada. Fu pervasa da una strana euforia che trasformò il dolore in una sensazione quasi piacevole. Pareggiò il conto con Fadawar, poi, spinta da un improvviso sprezzo del pericolo, si tagliò ancora una volta il braccio. «Fai meglio di così» mormorò. La prospettiva di infliggersi due tagli di fila - uno per pareggiare il numero di Nasuada e uno per superarla - parve intimidire Fadawar. Batté le palpebre, si inumidì le labbra e aggiustò la presa sul coltello per tre volte prima di abbassare l'arma sul braccio. La sua lingua guizzò ancora una volta a bagnare le labbra. Uno spasmo gli attraversò la mano sinistra, e il coltello gli cadde dalle dita contratte, conficcandosi nel terreno. Fadawar lo raccolse. Sotto la tunica, il suo torace si alzava e si abbassava a ritmo frenetico. Alzò la lama e la premette sul braccio: un rivoletto di sangue sgorgò subito dalla ferita. Fadawar serrò la mascella, poi fu scosso da un potente brivido e si piegò in due, premendosi le braccia ferite contro la pancia. «Mi arrendo» disse. I tamburi cessarono di colpo. Il silenzio durò solo un istante prima che re Orrin, Jörmundur e tutti gli altri riempissero il padiglione di grida di esultanza. Nasuada non badò ai loro commenti. Cercando a tentoni dietro la schiena, trovò lo scranno e cadde a sedere di schianto, lieta di alleviare il peso dalle gambe prima che le cedessero. Si sforzò di restare cosciente mentre la vista le si offuscava; l'ultima cosa che voleva era svenire davanti agli uomini della tribù. Una delicata pressione sulla spalla l'avvertì che Farica era al suo fianco, con una pila di bende. «Mia signora, posso fasciarti?» chiese Farica, ansiosa ed esitante insieme, come se non potesse prevedere la reazione di Nasuada. Nasuada si limitò ad annuire. Mentre Farica cominciava a fasciarle le braccia con lunghe bende di lino, Naako e Ramusewa si avvicinarono. S'inchinarono al suo cospetto, e Ramusewa disse: «Mai nessuno prima d'ora aveva resistito a tante ferite durante la Prova dei Lunghi Coltelli. Sia tu che Fadawar avete dimostrato il vostro coraggio, ma senz'ombra di dubbio tu sei la vincitrice. Racconteremo alla nostra gente della tua impresa, e loro ti giureranno fedeltà.» «Grazie» mormorò Nasuada. Chiuse gli occhi; il dolore pulsante alle braccia la stordiva. «Mia signora.» Intorno a sé Nasuada sentiva un confuso mormorio di voci, che non aveva alcuna voglia di decifrare; meglio ritrarsi nel profondo del suo essere, dove il dolore non era più così insistente e minaccioso. Fluttuò nel grembo di uno spazio nero sconfinato, illuminato da macchie informi di colori cangianti. L'intima tregua fu interrotta dalla voce di Trianna che diceva: «Fermati, donna, e togli quelle bende alla tua signora, affinché io possa guarirla.» Nasuada aprì gli occhi e vide Jörmundur, re Orrin e Trianna in piedi davanti a lei. Fadawar e i suoi uomini avevano lasciato il padiglione. «No» disse Nasuada. I tre la guardarono sorpresi, poi Jörmundur disse: «Nasuada, la tua mente è offuscata. La prova è finita. Non devi più sopportare queste ferite dolorose. Dobbiamo comunque arrestare l'emorragia.» «Se ne sta già occupando Fatica. Mi farò ricucire da un guaritore, spalmare di impiastri per ridurre il gonfiore, e basta.» «Ma perché?» «La Prova dei Lunghi Coltelli prevede che gli sfidanti lascino guarire le ferite seguendo il corso della natura. Altrimenti non potremmo sperimentare la piena misura del dolore che la prova comporta. Se violassi la regola, Fadawar sarebbe di diritto il vincitore.» «Vuoi almeno permettermi di alleviarti la sofferenza?» chiese Trianna. «Conosco parecchi incantesimi che possono eliminare qualsiasi dolore. Se mi avessi consultata prima, avrei potuto sistemare le cose in maniera tale che se anche ti fossi mozzata il braccio non avresti sentito niente.» Nasuada rise e la testa le ciondolò di lato, come se fosse ubriaca. «La mia risposta allora sarebbe stata la stessa di adesso: i trucchi sono disonorevoli. Dovevo vincere la prova senza stratagemmi perché la mia autorità non venisse messa in discussione in futuro.» In un tono di garbata freddezza, re Orrin disse: «E se avessi perso?» «Non potevo perdere. Mi fosse anche costata la vita, non avrei mai permesso a Fadawar di ottenere il controllo dei Varden.» Orrin la studiò con espressione severa. «Ti credo. Solo... la lealtà delle tribù meritava un tale sacrificio? Tu non sei sostituibile.» «La lealtà delle tribù? No. Ma l'effetto di questa vicenda andrà oltre le tribù, come dovresti ben sapere. Servirà a unificare le nostre forze. E per me è una ricompensa abbastanza preziosa da affrontare un'orda di orribili morti.» «Ti prego di dirmi allora che cosa avrebbero guadagnato i Varden se tu oggi fossi morta. Niente. Avresti lasciato in eredità sconforto, caos e probabilmente rovina.» Ogni volta che Nasuada beveva vino, idromele, e soprattutto liquori forti, diventava estremamente prudente nel parlare e nel muoversi, perché anche se non ne sentiva subito gli effetti, sapeva che l'alcol le annebbiava il giudizio e la coordinazione, e non voleva comportarsi in modo sconveniente o dare agli altri un vantaggio su di lei. Ubriaca di dolore com'era, soltanto in seguito si rese conto che avrebbe dovuto essere prudente nella sua discussione con Orrin: era come se avesse tracannato tre boccali di idromele di more dei nani. Se l'avesse fatto, il suo acuto senso di cortesia le avrebbe impedito di ribattere: «Ti preoccupi come un vecchio, Orrin. Ho dovuto, e ormai quello che è fatto è fatto. È inutile adesso agitarsi tanto... Ho corso un rischio, sì. Ma non possiamo sconfiggere Galbatorix se non osiamo avvicinarci all'orlo del baratro. Tu sei un re. Dovresti capire che il pericolo è il mantello di cui una persona si riveste quando ha l'arroganza di decidere il destino degli altri.» «Capisco perfettamente» ringhiò Orrin. «La mia famiglia e io abbiamo difeso il Surda dalle invasioni dell'Impero ogni giorno della nostra vita per generazioni, mentre i Varden si nascondevano nel Farthen Dûr e approfittavano della generosità di re Rothgar.» Il mantello gli danzò sulle spalle quando all'improvviso re Orrin si voltò e uscì dal padiglione. «Pessima mossa, mia signora» osservò Jörmundur. Nasuada fece una smorfia quando Farica strinse le bende. «Lo so» disse senza fiato. «Mi occuperò di guarire il suo orgoglio ferito domani.» NOTIZIE ALATE C'era un vuoto nei ricordi di Nasuada: un'assenza di percezioni così assoluta che si rese conto che era passato del tempo solo quando sentì Jörmundur che le scrollava le spalle, urlando qualcosa. Le ci volle qualche istante per decifrare i suoni che gli uscivano dalla bocca, e poi udì: «... continua a guardarmi, maledizione! Tieni gli occhi aperti. Non ti riaddormentare, altrimenti non ti sveglierai mai più.» «Puoi lasciarmi andare, Jörmundur» disse lei, e abbozzò un fievole sorriso. «Sto bene, adesso.» «Già, e mio zio Undset era un elfo.» «Perché, non lo era?» «Bah! Sei tale e quale a tuo padre: ignori la prudenza quando si tratta della tua vita. Le tribù possono anche marcire nelle loro dannate usanze, per quello che m'importa. Farò venire un guaritore. Non sei in grado di prendere decisioni.» «Ecco perché ho aspettato la sera. Vedi, il sole è quasi tramontato. Ho tutta la notte per riposare, e domani sarò in grado di occuparmi degli affari che richiedono la mia attenzione.» Farica comparve al suo fianco. «Oh, signora, ci avete fatto prendere un tale spavento.» «Un colpo, per meglio dire» borbottò Jörmundur. «Be', ora sto meglio.» Nasuada raddrizzò la schiena - era ancora seduta sullo scranno - ignorando il bruciore lancinante agli avambracci. «Voi due potete andare. Jörmundur, manda a dire a Fadawar che può restare a capo della sua tribù, a patto che mi giuri lealtà come capitano. È un condottiero troppo abile per perderlo. Farica, mentre torni alla tua tenda, per favore fai sapere ad Angela l'erborista che ho bisogno dei suoi servigi. Aveva detto che mi avrebbe preparato delle miscele di tonici e pozioni.» «Non ti lascio da sola in queste condizioni» protestò Jörmundur. Farica annuì. «Ti chiedo scusa, mia signora, ma sono d'accordo con lui. Non è sicuro.» Nasuada scoccò un'occhiata all'ingresso del padiglione, per assicurarsi che nessuno dei Falchineri fosse a portata d'orecchio, poi ridusse la voce a un sussurro: «Hai preso delle... precauzioni, mia signora?» chiese Jörmundur. «Sì.» I due angeli custodi parvero sconcertati dalla sua affermazione, e Jörmundur disse: «Nasuada, la tua sicurezza è una mia responsabilità. Devo sapere quale tipo di precauzione supplementare hai preso e chi di preciso ha il permesso di avvicinarti.» «No» rispose lei in tono gentile. Notando il dolore e l'indignazione negli occhi dell'ufficiale, continuò: «Non che io dubiti della tua lealtà... non sia mai. Ma questa è una cosa che devo tenere per me. Per il bene della mia pace interiore, ho bisogno di avere un'arma che nessun altro può vedere, un coltello infilato nella manica, se vuoi. Considerala una mia debolezza, ma non tormentarti pensando che la mia scelta sia una critica al modo in cui compi i tuoi doveri.» «Mia signora.» Jörmundur s'inchinò, una formalità che non usava quasi mai con lei. Nasuada alzò una mano, dando loro il permesso di congedarsi, e i due si affrettarono a uscire dal padiglione. Per un lungo minuto, forse due, l'unico suono che udì furono le rauche strida dei corvi che volavano in circolo sull'accampamento dei Varden. Poi da dietro le sue spalle provenne un lieve fruscio, come di un topolino in cerca di cibo. Si voltò e vide Elva sgusciare dal suo nascondiglio dietro due pannelli di tessuto nella sala principale del padiglione. Nasuada la osservò. La crescita innaturale della bambina continuava. Quando Nasuada l'aveva incontrata la prima volta, non molto tempo prima, Elva aveva l'aspetto di una bambina di tre o quattro anni. Adesso sembrava che ne avesse sei. Il suo semplice abito era tutto nero, tranne che per il colletto e i polsini viola. I lunghi capelli lisci erano ancora più neri, un vuoto liquido che le arrivava fino alle reni. Il suo viso dai lineamenti sottili era pallido come la luna, dato che di rado si avventurava all'aperto. Il marchio del drago sulla fronte riluceva argenteo. E i suoi occhi violetti avevano un'aria cinica e stanca: il risultato della benedizione di Eragon, che si era rivelata una maledizione, perché la condannava a sopportare il dolore degli altri e a cercare di evitarlo. La recente battaglia l'aveva quasi uccisa, con migliaia di agonie a tormentarle la mente, anche se uno stregone del Du Vrangr Gata l'aveva indotta in uno stato di sonno artificiale per tutta la durata degli scontri, nel tentativo di proteggerla. Solo da poco la ragazzina aveva ricominciato a parlare e a interessarsi a quanto la circondava. Si asciugò la piccola bocca col dorso della mano, e Nasuada le chiese: «Sei stata male?» Elva si strinse nelle spalle. «Al dolore sono abituata, ma non è mai facile resistere all'incantesimo di Eragon... Sai, non mi impressiono facilmente, Nasuada, ma mi ha colpito la tua forza nel resistere a così tante ferite.» Sebbene Nasuada l'avesse sentita parlare molte volte, la voce di Elva le ispirava ancora un profondo turbamento, perché era l'amara, aspra voce di un'adulta rotta dalle esperienze del mondo, e non quella di una bambina. Si sforzò di ignorarla e rispose: «Tu sei più forte. Io non ho dovuto sopportare anche il dolore di Fadawar. Ti ringrazio di essere rimasta con me. So quanto dev'esserti costato, e ti sono riconoscente.» «Riconoscente? Ha! Per me è una parola vuota, Lady Furianera.» Le labbra sottili di Elva si arricciarono in una parvenza di sorriso. «Hai qualcosa da mangiare? Sto morendo di fame.» «Farica ha lasciato del pane e del vino dietro quelle pergamene» disse Nasuada, indicando il fondo del padiglione. Osservò la bambina avventarsi sul cibo e divorare il pane, riempiendosi la bocca. «Almeno non dovrai vivere così ancora a lungo. Non appena Eragon tornerà, ti libererà dall'incantesimo.» «Può darsi.» Dopo aver fatto sparire mezza pagnotta, Elva fece una pausa. «Ho mentito a proposito della Prova dei Lunghi Coltelli, sai.» «Che vuoi dire?» «Avevo previsto che avresti perso, non vinto.» «Cosa?» «Se avessi permesso agli eventi di seguire il loro corso, i nervi ti avrebbero ceduto al settimo taglio, e adesso ci sarebbe Fadawar seduto al tuo posto. Perciò ti ho detto quello che avevi bisogno di sentirti dire per vincere.» Nasuada si sentì percorrere da un brivido gelido. Se quello che Elva diceva era vero, allora era in debito più che mai con la bambina strega. Eppure non le piaceva essere manipolata, anche se per il proprio bene. «Capisco. A quanto pare devo ringraziarti ancora.» Elva scoppiò a ridere, un suono secco e stridulo. «E non ti piace per niente di doverlo fare, eh? Non importa. Non devi temere di offendermi, Nasuada. Noi ci siamo utili a vicenda, tutto qui.» Nasuada si sentì sollevata quando uno dei nani a difesa del padiglione, il capitano di quel turno di guardia, batté il martello sullo scudo e annunciò: «Angela l'erborista chiede udienza, Lady Furianera.» «Concessa» rispose Nasuada, alzando la voce. Angela entrò nel padiglione carica di borse e ceste infilate sotto le braccia. Come sempre, la massa di riccioli scuri le formava una nuvola tempestosa intorno al viso, cupo per la preoccupazione. Ai suoi piedi, avanzava con passo felpato il gatto mannaro Solembum nella sua forma animale. Subito puntò verso Elva e prese a strofinarsi contro le sue gambe, inarcando il dorso. Angela posò le sue cose per terra e si sgranchì le spalle, dicendo: «Cielo! Fra te ed Eragon, mi sembra di passare la maggior parte del mio tempo in mezzo ai Varden a guarire persone troppo stupide per capire quando è necessario evitare di farsi tagliare a pezzetti.» Continuando a parlare, la minuscola erborista si avvicinò a Nasuada e cominciò a toglierle le bende del braccio destro. Ridacchiò con aria di disapprovazione. «In genere questo è il momento in cui il guaritore chiede al paziente come sta, e il paziente mente a denti stretti e dice: "Oh, non tanto male" e il guaritore dice: "Bene, bene. Su col morale, e ti rimetterai presto." Comunque mi pare ovvio che non sei affatto pronta a guidare una carica contro l'Impero. No, proprio no.» «Ma guarirò, vero?» chiese Nasuada. «Se potessi usare la magia per chiudere queste ferite, ti direi subito di sì. Ma dato che non posso, è un po' difficile da prevedere. Dovrai cercare di cavartela come la maggior parte della gente e sperare che nessuna delle lesioni si infetti.» Fece una pausa e guardò Nasuada dritta negli occhi. «Lo sai, vero, che ti resteranno delle cicatrici?» «Sia quel che sia.» «Giusto.» Nasuada represse un gemito e distolse lo sguardo mentre Angela le suturava le ferite e poi le ricopriva con un denso, umido impiastro di erbe. Con la coda dell'occhio vide Solembum balzare sul tavolo e sedersi accanto a Elva. Allungando una grossa zampa ispida, il gatto mannaro artigliò un pezzo di pane dal piatto di Elva e lo mordicchiò in uno scintillio di denti candidi. I ciuffi neri in cima alle grandi orecchie vibrarono quando le piegò per ascoltare il clangore metallico dei guerrieri che segnavano il passo davanti al padiglione rosso. «Barzûl» borbottò Angela. «Soltanto gli uomini sono capaci di tagliarsi da soli per decidere chi sarà il capobranco. Idioti!» Le faceva male ridere, ma Nasuada non poté trattenersi. «Hai ragione» disse, una volta passato l'accesso di risa. Angela aveva appena finito di riavvolgere l'ultima benda di lino intorno alle braccia di Nasuada quando il capitano del popolo dei nani fuori del padiglione esclamò: «Altolà!» Seguì una serie di tintinnii argentini, simili a tanti campanelli, mentre le guardie umane incrociavano le spade per sbarrare il passo a chiunque stesse cercando di entrare. Senza riflettere, Nasuada estrasse il coltello dal fodero cucito nel corsetto della sottoveste. Faticò a impugnare il manico, poiché aveva le dita gonfie e intorpidite, e i muscoli erano lenti a reagire. Era come se il braccio si fosse addormentato, tranne che per i solchi profondi che le bruciavano la carne. Anche Angela trasse un pugnale da chissà dove e si parò davanti a Nasuada, mormorando qualche parola nell'antica lingua. Con un balzo felino, Solembum scese dal tavolo per accovacciarsi ai piedi di Angela. Il pelo ritto lo faceva sembrare ancora più grosso, e dalla gola gli usciva un cupo ringhio. Elva continuò a mangiare, indifferente alla scena. Osservò il pezzo di pane che teneva fra il pollice e l'indice come se stesse studiando una strana specie di insetto, poi lo intinse in un calice di vino e se lo infilò in bocca. «Mia signora!» gridò un uomo. «Eragon e Saphira in rapido avvicinamento da nord-est!» Nasuada rinfoderò il coltello. Si issò dallo scranno a fatica e disse ad Angela: «Aiutami a vestirmi.» Angela aprì il vestito davanti a Nasuada, che vi s'infilò prima con un piede, poi con l'altro. Angela sollevò l'abito e con cautela guidò le braccia di Nasuada nelle maniche; poi cominciò a legare le stringhe sulla schiena. Elva andò ad aiutarla, e insieme finirono di prepararla. Nasuada si guardò le braccia e non vide le bende. «Devo nascondere o mostrare le mie ferite?» chiese. «Dipende» rispose Angela. «Credi che mostrarle aumenterà il tuo prestigio o incoraggerà i tuoi nemici perché penseranno che sei debole e vulnerabile? La questione è filosofica, fondata su questo concetto: se guardi un uomo che ha perso l'alluce, dici "Oh, povero storpio" oppure "Oh, è stato bravo o forte o fortunato abbastanza da evitare ferite più gravi"?» «I tuoi paragoni sono alquanto bizzarri.» «Grazie.» «La Prova dei Lunghi Coltelli è una gara di forza» disse Elva. «Ed è conosciuta anche fra i Varden e i surdani. Sei orgogliosa della tua forza, Nasuada?» «Tagliatemi le maniche» ordinò Nasuada. Quando le due esitarono, esclamò: «Avanti! Ai gomiti. Non m'importa del vestito, lo farò riparare più tardi.» Con pochi abili movimenti, Angela tagliò le parti indicate da Nasuada lasciando cadere il tessuto sul tavolo. Nasuada alzò il mento. «Elva, se senti che sto per svenire, dillo ad Angela e fa' che mi sostenga. Allora, andiamo?» Le tre si disposero in formazione, con Nasuada in testa. Solembum avanzava per conto suo. Quando uscirono dal padiglione rosso, il capitano dei nani latrò: «Ai posti!» e i sei Falchineri si strinsero intorno al gruppo di Nasuada: gli umani e i nani in avanguardia e retroguardia, e i colossali Kull - Urgali alti otto piedi e anche di più - ai fianchi. Il crepuscolo spiegava le sue ali dorate e viola sull'accampamento dei Varden, regalando un'aura di mistero alle file di tende che si estendevano a perdita d'occhio. Le ombre sempre più scure lasciavano presagire l'arrivo della notte, e le fiamme di innumerevoli torce e falò già splendevano più intense degli ultimi bagliori del tramonto. A est il cielo era limpido. A sud una lunga e bassa nuvola di fumo nero copriva l'orizzonte e le Pianure Ardenti, a una lega e mezza di distanza. A ovest una linea di faggi e pioppi tremuli indicava il percorso del fiume Jiet, dove galleggiava La visione era così maestosa che Nasuada rimase impietrita a fissarla per lunghi momenti, felice di essere tanto fortunata da assistervi. Il guerriero che aveva portato la notizia dell'arrivo di Saphira - un uomo snello dalla barba folta - s'inchinò e poi indicò la dragonessa ancora lontana. «Mia signora, come puoi vedere, dicevo il vero.» «Sì. Sei stato bravo. Devi avere occhi particolarmente acuti per aver individuato Saphira già da prima. Come ti chiami?» «Fletcher, figlio di Harden, mia signora.» «Ti ringrazio, Fletcher. Ora puoi tornare al tuo posto.» Con un altro inchino, l'uomo si allontanò di corsa verso il limitare dell'accampamento. Con gli occhi fissi su Saphira, Nasuada riprese a camminare tra le file di tende verso l'ampia radura scelta per gli atterraggi e i decolli di Saphira. Le sue guardie e le accompagnatrici le tenevano dietro mentre avanzava spedita, desiderosa d'incontrare Eragon e Saphira. Aveva passato gran parte degli ultimi giorni in ansia per loro, sia come capo dei Varden che, con una certa sorpresa, come amica. Saphira volava rapida come un falco, ma era ancora a parecchie miglia dall'accampamento; quindi impiegò almeno altri dieci minuti per coprire la distanza. Nel frattempo una grande folla di guerrieri si radunò intorno alla radura: umani, nani e perfino un contingente di Urgali dalla pelle grigia, capitanati da Nar Garzhvog, che sputò verso gli uomini più vicini a loro. C'erano anche re Orrin e la sua corte, che presero posto di fronte a Nasuada; Narheim, l'ambasciatore dei nani che aveva assunto la carica di Orik da quando Orik era partito per il Farthen Dûr; Jörmundur; gli altri membri del Consiglio degli Anziani; e Arya. L'elfa, alta e snella, si fece largo tra la folla per raggiungere Nasuada. Perfino con Saphira che volava verso di loro, uomini e donne si sentirono indotti a distogliere lo sguardo dal cielo per osservare Arya che incedeva, una figura affascinante e misteriosa. Tutta vestita di nero, portava pantaloni di pelle come un uomo, una spada alla cintura, un arco e una faretra a tracolla. La sua pelle aveva il colore del miele ambrato. Il suo viso era spigoloso come il muso di una gatta. E si muoveva con una grazia felina e scattante che tradiva la sua maestria con le armi, come anche la sua forza soprannaturale. Nasuada aveva sempre considerato il suo abbigliamento eccentrico, quasi ai limiti della decenza: rivelava troppo le forme. Ma la regina doveva ammettere che se anche avesse indossato un abito di stracci, Arya avrebbe comunque avuto un aspetto più nobile e regale di qualsiasi aristocratica mortale. Fermandosi davanti a Nasuada, Arya puntò un dito affusolato verso le sue ferite. «Come ha detto il poeta Earnë, gettarsi fra le braccia del pericolo per il bene del popolo e della terra che ami è la cosa più bella che si possa fare. Ho conosciuto ogni capo dei Varden, e sono stati tutti uomini e donne valorosi, ma nessuno come Ajihad. Eppure credo che tu abbia superato persino lui.» «Tu mi onori, Arya, ma temo che se la mia stella brilla troppo forte saranno pochi coloro che ricorderanno mio padre come merita.» «Le azioni dei figli sono la testimonianza dell'educazione ricevuta dai genitori. Brilla come il sole, Nasuada, perché più forte splenderai, più profondo sarà il rispetto verso Ajihad per come ti ha insegnato a reggere le responsabilità del comando a una così tenera età.» Nasuada chinò il capo, prendendo alla lettera il consiglio di Arya. Poi sorrise e disse: «Tenera età? Sono una donna adulta, secondo il nostro computo.» Negli occhi verdi di Arya brillò una scintilla divertita. «Vero. Ma se giudichiamo dagli anni, e non dalla saggezza, nessun umano potrebbe essere considerato adulto dalla mia specie. Tranne Galbatorix, s'intende.» «E me» intervenne Angela. «Andiamo» disse Nasuada, «non puoi essere tanto più vecchia di me.» «Ha! Tu confondi l'apparenza con l'età. Dovresti avere più discernimento, dopo aver frequentato Arya per così tanto tempo.» Prima di avere il tempo di chiedere ad Angela quanti anni avesse, Nasuada si sentì tirare un lembo del vestito. Si guardò intorno e vide che era stata Elva a prendersi una tale libertà; la bambina le stava facendo un cenno. Nasuada si chinò e avvicinò l'orecchio alla bocca di Elva, che mormorò: «Eragon non è con Saphira.» Nasuada si sentì stringere il petto da una morsa di terrore che le mozzò il fiato. Alzò lo sguardo: Saphira volava in circolo sull'accampamento, a migliaia di piedi di altezza. Le sue enormi ali da pipistrello si stagliavano nere contro il cielo. Nasuada vedeva il ventre di Saphira e i suoi artigli spiccare bianchi contro le squame sovrapposte, ma non riusciva a scorgere nessun dettaglio del cavaliere. «Come lo sai?» chiese con un filo di voce. «Non sento il suo disagio, né le sue paure. C'è Roran in sella, e una donna, che immagino sia Katrina. Ma nessun altro.» Nasuada si raddrizzò, batté le mani e chiamò: «Jörmundur!» con voce squillante. Jörmundur, che era a una decina di iarde di distanza, arrivò trafelato, facendosi largo a spintoni fra coloro che lo intralciavano: aveva militato tra i Varden abbastanza a lungo da capire quando si trattava di un'emergenza. «Mia signora?» «Fa' sgombrare il campo! Via tutti dalla radura prima che atterri Saphira.» «Compresi Orrin e Narheim e Garzhvog?» Nasuada fece una smorfia. «No, loro no, ma non deve restare nessun altro. Sbrigati!» Mentre Jörmundur cominciava ad abbaiare ordini, Arya e Angela si strinsero a Nasuada. Sembravano allarmate quanto lei. Arya disse: «Saphira non sarebbe così tranquilla se Eragon fosse ferito, o morto.» «Ma allora dov'è?» chiese Nasuada. «In quali guai si è cacciato stavolta?» Una cacofonia di grida riecheggiò nella radura mentre Jörmundur e i suoi uomini sospingevano gli spettatori verso le tende, usando i bastoni da ufficiali ogni volta che i guerrieri riluttanti si attardavano o protestavano. Qua e là scoppiò qualche scaramuccia, subito sedata dai capitani agli ordini di Jörmundur per impedire che la violenza attecchisse e si propagasse. Per fortuna gli Urgali, a una sola parola del loro capo Garzhvog, si allontanarono senza incidenti, ma lui rimase indietro e marciò dritto verso Nasuada, come pure re Orrin e il nano Narheim. Nasuada sentì la terra tremarle sotto i piedi mentre il gigantesco Urgali si avvicinava. Garzhvog alzò il mento, esponendo la gola com'era usanza della sua razza, e disse: «Che cosa significa tutto questo, Lady Furianera?» La forma della sua mascella e dei denti, unita al forte accento, rendeva quasi incomprensibili le sue parole. «Già, vorrei saperlo anch'io, se non ti dispiace» disse Orrin, rosso in viso. «E anch'io» aggiunse Narheim. Guardandoli, Nasuada pensò che forse quella era la prima volta in migliaia di anni che i membri di così tante razze di Alagaësia si riunivano in pace. Gli unici a mancare erano i Ra'zac e le loro cavalcature, e Nasuada sapeva che nessuna persona sana di mente avrebbe mai invitato quelle ripugnanti e malvagie creature ai consigli segreti. Indicò Saphira e disse: «Sarà lei a rispondere alle vostre domande.» Non appena l'ultimo dei ritardatari ebbe lasciato la radura, una forte corrente d'aria investì Nasuada mentre Saphira scendeva in picchiata sul campo, rallentando con una torsione delle ali prima di atterrare. Si abbassò su tutte e quattro le zampe, e un cupo rimbombo risuonò per l'intero accampamento. Roran e Katrina si liberarono dalle cinghie della sella e smontarono in fretta. Nasuada fece qualche passo avanti e studiò Katrina. Era curiosa di vedere che genere di donna potesse indurre un uomo a compiere un'impresa tanto straordinaria per salvarla. La giovane donna davanti a lei era di ossatura robusta, con il colorito pallido di una malata, una criniera di capelli ramati e un abito così logoro e sporco che era impossibile determinarne la foggia originaria. Malgrado le privazioni della prigionia, Nasuada pensò che Katrina era piuttosto attraente, ma non certo una donna che i bardi avrebbero definito bella. Tuttavia possedeva una certa forza nello sguardo e nel portamento che fece pensare a Nasuada che se fosse stato Roran quello tra i due a essere preso prigioniero, Katrina sarebbe stata altrettanto capace di sollevare l'intero villaggio di Carvahall, condurlo a sud nel Surda, combattere nella battaglia delle Pianure Ardenti e poi proseguire per l'Helgrind, tutto per amore del suo promesso. Anche quando notò Garzhvog, Katrina non batté ciglio, ma rimase impassibile dov'era, al fianco di Roran. Roran s'inchinò davanti a Nasuada e, voltatosi, anche a re Orrin. «Mia signora» disse, con espressione solenne. «Sire. Se permettete, vi presento la mia fidanzata, Katrina.» La donna fece una riverenza a entrambi. «Benvenuta fra i Varden, Katrina» disse Nasuada. «Abbiamo tutti sentito parlare di te, grazie alla rara devozione di Roran nei tuoi confronti. Canzoni d'amore per te si sono già diffuse in tutto il paese.» «Benvenuta» intervenne Orrin. «Siamo molto lieti di conoscerti.» Nasuada notò che il re non aveva occhi che per Katrina, come tutti gli altri uomini presenti, compresi i nani, e Nasuada era certa che avrebbero raccontato chissà quali storie sul fascino di Katrina ai loro compagni d'armi prima del finir della notte. Quello che Roran aveva fatto per lei l'aveva elevata al di sopra delle donne comuni: l'aveva resa oggetto di mistero, incanto e attrazione per i guerrieri. Che qualcuno fosse disposto a sacrificare tanto per un'altra persona significava, in ragione del prezzo pagato, che quella persona doveva essere straordinariamente preziosa. Katrina arrossì e sorrise. «Grazie» disse. Insieme all'imbarazzo per quelle attenzioni, una punta di fierezza le tinse il viso, come se sapesse quanto era eccezionale Roran e fosse orgogliosa di aver catturato il suo cuore, lei fra tutte le donne di Alagaësia. Lui era suo, e questo era l'unico privilegio che desiderava. Nasuada fu trafitta da una stilettata di solitudine. Con un secco crepitio di squame contro squame, Saphira fece qualche passo avanti e abbassò il collo fino a portare la testa direttamente davanti a Nasuada, Arya e Angela. L'occhio sinistro della dragonessa scintillava di fuoco azzurro. Inspirò due volte, e la lingua rossa guizzò fuori dalla bocca. Una zaffata di alito caldo e umido arruffò il colletto di pizzo dell'abito di Nasuada. Nasuada deglutì mentre la coscienza di Saphira sfiorava la sua. Saphira era diversa da qualsiasi altro essere che Nasuada avesse mai incontrato: antica, remota, feroce e gentile al tempo stesso. Questo, insieme all'imponente presenza fisica, le ricordava sempre che se Saphira avesse voluto divorarsela, avrebbe potuto. Era impossibile, pensava Nasuada, darsi troppe arie al cospetto di un drago. «Non c'è bisogno che tu sventri nessuno. Non ancora, almeno. Ho impugnato io stessa il coltello. Ma è il momento meno adatto per parlare di questa vicenda. Ora m'importa solo di sapere che fine ha fatto Eragon.» «Come... come hai potuto permetterglielo?» chiese. Saphira sbuffò e piccole lingue di fuoco le risalirono dalle narici. Parlò Arya: «E perché ha preso questa decisione, Saphira?» Tutti manifestarono il loro consenso. Un fiume di ricordi di Saphira si riversò nella coscienza di Nasuada. Vide il nero Helgrind da sopra una coltre di nubi; sentì Eragon, Roran e Saphira discutere sulla migliore strategia di attacco; li osservò scoprire il covo dei Ra'zac; e visse l'epica battaglia di Saphira con i Lethrblaka. La successione di immagini affascinò Nasuada. Era nata nel territorio dell'Impero, ma ne conservava solo un vago ricordo. Quella era la prima volta che da adulta guardava qualcosa che non si trovasse ai margini selvaggi del dominio di Galbatorix. Infine ecco Eragon e lo scontro con Saphira. La dragonessa cercò di nasconderlo, ma l'angoscia provata nel lasciare Eragon era ancora così bruciante e dolorosa che Nasuada dovette asciugarsi le guance con le bende delle braccia. Tuttavia le ragioni che Eragon aveva addotto per restare - uccidere l'ultimo Ra'zac ed esplorare l'Helgrind - non la lasciarono soddisfatta. Nasuada s'incupì. «Dannazione!» imprecò re Orrin. «Eragon non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per andarsene in giro da solo. Che importa un singolo Ra'zac, quando l'intero esercito di Galbatorix è stanziato a poche miglia da qui?... Dobbiamo riportarlo indietro.» Angela scoppiò a ridere. Stava lavorando a maglia una calza con cinque aghi d'osso, che ticchettavano e tintinnavano e crepitavano a ritmo costante. «E come? Lui viaggerà di giorno, e Saphira non può volare a cercarlo quando il sole è alto rischiando di farsi scorgere da qualcuno e mettere in allarme Galbatorix.» «Sì, ma lui è il nostro Cavaliere! Non possiamo starcene qui con le mani in mano mentre lui si trova nel cuore del territorio nemico.» «Sono d'accordo» disse Narheim. «In un modo o nell'altro, dobbiamo assicurarci che torni sano e salvo. Grimstnzborith Rothgar ha adottato Eragon nella sua famiglia e nel suo clan... che è anche il mio, come sapete... e noi gli dobbiamo la lealtà della nostra legge e del nostro sangue.» Arya s'inginocchiò e, con grande sorpresa di Nasuada, cominciò ad allentare i lacci degli stivali per poi serrarli meglio. Con un laccio stretto fra i denti, Arya disse: «Saphira, dove si trovava di preciso Eragon l'ultima volta che gli hai toccato la mente?» «E hai qualche idea sul percorso che intendeva seguire?» Rialzandosi, Arya disse: «Allora dovrò cercarlo ovunque.» Come una gazzella, balzò in avanti e cominciò a correre per la radura; scomparve nella foresta di tende, diretta a nord, veloce e leggera come il vento. «Arya, no!» gridò Nasuada; ma l'elfa era già sparita. La disperazione minacciò di travolgerla. Afferrando i bordi dei pezzi scompagnati d'armatura che lo ricoprivano, come se volesse strapparseli di dosso, Garzhvog disse a Nasuada: «Vuoi che la segua, Lady Furianera? Non posso correre veloce come i piccoli elfi, ma a lungo quanto loro sì.» «No... no, resta. Arya può passare per un'umana da una certa distanza, ma i soldati ti darebbero la caccia dal momento stesso in cui un contadino ti vedesse.» «Sono abituato a essere cacciato.» «Ma non nel cuore dell'Impero, con centinaia di uomini di Galbatorix che battono la campagna. No, Arya dovrà badare a se stessa. Prego solo che trovi Eragon e lo protegga, perché senza di lui siamo spacciati.» ♦ ♦ ♦ IN FUGA DA TUTTO I piedi di Eragon risuonavano sul terreno. Il ritmo martellante della sua falcata nasceva nei calcagni, correva su per le gambe, girava intorno ai fianchi, risaliva per la spina dorsale e terminava alla base del cranio, dove i ripetuti impatti gli facevano stridere i denti e acuivano il mal di testa che sembrava peggiorare a ogni miglio. All'inizio la musica monotona della corsa lo aveva infastidito, ma poi lo aveva cullato in una sorta di trance dentro la quale non pensava, si muoveva soltanto. Ogni volta che uno stivale toccava il suolo, Eragon sentiva i fragili steli d'erba spezzarsi come ramoscelli, e nuvolette di polvere si levavano dal terreno arido. Pensò che doveva essere passato almeno un mese dall'ultima volta che era piovuto in quella zona di Alagaësia. L'aria secca gli asciugava l'umidità del respiro, lasciandogli la gola riarsa. Per quanto bevesse, non riusciva a compensare la quantità d'acqua che il sole e il vento gli sottraevano. Di qui il suo mal di testa. L'Helgrind era ormai molto lontano. Però i suoi progressi erano stati più lenti del previsto. Centinaia di pattuglie di Galbatorix, composte da soldati e da stregoni, battevano il territorio in lungo e in largo, costringendolo spesso a nascondersi per evitarle. Stavano cercando lui, senza alcuna ombra di dubbio. La sera prima aveva persino scorto Castigo che volava basso sull'orizzonte a ovest. Aveva subito schermato la mente, si era gettato in un canale di scolo e aveva aspettato lì per mezz'ora, finché Castigo non era tornato indietro, scomparendo oltre i confini del mondo. Eragon aveva deciso di viaggiare percorrendo strade e sentieri ogni volta che era possibile. Gli eventi della settimana prima lo avevano spinto ai limiti della resistenza fisica e interiore. Preferiva consentire al corpo di riposare e riprendersi piuttosto che stancarsi ancora di più correndo fra boschi di rovi, risalendo colline e guadando torrenti fangosi. Il tempo degli sforzi violenti e disperati sarebbe di certo tornato, ma non adesso. Finché restava sulle strade battute, non osava correre veloce quanto avrebbe potuto; anzi, sarebbe stato meglio non correre affatto. Il territorio era disseminato di villaggi e fattorie: se qualcuno degli abitanti avesse visto un uomo correre da solo nella campagna, come inseguito da un branco di lupi, la scena avrebbe inevitabilmente suscitato curiosità e sospetti, e magari un contadino spaventato avrebbe riferito l'episodio all'Impero. Sarebbe stato un errore fatale per Eragon, la cui più grande protezione era il mantello dell'anonimato. Adesso invece correva perché da almeno una lega non incontrava creature viventi, tranne un lungo serpente che si crogiolava al sole. Tornare dai Varden era il suo principale obiettivo, e lo irritava dover procedere a rilento, camminando come un vagabondo qualsiasi. Eppure apprezzava la solitudine. Non era mai stato solo, veramente solo da quando aveva trovato l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale. I pensieri della dragonessa avevano continuamente sfiorato i suoi, e al suo fianco c'era sempre stato qualcuno, Brom o Murtagh o un'altra persona. Oltre al fardello della presenza costante di qualcuno, Eragon aveva passato tutti i mesi dalla partenza dalla Valle Palancar impegnato in duri allenamenti, interrotti solo per viaggiare o prendere parte a sanguinose battaglie. Non gli era mai capitato di concentrarsi così intensamente e così a lungo su se stesso o di riflettere sulle sue paure e i suoi pensieri. Accolse con piacere la solitudine, e la pace che ne derivava. L'assenza di voci, compresa la propria, era una dolce ninnananna che, seppure per breve tempo, gli fece dimenticare i timori per il futuro. Non aveva voglia di divinare Saphira - anche se erano troppo distanti per toccarsi con la mente, il loro legame gli avrebbe comunque rivelato se lei stava male - o di cercare Arya o Nasuada solo per sentirsi aggredire dalle loro parole infuriate. Molto meglio, pensava, ascoltare il canto degli uccelli e il sospiro della brezza fra l'erba e le foglie degli alberi. Un tintinnio di briglie, uno scalpiccio di zoccoli e il suono di voci umane ridestarono Eragon dalle sue fantasticherie. Allarmato, si fermò e si guardò intorno, cercando di capire da dove provenissero gli uomini. Una coppia di taccole gracchianti si levò in volo da una gola poco distante. L'unico nascondiglio praticabile era un boschetto di ginepri. Eragon si tuffò fra i rami bassi proprio mentre sei soldati emergevano dalla gola, spronando i cavalli al piccolo galoppo per salire sulla strada sterrata, a meno di dieci passi da lui. In circostanze normali Eragon avrebbe percepito la loro presenza molto prima che gli arrivassero così vicini, ma da quando aveva scorto Castigo in lontananza aveva tenuto la mente schermata. I soldati tirarono le redini e si fermarono al centro della strada, discutendo fra di loro. «Ti dico che ho visto qualcosa!» gridò uno. Era di corporatura media, con le guance rubizze e la barba gialla. Col cuore in tumulto, Eragon si sforzò di respirare piano e in silenzio. Si toccò la fronte per assicurarsi che la striscia di tessuto che si era legato intorno alla testa coprisse ancora le sopracciglia oblique e le orecchie a punta. Il soldato dalla barba gialla smontò dal suo baio da battaglia e s'incamminò lungo il ciglio della strada, studiando il terreno e il boschetto di ginepri. Come tutti i membri dell'esercito di Galbatorix, indossava una casacca rossa con una fiamma ricamata a fili d'oro. Il ricamo sprizzava scintille di luce a ogni movimento. La sua armatura era semplice: un elmo, uno scudo ammaccato e una brigantina di pelle, segno che era poco più che un fante a cavallo. Portava una lancia nella mano destra e uno spadone al fianco sinistro. Mentre il soldato si avvicinava al suo nascondiglio, accompagnato dal clangore metallico degli speroni, Eragon cominciò a sussurrare un complicato incantesimo nell'antica lingua. Le parole gli uscirono dalle labbra in un flusso ininterrotto finché, con sgomento, non si accorse di aver pronunciato male una serie particolarmente difficile di vocali, e fu costretto a ricominciare daccapo. Il soldato fece un altro passo verso di lui. E un altro. Proprio mentre il soldato si fermava di fronte a lui, Eragon completò l'incantesimo e sentì che la sua forza scemava per effetto della magia. Purtroppo aveva impiegato un istante di troppo, perché il soldato esclamò: «Aha!» e scostò i rami di ginepro, esponendolo alla vista. Eragon non si mosse. Il soldato lo guardò dritto in faccia e aggrottò la fronte. «Ma che...» borbottò. Affondò la lancia fra i rami, mancando di un soffio il viso di Eragon, che si conficcò le unghie nei palmi, mentre i muscoli contratti tremavano. «Ah, ma che diamine» disse il soldato un attimo dopo, e lasciò andare i rami, che tornarono di scatto al loro posto, nascondendo di nuovo Eragon. «Che c'è?» gridò un altro degli uomini. «Niente» rispose il soldato a piedi, tornando dai compagni. Si tolse l'elmo e si asciugò la fronte. «Gli occhi mi giocano brutti scherzi.» «Ma che si aspetta da noi quel bastardo di Braethan? Negli ultimi due giorni non abbiamo praticamente chiuso occhio.» «Già. Il re dev'essere disperato per spremerci in questo modo... A essere sincero, preferirei non trovare questa persona che stiamo cercando, chiunque sia. Non che io abbia paura, ma se una persona riesce a preoccupare Galbatorix, allora vuol dire che è meglio evitarla. Che siano Murtagh e quel suo drago maledetto a catturare il nostro misterioso fuggitivo, eh?» «A meno che non stiamo cercando proprio Murtagh» suggerì un terzo. «Hai sentito anche tu cosa ha detto il figlio di Morzan.» Un silenzio inquieto scese sui soldati. Poi quello a piedi saltò in groppa al suo cavallo con un agile volteggio, si avvolse le redini intorno alla mano sinistra e disse: «Tieni chiusa quella tua boccaccia, Derwood. Parli troppo.» Detto questo, i sei spronarono i cavalli e ripresero a galoppare verso nord, lungo la strada sterrata. Mentre il rumore degli zoccoli si affievoliva, Eragon estinse l'incantesimo, si strofinò gli occhi con le nocche e posò le mani sulle ginocchia. Gli sfuggì una lunga risata e scrollò la testa, divertito dalla singolarità della sua situazione paragonata alla sua tranquilla fanciullezza nella Valle Palancar. L'incantesimo a cui aveva fatto ricorso era in due parti: la prima aveva deviato i raggi luminosi intorno al suo corpo per renderlo invisibile, e la seconda aveva impedito ad altri stregoni di rilevare il suo uso della magia, o almeno così sperava. La principale controindicazione dell'incantesimo era che non poteva nascondere le impronte - perciò bisognava restare immobili come una statua mentre lo si evocava - e spesso non riusciva a eliminare del tutto l'ombra della persona. Sgusciando dal boschetto, Eragon stiracchiò le braccia sopra la testa e si volse a guardare la gola da cui erano emersi i soldati. Una sola domanda gli occupava la mente, mentre riprendeva il cammino: che cosa aveva detto Murtagh? «Ahh!» Il velo illusorio dei sogni si squarciò quando Eragon artigliò l'aria con le mani. Si raggomitolò con le ginocchia strette al petto e rotolò su se stesso. Poi indietreggiò puntando mani e talloni nel terreno, e infine si alzò di scatto, incrociando le braccia davanti al viso per parare eventuali colpi. Le tenebre della notte lo circondavano. In alto, le stelle indifferenti continuavano a spostarsi nella loro incessante danza celeste. In basso, non una creatura si muoveva, né si udiva un suono, tranne la brezza gentile che accarezzava l'erba. Eragon tese un tentacolo di coscienza, convinto che qualcuno stesse per aggredirlo. Spaziò in un raggio di cento piedi, ma non trovò nessuno nelle vicinanze. Alla fine abbassò le braccia. Ansimava forte, e la pelle gli bruciava, intrisa di sudore. Nella sua mente ruggiva una tempesta fatta di lampi di spade e pioggia di sangue. Per un istante credette di essere nel Farthen Dûr, a combattere gli Urgali, e poi sulle Pianure Ardenti, a incrociare la lama con uomini come lui. Ogni luogo era così reale che avrebbe giurato di essere stato trasportato indietro nel tempo e nello spazio con un sortilegio sconosciuto. Vide davanti a sé gli uomini e gli Urgali che aveva ucciso: sembravano così veri che si chiese se potessero parlare. E pur non avendo più le cicatrici delle ferite, il suo corpo ricordava ogni colpo subito, e il giovane rabbrividì nel sentire ancora le spade e le frecce che gli trapassavano la carne. Con un ululato animalesco, cadde in ginocchio e si piegò in avanti, le braccia strette intorno allo stomaco, dondolando avanti e indietro. Nessuno dei racconti epici che Brom narrava a Carvahall accennava al fatto che gli eroi del passato fossero stati perseguitati da visioni simili. Nessuno dei guerrieri che Eragon aveva conosciuto fra i Varden sembrava tormentato dal sangue versato. Roran aveva ammesso che non gli piaceva uccidere, però non si svegliava nel cuore della notte urlando. Si rimise in piedi e cominciò a camminare in circolo, intorno al suo giaciglio sull'erba, per calmarsi. Dopo mezz'ora, quando l'angoscia ancora gli attanagliava il petto in una morsa di ferro, facendolo trasalire al minimo fruscio, e la pelle gli prudeva come se un migliaio di formiche gli camminassero addosso, afferrò lo zaino e cominciò a correre alla cieca. Non gli importava che cosa potesse nascondersi nelle tenebre ignote o che qualcuno notasse la sua folle corsa. Voleva soltanto sfuggire ai propri incubi. La mente gli si era rivoltata contro, e non poteva confidare nel pensiero razionale per disperdere il panico. La sua unica risorsa, quindi, era affidarsi all'antica saggezza animale della carne, che gli diceva di Forse. Una nuvola di storni sfrecciò nel cielo del pomeriggio, come un branco di pesci che guizza sull'oceano. Eragon socchiuse gli occhi per ammirarli. Nella Valle Palancar, quando gli storni facevano ritorno dopo l'inverno, spesso formavano gruppi così grandi da trasformare il giorno in notte. Questo stormo non era molto grande, ma gli ricordava lo stesso le serate trascorse a bere infuso di menta con Garrow e Roran sotto il portico della fattoria, guardando la nuvola nera che cambiava forma di continuo. Smarrito nei ricordi, si fermò e sedette su un masso per stringersi i lacci degli stivali. Il tempo era cambiato: faceva freddo e una nuvolaglia grigia a ovest annunciava un temporale. La vegetazione era più ricca, con muschio e canne e ampie zolle d'erba verde. A diverse miglia di distanza, cinque colline interrompevano il panorama uniforme e piatto. Un boschetto di querce coronava la sommità della collina centrale. Dal denso fogliame si ergevano le rovine di una costruzione abbandonata, eretta da chissà quale razza nei secoli addietro. Incuriosito, Eragon decise di rompere il digiuno fra le rovine. Era certo di trovare selvaggina in abbondanza, e la sosta gli avrebbe dato una scusa per esplorare un po' i dintorni prima di proseguire. Arrivò ai piedi della prima collina un'ora dopo, e trovò i resti di un'antica strada lastricata di pietre squadrate. La seguì fino alle rovine, sconcertato dalla loro architettura, che non somigliava a nessuna opera di umani, elfi o nani a lui nota. L'ombra sotto le querce rinfrescò Eragon mentre s'inerpicava sulla collina centrale. Verso la sommità, il terreno divenne pianeggiante e il boschetto si diradò per aprirsi su una vasta radura. Al centro svettava una torre diroccata. La parte bassa della torre era larga e solcata da nervature, come il tronco di un albero. Poi la struttura si andava assottigliando e risaliva verso il cielo per oltre trenta piedi, terminando con un profilo aguzzo e frastagliato. La parte superiore della torre giaceva sul terreno, ridotta in tanti frammenti. Eragon era eccitato. Aveva il sospetto di aver trovato un avamposto elfico eretto molto prima della caduta dei Cavalieri. Nessun'altra razza possedeva l'abilità o l'inclinazione a costruire una struttura simile. Poi notò un orticello dall'altra parte della radura. Tra le piante era accovacciato un uomo, intento a estirpare erbacce in mezzo ai piccoli filari di piselli. Il volto era immerso nell'ombra. La barba grigia era così lunga che gli posava in grembo come un cumulo di lana grezza. Senza alzare lo sguardo, l'uomo disse: «Be', ti decidi ad aiutarmi o no? Se lo fai, ci sarà da mangiare anche per te.» Eragon esitò, poi si disse: «Tenga, figlio di Ingvar» borbottò l'uomo. Eragon posò lo zaino per terra e l'armatura all'interno sferragliò. Per tutta l'ora seguente lavorò in silenzio insieme a Tenga. Sapeva che non avrebbe dovuto restare, ma gli piaceva il lavoro fisico: gli impediva di pensare. Mentre sradicava le erbacce, lasciò espandere la mente per toccare la moltitudine di esseri che vivevano nella radura. Accolse con gratitudine il senso di unità che condivideva con loro. Quando ebbero strappato fino all'ultimo stelo d'erba, portulaca e tarassaco, Eragon seguì Tenga attraverso una porticina incassata ai piedi della torre, oltre la quale si apriva una cucina spaziosa. Al centro della stanza, una scala a chiocciola conduceva al piano di sopra. Libri, pergamene e fasci di cartapecora non rilegata coprivano ogni superficie libera, compresa buona parte del pavimento. Tenga puntò un dito verso la piccola catasta di rami nel caminetto. Con uno scoppio e un crepitio, il legno prese fuoco. Eragon s'irrigidì, pronto a lottare sia fisicamente che mentalmente con Tenga. L'altro parve non notare la sua reazione, ma continuò ad affaccendarsi in cucina, prendendo tazze, piatti, coltelli e avanzi di vario genere per il pranzo, senza mai smettere di borbottare fra sé. Con tutti i sensi vigili, Eragon sedette su uno sgabello in un angolo. Eragon si guardò intorno, cercando nella stanza qualche indizio che potesse rivelargli qualcosa sul suo anfitrione. Vide una pergamena aperta che mostrava colonne di parole nell'antica lingua e la riconobbe come un compendio dei veri nomi simile a quello che aveva studiato a Ellesméra. I maghi avevano a cuore quel genere di documenti e di libri, ed erano disposti a sacrificare qualsiasi cosa per ottenerli, perché su di essi si potevano imparare nuove formule per un incantesimo o anche annotare le parole che via via si scoprivano. D'altro canto, erano pochi quelli che riuscivano a mettere le mani su un compendio, perché erano oggetti estremamente rari e quelli che già ne possedevano uno non se ne separavano mai volentieri. Se già era strano che Tenga ne avesse uno, Eragon rimase di stucco nel vederne altri sei sparsi per la stanza, oltre a un certo numero di documenti su svariati temi, dalla storia alla matematica, dall'astronomia alla botanica. Un boccale di birra e un vassoio con pane, formaggio e una fetta di pasticcio di carne freddo comparvero davanti a Eragon, offerti con malagrazia da Tenga. «Grazie» disse Eragon, riconoscente. Tenga lo ignorò e si sedette a gambe incrociate accanto al caminetto. Continuò a borbottare e mugugnare dentro la barba mentre consumava il suo pasto. Dopo che ebbe ripulito il piatto e bevuto l'ultimo sorso di birra, Eragon non poté trattenersi dal chiedere a Tenga, che a sua volta stava per finire il pasto: «Sono stati gli elfi a costruire questa torre?» Tenga lo fissò con uno strano sguardo, come se la domanda gli facesse dubitare dell'intelligenza di Eragon. «Già. Sono stati gli infidi elfi a costruire Edur Ithindra.» «E tu cosa ci fai qui? Vivi da solo, oppure...» «Cerco la risposta!» esclamò Tenga. «La chiave per una porta chiusa, il segreto degli alberi e delle piante. Fuoco, calore, lampo, luce... Quasi tutti non conoscono la domanda e brancolano nell'ignoranza. Altri conoscono la domanda ma temono la risposta. Bah! Per migliaia di anni abbiamo vissuto come bestie selvagge. Selvagge! Io metterò fine a tutto questo. Io aprirò un'era di luce e tutti glorificheranno la mia impresa.» «Ti prego, dimmi, che cosa cerchi esattamente?» Tenga si accigliò. «Non conosci la domanda? Credevo di sì. Ma si vede che mi sbagliavo. Eppure ho idea che tu comprenda la mia ricerca. Tu cerchi una risposta differente, ma comunque stai cercando. Lo stesso fuoco brucia nel tuo cuore come nel mio. Chi altri se non un compagno pellegrino può apprezzare il sacrificio che siamo costretti a compiere per trovare la risposta?» «La risposta a cosa?» «Alla domanda che scegliamo.» «Lei... prima di andarsene. Faceva sempre delle cose.» Tenga si alzò di scatto e posò la punta dell'indice sulla prima statuina. «Ecco lo scoiattolo dalla coda fremente, veloce, scattante e ridente.» Il dito passò sulla seconda statuina. «Ecco il cinghiale selvatico, con le sue zanne aguzze... Ecco il corvo...» Tenga non si accorse di quando Eragon indietreggiò e sollevò il paletto della porta per sgusciare via da Edur Ithindra. Il giovane si rimise lo zaino in spalla e riattraversò il boschetto di querce, allontanandosi dalle cinque colline e dallo stregone folle che vi dimorava. Per il resto del giorno, e tutto quello dopo, il numero di persone incontrate lungo la strada continuò ad aumentare fino a diventare un flusso pressoché ininterrotto di gente che andava e veniva. Per la maggior parte erano profughi, ma c'erano anche soldati e mercanti. Eragon li evitava quando poteva, altrimenti camminava con il mento affondato nel petto. Fu così costretto a passare la notte nel villaggio di Agrod'est, venti miglia a nord di Melian. Aveva avuto intenzione di abbandonare la strada molto prima di arrivare al villaggio e trovare riparo in una valletta o in una grotta dove poter riposare fino al mattino, ma a causa della sua scarsa conoscenza di quel territorio calcolò male la distanza e arrivò dalle parti del piccolo centro in compagnia di tre soldati. Andarsene così, a meno di un'ora dalla sicurezza delle mura e dei cancelli di Agrod'est e dal conforto di un letto caldo, avrebbe indotto anche il più ottuso degli ottusi a chiedersi perché stesse cercando di evitare il villaggio. Così strinse i denti e in silenzio ripassò la storia che aveva inventato per giustificare il suo viaggio. Il sole gonfio fiammeggiava a due dita dall'orizzonte quando Eragon avvistò Agrod'est, un villaggio di medie dimensioni circondato da un'alta e robusta palizzata. Ed era quasi buio quando finalmente lo raggiunse e ne varcò il cancello. Alle sue spalle sentì una guardia chiedere agli uomini d'armi se avessero visto qualcuno dietro di loro sulla strada. «Non mi pare.» «Meglio così» replicò la sentinella. «Se c'è qualche ritardatario, dovrà aspettare domattina per entrare.» Poi si rivolse alla guardia sul lato opposto dell'ingresso e gridò: «Chiudi!» Insieme spinsero i due battenti del cancello, alto quindici piedi e rinforzato col ferro, e lo sbarrarono con quattro pali di quercia grossi quanto il torace di Eragon. Aveva mosso soltanto qualche passo sul viale fangoso che portava nella piazza del villaggio, quando un sorvegliante notturno gli si avvicinò e gli spinse una lanterna proprio sotto il viso. «Altolà! Non sei mai stato ad Agrod'est prima d'ora, vero?» «Questa è la mia prima visita» rispose Eragon. Il tarchiato sorvegliante aggrottò la fronte. «Hai una famiglia o degli amici che ti aspettano?» «No.» «E allora cosa ti porta qui ad Agrod'est?» «Niente. Sto viaggiando verso sud per andare a prendere la famiglia di mia sorella e riportarli tutti a Dras-Leona.» La storia parve non avere effetto sul sorvegliante. «Allora cerca la Casa del Viandante, vicino al pozzo centrale. Lì troverai vitto e alloggio. E mentre resti qui ad Agrod'est, ti avverto: non tolleriamo assassini, ladri o pervertiti da queste parti. Abbiamo catene e forche robuste che hanno già avuto molti ospiti. Sono stato chiaro?» «Chiarissimo, signore.» «E allora vai, e buona fortuna. Ma aspetta! Come ti chiami, straniero?» «Bergan.» A questa risposta, il sorvegliante si voltò e riprese la sua ronda notturna. Eragon aspettò che la lanterna dell'uomo svanisse dietro un gruppo di case per avvicinarsi al tabellone degli avvisi montato a sinistra dei cancelli. Lì, inchiodate su una mezza dozzina di manifesti che ritraevano vari criminali, c'erano due pergamene lunghe quasi tre piedi. Una raffigurava Eragon, l'altra Roran, ed entrambe li etichettavano come traditori della Corona. Eragon esaminò le pergamene con attenzione e si stupì per la ricompensa promessa: un'intera contea a chiunque li avesse catturati. Il ritratto di Roran era abbastanza fedele e mostrava persino la barba che si era lasciato crescere da quando era fuggito da Carvahall, ma quello di Eragon lo dipingeva com'era stato prima della Celebrazione del Giuramento di Sangue, quando il suo aspetto era ancora del tutto umano. Riprese a camminare per il villaggio finché non individuò la Casa del Viandante. La sala comune aveva un basso soffitto dalle travi annerite. Gialle candele di sego spandevano una morbida luce tremolante e riempivano l'aria di strati di fumo. Il pavimento era coperto di sabbia e giunchi che scricchiolarono sotto gli stivali di Eragon. Alla sua sinistra c'erano dei tavoli con delle sedie, e un grande camino dove un ragazzetto rigirava un maiale sullo spiedo. Dall'altro lato correva un lungo bancone, una fortezza dai bordi rialzati che proteggeva i barili di birra chiara, scura e quant'altro dalle orde di uomini assetati che cercavano di assalirla da tutte le parti. C'erano una sessantina di avventori nella sala, gremita fino ai limiti del tollerabile. Il frastuono delle conversazioni sarebbe stato comunque assordante per Eragon dopo tanto tempo passato da solo in viaggio, ma con il suo nuovo sensibilissimo udito gli parve di trovarsi nel bel mezzo di una fragorosa cascata. Non riusciva a concentrarsi sulle singole voci. Ogni volta che captava una parola o una frase, subito la smarriva in una marea ribollente di altre parole. In un angolo, un trio di menestrelli cantava e suonava una parodia di Con una smorfia, Eragon si fece strada a fatica tra la folla fino a raggiungere il bancone. Voleva parlare con la cameriera, ma lei era così indaffarata che passarono ben cinque minuti prima che si accorgesse di lui e gli chiedesse: «Cosa prendi?» Aveva ciocche di capelli incollate al viso madido di sudore. «Avete una stanza, o un angolo appartato dove poter passare la notte?» «Non saprei. Per queste cose devi parlare con la padrona. Adesso scende» disse la donna, indicando una scala immersa nella penombra. Mentre aspettava, Eragon si appoggiò con la schiena e i gomiti al bancone e prese a studiare la folla. Era un miscuglio di individui: una metà dovevano essere abitanti di Agrod'est venuti a godersi una serata in allegria, gli altri erano uomini e donne - spesso famiglie intere - che stavano migrando verso zone più tranquille del paese. Eragon li identificò facilmente dalle camicie logore e dai pantaloni sporchi e da come se ne stavano rannicchiati sulle sedie, guardando di sottecchi chiunque si avvicinasse. Stavano ben attenti, però, a non fissare direttamente l'ultimo e più piccolo gruppo di avventori del locale: i soldati di Galbatorix. Gli uomini dalle casacche rosse erano i più chiassosi di tutti. Ridevano e gridavano e battevano i pugni guantati di ferro sui tavoli, mentre tracannavano birra a fiumi e tentavano di abbrancare ogni cameriera tanto incosciente da passar loro accanto. I menestrelli intanto cantavano: La folla si scostò consentendo a Eragon di scorgere un tavolo addossato a una parete, dove sedeva una donna con il volto nascosto dal cappuccio di un mantello da viaggio nero. Era circondata da quattro uomini, contadini tarchiati con la nuca cotta dal sole e le guance arrossate dall'alcol. Due erano appoggiati alla parete, da un lato e dall'altro della donna, che dominavano con la loro invadente presenza, mentre il terzo se ne stava a cavalcioni su una sedia girata al contrario e il quarto in piedi, con un tallone appoggiato sul bordo del tavolo e il busto proteso in avanti. Gli uomini parlavano e gesticolavano senza freni. Anche se Eragon non poteva sentire quello che diceva la donna, era ovvio che le sue risposte dovevano aver fatto infuriare i contadini, perché i quattro si accigliarono e gonfiarono il petto come galletti arroganti. Uno di loro le puntò addosso un dito minaccioso. Eragon pensò che alla fine erano brave persone, lavoratori onesti che avevano smarrito le buone maniere in fondo al boccale, un errore che aveva spesso visto fare nei giorni di festa a Carvahall. Garrow non aveva rispetto per gli uomini che sapevano di non reggere l'alcol e che malgrado ciò insistevano a bere, esponendosi al ridicolo in pubblico. "È sconveniente" diceva. "Per giunta, se bevi per dimenticare i guai e non per gusto, dovresti farlo dove non disturbi gli altri." L'uomo a sinistra della donna tese una mano all'improvviso e le infilò un dito sotto il cappuccio, con l'intenzione di abbassarlo. Con uno scatto fulmineo che Eragon colse a stento, la donna alzò la mano destra e afferrò il polso dell'uomo, poi lo liberò subito e tornò nella posizione precedente. Eragon dubitava che chiunque altro nel locale, compreso l'uomo che la donna aveva toccato, si fosse accorto di quel gesto. Tuttavia il cappuccio le ricadde sulle spalle, ed Eragon trasalì, sbigottito. La donna era umana, ma somigliava in modo impressionante ad Arya. Le uniche differenze erano gli occhi - rotondi, non a mandorla come quelli di un gatto - e le orecchie, che non terminavano a punta come quelle degli elfi. La donna era bella quanto l'Arya che lui conosceva, solo in maniera meno esotica, più familiare. Senza esitare, Eragon espanse la mente verso la donna. Doveva sapere chi era. Non appena ebbe sfiorato la sua coscienza, fu respinto da un colpo mentale che gli annientò la concentrazione, mentre nei confini del cranio sentiva una voce assordante esclamare: I loro sguardi s'incrociarono per un istante, poi la folla tornò ad assieparsi davanti a lui bloccandogli la visuale. Eragon si lanciò dall'altra parte della sala, sgomitando tra i corpi ammassati per liberarsi la strada. I contadini lo squadrarono con diffidenza quando emerse dalla calca, e uno disse: «Sei proprio un gran bifolco a piombare qui fra di noi senza essere stato invitato. Meglio se sparisci, eh?» Nel tono più diplomatico che riuscì a trovare, Eragon disse: «Miei signori, mi pare di capire che la signora desideri essere lasciata in pace. Vorreste dunque ignorare il desiderio di una donna onesta?» «Una donna onesta?» rise l'uomo più vicino. «Nessuna donna onesta viaggia da sola.» «Lasciatemi dunque dissipare i vostri dubbi, perché io sono suo fratello e stiamo andando a vivere da nostro zio a Dras-Leona.» I quattro si scambiarono occhiate perplesse. Tre di loro cominciarono ad allontanarsi da Arya, ma il più massiccio si piantò a pochi centimetri dal suo viso e, alitandogli in faccia, disse: «Non sono sicuro di crederti, Parlando a bassa voce perché soltanto quell'uomo potesse sentirlo, disse: «Ti assicuro che lei «No, perché penso che tu sia un moccioso bugiardo.» «Suvvia, sii ragionevole. Non c'è bisogno di litigare, la notte è ancora giovane, godiamoci la musica e la birra. Non lasciamo che un piccolo equivoco ci rovini la serata.» Con suo grande sollievo, l'uomo si calmò ed emise un grugnito sprezzante. «Non mi metterei comunque a litigare con un ragazzetto come te» disse. Si voltò e raggiunse gli amici al bancone. Con gli occhi fissi sulla folla, Eragon scivolò a sedere dietro il tavolo, accanto ad Arya. «Che ci fai qui?» le chiese, muovendo appena le labbra. «Ti cercavo.» Sorpreso, la guardò, e lei inarcò un sopracciglio. Lui tornò a fissare la calca rumorosa e fingendo di sorridere le domandò: «Sei da sola?» «Non più... Hai preso un letto per la notte?» Lui scosse il capo. «Bene. Io ho già preso una stanza. Possiamo parlare lì.» Si alzarono insieme, ed Eragon seguì Arya verso le scale in fondo al locale. I gradini traballanti scricchiolarono sotto i loro piedi mentre salivano al primo piano. Una sola candela illuminava lo squallido corridoio tappezzato con pannelli di legno. Arya lo guidò fino all'ultima porta a destra, e dall'ampia manica del mantello trasse una chiave di ferro. Aprì la porta, entrò nella stanza, aspettò che Eragon la seguisse e poi richiuse di nuovo la porta a chiave. Un debole chiarore arancione filtrava dalla finestra piombata in fondo alla stanza. La luce proveniva da una lanterna appesa dall'altro lato della piazza centrale di Agrod'est. Eragon riuscì a scorgere la sagoma di una lampada a olio su un basso tavolino alla sua destra. «Brisingr» mormorò, e accese lo stoppino con uno schiocco delle dita. Malgrado la luce della lampada, la stanza era ancora immersa nella penombra. Era tappezzata di pannelli come il corridoio, e il legno color castagna assorbiva la gran parte della luce, dando l'impressione che l'ambiente piccolo e angusto fosse schiacciato da un peso verso l'interno. A parte il tavolino, l'unico altro mobile era un letto singolo con una coperta ripiegata sulla spalliera. Sul materasso c'era una piccola borsa di provviste. Eragon e Arya rimasero immobili qualche istante, l'uno di fronte all'altra. Poi Eragon cominciò a svolgere la striscia di tessuto che gli cingeva la testa, mentre Arya apriva la spilla che le fermava il mantello intorno alle spalle e lo posava sul letto. Portava un lungo abito color verde foresta, il primo vestito femminile che Eragon le avesse mai visto indossare. Era una strana esperienza per lui vedere i loro aspetti ribaltati, lui simile a un elfo, e Arya a un'umana. Il cambiamento non tolse nulla al rispetto che provava per lei, ma in qualche modo lo mise più a suo agio, perché Arya gli sembrava meno estranea. Fu lei a rompere il silenzio. «Saphira ha detto che sei rimasto indietro per uccidere l'ultimo Ra'zac ed esplorare l'Helgrind. È la verità?» «È parte della verità.» «E il resto quale sarebbe?» Eragon sapeva che non si sarebbe accontentata di niente di meno. «Promettimi che non rivelerai a nessuno quello che sto per dirti, a meno che non sia io a darti il permesso.» «Te lo prometto» disse lei nell'antica lingua. Eragon allora le raccontò di come aveva trovato Sloan, della ragione per cui aveva deciso di non portarlo dai Varden, della condanna che aveva inflitto al macellaio e della possibilità che gli aveva dato di redimersi - almeno in parte - e recuperare la vista. Eragon concluse dicendo: «Qualunque cosa accada, Roran e Katrina non dovranno mai sapere che Sloan è ancora vivo. O saranno guai.» Arya sedette sul bordo del letto e fissò la fiamma ondeggiante della lampada per un po'. Poi mormorò: «Avresti dovuto ucciderlo.» «Forse hai ragione; ma non ho potuto.» «Trovare sgradevole un compito non è una buona ragione per evitarlo. Sei stato un codardo.» Eragon s'irrigidì davanti a quell'accusa. «Dici? Chiunque armato di coltello avrebbe potuto uccidere Sloan. Quello che ho fatto io è stato molto più difficile.» «Fisicamente, ma non moralmente.» «Non l'ho ucciso perché pensavo che fosse sbagliato.» Eragon aggrottò la fronte, concentrandosi per trovare le parole più adatte a spiegarsi. «Non avevo paura... non era quello. Non dopo aver combattuto in battaglia... È stato qualcos'altro. In guerra continuerò a uccidere, ma non voglio assumermi la responsabilità di decidere chi deve vivere e chi deve morire. Non ho l'esperienza né la saggezza... Ogni uomo ha un limite che non si sente di oltrepassare, Arya, e io ho scoperto il mio quando ho guardato Sloan. Dovessi anche prendere prigioniero Galbatorix in persona, non lo ucciderei. Lo porterei da Nasuada e da re Orrin, e se loro lo condannassero a morte, allora sarei ben lieto di tagliargli la testa, ma non prima. Chiamala debolezza, se vuoi, ma io sono fatto così, e non chiederò certo scusa per questo.» «Allora sarai un semplice strumento nelle mani di qualcun altro?» «Servirò il popolo come meglio posso. Non ho mai aspirato al comando. Alagaësia non ha bisogno di un altro tiranno.» Arya si massaggiò le tempie. «Perché dev'essere sempre tutto così complicato con te, Eragon? Ovunque tu vada, trovi sempre il modo di ficcarti nelle situazioni più difficili. È come se cercassi apposta d'infilarti in ogni rovo che trovi sul cammino.» «Tua madre ha detto più o meno la stessa cosa.» «Non mi sorprende... D'accordo, ormai è fatta. Nessuno di noi due cambierà opinione, e abbiamo problemi più urgenti di cui occuparci invece di stare a discutere di giustizia e moralità. In futuro, però, faresti meglio a ricordare chi sei e che cosa rappresenti per i popoli di Alagaësia.» «Non lo dimentico mai.» Eragon aspettò una risposta, ma Arya lasciò correre. Sedendosi sul bordo del tavolo, Eragon allora disse: «Non dovevi venire a cercarmi, sai. Sto bene.» «Sì che dovevo.» «Come hai fatto a trovarmi?» «Ho intuito quale direzione avresti preso dall'Helgrind. Per fortuna l'istinto mi ha portata a quaranta miglia da qui, una distanza che mi è bastata a individuarti ascoltando i sussurri della terra.» «Non capisco.» «Un Cavaliere non passa inosservato in questo mondo, Eragon. Coloro che hanno orecchie per ascoltare e occhi per vedere possono facilmente interpretare i segni. Gli uccelli cantano del tuo passaggio, le bestie della terra riconoscono il tuo odore, e gli alberi e l'erba ricordano il tuo contatto. Il legame fra Cavaliere e drago è così potente che le creature sensibili alle forze della natura possono percepirlo.» «Devi insegnarmi questo trucchetto una volta o l'altra.» «Nessun trucchetto, Eragon: è solo l'arte di prestare attenzione a ciò che già ti circonda.» «Ma perché sei venuta qui ad Agrod'est? Non sarebbe stato più prudente incontrarci fuori?» «Le circostanze mi hanno costretta a entrare nel villaggio, come immagino sia capitato anche a te. Non era questa la tua meta, giusto?» «No...» Eragon si sciolse le spalle per liberarle dalle fatiche del viaggio. Lottando contro il sonno, indicò l'abito che lei indossava. «Hai finalmente deciso di abbandonare camicia e pantaloni?» Un fievole sorriso increspò le labbra di Arya. «Soltanto per la durata di questo viaggio. Ho vissuto fra i Varden per più anni di quanti non tenga a ricordare, eppure ancora mi stupisco di come gli umani insistano nel considerare diversi gli uomini e le donne. Non sono mai riuscita ad adottare le vostre usanze, anche se non mi sono mai nemmeno comportata come una vera elfa. E poi chi c'era a dirmi questo si fa e questo non si fa? Mia madre? Lei era all'altro capo di Alagaësia.» Arya s'interruppe all'improvviso, come se avesse detto più di quanto volesse. Poi riprese. «Comunque ho avuto un malaugurato incontro con un paio di bovari poco dopo aver lasciato i Varden, così ho rubato questo vestito.» «Ti sta molto bene.» «Uno dei vantaggi di essere una maga è che non devi mai dipendere da una sarta.» Eragon scoppiò a ridere. Poi si fece serio e domandò: «E adesso?» «Adesso ci riposiamo. Domattina, prima dell'alba, sgattaioleremo via da Agrod'est e nessuno saprà che fine abbiamo fatto.» Quella notte, Eragon si distese sul pavimento davanti alla porta, mentre Arya riposava sul letto. La sistemazione non era dovuta a deferenza o cortesia da parte di Eragon - che avrebbe insistito comunque per cedere il letto ad Arya - quanto a prudenza. Se fosse entrato qualcuno nella stanza, avrebbe trovato quantomeno strano che una donna dormisse sul pavimento. Mentre le ore si susseguivano lente, Eragon fissava le travi del soffitto e seguiva le fessure nel legno, incapace di calmare i pensieri in subbuglio. Aveva provato ad acquietarsi in tutti i modi, ma la sua mente continuava a tornare verso Arya, la sorpresa di vederla, i suoi commenti a proposito di Sloan, e soprattutto i sentimenti che provava per lei. Quali fossero non lo sapeva bene nemmeno lui. Desiderava con tutto se stesso stare con Arya, ma lei l'aveva respinto, e questo aveva macchiato il suo affetto di dolore e di rabbia, oltre che di frustrazione, perché Eragon non voleva accettare che il suo corteggiamento fosse senza speranza, ma non sapeva come altrimenti comportarsi. Si sentiva il petto oppresso dallo struggimento mentre ascoltava il lieve respiro regolare di Arya. Lo tormentava il fatto di esserle accanto senza potersi avvicinare. Si torceva l'orlo della tunica fra le dita, col desiderio di poter fare qualcosa invece di rassegnarsi a un triste destino. Combatté contro quelle emozioni violente fino a notte fonda, quando la stanchezza prese il sopravvento, trascinandolo nell'accogliente abbraccio di un riposo vigile. Fluttuò in quello stato di dormiveglia per un paio d'ore, fino a quando lo splendore delle stelle non cominciò ad affievolirsi e fu il momento di partire da Agrod'est. Eragon e Arya aprirono la finestra e scavalcarono il davanzale, atterrando venti piedi più in basso, un dislivello di poco conto per le capacità di un elfo. Mentre saltava, Arya strinse a sé l'orlo della veste per non farla svolazzare. Toccarono terra a pochi centimetri l'uno dall'altra, e subito presero a correre fra le case, verso la palizzata. «Si chiederanno dove siamo andati» disse Eragon mentre correvano. «Forse sarebbe stato meglio aspettare e ripartire come viaggiatori normali.» «Era troppo rischioso aspettare. Ho già pagato la stanza. Per la proprietaria della locanda è questo che conta, non se due ospiti se ne vanno prima dell'alba.» I due si separarono per qualche secondo, il tempo di aggirare un carro abbandonato, poi Arya aggiunse: «La cosa più importante è non fermarsi. Se indugiamo, il re ci troverà di sicuro.» Quando arrivarono alla palizzata, Arya la perlustrò fino a trovare un palo sporgente. Lo afferrò e lo trasse a sé per saggiare la resistenza del legno. Il palo ondeggiò e sbatacchiò contro i due vicini, ma comunque resse. «Prima tu» disse Arya. «Prego, prima tu.» Con un sospiro d'impazienza, Arya agitò un lembo dell'abito. «Un vestito è un po' più indecente di un paio di pantaloni, Eragon.» Eragon si sentì avvampare le guance quando colse il senso della frase. Protese le mani, trovò un appiglio e cominciò a scalare la palizzata, issandosi con le ginocchia e con i piedi. Una volta in cima, si fermò e rimase in equilibrio sulla punta del palo. «Avanti» mormorò Arya. «Non finché non vieni anche tu.» «Non essere così...» «Sentinella!» disse Eragon, e indicò un punto poco lontano. Una lanterna oscillava nel buio fra due case vicine. Mentre la luce si avvicinava, la sagoma di un uomo emerse dal buio. Impugnava una spada sguainata. Silenziosa come un fantasma, Arya afferrò il palo e con la sola forza delle braccia cominciò a salire verso Eragon. Sembrava scivolare verso l'alto senza fatica, come per incanto. Quando fu abbastanza vicina, Eragon la prese per l'avambraccio e l'aiutò a issarsi sopra la palizzata, accanto a sé. Come due strani uccelli appollaiati, rimasero immobili e in silenzio mentre il sorvegliante passava sotto di loro. L'uomo faceva dondolare la lanterna di qua e di là, in cerca di intrusi. pregò Eragon. Un istante dopo, il sorvegliante notturno rinfoderò la spada e continuò la ronda, canticchiando sottovoce. Senza scambiarsi una parola, Eragon e Arya balzarono dall'altra parte della palizzata. L'armatura nello zaino di Eragon sferragliò quando lui atterrò sul terrapieno erboso rotolando su se stesso per attutire l'impatto. Balzato in piedi, si chinò e cominciò a correre nella landa grigia, con Arya al seguito. Si servirono di conche e letti asciutti di torrenti per evitare le fattorie che circondavano il villaggio. Cinque o sei volte, cani infuriati li rincorsero per protestare contro l'invasione del loro territorio. Eragon cercò di rabbonirli con la mente, ma scoprì che l'unico modo per impedire ai cani di continuare ad abbaiare era far credere loro che avevano zanne e unghie così spaventose da mettere in fuga chiunque. Soddisfatti del successo, i cani tornavano scodinzolando ai capanni, alle baracche e ai portici dov'erano di guardia. La loro tronfia baldanza divertì Eragon. A cinque miglia da Agrod'est, quando furono certi di essere davvero soli e di non essere stati seguiti, Eragon e Arya fecero una sosta accanto a un ceppo carbonizzato. Arya scavò una piccola fossa nel terreno. «Adurna rïsa» disse. Con un fievole gorgoglio, l'acqua affiorò dal suolo e si raccolse nella buca. Arya aspettò che la cavità fosse piena, poi disse «Letta» e il flusso s'interruppe. Evocò un incantesimo di divinazione, e il volto di Nasuada comparve sulla superficie dell'acqua immobile. Arya la salutò. «Mia signora» disse Eragon con un inchino. «Eragon» rispose Nasuada. Aveva l'aria stanca e le guance scavate, come se fosse molto malata. Una ciocca le sfuggì dalla crocchia, arricciandosi verso l'attaccatura dei capelli. Eragon scorse una pesante fasciatura sul braccio che Nasuada levò per appiattire il ricciolo ribelle. «Sei sano e salvo, grazie a Gokukara. Eravamo preoccupati.» «Mi dispiace di averti dato pensieri, ma avevo le mie ragioni.» «Me le spiegherai al tuo ritorno.» «Come desideri» disse lui. «Cosa ti sei fatta? Qualcuno ti ha aggredita? Perché nessuno del Du Vrangr Gata ha guarito le tue ferite?» «Sono stata io a ordinare di non farlo. Anch'io ti darò le mie spiegazioni quando arriverai.» Sebbene perplesso, Eragon annuì e trattenne le domande che gli bruciavano sulle labbra. Ad Arya, Nasuada disse: «Sono colpita. Lo hai trovato. Non ero sicura che ce l'avresti fatta.» «La fortuna mi ha assistito.» «Può darsi, ma sono indotta a credere che le tue doti siano state importanti quanto la generosità della fortuna. Fra quanto pensate di essere qui?» «Due, tre giorni, se non ci sono imprevisti.» «Bene. Allora vi aspetterò. Da adesso in poi voglio che mi cerchiate almeno una volta prima di mezzogiorno e una volta prima di notte. Se non avrò vostre notizie, riterrò che siate stati catturati e manderò Saphira con una squadra di soccorso.» «Potremmo non avere sempre la libertà di usare la magia.» «Trovate il modo. Ho bisogno di sapere dove siete e se siete al sicuro.» Arya ci rifletté qualche istante, poi disse: «Se posso, farò come chiedi, ma non se questo dovesse comportare un pericolo per Eragon.» «Concesso.» Approfittando della pausa nella conversazione, Eragon disse: «Nasuada, Saphira è vicina a te? Vorrei parlarle... Non ci sentiamo da quando ci siamo separati sull'Helgrind.» «È andata un'ora fa in perlustrazione. Riuscite a non far spezzare questo incantesimo finché non scopro se è tornata?» «Vai pure» rispose Arya. Bastò un passo per far uscire Nasuada dal loro campo visivo, lasciando dietro di sé l'immagine fissa del tavolo e delle sedie del suo padiglione rosso. Per un po' Eragon studiò l'arredamento della tenda, ma poi l'irrequietezza lo portò a distogliere lo sguardo dall'acqua per lasciarlo indugiare sulla nuca di Arya. I lunghi capelli neri le ricadevano oltre una spalla, lasciando scoperta un'ampia porzione della pelle appena sopra la scollatura dell'abito. Eragon rimase a fissarla per quasi un minuto, poi si riscosse e si appoggiò con la schiena al ceppo bruciato. Dopo un po' ecco un rumore di legno spezzato, e poi uno sfavillio di squame azzurre riempì la pozza d'acqua mentre Saphira si contorceva per entrare nel padiglione. Era difficile stabilire di quale parte di drago si trattasse. Le squame si spostarono; Eragon scorse la parte bassa di una coscia, una delle punte acuminate della coda, la membrana floscia di un'ala ripiegata, e infine lo scintillio di una zanna, mentre la dragonessa si rigirava per trovare una posizione comoda e riuscire a guardare lo specchio che Nasuada usava per le sue arcane comunicazioni. Dai rumori sospetti provenienti dietro la dragonessa, Eragon intuì che stava facendo a pezzi gran parte della mobilia. Alla fine Saphira trovò pace, avvicinò la testa allo specchio - uno dei suoi enormi occhi color zaffiro bastava a riempire l'intera pozza - e scrutò Eragon. Si fissarono a vicenda per un lungo minuto, senza muoversi. Eragon rimase sorpreso dal sollievo che provò nel vederla. Non si era mai sentito davvero al sicuro da quando si erano separati. «Mi sei mancata» mormorò. Lei batté la palpebra una volta. «Nasuada, sei ancora lì?» La risposta smorzata provenne da un punto alla destra di Saphira. «Sì, più o meno.» «Saresti così gentile da riferirmi i commenti di Saphira?» «Sarei più che lieta di farlo, ma al momento sono incastrata fra un'ala e un palo di sostegno, e non ho modo di liberarmi, a quanto pare. Potresti avere difficoltà a sentirmi. Ma se hai un po' di pazienza ci provo.» «Sì, te ne prego.» Nasuada rimase in silenzio per qualche battito di cuore, poi, in un tono tanto simile a quello di Saphira da farlo quasi scoppiare a ridere, disse: «Stai bene?» «Sono sano come un bue. E tu?» «Paragonare me stessa a un bovino sarebbe ridicolo e offensivo, ma sto bene, se è questo che mi chiedi. Sono contenta che ci sia Arya con te. È un bene che tu abbia qualcuno con un po' di discernimento a guardarti le spalle.» «Concordo. L'aiuto è sempre bene accetto quando sei in pericolo.» Pur contento di poter parlare con Saphira, anche se in quel modo bizzarro, Eragon trovava che le parole affidate alla voce fossero un ben misero sostituto del libero scambio di pensieri ed emozioni che condividevano quando erano insieme. Per giunta, in presenza di Arya e Nasuada, Eragon era riluttante ad affrontare temi di natura più personale, come chiederle se lo aveva perdonato per averla costretta a lasciarlo nell'Helgrind. Saphira doveva condividere la sua riluttanza, perché anche lei evitò l'argomento. Chiacchierarono di altre cose meno importanti e infine si salutarono. Prima di allontanarsi dalla pozza, Eragon si sfiorò le labbra con le dita e in silenzio mormorò: Fra le piccole squame che orlavano l'occhio di Saphira si aprirono tanti spazi che lasciavano intravvedere la carne sottostante. La dragonessa batté la palpebra con un movimento rallentato, ed Eragon capì che aveva compreso il suo messaggio e non gli serbava rancore. Dopo che Eragon e Arya si furono congedati da Nasuada, Arya sciolse l'incantesimo e si alzò. Col dorso della mano si spazzolò il terriccio dal vestito. Nel frattempo Eragon smaniava, impaziente come non mai: in quel momento non desiderava altro che correre dritto da Saphira e accoccolarsi con lei davanti a un falò. «Andiamo» disse, e già correva. ♦ ♦ ♦ UNA QUESTIONE DELICATA I muscoli della schiena di Roran si gonfiarono l'uno dopo l'altro come onde mentre sollevava il macigno da terra. Posò la grossa pietra sulle cosce per un istante, poi, grugnendo per lo sforzo, la issò sopra la testa, a braccia tese. Mantenne la posizione per un intero minuto. Quando le spalle cominciarono a tremargli e a cedere, lasciò cadere il macigno, che atterrò con un tonfo sordo lasciando un'impronta profonda parecchi pollici. A fianco di Roran, venti guerrieri Varden cercarono di sollevare massi delle stesse dimensioni. Soltanto due ci riuscirono; gli altri decisero che era meglio allenarsi con le pietre più leggere cui erano abituati. Roran era contento che i mesi passati a lavorare nella fucina di Horst sommati agli anni trascorsi alla fattoria gli avessero dato una forza tale da competere con uomini che si esercitavano alle armi fin da quando avevano dodici anni. Scrollò le braccia che gli bruciavano e trasse qualche respiro profondo, sentendo l'aria fredda sul torace nudo. Si massaggiò la spalla destra, tastando il muscolo rotondo con le dita per avere un'altra conferma che non restava alcuna traccia della ferita che gli aveva inflitto il Ra'zac con un morso. Sogghignò, felice di essere di nuovo sano e tutto intero, un evento che prima non avrebbe ritenuto possibile più dell'esistenza di una mucca ballerina. Un lamento sofferente lo fece voltare a guardare Albriech e Baldor, che si stavano esercitando alla scherma con Lang, un veterano dalla pelle scura coperta di cicatrici che insegnava l'arte della guerra. Erano due contro uno, ma Lang aveva gioco facile con gli avversari e usando la spada di legno per gli allenamenti disarmò Baldor con un affondo alle costole e menò alla gamba di Albriech un colpo così potente che il giovane cadde gemendo, il tutto nell'arco di un paio di secondi. Roran li capiva: aveva appena concluso anche lui una seduta di allenamento con Lang, e il risultato era una serie di lividi freschi ad accompagnare quelli ormai sbiaditi che si era procurato sull'Helgrind. In genere preferiva il martello alla spada, ma pensava di dover comunque imparare a maneggiare una lama, per ogni evenienza. Usare la spada richiedeva molto più acume e agilità di quanto, secondo lui, fosse necessario in battaglia: una martellata sul polso di uno spadaccino e l'avversario, con o senza armatura, sarebbe stato troppo occupato a cullarsi le ossa rotte per difendersi. Dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Nasuada aveva invitato gli abitanti di Carvahall a unirsi ai Varden. Avevano tutti accettato la sua offerta. Quelli che l'avrebbero rifiutata non si trovavano lì, perché avevano già scelto di restare nel Surda quando si erano fermati a Dauth, lungo la strada per le Pianure Ardenti. Tutti gli uomini abili di Carvahall avevano preso vere armi - abbandonando le lance e gli scudi che si erano costruiti - e si erano dati da fare per diventare guerrieri degni di Alagaësia. La gente della Valle Palancar era abituata alla vita dura. Maneggiare una spada non era peggio che spaccare legna, ed era molto più facile che dissodare la terra o zappare acri di barbabietole nella canicola dell'estate. Quelli che conoscevano un mestiere continuarono a fare gli artigiani per i Varden, ma nel tempo libero imparavano a maneggiare le armi che erano state loro affidate, perché ogni uomo avrebbe dovuto combattere quando fossero risuonate le trombe di guerra. Roran si era dedicato agli allenamenti con zelo incrollabile fin da quando era tornato dall'Helgrind. Aiutare i Varden a sconfiggere l'Impero, e quindi Galbatorix, era l'unica cosa che poteva fare per proteggere i suoi compaesani e Katrina. Non era così arrogante da pensare di poter modificare da solo l'esito della guerra, ma aveva fiducia nella propria capacità di poter forgiare il mondo e sapeva che se si fosse impegnato avrebbe potuto accrescere le probabilità di vittoria dei Varden. Doveva restare vivo, però, e questo significava modellare il corpo e conoscere a fondo gli strumenti e le tecniche di combattimento per evitare di soccombere davanti a un guerriero più esperto. Mentre attraversava il campo di allenamento, di ritorno alla tenda che condivideva con Baldor, Roran passò davanti a una striscia di erba rasata lunga sessanta piedi, dov'era adagiato un tronco di venti piedi, scorticato e levigato dalle migliaia di mani che lo toccavano ogni giorno. Senza rallentare, Roran si voltò, infilò le mani sotto la parte più grossa del tronco e con un sonoro gemito di fatica lo sollevò fino a metterlo in verticale. Poi gli diede una spinta e lo fece capitombolare dall'altro lato. Afferrando la parte più sottile, ripeté l'operazione altre due volte. Senza più energia per capovolgere ancora il tronco, Roran abbandonò il campo e si avviò a passo spedito verso il labirinto di tende grigie, facendo un cenno a Loring e a Fisk e agli altri che conosceva, come pure a una mezza dozzina di estranei che lo salutarono con trasporto: «Ehilà, Fortemartello!» «Ehilà!» rispose. Afferrò l'otre d'acqua che teneva accanto alla branda, poi corse fuori alla luce del sole e, stappato l'otre, se ne versò il contenuto sulla schiena e sulle spalle. Il bagno era un evento raro e insolito per Roran, ma quel giorno era un giorno importante, e voleva essere fresco e pulito per ciò che lo aspettava. Con la punta di un bastoncino levigato si grattò via il sudiciume dalle braccia e dalle gambe e da sotto le unghie, poi si pettinò i capelli e si rifilò la barba. Quando ritenne di essere presentabile, indossò la tunica fresca di bucato e s'infilò il martello nella cintura; stava per riattraversare l'accampamento quando si accorse che Brigit lo fissava da dietro la tenda. La donna stringeva con tutte e due le mani un fodero col pugnale. Roran s'impietrì, pronto a brandire il martello alla minima provocazione. Sapeva di essere in mortale pericolo e malgrado il proprio ardimento, non era sicuro di poter battere Brigit se lei lo avesse aggredito perché, come lui, anche la donna inseguiva i propri nemici con feroce determinazione. «Una volta mi hai chiesto di aiutarti» disse Brigit «e io ho accettato perché volevo trovare i Ra'zac e ucciderli per aver divorato mio marito. Non ho forse tenuto fede al patto?» «Sì.» «E ricordi che ho promesso che una volta morti i Ra'zac avrei preteso da te il mio risarcimento per il ruolo che hai avuto nella morte di Quimby?» «Ricordo.» Brigit strinse il fodero ancora più forte, tanto che i tendini le affiorarono in rilievo sul dorso delle mani. Il pugnale uscì dal fodero di un pollice intero, mostrando il lucido acciaio, poi lentamente tornò al buio. «Bene» disse lei. «Non voglio che la memoria ti tradisca. Perché io avrò il mio risarcimento, Garrowsson. Stanne certo.» E con passo rapido e fermo si allontanò, il pugnale nascosto fra le pieghe dell'abito. Con un gran sospiro, Roran sedette su uno sgabello e si massaggiò la gola, convinto di essere sfuggito per un pelo alla lama di Brigit. La sua visita lo aveva allarmato ma non sorpreso: conosceva le sue intenzioni da parecchi mesi, fin da prima che fuggissero tutti da Carvahall, e sapeva che un giorno avrebbe dovuto saldare il suo debito con lei. Un corvo passò alto sopra di lui; seguendone il volo, Roran si sentì risollevare il morale e sorrise. «Bene» si disse. Accanto al piede sinistro scorse un ciottolo giallastro che raccolse e si rigirò fra le dita. Concentrandosi al massimo, disse: «Stenr rïsa.» La pietra ignorò il suo comando e rimase immobile fra il pollice e l'indice. Roran sbuffò e la scagliò lontano. Si alzò e si avviò di nuovo tra le file di tende. Mentre camminava, con un dito cercava di allentare un nodo che gli stringeva troppo il colletto, ma quello resisteva ai suoi sforzi, e alla fine si arrese quando arrivò alla tenda di Horst, grande il doppio delle altre. «Salve a tutti» disse, e batté sul palo fra i due lembi dell'ingresso. Katrina uscì di corsa dalla tenda, con i capelli ramati al vento, e si gettò fra le sue braccia. Ridendo, Roran la prese per la vita e la fece girare in tondo. Il resto del mondo divenne una macchia nebulosa intorno allo splendore del suo viso. La depose a terra con delicatezza, e Katrina lo baciò sulle labbra, una, due, tre volte. Paralizzato dalla gioia, Roran la guardò dritto negli occhi, sentendosi più felice di quanto non fosse mai stato. «Sai di buono» disse lei. «Come va?» L'unica ombra nella gioia di Roran era vedere quanto la prigionia avesse lasciato Katrina pallida e smunta. Avrebbe voluto resuscitare i Ra'zac per far patire loro le stesse sofferenze che avevano inflitto a lei e a Garrow. «Me lo chiedi ogni giorno, e ogni giorno ti rispondo: "Meglio." Abbi un po' di pazienza; mi riprenderò, ma ci vuole tempo... Il miglior rimedio per la mia condizione è stare con te sotto il sole. Mi fa più bene di quanto tu possa immaginare.» «Non era questo che intendevo.» Le guance di Katrina si colorarono di rosso, e lei gettò indietro la testa, le labbra arricciate in un sorrisetto malizioso. «Mio signore, sei audace. Un vero sfacciato, direi. Non sono sicura di voler restare da sola con te, per paura che tu ti prenda certe libertà.» La risposta scherzosa placò le preoccupazioni di Roran. «Libertà, dici? Be', dato che mi consideri già una canaglia, mia signora, forse potrei prendermi un paio di quelle libertà.» E la baciò a lungo, finché non fu lei a sottrarsi, pur restando avvinta a lui. «Oh» disse Katrina, senza fiato. «Sei un uomo difficile da respingere, Roran Fortemartello.» «Già.» Facendo un cenno col capo verso la tenda alle spalle di Katrina, Roran abbassò la voce e chiese: «Elain lo sa?» «L'avrebbe già capito se non fosse così presa dalla sua gravidanza. Credo che la tensione accumulata nel viaggio da Carvahall possa farle rischiare di perdere il bambino. Ha le nausee quasi tutto il giorno e dei dolori che... be', non sono normali. C'è Gertrude a prendersi cura di lei, ma non può fare molto per alleviare la sua pena. Prima Eragon ritorna, meglio sarà per tutti. Non so per quanto tempo ancora potrò mantenere il segreto.» «Ce la farai, ne sono certo.» Roran si sciolse dall'abbraccio e tirò l'orlo della tunica per lisciare le grinze. «Come sto?» Katrina lo studiò con occhio critico, poi si inumidì la punta delle dita e gliele passò fra i capelli, scoprendogli la fronte. Notando il nodo ingarbugliato del colletto, prese ad allentarlo, dicendo: «Dovresti fare più attenzione a come ti vesti.» «I vestiti non hanno mai cercato di uccidermi.» «Be', le cose stanno in modo diverso, adesso. Sei il cugino di un Cavaliere dei Draghi, e dovresti fare la tua parte. La gente se lo aspetta.» Roran le permise di lisciarlo e sistemarlo finché non fu soddisfatta del suo aspetto. Le diede un bacio di commiato, poi s'incamminò per mezzo miglio verso il centro dell'enorme accampamento dei Varden, dove si ergeva il padiglione rosso di Nasuada. Lo stendardo montato in cima, con lo scudo nero e due spade incrociate sotto, sventolava schioccando nel tiepido vento dell'est. Le sei guardie fuori dal padiglione - due umani, due nani e due Urgali - incrociarono le armi quando Roran si avvicinò, e uno degli Urgali, un colosso dall'aria ferina e dalle zanne gialle, lo bloccò dicendo: «Chi va là?» Il suo accento era quasi incomprensibile. «Roran Fortemartello, figlio di Garrow. Nasuada mi ha mandato a chiamare.» Battendosi il pugno sul pettorale, che emise un forte clangore metallico, l'Urgali annunciò: «Roran Fortemartello chiede udienza, Lady Furianera.» «Fallo entrare» rispose lei da dentro. I guerrieri alzarono le armi e Roran passò in mezzo, circospetto. Loro lo fissarono e lui ricambiò l'occhiata con l'aria di chi è pronto a combattere. Dentro il padiglione, Roran si allarmò nel vedere gran parte dei mobili rovesciati o distrutti. Gli unici che sembravano intatti erano uno specchio montato su un'asta e il grande scranno su cui era seduta Nasuada. Senza fare commenti, Roran posò un ginocchio a terra e chinò il capo. L'aspetto e il portamento di Nasuada erano così diversi da quelli delle donne con cui Roran era cresciuto che il giovane uomo non sapeva come comportarsi. Aveva un che di singolare e maestoso, con il lungo abito ricamato e le catenelle d'oro intrecciate nei capelli, e la pelle scura che in quel momento aveva una sfumatura rossastra dovuta al colore del tessuto delle pareti. In netto contrasto con il resto, aveva gli avambracci fasciati di candide bende, testimonianza dello straordinario coraggio che aveva dimostrato alla Prova dei Lunghi Coltelli. La sua impresa era stata l'argomento principale delle conversazioni dei Varden fin da quando Roran era tornato con Katrina. Era uno dei pochi aspetti di lei che Roran sentiva di capire, perché anche lui sarebbe stato disposto a qualunque sacrificio pur di proteggere coloro che amava. Era solo un caso che lei avesse a cuore migliaia di persone, mentre lui voleva proteggere la sua famiglia e il suo villaggio. «Prego, alzati» disse Nasuada. Lui fece come richiesto e posò la mano sulla testa del martello, mentre aspettava che lei lo osservasse. «La mia posizione mi consente di rado il lusso di parlare in modo diretto, Roran, ma oggi con te sarò franca. Mi sembri un uomo che apprezza la sincerità, e abbiamo tante cose di cui parlare e poco tempo a disposizione.» «Ti ringrazio, mia signora. Non mi sono mai piaciuti i giri di parole.» «Perfetto. E allora, per essere franca, ti dirò che mi hai messa di fronte a due problemi che non so come risolvere.» Roran si accigliò. «Che genere di problemi?» «Uno riguarda il carattere, l'altro è di natura politica. Le tue gesta nella Valle Palancar e poi durante la fuga con i tuoi compaesani sono a dir poco incredibili. Mi inducono a pensare che tu sia dotato di una mente brillante, e sia abile a combattere, a elaborare strategie, capace di indurre la gente a seguirti con indiscutibile lealtà.» «Mi hanno seguito, certo, ma non hanno mai smesso di discutere.» Un lieve sorriso le increspò le labbra. «Può darsi. Ma sono ancora tutti qui, non è vero? Roran, tu possiedi doti molto preziose per i Varden. Posso supporre che tu desideri metterle al nostro servizio?» «Certo.» «Come sai, Galbatorix ha diviso il suo esercito e ha inviato delle truppe a sud per dare man forte alla città di Arughia, a ovest verso Feinster, e a nord verso Belatona. Spera di prolungare la guerra nel tentativo di prosciugare le nostre forze attraverso piccole scaramucce. Io e Jörmundur non possiamo essere in una decina di posti diversi nello stesso momento. Abbiamo bisogno di capitani che possano occuparsi della miriade di scontri che scoppiano ovunque intorno a noi. È in questo frangente che potresti dimostrarci quanto vali. Ma...» La sua voce si spense. «Ma non sai ancora se puoi fidarti di me.» «Giusto. Proteggere gli amici e la famiglia è una cosa, ma come ti comporteresti senza di loro? Ti reggeranno i nervi? E pur sapendo comandare, saprai anche obbedire agli ordini? Non voglio sminuire il tuo valore, Roran, ma qui è in gioco il futuro di Alagaësia, e non posso rischiare di porre un incompetente a capo dei miei uomini. Questa guerra non perdona certi errori. Né sarebbe giusto, nei confronti degli uomini che sono fra i Varden da molto più tempo, darti il comando su di loro senza una giusta ragione. Devi meritare il tuo incarico.» «Capisco. Che cosa vuoi che faccia, allora?» «Ah, purtroppo non è così semplice, perché tu ed Eragon siete come fratelli, e questo complica le cose. Sono sicura che capisci benissimo che Eragon è la chiave di volta delle nostre speranze. È importante quindi proteggerlo da qualsiasi distrazione affinché si concentri sul compito che lo aspetta. Se ti mando in battaglia e tu muori, il dolore e la rabbia potrebbero sconvolgerlo. L'ho già visto succedere. Per giunta, devo stare molto attenta a chi ti pongo accanto, perché ci sono persone che cercheranno di influenzarti proprio per la tua parentela con Eragon. Perciò adesso hai un'idea abbastanza precisa della portata delle mie preoccupazioni. Hai qualcosa da dire in merito?» «Se il mondo stesso è in gioco e la guerra imperversa in ogni angolo del paese come tu sostieni, allora dico che non puoi permetterti di lasciarmi da parte. E usarmi come soldato semplice sarebbe uno spreco di risorse. Ma questo già lo sai. Quanto alla politica...» Roran si strinse nelle spalle. «Non m'importa un accidente di chi mi metti accanto. Nessuno potrà arrivare a Eragon usandomi. Il mio unico obiettivo è sconfiggere l'Impero affinché la mia gente e la mia famiglia possano tornare a casa e vivere in pace.» «Sei molto deciso.» «Già. Non potresti farmi restare a capo degli uomini di Carvahall? Ci consideriamo tutti una grande famiglia, e lavoriamo bene insieme. Mettimi alla prova in questo modo, così i Varden non ne subiranno le conseguenze, se dovessi fallire.» Nasuada scosse la testa. «No. In futuro, forse, ma non ancora. Hanno bisogno di un addestramento adeguato e non posso giudicare il tuo rendimento se sei circondato da uomini così fedeli da aver abbandonato le loro case e attraversato tutta Alagaësia su tua richiesta.» «Non puoi spiegare così facilmente il loro comportamento, Roran.» «Cosa vuoi da me, signora? Vuoi che ti serva oppure no? E se sì, come?» «Questa è la mia offerta. Stamattina i miei stregoni hanno individuato una pattuglia di ventitré soldati di Galbatorix diretta a est. Sto per mandare un contingente agli ordini di Martland Barbarossa, conte di Thun, per distruggerli e nel contempo esplorare il territorio. Se sei d'accordo, servirai sotto Martland. Lo ascolterai, gli obbedirai e, si spera, imparerai da lui. Lui, a sua volta, ti osserverà e mi farà rapporto giudicando se sei adatto o meno a una promozione. Martland è un guerriero molto esperto, e mi fido della sua opinione. Ti pare un'offerta ragionevole, Roran Fortemartello?» «Sì. Solo... quando dovrei partire, e per quanto tempo starò via?» «Dovresti partire oggi stesso e tornare nel giro di due settimane.» «Allora sono costretto a chiederti se puoi aspettare e mandarmi con un'altra spedizione fra qualche giorno. Mi piacerebbe essere qui quando Eragon ritorna.» «L'affetto che nutri per tuo cugino è ammirevole, ma gli eventi si susseguono in fretta e non possiamo permetterci indugi. Non appena saprò che fine ha fatto Eragon, chiederò a un membro del Du Vrangr Gata di cercarti per riferirti le notizie, buone o cattive che siano.» Roran strofinava il pollice sullo spigolo aguzzo del martello mentre cercava di trovare una risposta che convincesse Nasuada a cambiare idea e nel contempo non lo costringesse a rivelare il proprio segreto. Alla fine capì che era impossibile e si rassegnò a dirle la verità. «Hai ragione. Sono preoccupato per Eragon, ma lui più di chiunque altro sa badare a se stesso. Vederlo sano e salvo non è l'unico motivo per cui voglio restare.» «Perché allora?» «Perché Katrina e io vogliamo sposarci, e ci piacerebbe che fosse Eragon a celebrare la cerimonia.» Risuonò una rapida serie di ticchettii quando Nasuada cominciò a tamburellare con le unghie sui braccioli dello scranno. «Se credi che ti permetterò di ciondolare da queste parti mentre potresti essere di grande aiuto per i Varden solo perché tu e Katrina possiate godervi la vostra prima notte di nozze con qualche giorno di anticipo, allora ti sbagli di grosso.» «È una questione piuttosto urgente, Lady Furianera.» Le dita di Nasuada si fermarono a mezz'aria, e i suoi occhi si ridussero a due fessure. «Urgente quanto?» «Prima ci sposiamo, meglio sarà per l'onore di Katrina. Se un po' mi conosci, sai che non ti chiederei mai un favore per me stesso.» Nasuada inclinò la testa da un lato. «Capisco... Ma perché Eragon? Perché vuoi che sia lui a celebrare la cerimonia? Perché non qualcun altro, magari un membro anziano del tuo villaggio?» «Perché è mio cugino e gli voglio bene, e perché è un Cavaliere. Katrina ha perso tutto per colpa mia... la casa, suo padre e la sua dote. Non posso rimpiazzare queste cose, ma voglio almeno regalarle una cerimonia di nozze degna di essere ricordata. Senza oro o bestiame, non posso pagare per un matrimonio sfarzoso, perciò devo trovare altri mezzi per rendere memorabili le nostre nozze, e mi pare che non ci sia niente di più grandioso che avere un Cavaliere dei Draghi che ci sposa.» Nasuada rimase in silenzio così a lungo che Roran cominciò a chiedersi se era un segno di congedo. Poi: «Sarebbe certo un grande onore farsi celebrare il matrimonio da un Cavaliere dei Draghi, ma sarebbe una giornata triste per Katrina se dovesse accettare la tua mano senza una dote adeguata. I nani mi hanno ricoperta di oro e gioielli quando vivevo a Tronjheim. Alcuni li ho usati per finanziare i Varden, ma quello che mi resta basta ancora ad abbigliare una donna di raso e visone per molti anni a venire. Saranno di Katrina, se sei d'accordo.» Stupefatto, Roran s'inchinò di nuovo. «Ti ringrazio. La tua generosità è commovente. Non so come potrò mai ripagarti.» «Ripagami combattendo per i Varden come hai combattuto per Carvahall.» «Lo farò, te lo giuro. Galbatorix maledirà il giorno che ha mandato i Ra'zac a cercarmi.» «Sono sicura che lo sta già facendo. Ora vai. Potrai restare all'accampamento fino a quando Eragon non tornerà e celebrerà le tue nozze con Katrina. Ma mi aspetto di vederti già in sella il mattino dopo.» ♦ ♦ ♦ LUPO DI SANGUE Controllò le bende e, soddisfatta che fossero ancora fresche e pulite, suonò la campanella per ordinare a Farica di servirle il pranzo. Dopo che la cameriera le ebbe portato il vassoio col cibo e si fu ritirata nella propria tenda, Nasuada fece un cenno a Elva, che emerse dal suo nascondiglio dietro il pannello in fondo al padiglione. Insieme condivisero il pasto di mezzogiorno. Nasuada passò le due ore seguenti controllando gli ultimi rapporti sull'inventario dei Varden, calcolando il numero di convogli di carri necessari a spostare i Varden più a nord, sommando e sottraendo cifre che rappresentavano le finanze del suo esercito. Inviò messaggi ai nani e agli Urgali, ordinò ai fabbri di aumentare la produzione di punte di lancia, minacciò il Consiglio degli Anziani di scioglimento - come faceva quasi ogni settimana - e si occupò degli altri affari dei Varden. Poi, con Elva al fianco, balzò in sella al suo stallone Tempesta e andò a trovare Trianna, che aveva catturato un membro della rete di spionaggio di Galbatorix, la Mano Nera, e lo stava interrogando. Mentre lasciava la tenda di Trianna insieme a Elva, Nasuada sentì un trambusto provenire da nord. Acclamazioni e grida di esultanza; poi un uomo emerse dalla foresta di tende, correndo verso di lei. Senza dire una parola, le guardie le formarono intorno un muro compatto, tranne un Urgali che si piazzò sul percorso dell'uomo, con la clava alzata. L'uomo rallentò fino a fermarsi e, ansante, gridò: «Lady Nasuada! Gli elfi sono qui! Gli elfi sono arrivati!» Per un folle, improbabile momento, Nasuada pensò che intendesse la regina Islanzadi e il suo esercito, poi ricordò che Islanzadi era dalle parti di Ceunon: nemmeno gli elfi potevano spostare un intero esercito attraverso tutto il territorio di Alagaësia in meno di una settimana. «Presto, il mio cavallo» disse, facendo schioccare le dita. Le braccia le bruciarono quando montò Tempesta. Aspettò che l'Urgali più vicino sollevasse Elva per farla montare in sella con lei, poi diede di sprone al destriero. I muscoli dell'animale scattarono come molle quando lei lo spinse al galoppo. China sul collo dell'animale, Nasuada lo guidò lungo un viale sterrato tra due file di tende, schivando uomini e bestie, saltando sopra un barile che le sbarrava la strada. Gli uomini non parvero prendersela, anzi, risero, e la inseguirono per vedere anche loro gli elfi con i propri occhi. Quando arrivarono all'ingresso settentrionale dell'accampamento, Nasuada ed Elva scesero da cavallo e scrutarono l'orizzonte. «Eccoli» disse Elva, puntando il dito. A quasi due miglia di distanza, dodici figure alte e snelle emersero da un boschetto di ginepri, le sagome tremolanti nella calura del pomeriggio. Gli elfi correvano tutti insieme, così leggeri e veloci che i loro piedi non alzavano polvere, dando l'impressione che fluttuassero a mezz'aria. Nasuada si sentì formicolare la nuca; la loro velocità era affascinante, ma anche innaturale. Le ricordarono un branco di predatori che insegue una preda. Provò lo stesso senso di pericolo di quando aveva avvistato uno Shrrg, un lupo gigante, sui Monti Beor. «Spettacolo intrigante, eh?» Nasuada trasalì nel vedere Angela accanto a sé. La seccava e la turbava come l'erborista riuscisse sempre a comparire al suo fianco senza farsi notare. Elva avrebbe dovuto avvertirla del suo arrivo. «Come fai a essere sempre presente quando capita qualcosa di interessante?» «Oh, be', mi piace sapere cosa succede, e trovarmi sul posto è molto più rapido che aspettare che qualcuno mi racconti dopo cosa è accaduto. La gente tende a tralasciare dettagli importanti, tipo se una persona ha l'anulare più lungo dell'indice, o se ha uno scudo magico a proteggerla, o se il mulo che cavalca ha sulla fronte una macchia a forma di testa di gallo. Non sei d'accordo anche tu?» Nasuada aggrottò le sopracciglia. «Non riveli mai i tuoi segreti, non è vero?» «A che scopo? Tutti si ecciterebbero per un incantesimo da quattro soldi e poi dovrei passare ore e ore a spiegarlo, e alla fine re Orrin vorrebbe la mia testa e dovrei sconfiggere metà dei vostri stregoni per fuggire. Non ne vale la pena, credo.» «La tua risposta non ispira fiducia. Ma...» «Questo perché sei troppo seria, Lady Furianera.» «Ma dimmi» insistette Nasuada, «perché vorresti sapere se qualcuno cavalca un mulo con una macchia a forma di testa di gallo?» «Ah, quello. Be', l'uomo che possiede quel mulo ha barato a una partita di astragali, vincendomi tre bottoni e una scheggia piuttosto interessante di cristallo fatato.» «Ha imbrogliato Angela arricciò le labbra, con evidente fastidio. «Gli astragali erano truccati. Al momento opportuno li ho scambiati, ma lui deve averli scambiati di nuovo con i suoi mentre ero distratta... Non so ancora bene come ci sia riuscito.» «Perciò avete barato entrambi.» «Era un cristallo preziosissimo! E poi come si fa a imbrogliare un imbroglione?» Prima che Nasuada potesse rispondere, i sei Falchineri arrivarono trafelati dall'accampamento e presero posizione intorno a lei. Nasuada nascose il suo disgusto quando il calore e l'odore che emanavano la investirono. Il fetore dei due Urgali era particolarmente acre. Poi, con sua sorpresa, il capitano di quel turno di guardia, un uomo tarchiato dal naso adunco che si chiamava Garven, le si accostò. «Mia signora, posso scambiare due parole con te in privato?» Parlò a denti stretti, come se si stesse sforzando di contenere una violenta emozione. Angela ed Elva guardarono Nasuada, in attesa di un suo cenno che indicasse loro di allontanarsi. Lei annuì, e le due si avviarono verso il fiume Jiet. Quando fu certa che non erano più a portata d'orecchio, Nasuada cominciò a parlare, ma Garven la interruppe esclamando: «Dannazione, Lady Nasuada, non avresti dovuto lasciarci indietro!» «Calmati, capitano» rispose lei. «Non c'era alcun rischio e volevo arrivare qui in tempo per accogliere gli elfi.» La maglia di ferro risuonò forte quando Garven si colpì la coscia con un pugno. «Alcun rischio? Nemmeno un'ora fa hai avuto la prova che Galbatorix ha ancora agenti fra di noi. Continua a infiltrare spie, e tu ritieni opportuno abbandonare la tua scorta e cavalcare in un'orda di potenziali assassini come se niente fosse! Hai dimenticato l'agguato ad Aberon, o come i Gemelli hanno ucciso tuo padre?» «Capitano Garven! Stai andando troppo oltre.» «E andrei ancora più oltre, se servisse a proteggerti.» Gli elfi, osservò Nasuada, avevano dimezzato la distanza dall'accampamento. Infuriata e desiderosa di concludere la conversazione, disse: «Non sono priva di protezione.» Scoccando un'occhiata verso Elva, Garven disse: «Ne avevamo il sospetto, Lady Nasuada.» Seguì una pausa, come se il capitano sperasse in qualche altra informazione, ma quando Nasuada rimase in silenzio, Garven riprese: «Se eri davvero al sicuro, allora mi sono sbagliato ad accusarti d'imprudenza, e ti chiedo scusa. Tuttavia la sicurezza e la sua parvenza sono due cose differenti. Perché i Falchineri siano efficaci, dobbiamo essere i guerrieri più scaltri, più forti e più spietati di tutto il paese; la gente deve «Non possiamo combattere tutti i tuoi nemici, Lady Nasuada. Ci vorrebbe un esercito solo per questo. Nemmeno Eragon riuscirebbe a salvarti se tutti coloro che ti vogliono morta entrassero in azione spinti dall'odio. Potresti sopravvivere a cento attentati, a mille, ma alla fine uno riuscirebbe. L'unica prevenzione consiste nel convincere la maggior parte dei tuoi nemici che non riusciranno Garven si avvicinò, abbassando la voce. «Daremmo molto volentieri la vita per te, se fosse necessario. Tutto quello che ti chiediamo in cambio è di permetterci di fare il nostro dovere. È un piccolo favore, tutto sommato. E potrebbe venire il giorno in cui ci sarai grata per la nostra presenza. L'altra tua protezione è umana, e quindi fallace, quali che siano i suoi arcani poteri. Non ha prestato gli stessi giuramenti nell'antica lingua di noi Falchineri. Le sue simpatie potrebbero cambiare, e tu arriveresti a chiederti se il destino ti si è rivoltato contro. I Falchineri invece non ti tradiranno mai. Noi ti apparteniamo, Lady Nasuada, con tutto il corpo e con tutta l'anima. Perciò, ti prego, lascia che i Falchineri facciano quello che devono... Lasciati proteggere da noi.» In un primo momento Nasuada era rimasta indifferente alle argomentazioni di Garven, ma la sua eloquenza e la chiarezza dei suoi ragionamenti la impressionarono. Garven, si disse, era un uomo che avrebbe potuto sfruttare per qualche altro incarico. «Vedo che Jörmundur mi ha circondata di guerrieri dalla lingua affilata come le loro spade» disse con un sorriso. «Mia signora.» «Hai ragione. Non avrei dovuto lasciare indietro te e i tuoi uomini, e mi rincresce. È stato un gesto imprudente e sconsiderato. Non mi sono ancora abituata a essere circondata di guardie a ogni ora del giorno e della notte, e a volte dimentico che non posso muovermi con la libertà di un tempo. Hai la mia parola d'onore, capitano Garven, che non accadrà mai più. Non desidero screditare i Falchineri più di quanto non lo desideri tu.» «Ti ringrazio, mia signora.» Nasuada si volse a guardare gli elfi, ma erano celati dall'argine di un torrente asciutto a un quarto di miglio di distanza. «Sai, Garven, mi viene in mente che potresti aver inventato un motto per i Falchineri giusto un minuto fa.» «Un motto, mia signora? Non ricordo.» «Invece sì. "I più scaltri, i più forti e i più spietati" hai detto. Sarebbe un bel motto, magari senza la «Sei molto generosa, mia signora. Quando torneremo ai nostri quartieri, discuterò la questione con Jörmundur e gli altri capitani. Solo che...» Garven esitò e, indovinando che cosa lo turbava, Nasuada disse: «Solo che ti preoccupa che un motto del genere sia troppo banale per uomini nella vostra posizione, e preferiresti qualcosa di più nobile e altisonante, dico bene?» «Sì, mia signora» rispose lui, con un'espressione di evidente sollievo. «È una preoccupazione valida, immagino. I Falchineri rappresentano i Varden, e dovete intessere relazioni con i notabili di ogni razza e grado nell'esercizio delle vostre funzioni. Sarebbe inopportuno trasmettere l'impressione sbagliata... D'accordo, allora lascerò che siate tu e i tuoi camerati a inventare un motto adeguato. Sono sicura che farete un ottimo lavoro.» In quel momento, i dodici elfi risalirono il letto del torrente asciutto e Garven, dopo aver mormorato altri ringraziamenti, si spostò a rispettosa distanza da Nasuada. Assumendo un contegno adeguato a una visita di stato, Nasuada fece cenno ad Angela e a Elva di tornare. Ancora a parecchie iarde di distanza, l'elfo in testa al gruppo le parve nero come la pece dalla testa ai piedi. Lì per lì Nasuada pensò che avesse la pelle scura come la sua, e che fosse vestito di nero, ma via via che l'elfo si avvicinava la fanciulla si accorse che indossava soltanto un perizoma e una grossa cintura di tessuto intrecciato con una piccola borsa appesa. Il resto del corpo era coperto da una pelliccia blu notte che scintillava lustra sotto i raggi del sole. Ovunque la pelliccia era lunga meno di un quarto di pollice - una liscia, flessuosa armatura che rifletteva la forma e i movimenti dei muscoli - ma sulle caviglie e sotto gli avambracci raggiungeva almeno i due pollici; dal centro delle scapole gli partiva una folta criniera che sporgeva di almeno un palmo e si assottigliava lungo la schiena fino alla base della spina dorsale. La fronte era ombreggiata da una tettoia di sopracciglia cespugliose e ciuffi di peli simili a quelli dei gatti gli sporgevano dalla sommità delle orecchie a punta; su tutto il resto del viso il pelo era corto e piatto, e soltanto il colore ne tradiva la presenza. Gli occhi erano di un giallo brillante, e invece delle unghie, ciascun dito medio recava un artiglio ricurvo. Quando rallentò per fermarsi davanti a Nasuada, lei notò che emanava un odore particolare: un misto muscoso e salmastro di legno di ginepro essiccato, cuoio ingrassato e fumo. Era un odore così forte e così indiscutibilmente maschio che Nasuada sentì la pelle farsi calda, poi fredda, formicolante di eccitazione. Arrossì, e fu contenta che il colore del suo incarnato celasse l'imbarazzo che provava. Gli altri elfi erano più o meno come se li aspettava, con la medesima struttura fisica e il colorito di Arya, e indossavano corte tuniche arancio pallido e verde pino. Erano sei uomini e sei donne. Avevano tutti i capelli corvini, tranne due donne che li avevano chiari come raggi di stelle. Impossibile determinarne l'età, perché avevano tutti il viso liscio e senza una ruga. Erano i primi elfi, a parte Arya, che Nasuada incontrava di persona, ed era desiderosa di scoprire se Arya era rappresentativa della sua razza. Toccandosi le labbra con due dita, il capo degli elfi s'inchinò, imitato dai compagni, poi voltò la mano destra portandola al petto e disse: «Saluti e felicitazioni a te, Nasuada, figlia di Ajihad. Atra esterní onto thelduin.» Il suo accento era più spiccato di quello di Arya: una cadenza cantilenante che trasformava le sue parole in musica. «Atra du evarínya ono varda» rispose Nasuada, come le aveva insegnato Arya. L'elfo sorrise, mostrando denti più aguzzi del normale. «Io sono Blödhgarm, figlio di Ildrid il Bello.» A turno presentò gli altri elfi, poi continuò. «Ti portiamo buone nuove dalla regina Islanzadi: la scorsa notte i nostri stregoni sono riusciti a distruggere i cancelli di Ceunon. In questo stesso momento le nostre forze avanzano verso la torre dove si è barricato Lord Tarrant. Alcuni ancora resistono, ma la città è caduta, e ben presto avremo il controllo totale su Ceunon.» Le guardie di Nasuada e i Varden radunati alle sue spalle scoppiarono in un boato di esultanza. Anche lei si rallegrò della vittoria, ma uno strano senso d'inquietudine temperò la sua contentezza mentre si figurava gli elfi - soprattutto quelli forti come Blödhgarm - intenti a invadere le case umane. «La regina Islanzadi è gentile e misericordiosa con i propri sudditi, anche se sono sudditi riluttanti, ma se oseranno opporsi a noi, li spazzeremo via come foglie morte davanti a una tempesta d'autunno.» «Non mi aspettavo niente di meno da una razza antica e potente come la vostra» replicò Nasuada. Dopo aver soddisfatto le esigenze di etichetta con altri convenevoli di una sconcertante banalità, Nasuada pensò che fosse arrivato il momento di affrontare la vera ragione della visita degli elfi. Ordinò alla folla radunata di disperdersi, poi disse: «Scopo della vostra venuta qui, mi pare di capire, è proteggere Eragon e Saphira. Dico bene?» «Dici bene, Nasuada Svit-kona. E siamo al corrente del fatto che Eragon si trova ancora nell'Impero ma che tornerà presto.» «E sapete anche che Arya è partita per andare a cercarlo e che ora viaggiano insieme?» Le orecchie di Blödhgarm fremettero. «Sì, siamo stati informati anche di questo. È un vero peccato che si trovino entrambi in pericolo, ma sono convinto che non accadrà loro nulla di male.» «Che cosa intendete fare, dunque? Andrete a cercarli e li scorterete di nuovo qui dai Varden? Oppure resterete in attesa, confidando nel fatto che Eragon e Arya sono capaci di difendersi da soli dai sicari di Galbatorix?» «Resteremo qui come tuoi ospiti, Nasuada figlia di Ajihad. Eragon e Arya non correranno alcun pericolo finché non si faranno notare. Se li raggiungessimo nel cuore dell'Impero potremmo attirare attenzioni indesiderate. Date le circostanze, mi sembra preferibile impiegare il nostro tempo dove possiamo renderci utili. È molto probabile che Galbatorix attacchi qui, fra i Varden; in tal caso, e se Castigo e Murtagh dovessero ricomparire, Saphira avrà bisogno di tutto il nostro aiuto per combatterli.» Nasuada rimase di stucco. «Eragon ha detto che eravate i migliori maghi della vostra razza, ma possedete davvero le capacità di annientare quella coppia maledetta? Come Galbatorix, i due hanno poteri che superano di gran lunga quelli di un normale Cavaliere.» «Con Saphira al nostro fianco sì, siamo convinti di poter combattere e persino sconfiggere Castigo e Murtagh. Sappiamo di che cosa erano capaci i Rinnegati, e sebbene con ogni probabilità Galbatorix abbia reso Castigo e Murtagh più forti di qualsiasi Rinnegato, dubito che li abbia elevati al suo livello. Se non altro, la sua paura del tradimento gioca a nostro favore. Persino tre Rinnegati non potrebbero sconfiggere dodici di noi più un drago. Perciò siamo convinti di poter resistere a chiunque, tranne che a Galbatorix, s'intende.» «Le tue parole mi rincuorano. Da quando Eragon è stato battuto da Murtagh, mi sono spesso domandata se non fosse il caso di ritirarci e nasconderci finché il suo potere non aumenterà. Ma le tue rassicurazioni mi convincono che c'è ancora speranza. Possiamo non avere idea di come uccidere Galbatorix, ma finché non abbatteremo i cancelli della sua fortezza a Urû'baen, o finché lui non deciderà di volare con Shruikan per affrontarci sul campo di battaglia, niente ci fermerà.» Fece una pausa. «Non mi hai dato alcuna ragione per non fidarmi di voi, Blödhgarm, ma prima che entriate nell'accampamento devo chiederti di permettere a uno dei miei uomini di toccarvi la mente per scoprire se siete veri elfi e non umani mandati da Galbatorix sotto mentite spoglie. Mi addolora doverti fare questa richiesta, ma siamo perseguitati da spie e traditori, e non possiamo credere a nessuno sulla parola. Non è mia intenzione arrecarvi offesa, ma la guerra ci ha insegnato che questo genere di precauzioni sono necessarie. Sono sicura che voi elfi, che avete circondato l'intera distesa di foglie della Du Weldenvarden con incantesimi di protezione, potete comprendere le mie ragioni. Per cui ti chiedo: acconsenti?» Gli occhi e i denti di Blödhgarm scintillarono minacciosi mentre rispondeva: «Gli alberi della Du Weldenvarden in genere hanno aghi, non foglie. Mettici alla prova, se vuoi, ma ti avverto: a chiunque tu assegni il compito dovrai raccomandare di non indugiare troppo nella nostra mente, o potrebbe perdere il senno. È pericoloso per i mortali vagare nei nostri pensieri: possono smarrirsi facilmente e non essere più in grado di tornare nei loro corpi. E i nostri segreti non sono fatti per essere esplorati.» Nasuada capiva. Gli elfi avrebbero annientato chiunque si fosse avventurato nel loro territorio proibito. «Capitano Garven» chiamò. Facendo un passo avanti con l'espressione di un condannato, Garven si parò di fronte a Blödhgarm, chiuse gli occhi e si concentrò per frugare nella coscienza dell'elfo. Nasuada osservava nervosa la scena, mordicchiandosi il labbro. Quando era bambina, un uomo con una gamba sola di nome Hargrove le aveva insegnato a nascondere i suoi pensieri dai telepati e a bloccare e deviare gli affondi di un attacco mentale. In tutte e due le cose era abile, e sebbene non fosse mai riuscita a dare inizio al contatto con un'altra mente, conosceva i principi fondamentali del processo. Era quindi ben consapevole della difficoltà e della delicatezza di quanto Garven stava facendo, un compito reso ancora più arduo dalla strana natura degli elfi. Sporgendosi verso di lei, Angela bisbigliò: «Avresti dovuto far controllare gli elfi a me. Sarebbe stato più sicuro.» «Può darsi» disse Nasuada. Nonostante tutto l'aiuto che l'erborista aveva dato a lei e ai Varden, ancora non se la sentiva di affidarsi ad Angela per le questioni ufficiali. Per qualche altro istante Garven continuò nei suoi sforzi, poi spalancò gli occhi di colpo e liberò il fiato con uno sbuffo. Aveva il collo e la faccia chiazzati di rosso per la fatica, e le pupille dilatate, come se fosse notte. Al contrario, Blödhgarm era imperturbabile: la pelliccia era liscia, il respiro regolare, e un fievole sorriso beffardo gli increspava gli angoli della bocca. «Ebbene?» chiese Nasuada. Garven parve impiegare qualche secondo di troppo nel rispondere, poi disse: «Non è umano, mia signora. Su questo non nutro alcun dubbio. Alcun dubbio di sorta.» Soddisfatta ma turbata, perché c'era qualcosa di strano in quella risposta, Nasuada disse: «Molto bene. Procedi.» Da quel momento, Garven impiegò sempre meno tempo a esaminare ogni elfo e dedicò non più di una decina di secondi all'ultimo del gruppo. Nasuada lo tenne d'occhio per tutto il processo, e vide che le sue dita diventavano bianche ed esangui, e la pelle delle tempie gli si ritirava nel cranio come i timpani di una rana, e l'uomo acquistava il languido aspetto di una persona che nuota sott'acqua. Dopo aver portato a termine l'incarico, Garven tornò al suo posto accanto a Nasuada. Ma era, si disse lei, un uomo cambiato. La determinazione e la fierezza di spirito di poco prima avevano lasciato il posto all'aria trasognata di un sonnambulo. La guardò quando lei gli domandò se stava bene, e rispose con voce abbastanza normale, ma Nasuada ebbe l'impressione che il suo spirito fosse lontano, smarrito fra le radure erbose e inondate di sole della misteriosa foresta degli elfi. Sperava che si riprendesse in fretta. In caso contrario, avrebbe chiesto a Eragon o ad Angela, o magari a entrambi, di prendersi cura di lui. Fino a quando le sue condizioni non fossero migliorate, non avrebbe più dovuto servirla come membro attivo dei Falchineri; Jörmundur gli avrebbe dato qualcosa di semplice da fare, così lei non si sarebbe sentita in colpa per avergli causato ulteriori sofferenze, e lui avrebbe potuto almeno godersi il piacere delle visioni che il contatto con gli elfi gli aveva lasciato dentro. Amareggiata per la perdita, e infuriata con se stessa, con gli elfi, con Galbatorix e l'Impero per aver reso necessario un simile sacrificio, Nasuada faticò a mantenere a freno la lingua e a conservare le buone maniere. «Quando hai parlato di pericolo, Blödhgarm, avresti dovuto dire che anche coloro che riescono a tornare a sé non restano del tutto illesi.» «Mia signora, io sto bene» disse Garven. Ma la sua protesta fu così debole e inconsistente che servì solo a rafforzare il senso di oltraggio di Nasuada. Il pelo sul collo di Blödhgarm si rizzò. «Se non sono riuscito a spiegarmi con sufficiente chiarezza poco fa, allora domando scusa. Tuttavia non incolpare me per quello che è successo: non possiamo opporci alla nostra natura. E non incolpare nemmeno te stessa, perché viviamo in un'epoca di sospetti. Permetterci di passare senza controllarci sarebbe stata una negligenza imperdonabile da parte tua. È un peccato che un increscioso incidente debba segnare questo storico incontro fra di noi, ma almeno adesso puoi stare tranquilla, sicura di aver stabilito la nostra origine e quello che siamo: elfi della Du Weldenvarden.» Una nuova zaffata di muschio avvolse Nasuada che, sebbene fremente di collera, si sentì sciogliere le membra e assalire da immagini di suonatori d'arpa vestiti di seta, allegri calici di vino e nostalgici canti di nani che aveva spesso sentito echeggiare nelle vuote sale di Tronjheim. Distratta, mormorò: «Avrei voluto che ci fossero stati Eragon e Arya qui, così avrebbero potuto controllare loro le vostre menti senza correre il rischio di perdere il senno.» Ancora una volta si abbandonò alla sensuale attrazione dell'odore di Blödhgarm, immaginando come sarebbe stato far scorrere le dita nella sua criniera. Tornò in sé soltanto quando Elva le strattonò la manica sinistra, costringendola ad abbassarsi e ad avvicinare l'orecchio alla propria bocca. In tono aspro, Elva mormorò: «Marrubio. Concentrati sul sapore del marrubio.» Seguendo il suo consiglio, Nasuada evocò un ricordo dell'anno prima, quando aveva assaggiato un confetto di marrubio durante uno dei banchetti di re Rothgar. Le bastò pensare al saporaccio di quel confetto per contrastare le qualità seducenti dell'odore di Blödhgarm. Cercò di nascondere il momentaneo smarrimento dicendo: «La mia giovane amica si domanda come mai sei così diverso dagli altri. Devo confessare che anch'io sono curiosa. Il tuo aspetto è molto lontano da come siamo abituati a immaginare gli elfi. Vorresti essere così gentile da illustrarci le ragioni delle tue caratteristiche più Un'onda increspò la pelliccia lucente di Blödhgarm quando si strinse nelle spalle. «Mi piaceva questa forma» rispose. «Alcuni scrivono poesie sul sole e sulla luna, altri coltivano fiori o costruiscono grandiose strutture o compongono musica. Per quanto apprezzi le varie forme d'arte, credo che la vera bellezza risieda soltanto nelle zanne di un lupo, nella pelliccia di un gatto delle foreste, negli occhi di un'aquila. Così ho adottato questi attributi per me. Fra un altro centinaio d'anni, potrei perdere interesse per le creature della terra e decidere che invece sono le creature del mare a incarnare tutto ciò che c'è di buono, e allora mi ricoprirò di squame, trasformerò le mie mani in pinne e i piedi in coda, sparirò sotto la superficie delle onde e nessuno più mi rivedrà in Alagaësia.» Se stava scherzando, cosa di cui Nasuada era convinta, non lo dava a vedere. Anzi, era così serio che Nasuada si domandò se non la stesse prendendo in giro. «Molto interessante» commentò lei. «Ma spero che l'impulso di trasformarti in pesce non ti colga troppo presto, perché ci servi qui, sul terreno asciutto. S'intende che se Galbatorix decidesse di arruolare anche squali e scorpene, be', allora un mago capace di respirare sott'acqua ci sarebbe molto utile.» Senza alcun preavviso, i dodici elfi riempirono l'aria con le loro limpide risate argentine, e gli uccelli nel raggio di oltre un miglio si misero a cantare. Il suono della loro ilarità somigliava allo scorrere dell'acqua su un cristallo. Nasuada sorrise senza volerlo, e intorno a lei vide simili espressioni sui volti delle guardie. Perfino i due Urgali sembravano ebbri di gioia. E quando gli elfi tacquero e il mondo tornò alla sua normalità, Nasuada provò la stessa tristezza di quando svanisce un bel sogno. Un velo di lacrime le annebbiò la vista per qualche istante, e poi anche quello si dissolse. Sorridendo per la prima volta, e mostrando così un volto al tempo stesso bello e terribile, Blödhgarm disse: «Sarà un onore servire una donna intelligente, capace e arguta come te, Lady Nasuada. Uno di questi giorni, quando i tuoi impegni te lo permetteranno, mi piacerebbe insegnarti a giocare a Rune. Saresti un'avversaria formidabile, ne sono certo.» L'improvviso mutamento nel tono degli elfi le ricordò una parola che aveva sentito usare di tanto in tanto dai nani per descriverli: Dall'accampamento, Nasuada vide arrivare re Orrin a cavallo, alla testa di un affollato corteo di nobili, cortigiani, burocrati di vario livello, consiglieri, assistenti, servitori, soldati, e una pletora di altri funzionari che non si prese il disturbo d'identificare, mentre da ovest, in discesa libera con le ali spiegate, vide arrivare Saphira. Consapevole degli imminenti, noiosi scambi di formalità, disse: «Passeranno parecchi mesi prima che io abbia l'opportunità di accettare la tua offerta, Blödhgarm, ma l'apprezzo comunque. Mi piacerebbe distrarmi con una partita dopo una lunga giornata di lavoro, ma deve restare un piacere differito. La società umana sta per abbattersi su di voi con tutto il suo peso. Vi suggerisco di prepararvi a una valanga di nomi, domande e richieste. Noi umani siamo una razza curiosa, e nessuno ha mai visto tanti elfi tutti insieme prima d'ora.» «Siamo preparati a questo, Lady Nasuada» la rassicurò Blödhgarm. Mentre il corteo rumoreggiante di re Orrin si avvicinava e Saphira si accingeva ad atterrare, schiacciando l'erba con lo spostamento d'aria provocato dalle sue ali, l'ultimo pensiero di Nasuada fu: ♦ ♦ ♦ PIETÀ, CAVALIERE DEI DRAGHI Era il pomeriggio del giorno dopo la partenza da Agrod'est quando Eragon percepì una pattuglia di quindici soldati davanti a loro. Lo disse ad Arya, e lei annuì. «Li avevo sentiti anch'io.» Nessuno dei due espresse preoccupazione ad alta voce, ma Eragon si sentì torcere le viscere dall'ansia, e notò che Arya arricciava le sopracciglia in un feroce cipiglio. Il panorama intorno a loro era aperto e pianeggiante, senza un posto dove nascondersi. Avevano già incontrato gruppi di soldati prima, ma sempre quando erano in compagnia di altri viaggiatori. Ora invece erano soli su una strada a malapena visibile. «Potremmo scavare una buca con la magia, coprirla di frasche e nasconderci lì finché non passano» suggerì Eragon. Arya scosse la testa senza interrompere la corsa. «E cosa faremmo della terra smossa? Penserebbero di aver trovato la più grossa tana di tasso del mondo. E poi preferisco risparmiare energie per correre.» Eragon sbuffò. La pattuglia fu visibile solo come un pennacchio di polvere per circa una mezz'ora prima che Eragon riuscisse a distinguere le sagome degli uomini e dei cavalli alla base della nuvola giallastra. Dato che lui e Arya avevano una vista molto più acuta degli umani, era improbabile che i cavalieri li scorgessero da quella distanza, così continuarono a correre per un'altra decina di minuti. Poi si fermarono. Arya prese il vestito dallo zaino e lo indossò sopra i pantaloni che si era messa per correre, ed Eragon nascose l'anello di Brom nello zaino e si sporcò la mano destra di terra per celare il gedwëy ignasia. Ripresero a camminare a testa bassa e spalle curve, trascinando i piedi. Se tutto fosse andato per il verso giusto, i soldati avrebbero pensato che erano solo altri due profughi stanchi. Eragon riusciva già a sentire il rombo degli zoccoli in avvicinamento e le grida degli uomini che spronavano i cavalli, ma ci volle ancora quasi un'ora prima che i due gruppi s'incrociassero sulla vasta pianura. Eragon e Arya si spostarono dalla strada e abbassarono il capo. Sbirciando da sotto le sopracciglia, Eragon scorse le zampe dei cavalli in testa, poi la polvere sollevata oscurò il resto della pattuglia e costrinse Eragon a chiudere gli occhi. Con le orecchie tese, contò finché non fu sicuro che almeno metà della pattuglia si fosse allontanata. Il suo sollievo fu di breve durata. Un istante dopo, qualcuno nel vortice di polvere gridò: «Compagnia, alt!» Risuonò un coro di «Fermo!» sibilò Arya. Mentre aspettava che i soldati manifestassero le proprie intenzioni, Eragon si sforzò di calmare il cuore che gli batteva all'impazzata ripassando la storia che lui e Arya avevano inventato per giustificare la loro presenza in una zona così vicina al Surda. I suoi tentativi fallirono, perché malgrado la forza, l'addestramento, la consapevolezza di aver vinto tante battaglie e la mezza dozzina di incantesimi di difesa che lo proteggevano, la sua carne restava convinta che ferite o morte fossero imminenti. Sentiva le viscere in subbuglio, la gola contratta, le gambe molli e vacillanti. La voce che aveva ordinato alla pattuglia di fermarsi tornò a farsi sentire. «Mostratevi in volto.» Eragon alzò il capo e vide un uomo in groppa a un roano da battaglia, le mani guantate strette intorno al pomolo della sella. Sopra il labbro gli crescevano baffi enormi e riccioluti che, dopo aver contornato gli angoli della bocca, si allungavano in orizzontale su ciascun lato del volto per nove pollici buoni, in netto contrasto con i capelli lisci che gli ricadevano sulle spalle. Eragon si domandò come facessero quelle due spirali scolpite a restare sospese, soprattutto perché erano opache e ispide, chiaramente non impregnate di cera d'api. Gli altri soldati tenevano le lance puntate contro Eragon e Arya. Erano così impolverati che le fiamme ricamate sulle loro casacche non si vedevano nemmeno. «Allora» disse l'uomo, e i suoi baffi oscillarono come i bracci di una bilancia. «Chi siete? Dove state andando? Che cosa ci fate nelle terre del re?» Agitò una mano. «No, non vi disturbate a rispondere. Non importa. Oggigiorno niente ha più importanza. Il mondo sta per finire, e noi sprechiamo il nostro tempo a interrogare i contadini. Bah! Vermi superstiziosi che strisciano da un posto all'altro, divorando tutto il cibo della terra e riproducendosi a un ritmo impressionante. Nel podere della mia famiglia a Urû'baen avremmo frustato quelli come voi, sorpresi a vagabondare senza permesso, e se avessimo saputo che avevate rubato al vostro padrone, be', vi avremmo impiccati. Qualunque cosa stiate per dirmi sarà una bugia. È sempre così... «Cos'avete in quegli zaini? Cibo e coperte, sì, ma forse anche un bel paio di candelieri d'oro, eh? Argenteria sottratta da un forziere? Lettere segrete per i Varden? Allora? Il gatto vi ha mangiato la lingua? Be', lo scopriremo presto. Langward, perché non vedi quali tesori riesci a trovare nello zaino di quel moccioso, da bravo?» Eragon barcollò in avanti quando uno dei soldati lo colpì sulle reni con l'asta della lancia. Aveva avvolto le parti dell'armatura negli stracci per non farle sbatacchiare, ma gli stracci si rivelarono troppo sottili per assorbire l'impatto e attutire il clangore metallico. «O-ho!» esclamò l'uomo coi baffi. Afferrato Eragon per la nuca, il soldato slegò i cordoni dello zaino e ne tirò fuori il suo usbergo, dicendo: «Capitano, guarda qui!» L'uomo coi baffi sogghignò estasiato. «Un'armatura! E anche di ottima fattura, direi. Bene, sei pieno di sorprese. Stavi andando dai Varden, non è così? Un traditore sedizioso, eh?» La sua espressione s'inacidì. «O sei uno di quelli che danno ai soldati onesti una cattiva nomea? In questo caso, sei un mercenario incompetente: non hai nemmeno un'arma. Era troppo disturbo per te procurarti un bastone o una mazza, eh? Allora, cosa dici? Rispondi!» «No, capitano.» «No, capitano? Non ti è venuto in mente, immagino. È uno strazio, dover accettare certi miserabili idioti, ma così ci ha ridotto questa dannata guerra, ad accontentarci degli avanzi.» «Accettarmi dove, capitano?» «Zitto, bastardo insolente! Nessuno ti ha dato il permesso di parlare!» Con i baffi frementi, l'uomo fece un brusco cenno. Il soldato alle spalle di Eragon lo colpì sulla testa e una miriade di puntini rossi esplose davanti ai suoi occhi. «Che tu sia un ladro, un traditore, un mercenario o soltanto uno stupido, il tuo destino sarà lo stesso. Una volta che avrai pronunciato il giuramento di coscrizione, non avrai scelta se non obbedire a Galbatorix e a quelli che lo rappresentano. Noi siamo il primo esercito nella storia a non avere dissidenti. Nessuna inutile discussione su quello che si deve o non si deve fare. Soltanto ordini, precisi e diretti. Anche tu ti unirai alla nostra causa e avrai il privilegio di contribuire a realizzare il glorioso futuro che il nostro grande re ha previsto per tutti noi. Quanto alla tua deliziosa compagna, ci sono altri modi in cui potrà rendersi utile all'Impero, dico bene? Forza, legateli!» Eragon sapeva che cosa doveva fare. Quando le lanciò uno sguardo di sottecchi, scoprì che Arya lo stava già fissando con espressione decisa e implacabile. Eragon ammiccò. Lei ricambiò con un battito di ciglia. La mano di Eragon si strinse intorno al ciottolo. La maggior parte dei soldati contro cui Eragon aveva combattuto sulle Pianure Ardenti erano protetti da alcuni rudimentali incantesimi atti a difenderli dagli attacchi magici, ed Eragon sospettava che questi fossero equipaggiati allo stesso modo. Era sicuro di poter spezzare o aggirare qualsiasi incantesimo evocato dagli stregoni di Galbatorix, ma ci sarebbe voluto più tempo di quanto ne aveva a disposizione in quel momento. Allora ritrasse il braccio e con uno scatto del polso scagliò il sasso contro l'uomo coi baffi. Il sasso trapassò l'elmo e il cranio del capitano. Prima che i soldati avessero modo di reagire, Eragon piroettò su se stesso, strappò la lancia dalle mani del soldato che lo stava tormentando e la usò per disarcionarlo. Mentre l'uomo cadeva a terra, Eragon gli trafisse il cuore, spezzando la punta della lancia contro le placche metalliche della giubba imbottita del soldato. Lasciando l'asta dov'era, si tuffò in avanti, volando rasente il terreno mentre sette lance lo sfioravano e si conficcavano nel punto in cui si trovava un istante prima. Nel momento stesso in cui Eragon aveva scagliato il ciottolo, Arya si era avventata sul fianco del cavallo più vicino a lei, balzando dalla staffa alla sella e sferrando un calcio alla testa del cavaliere ignaro. L'uomo volò a oltre trenta piedi di distanza. Poi Arya prese a balzare da un cavallo all'altro, uccidendo i soldati con le ginocchia, i piedi e le mani, in un'incredibile dimostrazione di grazia ed equilibrio. Pietre appuntite affondarono nell'addome di Eragon quando rotolò fino a fermarsi. Con una smorfia, si trasse in piedi di scatto. Quattro soldati, smontati da cavallo, lo affrontarono con le spade sguainate. Caricarono. Scartando a destra, Eragon afferrò il polso del primo soldato che stava mulinando la spada e gli sferrò un pugno sotto l'ascella. L'uomo stramazzò a terra e rimase immobile. Eragon si liberò di altri due aggressori torcendo loro la testa finché le vertebre del collo non si spezzarono. Il quarto era troppo vicino, ormai, e gli correva incontro con la spada alzata. Eragon non poteva schivarlo. In trappola, fece l'unica cosa che gli era possibile: colpì l'uomo al petto con tutta la forza. Una fontana di sangue e sudore sprizzò dal punto d'impatto. Il pugno sfondò la cassa toracica dell'uomo, che volò all'indietro di una dozzina di piedi, crollando su un altro cadavere riverso nell'erba. Eragon ansimò e si piegò in due, massaggiandosi la mano dolorante. Si era lussato quattro nocche e la cartilagine bianca spuntava dalla pelle martoriata. I cavalli si erano sparpagliati. Restavano in vita soltanto tre uomini. Arya si stava occupando di due soldati insieme, mentre il terzo fuggiva a gambe levate verso sud. Facendo appello alle sue forze, Eragon si lanciò all'inseguimento. Mentre colmava la distanza, l'uomo cominciò a implorare pietà, promettendo che non avrebbe raccontato a nessuno del massacro e tendendo le mani con i palmi aperti per dimostrare che era disarmato. Quando Eragon gli fu quasi addosso, l'uomo sterzò di lato e dopo qualche passo cambiò di nuovo direzione, zigzagando per la campagna come un coniglio terrorizzato. Continuava a supplicarlo, con le lacrime che gli rigavano le guance, dicendo che era troppo giovane per morire, che doveva ancora sposarsi e diventare padre, che i suoi genitori sarebbero morti di dolore, che era stato costretto ad arruolarsi nell'esercito e quella era soltanto la sua quinta missione, e perché Eragon non poteva lasciarlo in pace? «Perché ce l'hai con me?» singhiozzò. «Ho soltanto fatto il mio dovere. Sono una brava persona!» Eragon esitò, poi si costrinse a dire: «Non puoi tenere il passo con noi. E non possiamo lasciarti libero; prenderesti un cavallo e ci tradiresti.» «No, mai!» «Ti chiederanno che cosa è successo qui. Il tuo giuramento a Galbatorix e all'Impero non ti consentirà di mentire. Mi dispiace, ma non so come liberarti dal tuo vincolo, se non...» «Perché fai questo? Sei un mostro!» gridò l'uomo. Con un'espressione di puro terrore, fece un tentativo di aggirare Eragon e tornare sulla strada. Eragon lo raggiunse in meno di dieci passi e, mentre l'uomo ancora piangeva e implorava misericordia, gli cinse il collo con il braccio sinistro e strinse forte. Quando allentò la presa, l'uomo crollò ai suoi piedi, morto. Eragon si sentì ricoprire la lingua di bile guardando la faccia cerea del soldato. «Come mai» gli chiese Arya «sei riuscito a uccidere quell'uomo, ma non hai potuto mettere un dito addosso a Sloan?» Si alzò e lo guardò dritto negli occhi. Svuotato di ogni emozione, Eragon si strinse nelle spalle. «Era una minaccia. Sloan no. Non è ovvio?» Arya rimase in silenzio per un po'. «Dovrebbe, ma per me non lo è... Mi vergogno di dover prendere lezioni di moralità da una persona con così scarsa esperienza. Forse sono stata troppo sicura, troppo convinta delle mie scelte.» Eragon la sentiva parlare, ma le sue parole non gli dicevano niente mentre il suo sguardo vagava sui corpi inerti. «Capisco quanto è difficile per te» disse Arya. «Ricorda, Eragon, tu hai sperimentato soltanto una piccola parte di ciò che significa essere un Cavaliere dei Draghi. Questa guerra finirà prima o poi, e tu capirai che i tuoi doveri vanno ben oltre la violenza. I Cavalieri non erano soltanto guerrieri, ma guaritori, maestri e studiosi.» Eragon serrò la mascella. «Perché combattiamo contro questi uomini, Arya?» «Perché si frappongono tra noi e Galbatorix.» «Allora dovremmo trovare un modo per colpire direttamente Galbatorix.» «Non esiste alcun modo. Non possiamo marciare fino a Urû'baen finché non avremo sbaragliato il suo esercito. E non possiamo entrare nel suo castello finché non avremo disarmato quasi un secolo di trappole, magiche e meccaniche.» «Dev'esserci un modo» borbottò Eragon. Rimase dov'era mentre Arya andava a prendere una lancia. Ma quando lei posò la punta della lancia sotto il mento di un soldato ucciso e spinse fino a fargliela entrare nel cranio, Eragon si avventò su di lei e l'allontanò con una spinta. «Che cosa fai?» gridò. Una collera feroce balenò sul volto di Arya. «Ti perdono solo perché sei sconvolto e non ragioni lucidamente. Rifletti, Eragon! È troppo tardi per negare l'evidenza. Perché è necessario?» La risposta gli arrivò come una frustata, e a malincuore Eragon rispose: «Perché se non lo facciamo, l'Impero noterà che la maggior parte degli uomini sono stati uccisi a mani nude.» «Giusto! E gli unici in grado di farlo sono gli elfi, i Cavalieri e i Kull. E dato che perfino un imbecille capirebbe che un Kull non è responsabile di questo massacro, ben presto si renderanno conto che ci troviamo nei dintorni e in meno di un giorno Castigo e Murtagh voleranno qui a cercarci.» Un risucchio liquido accompagnò il gesto di Arya che strappava la lancia dal cadavere. L'elfa la tenne tesa verso Eragon finché lui non la prese. «Anch'io lo trovo ripugnante, perciò aiutami e facciamo in fretta.» Eragon annuì. Arya recuperò una spada e insieme si misero al lavoro per dare l'impressione che fosse stata una squadra di ordinari guerrieri ad aver ucciso i soldati. Fu un lavoro sporco ma rapido, perché entrambi sapevano con precisione quale tipo di ferite i soldati avrebbero dovuto esibire per trarre in inganno, e nessuno dei due aveva voglia di indugiare. Quando arrivarono all'uomo col torace sfondato da Eragon, Arya disse: «Possiamo fare ben poco per mascherare una ferita come questa. Lasciamolo così e speriamo che pensino che sia stato travolto da un cavallo.» Si spostarono oltre. L'ultimo soldato era il capitano della pattuglia. I suoi baffi ciondolavano inerti e avevano perso parte del loro splendore. Dopo aver allargato il foro del ciottolo perché sembrasse la tacca triangolare lasciata dalla punta di un martello da guerra, Eragon riposò un istante, contemplando i baffi tristi del capitano, e disse: «Sai, aveva ragione.» «Su cosa?» «Sul fatto che mi serve un'arma, un'arma vera. Ho bisogno di una spada.» Asciugandosi le mani con l'orlo della tunica, scrutò la pianura intorno a loro, contando i corpi. «Allora, è fatta. Abbiamo finito.» Senza dire altro, si accinse a raccogliere i pezzi sparsi della sua armatura, li riavvolse negli stracci e li rimise in fondo allo zaino. Poi raggiunse Arya sul poggio dov'era salita. «Sarà meglio evitare le strade, d'ora in poi» disse lei. «Non possiamo rischiare un altro incontro con gli uomini di Galbatorix.» Indicando la mano destra di Eragon, che grondava sangue sulla tunica, disse: «Dovresti guarirla prima che ci rimettiamo in marcia.» E senza aspettare risposta, gli afferrò le dita paralizzate e disse: «Waíse heill.» A Eragon sfuggì un gemito involontario mentre le articolazioni delle dita ritornavano nella loro sede, e i tendini lacerati e la cartilagine massacrata riacquistavano il pieno vigore, e i lembi di pelle che gli pendevano dalle nocche tornavano a coprire la carne viva. Quando l'incantesimo fu concluso, il giovane aprì e chiuse la mano per confermare la completa guarigione. «Grazie» disse. Lo sorprese che Arya avesse preso l'iniziativa pur sapendo che lui era del tutto capace di guarirsi da solo. Lei parve imbarazzata. Distogliendo lo sguardo per contemplare la vastità della pianura, disse: «Sono felice di averti avuto al mio fianco oggi, Eragon.» «Lo stesso vale per me.» Arya gli rivolse un fugace, incerto sorriso. Indugiarono sul poggio per un altro minuto; nessuno dei due era ansioso di riprendere il viaggio. Poi lei sospirò e disse: «Dobbiamo andare. Le ombre si allungano. Prima o poi arriverà qualcuno, e quando scopriranno questo banchetto per i corvi ci daranno la caccia.» Scesero dal poggio e si avviarono verso sud-ovest, deviando dalla strada, e correndo a grandi balzi nell'ondulato mare d'erba. Alle loro spalle, il primo mangiacarogne calò dal cielo. OMBRE DEL PASSATO Quella notte Eragon sedeva davanti al piccolo falò, masticando una foglia di tarassaco. Avevano cenato con radici, semi ed erbe raccolte da Arya nella campagna intorno: crude e prive di condimento, non erano certo invitanti, ma Eragon aveva preferito non arricchire la sua razione con un coniglio o un uccello, pur abbondanti nei paraggi, perché non voleva che Arya lo guardasse con disgusto. Per giunta, dopo il feroce scontro con i soldati, il pensiero di stroncare un'altra vita, fosse pure di un animale, gli dava la nausea. Era tardi, e avrebbero dovuto rimettersi in marcia molto presto l'indomani, ma né lui né Arya davano segno di volersi coricare. Lei era seduta alla sua destra, un po' discosta, con le braccia strette intorno alle gambe raccolte e il mento sulle ginocchia. La gonna le si allargava intorno come la corolla di un fiore. Il mento affondato nel petto, Eragon si massaggiava la mano destra con la sinistra, nel tentativo di alleviare l'intenso dolore. Avvicinando la bocca alle mani, mormorò: «Thaefathan.» Il dorso delle mani cominciò a formicolargli e a prudergli come se le avesse infilate in un cespuglio di ortiche. La sensazione era così intensa e spiacevole che gli fece venir voglia di grattarsi furiosamente. Con un enorme sforzo di volontà, rimase immobile a osservare la pelle delle nocche che si gonfiava, formando un callo bianco spesso mezzo pollice su ciascuna. Somigliavano ai depositi cornei all'interno delle zampe dei cavalli. Quando fu soddisfatto della grandezza e della densità dei noduli, interruppe il flusso di magia e cominciò a esplorare con la vista e il tatto le nuove collinette che si ergevano sulle sue nocche. Le mani erano più pesanti e rigide di prima, ma riusciva ancora a flettere le dita senza problemi. Fremente di eccitazione, colpì la sommità di un masso rotondo che spuntava dal terreno fra le sue gambe. L'impatto gli riverberò nel braccio con un tonfo sordo, ma non gli causò più danni che se avesse colpito una tavola di legno coperta da diversi strati d'imbottitura. Eccitato, prese l'anello di Brom dallo zaino e s'infilò al dito la fredda fascia d'oro, controllando che il callo vicino fosse più alto dello zaffiro. Colpì di nuovo la pietra. L'unico suono fu quello delle pelle asciutta e compatta che urtava contro la dura roccia. «Che cosa stai facendo?» chiese Arya, alzando lo sguardo attraverso la cortina di lunghi capelli neri. «Niente.» Le mostrò le mani. «Ho pensato che sarebbe stata una buona idea, visto che probabilmente dovrò ancora colpire qualcuno.» Arya esaminò le sue nocche. «Ti sarà difficile portare i guanti.» «Posso sempre tagliarli sul dorso per farcele stare.» Lei annuì e tornò a fissare il fuoco. Eragon si appoggiò indietro sui gomiti e allungò le gambe, contento di essersi preparato per qualunque tipo di combattimento gli riservasse l'immediato futuro. Più in là non osava spingersi, per evitare di chiedersi come avrebbero fatto lui e Saphira a sconfiggere Murtagh o Galbatorix, e di farsi artigliare il cuore dal panico. Concentrò lo sguardo sul falò, cercando di dimenticare le sue angosce e le sue responsabilità in quell'inferno palpitante. Ma la danza delle fiamme lo cullò fino a farlo scivolare in una sorta di apatia, dove frammenti di pensieri, suoni, immagini ed emozioni si agitavano dentro di lui come fiocchi di neve turbinanti in un grigio cielo invernale. E nel vortice gli apparve il viso del soldato che gli aveva chiesto pietà. Eragon lo vide di nuovo piangere, e sentì di nuovo le sue disperate invocazioni, e ancora il rumore del collo che si spezzava come un ramo secco. Tormentato dai ricordi, strinse i denti e respirò forte dalle narici dilatate. Si sentì ricoprire da un velo di sudore freddo. Si agitò, a disagio, e si sforzò di scacciare il fantasma ostile del soldato, ma fu invano. In un punto remoto della pianura buia, un lupo ululò. Qui e là nelle tenebre, gli risposero una ventina di altri lupi, levando le loro voci in una melodia discorde. Eragon sentì formicolare il cuoio capelluto e le braccia nell'udire quel canto soprannaturale. Poi, per un breve istante, gli ululati si fusero in un'unica nota, simile al grido di battaglia di un Kull alla carica. Eragon si agitò di nuovo, inquieto. «Cosa c'è?» gli chiese Arya. «Sono i lupi? Non ci daranno fastidio, lo sai. Stanno insegnando ai cuccioli a cacciare, e non permetteranno ai piccoli di avvicinarsi a creature dall'odore strano come il nostro.» «Non sono i lupi là fuori» disse Eragon, abbracciandosi le gambe. «Sono i lupi qui dentro.» E si batté un dito sulla fronte. Arya annuì, un guizzo rapidissimo, da uccello, che tradì il fatto che non era una femmina umana, anche se ne aveva assunto le sembianze. «È sempre così. I mostri della mente sono ben peggiori di quelli che esistono nella realtà. Paura, dubbio e odio fanno più danni di quanti ne faccia qualsiasi bestia selvatica.» «E l'amore» puntualizzò Eragon. «E l'amore» ammise lei, «e l'avidità, la gelosia e ogni altra ossessione che tormenta le razze senzienti.» Eragon pensò a Tenga, solo nelle rovine dell'avamposto di Edur Ithindra, accovacciato davanti alla sua preziosa collezione di libri, alla ricerca ossessiva della risposta che gli sfuggiva. Non disse nulla ad Arya dell'eremita, perché in quel momento non voleva parlare di quel curioso incontro. Invece le domandò: «Non ti senti turbata quando uccidi?» I verdi occhi di Arya si ridussero a due fessure. «Né io né il resto della mia razza mangiamo carne di animali perché non sopportiamo di nuocere a un'altra creatura per soddisfare la nostra fame, e tu hai l'ardire di chiedermi se uccidere ci turba? Possibile che tu ci comprenda così poco da pensare che siamo assassini a sangue freddo?» «No, certo che no» protestò lui. «Non era questo che intendevo.» «E allora esprimiti meglio, e non offendere, se non è questa la tua intenzione.» Scegliendo le parole con estrema cura, Eragon disse: «Ho fatto più o meno la stessa domanda a Roran prima che attaccassimo l'Helgrind. Quello che voglio sapere è come ti senti quando uccidi. Come dovremmo sentirci?» Guardò il fuoco, accigliato. «I guerrieri che hai ucciso tornano mai a fissarti, veri come lo sono io davanti a te?» Arya strinse ancora di più le braccia intorno alle gambe, pensierosa. Una lingua di fuoco guizzò verso l'alto, carbonizzando una delle falene che volavano intorno al bivacco. «Ganga» mormorò, agitando un dito. Con uno sfarfallio di ali lanuginose, le altre falene si allontanarono. Senza alzare lo sguardo dai ceppi incandescenti, Arya rispose: «Nove mesi dopo essere stata nominata ambasciatrice, l'unica ambasciatrice di mia madre, in realtà, lasciai i Varden del Farthen Dûr per andare nella capitale del Surda, che era ancora un paese giovane a quei tempi. Poco dopo essere partiti dai Monti Beor, i miei compagni e io ci imbattemmo in una banda di Urgali erranti. Noi avremmo tranquillamente proseguito con le spade nei foderi, ma gli Urgali vollero sfidarci per conquistare onore e gloria fra le loro tribù. La nostra forza era superiore alla loro... fra di noi c'era Weldon, l'uomo che succedette a Brom come capo dei Varden... e fu facile sbarazzarsi di quegli Urgali. Fu la prima volta che presi una vita. Quel gesto mi ossessionò per settimane, finché non mi resi conto che sarei impazzita se avessi continuato a pensarci. Molti perdono la ragione, e sono così pieni di rabbia e dolore che non si può più fare affidamento su di loro, oppure i loro cuori si trasformano in pietra e perdono la capacità di distinguere il bene dal male.» «Come sei riuscita a superare quello che avevi fatto?» «Ho studiato le ragioni del mio gesto per determinare se erano giuste. Una volta stabilito che sì, lo erano, mi sono chiesta se la nostra causa era tanto importante da continuare a sostenerla, anche a costo di dover uccidere ancora. E infine ho deciso che ogni volta che mi fossero tornati in mente i morti avrei immaginato di trovarmi nei giardini del Palazzo di Tialdarí.» «E ha funzionato?» Arya si scostò i capelli dal viso e se li portò dietro un orecchio rotondo. «Sì. L'unico antidoto al corrosivo veleno della violenza è trovare la pace dentro di noi. È una medicina difficile da ottenere, ma ne vale la pena.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Anche la respirazione aiuta.» «La respirazione?» «Devi fare respiri lenti, regolari, come se stessi meditando. È uno dei metodi più efficaci per calmarsi.» Accogliendo il suggerimento, Eragon cominciò a inspirare ed espirare con piena consapevolezza, attento a mantenere un ritmo costante e a svuotare i polmoni a ogni respiro. Nel giro di un minuto, il nodo che gli attanagliava le viscere si allentò, le rughe della fronte si spianarono e la presenza dei nemici uccisi non gli parve più così concreta... I lupi ulularono ancora, ma dopo un primo fremito d'inquietudine, Eragon li ascoltò senza più timore, perché i loro versi avevano perduto il potere di turbarlo. «Grazie» disse. Arya rispose con un leggiadro movimento del capo. Regnò il silenzio per almeno un quarto d'ora, finché Eragon disse: «Urgali.» Lasciò la parola in sospeso per qualche istante, un monolito verbale di ambiguità. «Cosa pensi del fatto che Nasuada abbia permesso loro di unirsi ai Varden?» Arya raccolse un fuscello che le si era impigliato nell'orlo della veste e lo rigirò fra le dita affusolate, studiandolo come se contenesse un segreto. «È stata una decisione coraggiosa, e l'ammiro per questo. Nasuada agisce sempre nell'interesse dei Varden, costi quel che costi.» «Ha fatto infuriare parecchi Varden quando ha accettato l'offerta di aiuto di Nar Garzhvog.» «E si è riguadagnata la loro fiducia con la Prova dei Lunghi Coltelli. Nasuada è molto abile, quando si tratta di difendere la sua posizione.» Arya lanciò il fuscello nel fuoco. «Non provo simpatia per gli Urgali, ma neppure li odio. Al contrario dei Ra'zac, loro non sono d'animo malvagio, sono solo molto bellicosi. È una distinzione importante, anche se non offre alcuna consolazione alle famiglie delle loro vittime. Noi elfi abbiamo trattato con gli Urgali prima d'ora, e lo faremo di nuovo quando sarà necessario. Vana speranza, a ogni modo.» Arya non ebbe bisogno di spiegare perché. Molte delle pergamene che Oromis aveva dato da leggere a Eragon erano dedicate all'argomento Urgali, e una in particolare, «Come ci è riuscito?» chiese Eragon «Durza è riuscito a tendere l'agguato in cui siete caduti tu, Glenwing e Fäolin con gli Urgali? Non avevate incantesimi di protezione contro gli attacchi fisici?» «Le frecce erano stregate.» «Allora quegli Urgali erano stregoni?» Arya chiuse gli occhi e scosse la testa, sospirando. «No. Era una magia nera inventata da Durza. Se n'è vantato quando ero a Gil'ead.» «Non so come sei riuscita a resistere per tanto tempo. Ho visto come ti aveva ridotta.» «Non... non è stato facile. Consideravo le torture che mi infliggeva come una prova del mio impegno, come un'occasione per dimostrare che non avevo commesso uno sbaglio e che meritavo davvero il simbolo dello yawë. In questo modo, ho accolto con gioia quel cimento.» «Comunque sia, gli elfi non sono immuni al dolore. È sorprendente che tu sia riuscita a tenere segreta l'ubicazione di Ellesméra per tutti quei mesi.» Una sfumatura di orgoglio tinse la voce di Arya. «Non soltanto l'ubicazione di Ellesméra, ma anche dove avevo mandato l'uovo di Saphira, il mio vocabolario nell'antica lingua e tutto quanto poteva essere d'aiuto a Galbatorix.» La conversazione languì, e dopo un po' Eragon disse: «Pensi spesso a quello che hai sopportato a Gil'ead?» Quando lei non rispose, aggiunse: «Non ne parli mai. Racconti con freddezza gli eventi, ma non dici mai che cosa hai provato in quei mesi di prigionia o come ti senti adesso.» «Il dolore è dolore» disse lei. «Non c'è bisogno di descriverlo.» «Giusto, ma ignorarlo può provocare più danni della ferita che l'ha provocato... Nessuno può subire una cosa del genere e sopravvivere indenne. Non dentro di sé, almeno.» «Perché dai per scontato che non ne abbia già parlato con qualcuno?» «Chi?» «Ha importanza? Ajihad, mia madre, un amico a Ellesméra.» «Forse mi sbaglio» disse lui, «ma non mi sembri così intima di nessuno. Quando cammini, cammini da sola, anche fra quelli della tua stessa razza.» Arya rimase impassibile. La sua mancanza di espressione era così assoluta che Eragon si chiese se si sarebbe degnata di rispondergli, un dubbio che si era appena trasformato in convinzione quando lei mormorò: «Non è sempre stato così.» Vigile, Eragon aspettò senza muovere un muscolo, per paura di fare qualcosa che le cancellasse la voglia di aggiungere altro. «Un tempo avevo qualcuno con cui parlare, una persona che capiva chi ero e da dove venivo. Un tempo... Lui era più grande di me, ma eravamo spiriti affini, entrambi curiosi del mondo al di fuori della nostra foresta, desiderosi di esplorare e di combattere contro Galbatorix. Nessuno dei due voleva più restare nella Du Weldenvarden... a studiare, a fare magie, a inseguire i propri progetti personali... quando sapevamo che l'Assassino dei Draghi, il reietto dei Cavalieri, stava cercando un modo per distruggere la nostra razza. Lui arrivò a questa conclusione dopo di me... decenni dopo che avevo assunto la carica di ambasciatrice e un paio d'anni prima che Hefring rubasse l'uovo di Saphira... ma nel momento in cui capì, si offrì di accompagnarmi ovunque gli ordini di Islanzadi imponessero.» Batté le palpebre ed esitò per un istante. «Io non volevo, ma alla regina l'idea piacque, e lui era così convincente...» Arricciò le labbra e batté di nuovo le palpebre, gli occhi più brillanti del solito. Il più dolcemente possibile, Eragon chiese: «Era Fäolin?» «Sì» rispose lei, con un filo di voce. «Lo amavi?» Gettando la testa all'indietro, Arya contemplò le stelle, il lungo collo indorato dal bagliore del fuoco e il volto inargentato dal chiaro di luna. «Me lo chiedi per amicizia o per scopi personali?» All'improvviso scoppiò in una brusca, fredda risata, un suono simile allo scorrere dell'acqua sulla nuda roccia. «Scusa. L'aria fredda della notte deve avermi frastornata. Mi ha fatto dimenticare le buone maniere e indotto a dire parole troppo aspre.» «Non importa.» «Invece importa, perché mi dispiace, e non lo tollero. Amavo Fäolin? Come definire l'amore? Per più di vent'anni abbiamo viaggiato insieme, unici immortali a camminare fra le altre razze dalla vita breve. Eravamo compagni... e amici.» Eragon si sentì trafiggere da una stoccata di gelosia. La combatté e la dominò, ma quando provò a eliminarla non ci riuscì. La sensazione continuò a tormentarlo come una scheggia di legno sottopelle. «Per più di vent'anni» ripeté Arya. Continuando a rimirare le costellazioni, si dondolava avanti e indietro, come dimentica della presenza di Eragon. «E poi, in un solo istante, Durza me lo ha portato via. Fäolin e Glenwing sono stati i primi elfi a morire in combattimento dopo quasi un secolo. Quando ho visto Fäolin cadere, ho capito che il vero dolore della guerra non è morire, ma veder morire le persone che ti stanno a cuore. Era una lezione che avevo già imparato nel periodo trascorso coi Varden quando, uno dopo l'altro, gli uomini e le donne che avevo imparato a rispettare morivano di spada, di freccia, di veleno, di incidenti o di vecchiaia. Quei lutti però non erano mai stati così personali, e quando accadde pensai: "Ora morirò anch'io!" Perché qualunque Pericolo avessimo incontrato prima, Fäolin e io li avevamo superati insieme, e se lui non era riuscito a cavarsela, perché io avrei dovuto?» Eragon si accorse che l'elfa piangeva; grosse lacrime le scendevano dagli angoli degli occhi, lungo le tempie e nei capelli. Alla luce delle stelle, sembravano rivoli d'argento liquido. L'intensità del suo dolore lo turbò. Non aveva mai pensato che fosse possibile suscitare in lei una reazione simile, e non era questa la sua intenzione. «E poi Gil'ead» continuò lei. «Quei giorni sono stati i più lunghi della mia vita. Fäolin era morto, io non sapevo se l'uovo di Saphira era al sicuro o se per errore lo avevo rimandato da Galbatorix, e Durza... Durza saziava la sete di sangue degli spiriti che lo controllavano facendomi le cose più orribili. A volte, se esagerava, mi guariva per poter ricominciare il mattino dopo. Se mi avesse dato il tempo di riprendermi, forse avrei potuto ingannare il mio carceriere, come hai fatto tu, ed evitare di prendere la droga che m'impediva di usare la magia, ma non ho mai avuto più di un paio d'ore di tregua. «Come te e me, anche Durza non aveva bisogno di dormire, e ogni volta che ero cosciente e i suoi altri doveri glielo consentivano, era sempre al mio fianco. Quando mi torturava, ogni secondo sembrava un'ora, ogni ora una settimana, ogni giorno un'eternità. Stava attento a non farmi impazzire... Galbatorix non avrebbe apprezzato... ma ci è arrivato vicino. Molto, molto vicino. Cominciai a sentire canti di uccelli in un luogo dove gli uccelli non potevano entrare, a vedere cose che non esistevano. Una volta, quando ero nella mia cella, una luce dorata entrò nella stanza e io mi sentii riscaldare. Quando alzai lo sguardo, mi ritrovai distesa su un ramo alto di un albero vicino al centro di Ellesméra. Il sole stava per tramontare, e tutta la città risplendeva, come divorata da un incendio. Gli Äthalvard cantavano sul sentiero, e tutto era così calmo, pacifico e bello, che sarei rimasta lì per sempre. Ma poi la luce svanì, e io mi ritrovai di nuovo sul pagliericcio... Non ci avevo più pensato, ma una volta un soldato lasciò una rosa bianca nella mia cella. Fu l'unico gesto gentile che qualcuno mi abbia mai riservato a Gil'ead. Quella notte il fiore mise radici e crebbe fino a diventare un cespuglio enorme, che cominciò a risalire lungo il muro, s'insinuò fra i blocchi di pietra del soffitto spezzandoli e uscì dai sotterranei all'aria aperta. Continuò a salire fino a toccare la luna, dove rimase come una grande torre a spirale che prometteva libertà, se solo fossi riuscita a sollevarmi dal pavimento. Tentai con ogni briciolo di energia residua, ma andava oltre le mie forze, e quando distolsi lo sguardo, il cespuglio di rose era svanito... Questo era il mio stato mentale quando tu mi sognasti e io sentii la tua presenza aleggiare su di me. Non c'è da stupirsi se ignorai la sensazione come un'altra illusione.» Gli rivolse un fievole sorriso. «E poi siete arrivati. Tu e Saphira. Dopo che avevo abbandonato ogni speranza, quando stavo per essere portata a Urû'baen da Galbatorix, arrivò un Cavaliere a salvarmi. Un Cavaliere col suo drago!» «E il figlio di Morzan» disse lui. «Entrambi i figli di Morzan.» «Descrivilo come vuoi, ma è stato un salvataggio così improbabile che a volte penso di essere impazzita e di aver immaginato tutto quello che è successo da allora.» «E avresti immaginato anche tutti i problemi che ho causato restando all'Helgrind?» «No» disse lei. «Penso di no.» Si tamponò gli occhi con la manica per asciugarli. «Quando mi svegliai nel Farthen Dûr c'erano troppe cose che richiedevano il mio intervento per indugiare sul passato. Ma gli ultimi eventi sono stati così sanguinosi e oscuri che mi sono scoperta a ricordare sempre più spesso ciò che invece non dovrei. Mi mette di malumore, mi deprime, annulla la pazienza per i banali contrattempi della vita.» Cambiò posizione e si mise a gambe incrociate, le mani appoggiate sul terreno per sorreggersi. «Tu dici che io cammino da sola. Gli elfi non sono inclini alle aperte manifestazioni di amicizia come gli umani e i nani, e io sono sempre stata di natura piuttosto solitaria. Ma se mi avessi conosciuta prima di Gil'ead, se mi avessi conosciuta com'ero veramente, non mi avresti considerata così distaccata e altera. All'epoca cantavo e ballavo e non mi sentivo minacciata da un senso di fatalità incombente.» Eragon tese la mano destra e la posò sulla sinistra di lei. «Le storie sugli eroi dei tempi che furono non dicono mai che è questo il prezzo che si paga quando si affrontano i mostri delle tenebre e i mostri della mente. Continua a pensare ai giardini del Palazzo di Tialdarí, e sono sicuro che ti sentirai meglio.» Arya consentì quel contatto fra di loro per quasi un minuto, non un minuto di ardore o di passione per Eragon, ma di pacata amicizia. Lui non fece alcun tentativo di corteggiarla, perché teneva alla sua fiducia più di qualsiasi altra cosa al mondo, tranne il legame con Saphira, e si sarebbe gettato nelle fiamme piuttosto che correre il rischio di perderla. Poi, con un impercettibile movimento del braccio, Arya gli lasciò intendere che il momento era passato, e senza rimpianti Eragon ritrasse la mano. Desideroso di alleviare la pena di Arya come poteva, Eragon si guardò intorno e mormorò a voce così bassa da non essere sentito: «Loivissa.» Guidato dal potere del vero nome, frugò nel terreno ai suoi piedi finché le dita non si chiusero su quello che cercava: un disco fragile e sottile come carta, grande la metà dell'unghia del suo mignolo. Trattenendo il fiato, lo depositò sul proprio palmo destro, al centro del gedwëy ignasia, con tutta la delicatezza possibile. Ripassò quanto gli aveva insegnato Oromis a proposito dell'incantesimo che stava per evocare, per essere certo di non sbagliare, e poi cominciò a cantare alla maniera degli elfi, un canto tenue e fluente: Eldhrimner O Loivissa nuanen... Eragon continuò a ripetere gli stessi quattro versi rivolgendoli alla piccola scaglia marrone nel suo palmo, che tremò e poi si gonfiò fino a diventare sferica. Sottilissimi tentacoli bianchi lunghi un pollice o due germogliarono dal fondo del bulbo, solleticando Eragon, mentre dalla sommità spuntò un gracile stelo verde che, a un suo cenno, si allungò di quasi un piede. Una singola foglia, larga e piatta, crebbe su un lato dello stelo. Poi la punta dello stelo si ispessì, ricadde su se stessa e dopo un momento di apparente inattività si divise in cinque segmenti che si allargarono a ventaglio trasformandosi nei petali carnosi di un giglio. Il fiore era azzurro pallido, a forma di campana. Quando ebbe raggiunto la grandezza giusta, Eragon recise il flusso di magia e osservò la sua opera. Cantare le piante era una facoltà che la maggior parte degli elfi acquisiva in tenera età, ma Eragon si era allenato soltanto un paio di volte, e non sapeva se i suoi sforzi avrebbero avuto successo. L'incantesimo lo aveva stancato parecchio: il giglio aveva richiesto una quantità sorprendente di energia per raggiungere in pochi istanti l'equivalente di un anno e mezzo di crescita. Soddisfatto del proprio lavoro, Eragon porse il fiore ad Arya. «Non è una rosa bianca, ma...» Sorrise e si strinse nelle spalle. «Non dovevi» disse lei. «Ma sono felice che tu l'abbia fatto.» Accarezzò la corolla e l'avvicinò al viso per annusarla. La sua espressione si addolcì, mentre ammirava il giglio per lunghi minuti. Poi scavò una buca nel terreno, piantò il bulbo e premette di nuovo con la mano la terra intorno al fiore. Toccò ancora i petali e senza smettere di contemplare il giglio disse: «Grazie. Donare un fiore è un'usanza che appartiene a entrambe le nostre razze, ma per noi elfi rappresenta qualcosa di molto più importante che per voi umani. Rappresenta tutto ciò che c'è di buono: vita, bellezza, rinascita, amicizia e altro ancora. Te lo spiego perché tu capisca che cosa significa per me. Non lo sapevi, ma...» «Lo sapevo.» Arya lo guardò con espressione solenne, incerta su come interpretare le sue parole. «Perdonami. È la seconda volta che dimentico quanto hai già imparato. Non commetterò più lo stesso errore.» Arya ripeté il suo ringraziamento nell'antica lingua, e passando a sua volta alla lingua nativa dell'elfa Eragon rispose che era stato un piacere e che era lieto che lei avesse apprezzato il dono. Poi rabbrividì, affamato nonostante avesse appena mangiato. Arya se ne accorse. «Hai consumato troppa energia. Se ne hai ancora dentro Aren, usala per riprenderti.» Eragon impiegò qualche istante per ricordare che Aren era il nome dell'anello di Brom; lo aveva sentito pronunciare soltanto una volta prima d'allora, da Islanzadi, il giorno che era arrivato a Ellesméra. Quando sentì la pelle formicolare, Eragon recise il legame con la gemma. Felice della novità e dell'improvviso senso di benessere, scoppiò a ridere, poi raccontò ad Arya cosa aveva scoperto. «Brom deve averci infilato ogni briciolo di energia risparmiata nel suo soggiorno a Carvahall.» Rise di nuovo, stupefatto. «Tutti quegli anni... Con quello che c'è dentro Aren potrei distruggere un intero castello con un solo incantesimo.» «Sapeva che il nuovo Cavaliere ne avrebbe avuto bisogno quando l'uovo di Saphira si fosse dischiuso» osservò Arya. «E poi sono sicura che Aren fosse un mezzo per proteggersi se avesse dovuto combattere contro uno Spettro o qualche altro formidabile avversario. Non è un caso che sia riuscito a eludere i suoi nemici per buona parte di un secolo... Fossi in te, risparmierei l'energia che ti ha lasciato per un momento di estrema necessità, e ne aggiungerei ogni volta che ti è possibile. È una risorsa preziosissima. Non dovresti sprecarla.» Il fuoco crepitò e si levò una nuvola turbinante di scintille. Eragon fissava il falò con gli occhi semichiusi, riflettendo sulle rivelazioni di Arya. Poi gli tornò in mente una domanda che lo tormentava fin dalla battaglia delle Pianure Ardenti. «Arya, i draghi crescono più in fretta delle dragonesse?» «No. Perché me lo chiedi?» «Per via di Castigo. Ha soltanto pochi mesi, ma è già grande quasi quanto Saphira. Non capisco.» Arya raccolse uno stelo secco e cominciò a tracciare sul terreno i sinuosi glifi della scrittura elfica, la Liduen Kvaedhí. «È molto probabile che Galbatorix abbia accelerato la crescita di Castigo per consentirgli di combattere contro Saphira.» «Ah... Ma non è pericoloso? Oromis mi ha detto che se avesse usato la magia per darmi la forza, la velocità, la resistenza e tutte le altre capacità che mi servivano, non le avrei assimilate come se le avessi conquistate nella maniera consueta, col duro esercizio. E aveva ragione. Anche adesso, i cambiamenti che i draghi hanno provocato sul mio corpo durante l'Agaetí Blödhren a volte mi colgono di sorpresa.» Arya annuì e continuò a tracciare i glifi nella polvere. «È possibile ridurre gli effetti indesiderati di certi incantesimi, ma è un processo lungo e difficile. Se vuoi conquistare la vera padronanza del tuo corpo, è meglio seguire la strada tradizionale. La trasformazione che Galbatorix ha forzato su Castigo dev'essere incredibilmente inquietante per lui. Castigo adesso ha il corpo di un drago quasi adulto, ma la sua mente è ancora molto giovane.» Eragon si accarezzò i calli sulle nocche. «Sai anche perché Murtagh è così potente... molto più potente di me?» «Se lo sapessi, capirei anche come ha fatto Galbatorix ad aumentare la propria forza a livelli innaturali, ma ahimè, non lo so.» Arya appose un segno finale alla frase che aveva scritto sul terreno. Eragon si sporse e lesse: «Che cosa significa?» «Non lo so» rispose lei, e cancellò la frase con un gesto della mano. «Come mai» chiese Eragon, parlando lentamente per mettere ordine nei pensieri «nessuno si riferisce ai draghi dei Rinnegati chiamandoli per nome? Diciamo "il drago di Morzan" oppure "il drago di Kialandí", ma non pronunciamo mai i loro nomi. Eppure erano importanti quanto i loro Cavalieri! Non ricordo nemmeno di averli visti sulle pergamene che mi ha dato Oromis... eppure dovevano esserci... Sì, sono sicuro che c'erano, ma per qualche ragione non mi sono rimasti in mente. Non è strano?» Arya fece per rispondere, ma aveva soltanto aperto la bocca quando Eragon proseguì. «Per una volta sono contento che Saphira non sia qui. Mi vergogno di non essermene accorto prima. Perfino tu, Arya, e Oromis e tutti gli altri elfi che ho incontrato vi rifiutate di chiamarli per nome come se fossero animali ottusi, indegni di questo onore. Lo fate di proposito? È perché un tempo erano vostri nemici?» «Non l'hai imparato in nessuna delle tue lezioni?» chiese Arya, sinceramente sorpresa. «Mi pare» disse lui «che Glaedr abbia detto a Saphira qualcosa del genere, ma non ne sono sicuro. Ero impegnato nelle flessioni della Danza del Serpente e della Gru, perciò non stavo molto attento a quello che faceva Saphira.» Sorrise imbarazzato e si sentì in dovere di spiegare. «A volte avevo una gran confusione in testa. Oromis mi parlava mentre io ascoltavo i pensieri di Saphira e lei e Glaedr comunicavano con le loro menti. Quel che è peggio, Glaedr usa di rado un linguaggio riconoscibile quando comunica con Saphira; in genere ricorre a immagini, odori e sensazioni al posto delle parole. Per esempio, invece dei nomi manda impressioni delle persone e degli oggetti.» «Ricordi qualcosa di quello che disse, che fosse a parole oppure no?» Eragon esitò. «So solo che si trattava di un nome che non era un nome, o qualcosa del genere. Allora non ho capito granché.» «Quello di cui parlava» disse Arya «era la Du Namar Aurboda, la Revoca dei Nomi.» «La Revoca dei Nomi?» Arya ricominciò a scrivere nella polvere con lo stelo secco. «È uno degli eventi più importanti che ebbero luogo durante il conflitto tra Cavalieri e Rinnegati. Quando i draghi si resero conto che tredici di loro erano traditori... che quei tredici stavano aiutando Galbatorix a sterminare il resto della loro razza e che nessuno sarebbe riuscito a fermare il massacro... si infuriarono a tal punto che tutti i draghi non appartenenti ai Rinnegati unirono le loro forze e misero a segno una delle loro inspiegabili magie. Insieme, privarono i tredici dei loro nomi.» Eragon si sentì schiacciato da un senso di timorosa ammirazione. «Ma com'è possibile?» «Non ti ho appena detto che è inspiegabile? Tutto quello che sappiamo è che dopo che i draghi ebbero evocato l'incantesimo, nessuno riuscì più a pronunciare i nomi dei tredici: quelli che li ricordavano li dimenticarono presto, e sebbene si possano leggere sulle pergamene e sulle lettere dove vennero scritti, e persino copiarli, se guardi un glifo alla volta, sono incomprensibili. I draghi risparmiarono Jarnunvösk, il primo drago di Galbatorix, perché non fu colpa sua se fu ucciso dagli Urgali, e Shruikan, perché non ha scelto di servire Galbatorix, ma è stato costretto dallo stesso Galbatorix e da Morzan.» Arya annuì. «Veri nomi, nomi di nascita, soprannomi, cognomi, titoli. Tutto. Il risultato fu che i tredici diventarono poco più di semplici animali. Non potevano più dire "Mi piace questo" oppure "Non mi piace quest'altro" e nemmeno "Io ho le squame verdi", perché dirlo avrebbe implicato nominare se stessi. Non potevano nemmeno chiamarsi draghi. Parola dopo parola, l'incantesimo revocò tutto ciò che li definiva come creature pensanti, e i Rinnegati non poterono far altro che assistere impotenti al silenzioso declino dei propri draghi nella più assoluta ignoranza. L'esperienza fu così devastante che almeno cinque dei tredici draghi e parecchi Rinnegati impazzirono.» Arya fece una pausa per esaminare un glifo appena disegnato, poi lo cancellò e lo riscrisse. «La Revoca dei Nomi è il motivo principale per cui molti ora credono che i draghi non fossero altro che animali da cavalcare per spostarsi da un luogo all'altro.» «Non lo crederebbero, se avessero conosciuto Saphira» dichiarò Eragon. Arya sorrise. «Già.» Con un gesto elegante della mano, completò l'ultima frase. Eragon tese il collo e si spostò più vicino per decifrare i glifi che lei aveva scritto. «Che cosa ti ha spinto a scrivere questi glifi?» «Il pensiero che molte cose non sono come appaiono.» Nuvolette di polvere si alzarono dalle sue dita quando l'elfa spazzò il terreno con la mano per cancellare i glifi dalla faccia della terra. «Qualcuno ha mai tentato di scoprire il vero nome di Galbatorix?» chiese Eragon. «Potrebbe essere il modo più rapido per porre fine a questa guerra. Credo che sia l'unica speranza che abbiamo di sconfiggerlo in battaglia, se devo essere sincero.» «Perché, finora non sei stato sincero?» chiese Arya, con uno scintillio negli occhi. Eragon non poté fare a meno di sorridere a quella domanda. «Certo che sì. È soltanto una figura retorica.» «Alquanto mediocre» disse lei. «A meno che tu non abbia l'abitudine di mentire.» Eragon rimase sconcertato, poi riprese il filo del discorso e disse: «So che sarebbe difficile scoprire il vero nome di Galbatorix, ma se tutti gli elfi e tutti i membri dei Varden che conoscono l'antica lingua lo cercassero, sono sicuro che ci riusciremmo.» Come un pallido vessillo sbiancato dal sole, lo stelo d'erba secco pendeva tra il pollice e l'indice di Arya, tremando a ogni pulsazione delle sue vene. Afferrandone la punta con l'altra mano, Arya strappò in due lo stelo nel senso della lunghezza, poi fece lo stesso con le due metà, dividendolo in quattro. A quel punto cominciò a intrecciare le striscioline formando una sorta di bastoncino e disse: «Il vero nome di Galbatorix non è un segreto. Un Cavaliere e due maghi di razza elfica l'hanno scoperto per conto proprio, a molti anni di distanza l'uno dall'altro.» «Davvero?» esclamò Eragon. Imperturbabile, Arya colse un altro filo d'erba, lo ridusse a striscioline, le inserì nei buchi del suo bastoncino attorcigliato e ricominciò a intrecciare in un'altra direzione. «Possiamo solo chiederci se Galbatorix stesso conosca il proprio vero nome. Io credo che non lo conosca perché, qualunque esso sia, il suo vero nome dev'essere così terribile che non potrebbe continuare a vivere se lo sentisse.» «A meno che non sia tanto malvagio o pazzo che la verità non ha il potere di sconvolgerlo.» «Può darsi.» Le agili dita di Arya si muovevano così in fretta, strappando, intrecciando, tessendo, da essere pressoché invisibili. Raccolse altri due fili d'erba. «Galbatorix sa di avere un vero nome, come tutte le creature e le cose, e che questo rappresenta la sua potenziale debolezza. Così, qualche tempo prima di avventurarsi nella campagna contro i Cavalieri, lanciò un incantesimo che uccide chiunque usi il suo vero nome. E dato che non sappiamo come funziona questo incantesimo, non possiamo difenderci. Capisci dunque perché abbiamo abbandonato questo sentiero. Oromis è uno dei pochi coraggiosi a continuare la ricerca del nome di Galbatorix, anche se in modo indiretto.» Con espressione soddisfatta, Arya tese le mani coi palmi rivolti all'insù. Su di essi era adagiata una deliziosa nave d'erba verde e bianca. Non era lunga più di quattro pollici, ma era così dettagliata che Eragon poté scorgere i banchi dei rematori, le sartie lungo i parapetti e gli oblò grandi quanto semini di lampone. C'era un solo albero centrale, e la prua ricurva aveva le sembianze di una testa e di un collo di drago proteso nel vuoto. «È bellissima» mormorò. Arya avvicinò le labbra alla nave e sussurrò: «Flauga.» Vi soffiò sopra e la nave si levò in volo dalle sue mani per navigare intorno al fuoco; poi, acquistando velocità, puntò la prua verso l'alto e si allontanò nelle profondità stellate del cielo notturno. «Per quanto volerà?» «Per sempre» rispose lei. «Trae energia dalle piante per volare. Ovunque vi siano piante, la nave volerà.» Lì per lì Eragon trovò l'idea affascinante, ma poi pensò che era triste che la graziosa nave d'erba dovesse vagare fra le nuvole per il resto dell'eternità, senza altra compagnia se non gli uccelli. «Immagina le storie che la gente racconterà negli anni a venire.» Arya intrecciò le dita come se volesse costringerle a star ferme. «Al mondo esistono tante cose strane. Più a lungo vivi e più lontano viaggi, più cose strane vedrai.» Eragon contemplò le fiamme guizzanti del falò per qualche minuto, poi disse: «Se è così importante proteggere il proprio vero nome, non dovrei evocare un incantesimo per impedire a Galbatorix di usare il mio vero nome contro di me?» «Fallo, se vuoi» disse Arya, «ma dubito che sia necessario. I veri nomi non sono così facili da scoprire. Galbatorix non ti conosce abbastanza da indovinare il tuo, e se fosse dentro la tua mente, capace di esaminare ogni tuo pensiero e ricordo, allora saresti già suo, con o senza vero nome. Se può consolarti, probabilmente nemmeno io saprei indovinarlo.» «Davvero?» disse lui. Era contento, ma al tempo stesso dispiaciuto che lei fosse convinta di non conoscerlo così a fondo. Lei lo guardò, poi abbassò lo sguardo. «Già, credo proprio di no. Tu sapresti indovinare il mio?» «No.» Il silenzio calò sul bivacco. Nel cielo, le stelle brillavano fredde e bianche. Un vento si levò da est e lambì la pianura, frustando l'erba con un gemito lungo e acuto, come se lamentasse la perdita di una persona cara. Quando arrivò al bivacco, le braci ripresero vigore e una vorticosa criniera di scintille volò verso ovest. Eragon curvò le spalle e si strinse il colletto della casacca. C'era qualcosa di ostile nel vento: lo sferzava con insolita violenza e sembrava isolare lui e Arya dal resto del mondo. Sedevano immobili, naufraghi sulla loro isoletta di luce e calore, mentre la poderosa onda d'aria passava, ululando la sua pena feroce nella vuota distesa di terra. Quando le raffiche divennero più forti e cominciarono a spingere le scintille oltre la zona di terra brulla che Eragon aveva creato, Arya gettò una manciata di terra sulla brace. Spostandosi in ginocchio, Eragon la raggiunse e cominciò a gettare terra anche lui con entrambe le mani per fare più in fretta. Con il fuoco spento, non riusciva più a vederci bene: la campagna era diventata un fantasma di se stessa, piena di ombre contorte, sagome indistinte e foglie d'argento. Arya fece per alzarsi, poi rimase accovacciata, le braccia tese per mantenere l'equilibrio, l'espressione vigile. Anche Eragon se ne accorse: l'aria formicolava e ronzava come se stesse per abbattersi un fulmine. I peli sulle mani gli si rizzarono e ondeggiarono nel vento. «Cosa succede?» chiese. «Qualcuno ci osserva. Qualunque cosa accada, non usare la magia, altrimenti potresti farci uccidere.» «Chi...» «Sssst.» Guardandosi intorno, trovò un sasso delle dimensioni di un pugno, lo prese e lo soppesò. In lontananza comparve una manciata di scintillanti luci multicolori. Sfrecciavano verso il bivacco, volando basse sull'erba. Mentre si avvicinavano, Eragon notò che cambiavano di continuo dimensioni, passando da un globo non più grande di una perla a uno di diversi piedi di diametro, e che variavano anche di colore, ripetendo il ciclo di ogni sfumatura dell'arcobaleno. Una nuvola crepitante circondava ogni globo, un alone di tentacoli liquidi che schioccavano e si contorcevano, come bramosi di afferrare qualcosa. Le luci si muovevano così veloci che Eragon non riusciva a contarle, ma stimò che fossero almeno due dozzine. Piombarono sul bivacco e formarono un muro vorticante intorno a lui e ad Arya. La velocità con cui ruotavano, insieme al fuoco di fila di colori pulsanti, gli faceva girare la testa. Posò una mano a terra per sorreggersi. Il ronzio era così forte, adesso, che gli battevano i denti. Sentì in bocca un sapore metallico, e i capelli gli si rizzarono sul capo. Anche quelli di Arya si sollevarono, malgrado fossero molto più lunghi, e quando la guardò, trovò la scena così buffa che per poco non scoppiò a ridere. «Che cosa vogliono?» gridò, ma l'elfa non rispose. Un globo si staccò dagli altri e volò davanti ad Arya, fermandosi a mezz'aria, all'altezza dei suoi occhi. Rimpiccioliva e si dilatava come un cuore pulsante, alternando il blu intenso al verde smeraldo, con sporadici lampi di rosso. Uno dei tentacoli si attorcigliò a una ciocca dei capelli di Arya. Si udì un secco Arya non batté ciglio né tradì alcun allarme. Con il volto sereno, tese un braccio e prima che Eragon potesse scattare per fermarla posò la mano sul globo splendente. Il globo divenne bianco e oro e si gonfiò fino ad assumere un diametro di tre piedi. Arya chiuse gli occhi e abbandonò indietro la testa, i lineamenti soffusi di una gioia radiosa. Le sue labbra si mossero, ma qualunque cosa disse, Eragon non riuscì a sentirla. Quando ebbe finito, il globo avvampò di rosso sangue e poi in rapida successione passò dal rosso al verde al viola all'arancione e a un blu così intenso che Eragon dovette distogliere lo sguardo, per finire con un nero purissimo orlato da una corona di bianchi tentacoli splendenti, come il sole durante un'eclissi. Il suo aspetto smise di mutare, come se soltanto l'assenza di colore potesse esprimere adeguatamente il suo umore. Il globo si allontanò da Arya per avvicinarsi a Eragon, uno squarcio nel tessuto del mondo circondato da una corona di fiamme. Rimase sospeso davanti a lui ronzando con una tale intensità da fargli lacrimare gli occhi. Gli parve di avere la lingua ricoperta di rame, la pelle gli formicolava, e piccoli filamenti di elettricità gli danzavano sulla punta delle dita. Esitante e spaventato, si chiese se doveva toccare il globo come aveva fatto Arya. La guardò, chiedendole consiglio. Lei annuì e gli fece cenno di procedere. Eragon tese la mano destra verso il vuoto che era il globo. Con sua sorpresa, incontrò resistenza. Il globo era immateriale, eppure premeva contro la sua mano come una corrente d'acqua impetuosa. Più avvicinava la mano, più resistenza incontrava. Con uno sforzo, spinse ancora e toccò il centro della creatura. Raggi azzurrini guizzarono fra il palmo di Eragon e la superficie del globo, un'esplosione accecante come un fuoco d'artificio, che cancellò la luce degli altri globi e tinse ogni cosa di un celeste pallido. Eragon gridò di dolore quando i raggi gli ferirono gli occhi, li chiuse forte, abbassando la testa. Poi qualcosa si mosse all'interno del globo, come un drago addormentato che si desta dipanando le sue spire, e una presenza entrò nella sua mente, spazzando via le sue difese come foglie secche disperse dal vento d'autunno. Eragon trasalì. Si sentì colmare da una gioia irreale: qualunque cosa fosse il globo, sembrava essere composto da felicità distillata. Gioiva di essere vivo e traeva piacere da ogni cosa che lo circondava. Sarebbe scoppiato a piangere di gioia, ma non aveva più il controllo del proprio corpo. La creatura lo teneva immobilizzato con quei raggi azzurrini che ancora guizzavano sotto il suo palmo, e cominciò a insinuarsi nelle sue ossa e nei suoi muscoli, soffermandosi nei punti dov'era stato ferito; poi tornò nella sua mente. Nonostante la sensazione di euforia, Eragon trovava la presenza della creatura così strana e innaturale da voler fuggire, ma nella sua coscienza non c'era nessun posto dove nascondersi. Fu costretto a sottomettersi a quel contatto intimo con l'anima fiammeggiante della creatura che gli esplorava i ricordi, passando dall'uno all'altro con la rapidità di una freccia elfica. Eragon si chiese come facesse ad assimilare tante informazioni così in fretta. Provò allora a sua volta a sondare la mente del globo, per poter apprendere qualcosa sulla sua natura e le sue origini, ma quello respinse ogni suo tentativo. Le poche impressioni che ricevette furono così diverse da quelle che aveva trovato nelle menti degli altri esseri da risultargli incomprensibili. Dopo un altro quasi istantaneo giro del suo corpo, la creatura si ritrasse. Il legame fra di loro si spezzò come una corda sottoposta a eccessiva tensione. La raggiera luminosa che avvolgeva la mano di Eragon si dissolse, lasciandogli nel campo visivo immagini persistenti di un rosa livido. Il globo davanti a Eragon ricominciò a cambiare colore, rimpicciolì fino a diventare non più grosso di una mela e raggiunse i compagni nel vortice di luce che accerchiava lui e Arya. Il ronzio si abbassò fino ai limiti dell'udibile, poi il vortice esplose mentre i globi scintillanti si sparpagliavano in ogni direzione. Si raggrupparono di nuovo a un centinaio di piedi dal bivacco, accalcandosi l'uno sull'altro, simili a gattini giocherelloni, poi sfrecciarono verso sud e scomparvero, come se non fossero mai esistiti. Il vento impetuoso calò fino a diventare una brezza leggera. Eragon cadde in ginocchio, le braccia tese verso il punto in cui prima fluttuavano i globi, sentendosi vuoto senza quell'impressione di beatitudine che gli avevano regalato. «Cosa...» fece per chiedere, ma poi gli venne un accesso di tosse e dovette ricominciare, con la gola secca. «Cos'erano?» «Spiriti» rispose Arya. Si mise a sedere. «Non assomigliavano a quelli che sono usciti da Durza quando l'ho ucciso.» «Gli spiriti possono assumere diverse forme, secondo il loro capriccio.» Eragon batté le palpebre più volte e si asciugò gli angoli degli occhi con un dito. «Come si fa a volerli soggiogare con la magia? È mostruoso. Mi vergognerei di essere un negromante. Bah! E Trianna che si vanta di esserlo. La costringerò a smettere di usare gli spiriti, altrimenti la espellerò dal Du Vrangr Gata e chiederò a Nasuada di bandirla dai Varden.» «Non essere così precipitoso.» «Non penserai forse che sia giusto che un mago costringa gli spiriti a obbedirgli... Sono così belli che...» S'interruppe e scosse la testa, traboccante di emozione. «Chiunque faccia loro del male dovrebbe essere ucciso senza pietà.» Con un sorriso accennato, Arya disse: «A quanto pare Oromis doveva ancora introdurre l'argomento quando tu e Saphira siete partiti da Ellesméra.» «Se intendi dire gli spiriti, no, me ne ha parlato diverse volte.» «Ma non nel dettaglio, direi.» «Forse no.» Nell'oscurità, la sagoma di Arya si mosse mentre lei si sdraiava su un fianco. «Gli spiriti inducono sempre un senso di estasi quando scelgono di comunicare con noi che siamo fatti di materia, ma non lasciarti ingannare. Non sono benevoli, felici o allegri come ti fanno credere. Compiacere quelli con cui stabiliscono un legame è il loro modo di difendersi. Detestano restare legati a un luogo, e tanto tempo fa hanno capito che se la persona con cui hanno a che fare è felice, sarà meno propensa a trattenerli come servi.» «Non so» disse Eragon. «Ti fanno sentire così bene che è più facile capire il desiderio di trattenerli per sempre, piuttosto che la volontà di liberarli.» Arya si strinse nelle spalle. «Gli spiriti non sanno prevedere i nostri comportamenti, così come noi non conosciamo i loro. Hanno così poco in comune con le altre razze di Alagaësia che conversare con loro, anche nei termini più semplici, è una sfida, e ogni incontro è irto di pericoli, dato che nessuno sa come reagiranno.» «Ma niente di tutto questo spiega perché non dovrei ordinare a Trianna di abbandonare la negromanzia.» «L'hai mai vista evocare gli spiriti?» «No.» «Appunto. Trianna è con i Varden da sei anni, e in tutto questo tempo ha dimostrato la sua padronanza della stregoneria soltanto una, dico una volta. E solo dopo molte insistenze di Ajihad e molta preoccupazione e preparazione da parte sua. Ha le capacità, non è una ciarlatana, ma evocare gli spiriti è troppo pericoloso, e non ci si avventura in un'impresa simile a cuor leggero.» Eragon si massaggiò il palmo luccicante con il pollice sinistro. La sfumatura di colore cambiò quando il sangue affluì in superficie, ma i suoi sforzi non servirono a ridurre la quantità di luce irradiata dalla sua mano. Si grattò il gedwëy ignasia con le unghie. Rifletté su quanto gli aveva detto Brom. «Non sono spiriti umani, vero? E non appartengono nemmeno agli elfi, ai nani, o a nessuna altra creatura. Voglio dire, non sono fantasmi. Non diventiamo come loro, dopo morti.» «No. E per favore non chiedermelo, perché già so dove vuoi andare a parare. Vuoi sapere che cosa sono, ma è una risposta che dovrai ottenere da Oromis, non da me. Lo studio della negromanzia, se fatto come si deve, è un lavoro lungo e arduo, e dovrebbe essere affrontato con la massima prudenza. Non voglio dire niente che possa interferire con le lezioni che Oromis ha stabilito per te, e di certo non voglio che tu corra il rischio di farti del male cercando di mettere in pratica qualcosa che ti ho detto quando manchi ancora della dovuta istruzione.» «E quando tornerò a Ellesméra?» chiese lui. «Non posso lasciare di nuovo i Varden, non adesso, non mentre Castigo e Murtagh sono ancora vivi. Finché non sconfiggeremo l'Impero, o l'Impero sconfiggerà noi, io e Saphira dovremo aiutare Nasuada. Se Oromis e Glaedr vogliono davvero completare il nostro addestramento, allora dovrebbero raggiungerci, e addio Galbatorix!» «Ti prego, Eragon» disse lei. «Questa guerra non finirà presto come credi. L'Impero è vasto, e noi non abbiamo fatto altro che punzecchiargli la pelle. Finché Galbatorix non sa dell'esistenza di Oromis e Glaedr, abbiamo un vantaggio.» «È un vantaggio il fatto che non si mostrino mai?» mugugnò lui. Arya non rispose e, dopo un istante, Eragon si sentì infantile per essersi lamentato. Oromis e Glaedr volevano distruggere Galbatorix più di chiunque altro, e se avevano scelto di nascondersi a Ellesméra avevano le loro ottime ragioni. Eragon stesso ne conosceva parecchie, compresa la più importante: l'incapacità di Oromis di evocare incantesimi che richiedessero molta energia. Infreddolito, Eragon si abbassò le maniche fin sulle mani e incrociò le braccia. «Che cos'hai detto allo spirito?» «Voleva sapere perché abbiamo usato la magia; ecco che cosa li ha attirati. Gliel'ho spiegato, e ho spiegato loro anche che tu eri quello che ha liberato gli spiriti intrappolati dentro Durza. Ne sono stati molto contenti.» Una pausa di silenzio, poi Arya si spostò verso il giglio e lo toccò ancora. «Oh!» esclamò. «Sono stati molto riconoscenti. Naina!» Al suo comando, una pioggia di luce soffusa illuminò il bivacco. Eragon vide allora che la foglia e lo stelo del giglio erano diventati d'oro massiccio, i petali di un metallo bianco che non conosceva, e il cuore del fiore, come Arya rivelò inclinando la corolla, era fatto di rubini e diamanti. Stupefatto, Eragon fece scorrere un dito sulla foglia ricurva, e la sottile peluria metallica lo solleticò. Proteso in avanti, scorse la stessa collezione di escrescenze, solchi, forellini, venature e altri minuscoli dettagli con cui aveva adornato la versione originale della pianta; con l'unica differenza che adesso erano d'oro. «È una copia perfetta!» commentò. «Ed e ancora vivo.» «È impossibile!» Eragon si concentrò per cercare qualche debole traccia di calore e movimento che gli confermasse che il giglio non era soltanto un oggetto inanimato. Ne trovò diverse, intense come sempre in una pianta durante le ore notturne. Accarezzando di nuovo la foglia, disse: «Questo va al di là di ogni mia conoscenza della magia. Secondo ogni logica, questo fiore dovrebbe essere morto. Invece è vivo e vegeto. Non so nemmeno immaginare che cosa sia necessario per trasformare una pianta in metallo vivente. Forse Saphira potrebbe farlo, ma non sarebbe mai capace di insegnare l'incantesimo a qualcun altro.» «La vera domanda» disse Arya «è se questo fiore produrrà semi fertili.» «Può riprodursi?» «Non mi sorprenderebbe. In tutta Alagaësia esistono numerosi esempi di magia autoperpetrante, come il cristallo flottante sull'isola di Eoam e il pozzo dei sogni nelle Grotte di Mani. Quello a cui abbiamo appena assistito non sarebbe un fenomeno più improbabile di questi altri due.» «Purtroppo se qualcuno scoprisse questo fiore o i suoi discendenti li coglierebbe tutti. Ogni cercatore di tesori del paese verrebbe qui a sradicare i gigli d'oro.» «Non credo che siano tanto facili da distruggere, ma soltanto il tempo potrà dirlo.» All'improvviso Eragon si sentì travolgere da un accesso d'ilarità. Contenendo a stento la risata, disse: «Avevo sentito l'espressione "indorare il giglio" quando uno vuol dire che si sciupa qualcosa con ornamenti inutili, ma gli spiriti l'hanno fatto davvero! Hanno indorato il giglio!» E scoppiò a ridere, lasciando che la sua voce rimbombasse in tutta la pianura. Arya arricciò le labbra. «Be', le loro intenzioni erano nobili. Non possiamo incolparli di non conoscere i modi di dire umani.» «No, ma... oh, ha, ha, ha!» Arya fece schioccare le dita e la pioggia di luce svanì. «Abbiamo parlato quasi tutta la notte. È ora di riposare. L'alba è vicina, e dobbiamo partire al sorgere del sole.» Eragon si distese su una macchia di terra priva di sassi e continuò a ridere mentre scivolava in un sonno vigile. UN BAGNO DI FOLLA Era metà pomeriggio quando finalmente arrivarono in vista dei Varden. Eragon e Arya si fermarono sulla cresta di una bassa collina e studiarono l'immensa città di tende grigie che si estendeva davanti a loro, brulicante di migliaia di uomini, cavalli e falò accesi. A ovest delle tende serpeggiava il fiume Jiet, fiancheggiato di alberi. A mezzo miglio verso est c'era un altro accampamento più piccolo, simile a un'isoletta appena al largo del continente da cui si è staccata, che ospitava gli Urgali guidati da Nar Garzhvog. Nel raggio di parecchie miglia intorno si muovevano numerosi gruppi di uomini a cavallo. Erano pattuglie di vigilanti, messaggeri con i vessilli, squadre di incursori che partivano o tornavano da una missione. Due delle pattuglie individuarono Eragon e Arya e, dopo aver suonato i corni di segnalazione, si lanciarono verso di loro al galoppo sfrenato. Il volto di Eragon s'illuminò di un sorriso trionfante, e il giovane Cavaliere si mise a ridere, sollevato. «Ce l'abbiamo fatta!» esclamò. «Murtagh, Castigo, centinaia di soldati, combriccole di stregoni, i Ra'zac... nessuno è riuscito a prenderci. Ha! Che bello scherzetto per il re. Gli si arriccerà la barba quando lo verrà a sapere.» «Allora diventerà due volte più pericoloso» lo ammonì Arya. «Lo so» disse lui, con uno ghigno sempre più ampio. «Magari si arrabbierà tanto da dimenticare di pagare le truppe, i suoi soldati getteranno l'uniforme alle ortiche e si uniranno ai Varden.» «Sei di ottimo umore, oggi.» «E perché non dovrei?» ribatté lui. Alzandosi in punta di piedi, spalancò la mente il più possibile e con tutte le sue forze gridò La risposta non si fece attendere. Si abbracciarono con la mente, accarezzandosi con ondate di affetto, gioia e premura. Si scambiarono ricordi del periodo trascorso separati, e Saphira consolò Eragon per i soldati che aveva ucciso, purificandolo dal dolore e dalla rabbia accumulati dal giorno dello scontro. Eragon sorrise. Con Saphira così vicina, tutto nel mondo gli sembrava tornare al suo posto. Eragon rabbrividì. La lingua di Saphira era ricoperta di barbigli uncinati che avrebbero potuto strappare a un cervo peli, pelle e carne con una sola passata. Eragon percepì un ringhio potente tuonare nel petto della dragonessa. Saphira disse: Eragon sorrise. Con un ruggito di gioia, Saphira sbucò da una grossa nuvola a diverse centinaia di iarde di altezza e scese in picchiata tenendo le ali aderenti al corpo. Aprì le fauci possenti e sprigionò una vampa di fuoco, che le risalì lungo la testa e il collo come una criniera fiammeggiante. Eragon rise e le tese le braccia. I cavalli della pattuglia che galoppavano verso lui e Arya s'impennarono quando videro e udirono Saphira e sfrecciarono nella direzione opposta mentre i cavalieri cercavano di trattenerli tirandoli per le redini. «Avevo sperato di poter arrivare all'accampamento senza destare troppa attenzione» disse Arya, «ma avrei dovuto sapere che non si può passare inosservati quando c'è Saphira nei paraggi. Un drago è difficile da ignorare.» «Salute a te, Saphira» disse Arya, ruotando il polso e portando la mano al petto, nel consueto gesto di saluto degli elfi. Appiattita sul ventre, allungando il collo, Saphira sfiorò Arya sulla fronte con la punta del muso, come aveva fatto quando aveva benedetto Elva nel Farthen Dûr, e disse: «La tua gratitudine significa molto per me» disse Arya, e s'inchinò. «Quanto a ciò che avresti fatto se Galbatorix avesse catturato Eragon, be', saresti andata a salvarlo, e io ti avrei accompagnata, fosse stato anche nel cuore di Urû'baen!» Proprio allora una pattuglia si avvicinò al galoppo. Si fermò a trenta iarde di distanza perché i cavalli erano nervosi e i soldati chiesero se potevano scortarli tutti e tre da Nasuada. Uno degli uomini smontò da cavallo per cedere lo stallone ad Arya, e poi tutti insieme si avviarono verso il mare di tende a sud-ovest. Saphira teneva una gradevole andatura dondolante che permise a lei e a Eragon di godere della compagnia reciproca prima di immergersi nel rumore e nel caos che li avrebbero investiti non appena si fossero avvicinati all'accampamento. Eragon chiese notizie di Roran e Katrina, poi disse: Mentre attraversavano la pianura, una folla sempre più numerosa si andava radunando intorno a Eragon e Saphira, trasformandosi in una superflua ma impressionante scorta d'onore. Dopo aver passato tanto tempo nelle lande desolate di Alagaësia, la pressione dei corpi, il frastuono delle voci, la tempesta di pensieri ed emozioni non schermati e il confuso movimento di braccia che sventolavano e cavalli che s'impennavano diedero a Eragon l'impressione di essere finito in una marea travolgente. Il giovane si ritrasse in se stesso, dove il coro dissonante di rumori si ridusse a un remoto sciabordio. Nonostante gli strati protettivi di barriere magiche, percepì l'approssimarsi di dodici elfi che correvano in formazione dall'altra parte dell'accampamento, veloci e agili come linci dagli occhi gialli. Desideroso di fare una buona impressione, Eragon si passò le dita fra i capelli e raddrizzò le spalle, ma irrobustì anche le difese mentali perché nessuno, oltre a Saphira, potesse sentire i suoi pensieri. Gli elfi erano venuti per proteggere lui e Saphira, ma erano prima di tutto fedeli alla regina Islanzadi. Per quanto fosse contento della loro presenza, e dubitasse che la loro innata cortesia consentisse loro di sbirciare nella sua coscienza, Eragon non voleva dare alla regina degli elfi alcuna opportunità di apprendere i segreti dei Varden o di esercitare pressioni su di lui. Se Islanzadi avesse potuto strapparlo a Nasuada, lo avrebbe fatto. Gli elfi non si fidavano degli umani, non dopo il tradimento di Galbatorix, e per questa e altre ragioni era sicuro che la regina avrebbe preferito avere lui e Saphira sotto il suo diretto comando. E di tutti i sovrani e i capi militari che aveva conosciuto, Islanzadi era quella di cui Eragon si fidava meno. Era troppo autoritaria ed elusiva. I dodici elfi si fermarono davanti a Saphira. S'inchinarono e fecero con la mano il loro tipico gesto di cortesia, poi, uno per uno, si presentarono con la tradizionale frase iniziale del saluto elfico; Eragon rispose con la consueta formula. Quello che doveva essere il capo, un elfo alto e affascinante, con il corpo ricoperto da una pelliccia blu notte, annunciò lo scopo della loro missione davanti a tutti i presenti e chiese formalmente a Eragon e Saphira se potevano assumere l'incarico. «Concesso» disse Eragon. Eragon domandò: «Blödhgarm-vodhr, ci siamo per caso già visti all'Agaetí Blödhren?» Ricordava infatti di aver visto un elfo con una pelliccia simile danzare fra gli alberi durante i festeggiamenti. Blödhgarm sorrise, mostrando una chiostra di zanne ferine. «Credo che tu abbia visto mia cugina Liotha. Abbiamo molti tratti in comune, anche se la sua pelliccia è marrone e screziata, mentre la mia è blu scuro.» «Avrei giurato che eri tu.» «Purtroppo in quei giorni ero impegnato e non ho potuto prendere parte alla cerimonia. Forse ne avrò l'opportunità la prossima volta, fra cento anni.» Eragon fiutò l'aria. Quando arrivarono alle tende, la folla crebbe a tal punto da dare l'impressione che mezza popolazione Varden si fosse radunata intorno a Saphira. Eragon alzò la mano verso la folla che lo acclamava: «Argetlam!» e «Ammazzaspettri!», mentre altri gridavano: «Dove sei stato, Ammazzaspettri? Raccontaci le tue avventure!» Altri ancora lo chiamarono Sterminatore di Ra'zac, e l'appellativo gli piacque a tal punto che lo ripeté quattro volte sottovoce. La gente invocava benedizioni sulla sua salute e quella di Saphira, lo invitava a cena, gli offriva oro e gioielli, e qualcuno gli fece particolari richieste di aiuto: guarire un figlio nato cieco, rimuovere un tumore che stava uccidendo una moglie, sanare la zampa rotta di un cavallo o addirittura riparare una spada piegata al grido di: «Era di mio nonno!» Due volte una voce di donna si levò dalla folla dicendo: «Ammazzaspettri, vuoi sposarmi?» Eragon si guardò intorno, ma non riuscì a capire chi aveva parlato. In quel delirio, i dodici elfi restavano impassibili. Sapere che stavano guardando quello che lui non poteva vedere e ascoltando quello che lui non poteva sentire era un conforto, e gli consentiva di intrattenersi con i Varden ammassati con una tranquillità di cui in passato non aveva mai goduto. Poi dalle file di tende cominciarono a farsi avanti gli ex abitanti del villaggio di Carvahall. Eragon smontò da Saphira e camminò fra gli amici e i conoscenti della sua giovinezza, scambiando strette di mano e pacche sulle spalle e ridendo alle battute, incomprensibili per chiunque non fosse cresciuto dalle parti di Carvahall. C'era anche Horst, il fabbro. Eragon gli strinse l'avambraccio abbronzato. «Bentornato, Eragon. Complimenti. Ti siamo debitori per aver distrutto i mostri che ci hanno costretti a lasciare le nostre case. Sono contento di vederti ancora tutto intero.» «I Ra'zac avrebbero dovuto essere molto più svelti per riuscire a portarmi via anche un solo pezzo!» rise Eragon. Poi lo salutarono i figli di Horst, Albriech e Baldor; Loring il calzolaio con i suoi tre figli; Tara e Morn, proprietari della locanda di Carvahall; Fisk; Felda; Calitha; Delwin e Lenna; e infine Brigit dallo sguardo feroce, che gli disse: «Ti ringrazio, Eragon figlio di Nessuno. Ti ringrazio per aver inflitto la giusta punizione alle creature che hanno mangiato mio marito. Il mio cuore ti appartiene, ora e per sempre.» Prima che Eragon avesse modo di rispondere, la folla li divise. Poi, con sommo piacere, vide Roran farsi strada a spintoni tra la folla, con Katrina al fianco. Lui e Roran si abbracciarono, poi il cugino borbottò: «È stata una vera pazzia restare nell'Helgrind. Dovrei prenderti a calci nel sedere per averci abbandonati in quel modo. La prossima volta avvertimi quando decidi di andartene a zonzo da solo. Sta diventando un'abitudine. E avresti dovuto vedere come ha sofferto Saphira durante il volo di ritorno.» Eragon posò una mano su una zampa di Saphira e disse: «Mi dispiace se non ho potuto dirti prima che sarei rimasto, ma non l'ho saputo nemmeno io fino all'ultimo momento.» «E quale sarebbe il motivo preciso che ti ha trattenuto in quelle grotte malefiche?» «C'era una cosa che dovevo scoprire.» Roran s'incupì a quella risposta stringata, e per un istante Eragon temette che avrebbe insistito per avere altre spiegazioni, ma poi disse: «Be', che speranze ha un uomo qualunque come me di comprendere i modi e le ragioni di un Cavaliere dei Draghi, anche se è mio cugino? L'unica cosa che conta è che mi hai aiutato a liberare Katrina e adesso sei qui, sano e salvo.» Tese il collo, come se stesse cercando qualcosa in groppa a Saphira, poi guardò Arya, a diversi metri di distanza da loro, e disse: «Hai perso il mio bastone? Ho attraversato tutta Alagaësia con quel bastone, e tu sei riuscito a perderlo nel giro di un paio di giorni?» «L'ho dato a un uomo che ne aveva più bisogno di me» rispose Eragon. «Oh, smettila di punzecchiarlo» disse Katrina a Roran, e dopo un attimo di esitazione abbracciò Eragon. «È molto contento di vederti, lo sai. È solo che non riesce a trovare le parole per dirlo.» Con un sorriso imbarazzato, Roran disse: «Ha ragione. Come sempre quando parla di me.» I due si scambiarono uno sguardo colmo d'amore. Eragon studiò Katrina con attenzione. I capelli ramati avevano riacquistato l'antico splendore e i segni lasciati dai patimenti che aveva sofferto erano scomparsi, anche se la ragazza era sempre più magra e pallida del normale. Avvicinandosi ancora di più, perché nessuno dei Varden lì intorno la sentisse, Katrina mormorò: «Non avrei mai pensato di doverti tanto, Eragon. Che noi ti dovessimo tanto. Da quando Saphira ci ha portati qui, ho capito che cosa hai rischiato per salvarmi, e te ne sono riconoscente. Se fossi rimasta anche solo un'altra settimana nell'Helgrind sarei morta, o impazzita, che è come morire continuando a vivere. Per avermi salvata da quel destino, e per aver guarito la spalla di Roran, ti ringrazio, ma avrai la mia eterna gratitudine soprattutto per averci riuniti. Se non fosse stato per te, non ci saremmo mai più ritrovati.» «Sono convinto che in qualche modo Roran sarebbe riuscito a portarti fuori dall'Helgrind, anche senza di me» osservò Eragon. «Sa essere molto persuasivo quando è arrabbiato. Avrebbe convinto un altro mago ad aiutarlo... magari Angela l'erborista... e sarebbe comunque riuscito nel suo intento.» «Angela l'erborista?» esclamò Roran. «Quella lingualunga non sarebbe mai stata capace di battere i Ra'zac.» «Oh, rimarresti sorpreso dalle sue capacità. È molto più abile di quanto sembra... o di quanto non dica.» Poi Eragon si azzardò a fare una cosa che non avrebbe mai fatto quando viveva nella Valle Palancar, ma che adesso, in qualità di Cavaliere dei Draghi, gli parve appropriata: baciò sulla fronte Katrina e poi Roran, e disse: «Roran, tu per me sei come un fratello. Katrina, tu sei come una sorella. Se vi dovesse mai accadere qualcosa, chiamatemi, e che abbiate bisogno di Eragon il Contadino o di Eragon il Cavaliere, io sarò a vostra disposizione.» «Lo stesso vale per noi» disse Roran. «Se mai dovessi cacciarti nei guai, chiamaci, e noi correremo in tuo aiuto.» Eragon annuì, ma si trattenne dal commentare che i guai in cui era solito cacciarsi non erano del genere che uno dei due avrebbe potuto risolvere. Posò le mani sulle spalle di entrambi e disse: «Che possiate vivere a lungo, felici, e stare insieme per sempre, e che possiate avere molti bambini.» Il sorriso di Katrina vacillò per un istante, ed Eragon si domandò come mai. Su insistenza di Saphira, ricominciarono a camminare verso il padiglione rosso di Nasuada al centro dell'accampamento. Accompagnati dal corteo di Varden esultanti, arrivarono davanti all'ingresso dove Nasuada li aspettava, con re Orrin alla sua sinistra e decine di nobili e funzionari radunati dietro una doppia fila di guardie schierate ai lati. Nasuada indossava una lunga veste di seta verde che scintillava al sole come le piume sul petto di un colibrì, in netto contrasto con la pelle scura. Le maniche del vestito, lunghe fino al gomito, avevano un orlo di merletto. Da quel punto in poi, fino ai polsi sottili, le braccia erano fasciate da candide bende di lino. Il capo dei Varden spiccava sul resto della folla come uno smeraldo adagiato su un letto di foglie marroni. Soltanto Saphira poteva competere con lo splendore del suo aspetto. Eragon e Arya si presentarono a Nasuada e poi a re Orrin. Nasuada diede loro il benvenuto formale da parte di tutti i Varden e li lodò per il loro coraggio. Concluse dicendo: «Sì, Galbatorix può anche avere un Cavaliere e un drago che combattono per lui come Eragon e Saphira combattono per noi. Può avere un esercito così numeroso da oscurare la terra. E può evocare strani e orribili sortilegi, abominio dell'arte magica. Ma con tutto il suo malefico potere non ha potuto impedire a Eragon e a Saphira di entrare nel suo regno e di uccidere quattro dei suoi servitori preferiti, né a Eragon di attraversare impunito l'Impero. Il braccio dell'usurpatore si è davvero indebolito se non è riuscito a difendere i suoi confini e a proteggere i suoi turpi agenti nel loro covo inaccessibile.» Mentre i Varden esplodevano in un coro di acclamazioni, Eragon sorrise fra sé nel riconoscere quanto era abile Nasuada nel far leva sulle loro emozioni, ispirando fiducia, lealtà e ottimismo, nonostante la situazione in cui si trovavano. Non che mentisse: per quanto Eragon ne sapeva, Nasuada non mentiva mai, nemmeno quando aveva a che fare con il Consiglio degli Anziani o altri avversari politici. Quello che faceva era riferire le verità che più rafforzavano la sua posizione e i suoi argomenti. In questo, pensò Eragon, era molto simile agli elfi. Quando le manifestazioni di esultanza dei Varden si furono placate, re Orrin salutò Eragon e Arya come aveva fatto Nasuada. Le sue parole furono più misurate di quelle della ragazza, e sebbene tutti avessero ascoltato in rispettoso silenzio e alla fine avessero applaudito, era ovvio che per quanto la folla lo rispettasse, non lo amava come amava Nasuada, e che Orrin non riusciva a infiammare l'immaginazione dei soldati quanto lei. Il re dal volto glabro era dotato di un intelletto superiore, ma la sua personalità era troppo distaccata, eccentrica e mite per rappresentare il concentrato delle speranze degli umani che si opponevano a Galbatorix. Re Orrin concluse il suo discorso. Nasuada sussurrò all'orecchio di Eragon: «Adesso tocca a te rivolgerti a coloro che si sono radunati per acclamare il famoso Cavaliere dei Draghi.» Nei suoi occhi balenò una scintilla di divertita malizia. «A me?» «Tutti si aspettano che tu lo faccia.» Allora Eragon si volse per affrontare la moltitudine, con la lingua asciutta come sabbia. Aveva la mente vuota, e per un paio di secondi di panico pensò di aver perso il dono della parola, e che avrebbe fatto una figuraccia davanti all'intera popolazione dei Varden. Da qualche parte si levò il nitrito di un cavallo, ma per il resto l'accampamento sembrava immerso in un silenzio irreale. Fu Saphira a spezzare la sua paralisi dandogli un colpetto col muso sul braccio e dicendo: Abbozzando un sorriso mentre la folla lo applaudiva e lo acclamava e batteva le spade sugli scudi, Eragon disse: Uno sbuffo di fumo si levò dalle narici della dragonessa. RISPETTO PER UN RE Dopo il brevissimo discorso di Eragon ai Varden, Nasuada fece un cenno a Jörmundur, che subito accorse al suo fianco. «Fa' tornare tutti ai loro posti. Se ci attaccassero in questo momento, saremmo spacciati.» «Sì, mia signora.» Chiamando a sé Eragon e Arya, Nasuada posò la mano sinistra sul braccio di re Orrin, e insieme entrarono nel padiglione. Eragon osservò il resto della tenda. In confronto a quando l'aveva visitata l'ultima volta era spoglia, risultato della devastazione provocata da Saphira quando era entrata nel padiglione per vedere Eragon nello specchio magico. Con solo quattro pezzi di arredamento, il padiglione era austero persino per i canoni militari. C'era lo scranno di legno levigato dov'era seduta Nasuada, con re Orrin in piedi al suo fianco; lo specchio magico montato su un'asta di ottone inciso; uno sgabello pieghevole; e un basso tavolo straripante di mappe e altri documenti. Il pavimento era coperto da un tappeto annodato di arte nanesca. Oltre ad Arya e a lui, c'erano già una ventina di altre persone radunate di fronte a Nasuada. Lo guardavano tutti. Fra di loro riconobbe Narheim, il comandante in carica delle truppe dei nani; Trianna e gli altri stregoni del Du Vrangr Gata; Sabrae, Umérth e il resto del Consiglio degli Anziani, tranne Jörmundur; un gruppo di nobili e funzionari della corte di re Orrin. Si disse che quelli che non conosceva dovevano essere membri importanti di una delle molte fazioni che sostenevano l'esercito dei Varden. Erano presenti sei delle guardie di Nasuada - due appostate all'ingresso e quattro intorno al suo scranno - ed Eragon percepì anche l'intricato mosaico degli oscuri e contorti pensieri di Elva, nascosta da qualche parte in fondo al padiglione. «Eragon» disse Nasuada, «non vi siete mai conosciuti, perciò ti presento Sagabato-no Inapashunna Fadawar, capo della tribù Inapashunna. È un uomo molto coraggioso.» Per tutta l'ora successiva Eragon sopportò quella che gli parve una serie infinita di presentazioni, congratulazioni e domande a cui non poteva rispondere direttamente senza rivelare segreti che era meglio tenere celati. Quando tutti gli ospiti gli ebbero parlato, Nasuada fece loro cenno di congedarsi. Mentre uscivano dal padiglione, Nasuada batté le mani e le guardie fuori fecero entrare un secondo gruppo di notabili e poi, quando questi ebbero gustato i dubbi frutti della loro visita, un terzo. Eragon continuò a sorridere per tutto il tempo, scambiando una stretta di mano dopo l'altra. Rivolse e ricevette insulsi convenevoli, sforzandosi di mandare a memoria la folla di nomi e titoli che lo assediavano e comportandosi con la perfetta cortesia che ci si aspettava da lui. Sapeva che lo onoravano non perché era loro amico ma per la possibilità di vittoria che incarnava per i popoli liberi di Alagaësia, per il suo potere, e perché speravano di ottenere qualcosa da lui. Dentro di sé ululava di frustrazione e non vedeva l'ora di liberarsi dai rigidi vincoli delle buone maniere e dell'etichetta per salire in groppa a Saphira e volare lontano a godersi un po' di pace. Una delle poche cose che lo divertirono fu la reazione dei postulanti davanti ai due Urgali che incombevano sullo scranno di Nasuada. Alcuni facevano finta di ignorare i guerrieri cornuti - anche se dalla rapidità dei loro movimenti e dai toni striduli delle loro voci si intuiva che le creature li innervosivano - mentre altri guardavano gli Urgali con diffidenza, le mani strette su spade o pugnali, e altri ancora ostentavano un falso coraggio mostrandosi superiori alla famigerata forza degli Urgali. Soltanto un gruppo ristretto di persone sembrava indifferente a quella vista: Nasuada in primo luogo, ma anche re Orrin, Trianna e un conte che disse di aver visto Morzan e il suo drago radere al suolo un'intera città quando era appena un bambino. Quando Eragon arrivò al limite della sopportazione, Saphira gonfiò il petto ed emise un cupo ringhio vibrante così potente da far tremare lo specchio nella sua cornice. Sul padiglione calò un silenzio di tomba. Il ringhio non aveva intenzioni minacciose, ma catturò l'attenzione di tutti e palesò l'impazienza che pervadeva la dragonessa. Nessuno degli ospiti fu abbastanza stupido da mettere alla prova la sua resistenza. Con scuse frettolose, raccolsero le proprie cose e uscirono in fila dal padiglione, affrettando il passo quando Saphira cominciò a tamburellare con gli artigli sul terreno. Nasuada sospirò quando il lembo di stoffa dell'ingresso si chiuse alle spalle dell'ultimo visitatore. «Ti ringrazio, Saphira. Mi dispiace di averti fatto subire questa tortura delle presentazioni, Eragon, ma sono sicura che comprendi. Tu occupi una posizione di straordinario rilievo fra i Varden, e non posso più tenerti solo per me. Appartieni al popolo, adesso. Ti chiedono un riconoscimento ufficiale e pretendono ciò che considerano una giusta parte del tuo tempo. Né tu né io né Orrin possiamo ignorare i desideri della folla. Perfino Galbatorix, sul suo oscuro trono di Urû'baen, teme i capricci del popolo, anche se forse lo nega perfino a se stesso.» Senza più gli ospiti presenti, re Orrin abbandonò la maschera di regale decoro. Il suo rigido atteggiamento si trasformò in una più umana espressione di sollievo, irritazione e spasmodica curiosità. Sciogliendo le spalle sotto il peso della veste cerimoniale, guardò Nasuada e disse: «Non credo che abbiamo più bisogno dei tuoi Falchineri qui dentro.» «D'accordo.» Nasuada batté le mani, congedando le guardie. Trascinando lo sgabello pieghevole accanto alla regina, re Orrin sedette cercando di districarsi dal groviglio di stoffe pesanti che gli impacciavano i movimenti. «Bene» disse, guardando ora Eragon, ora Arya. «È arrivato il momento di farci conoscere ogni dettaglio della tua impresa, Eragon Ammazzaspettri. Ho sentito soltanto vaghe spiegazioni sulla ragione che ti ha spinto a decidere di attardarti nell'Helgrind, e io ne ho abbastanza di risposte evasive o incomplete. Sono deciso a sapere la verità sulla questione, perciò ti avverto, non cercare di nascondere niente di quello che è successo mentre ti trovavi nel territorio dell'Impero. Finché non sarò convinto che mi hai detto tutto quello che c'è da dire, nessuno di noi metterà un piede fuori da questa tenda.» Con voce fredda e tagliente come una scheggia di ghiaccio, Nasuada intervenne. «Mi pare che tu pretenda un po' troppo... sire. Non hai autorità su di me per tenermi confinata qui; né su Eragon, che è mio vassallo; né su Saphira; né su Arya, che non risponde a nessun signore mortale ma a una sovrana che è molto più potente di noi due messi insieme. Né noi abbiamo autorità su di te. Noi cinque siamo uguali a tutti coloro che ricoprono il nostro stesso incarico nell'intera Alagaësia.» Re Orrin rispose a tono: «Travalico dunque i confini della mia sovranità? Può darsi. Hai ragione: non ho potere su di voi. Tuttavia, se siamo uguali, devo ancora vederne la prova nel trattamento che mi riservi. Eragon risponde a te e a te soltanto. Con la Prova dei Lunghi Coltelli hai conquistato il potere sulle tribù nomadi, molte delle quali prima contavo fra i miei sudditi. E comandi a tuo piacimento sia i Varden che i cittadini del Surda, che da tempo servono la mia famiglia con un coraggio e una determinazione che vanno ben oltre quelli degli uomini comuni.» «Sei stato tu a chiedermi di organizzare questa campagna» ribatté Nasuada. «Io non ti ho deposto.» «Giusto, sono stato io a chiederti di assumere il comando delle nostre forze frammentate. Non mi vergogno ad ammettere che tu hai molta più esperienza e capacità di me nel muovere guerra. Il nostro futuro è troppo incerto perché io, tu o uno qualsiasi di noi possa indulgere in un falso orgoglio. Tuttavia dal momento della tua investitura sembri aver dimenticato che sono ancora il re del Surda, e che noi della famiglia Langfeld possiamo vantare origini che risalgono a Thanebrand il Donatore dell'Anello, che a sua volta succedette al vecchio Palancar il Matto, e che fu il primo a sedere sul trono di quella che adesso è Urû'baen. «Considerando il nostro lignaggio e l'aiuto che il Casato di Langfeld ti ha fornito in questa causa, è offensivo da parte tua ignorare i diritti della mia posizione. Ti comporti come se il tuo fosse l'unico verdetto importante e le opinioni degli altri non contassero nulla e fossero solo pareri da calpestare sulla strada che ti porta a perseguire lo scopo che hai già deciso essere il migliore per quella parte di umanità libera che è abbastanza fortunata da averti come capo. Tu negozi trattati e alleanze, come quella con gli Urgali, di tua iniziativa, e pretendi che io e gli altri accettiamo le tue decisioni, come se parlassi a nome di tutti noi. Tu organizzi visite di Stato, come quella con Blödhgarm-vodhr, e non ti prendi il disturbo di avvisarmi, né aspetti il mio arrivo perché possiamo ricevere l'ambasceria insieme come pari grado. E quando ho l'ardire di chiedere a Eragon... l'uomo la cui esistenza è la prima ragione per cui ho trascinato il mio paese in questa avventura... quando ho l'ardire di chiedere Allarmato dalla piega che aveva preso la conversazione, Eragon disse: Un fremito color oceano scintillò lungo il collo di Saphira quando le punte aguzze e frastagliate delle squame a losanga si sollevarono di una frazione di pollice dalla pelle, dandole un aspetto feroce e selvaggio. In risposta all'arringa di re Orrin, Nasuada si strinse le mani in grembo, le bende bianche in netto contrasto con il verde del vestito, e con voce tranquilla e monotona disse: «Se ti ho mancato di rispetto, sire, è stato soltanto per leggerezza e precipitazione, e non per il desiderio di screditare te o il tuo casato. Ti prego di perdonare le mie manchevolezze. Non accadrà più, te lo prometto. Come hai giustamente sottolineato, è da poco che ricopro questa carica e devo ancora impararne le implicite sottigliezze.» Orrin inclinò la testa in un gesto di fredda ma compiaciuta approvazione. «Quanto a Eragon e alle sue attività nell'Impero, non ho potuto fornirti i dettagli specifici perché io stessa non sapevo nulla al riguardo. E questa, come immagino tu capirai, non era una cosa che avevo interesse a rendere di pubblico dominio.» «No, è ovvio.» «A questo punto credo che la cura più rapida per sanare la disputa in corso sia lasciare che Eragon ci esponga i fatti come si sono svolti, affinché noi possiamo comprenderne la portata e poi giudicare.» «Più che una cura» ribatté re Orrin «direi che si tratta del principio di una cura, e sono più che disposto ad ascoltare.» «Allora non indugiamo oltre» disse Nasuada. «Cominciamo dal principio e finiamola con questa trepida attesa. Eragon, è giunto il momento che ci spieghi.» Mentre Nasuada e gli altri lo fissavano con occhi curiosi, Eragon fece la sua scelta. Levando il mento, disse: «Quello che vi dirò sarà in assoluta confidenza. So che non posso pretendere da te, re Orrin, e da te, Lady Nasuada, che mi giuriate di mantenere il segreto da adesso fino al giorno della vostra morte, ma vi prego di comportarvi come se lo aveste fatto. Se questo segreto arrivasse alle orecchie sbagliate potrebbe causare un immenso dolore.» «Un re non rimane re a lungo se non sa apprezzare il valore del silenzio» disse Orrin. Senza altri indugi, Eragon descrisse tutto quello che gli era accaduto nell'Helgrind e nei giorni seguenti. Poi toccò ad Arya spiegare come aveva fatto a trovare Eragon e confermare il suo racconto fornendo dettagli e osservazioni sul viaggio. Quando entrambi ebbero finito, nel padiglione calò il silenzio; Orrin e Nasuada sedevano immobili. Eragon ebbe l'impressione di essere tornato bambino, in attesa che Garrow gli dicesse quale punizione avrebbe ricevuto per aver combinato una marachella delle sue. Orrin e Nasuada rimasero assorti nelle loro riflessioni per lunghi minuti, poi Nasuada si lisciò il vestito e disse: «Re Orrin potrà forse essere di opinione diversa, e in tal caso sono curiosa di saperne i motivi, ma da parte mia ti dico che hai fatto la cosa giusta, Eragon.» «Sono d'accordo» disse Orrin, con grande sorpresa di tutti i presenti. «Davvero?» esclamò Eragon. Esitò. «Non voglio sembrare impertinente, perché sono contento che approviate, ma non mi aspettavo che accettaste la mia decisione di risparmiare la vita di Sloan. Se posso chiederlo, perché...» Re Orrin lo interruppe. «Perché approviamo? Perché bisogna seguire la legge. Se ti fossi autonominato boia di Sloan, Eragon, ti saresti arrogato i diritti che spettano a Nasuada e a me. Perché colui che ha l'audacia di decidere chi deve vivere e chi morire non serve più la legge, ma detta legge. E per quanto magnanimo tu possa essere, non sarebbe un bene per le nostre razze. Io e Nasuada, quantomeno, rispondiamo all'unico signore davanti al quale tutti i re devono inginocchiarsi. Rispondiamo ad Angvard, nel suo regno di eterno crepuscolo. Rispondiamo al Grigio sul suo cavallo grigio. La Morte. Potremmo essere i peggiori tiranni nella storia del mondo, eppure a tempo debito Angvard ci metterà in ginocchio... Tu non subirai questa sorte. Gli umani sono una razza dalla vita breve, e non dovremmo essere governati da un Immortale. Non ci serve un altro Galbatorix.» Una risata sinistra sfuggì dalle labbra di Orrin, poi, con la bocca deformata da un sorriso amaro, il re del Surda proseguì. «Non capisci, Eragon? Sei così pericoloso che siamo costretti a dirtelo apertamente e sperare che tu sia uno dei rari esseri refrattari alle malie del potere.» Re Orrin intrecciò le dita sotto il mento e fissò una piega del suo vestito. «Ho detto più di quanto volessi... Quindi, per questo motivo e altri ancora, sono d'accordo con Nasuada. Hai fatto bene a trattenere la mano quando hai trovato questo Sloan nell'Helgrind. Per quanto increscioso possa essere questo episodio, sarebbe stato peggio, soprattutto per te, se lo avessi ucciso per tua soddisfazione personale e non per difenderti o per servire gli altri.» Nasuada annuì. «Parole sacrosante.» Per tutto il tempo, Arya aveva ascoltato con un'espressione indecifrabile. Quali che fossero i suoi pensieri, non li manifestò. Orrin e Nasuada fecero a Eragon tutta una serie di domande sui giuramenti che aveva imposto a Sloan, come anche sul resto del viaggio. L'interrogatorio proseguì così a lungo che Nasuada fece portare un vassoio con sidro ghiacciato, frutta e pasticcio di carne, insieme a un quarto di manzo per Saphira. Nasuada e Orrin ebbero l'opportunità di mangiare fra una domanda e l'altra, ma Eragon era così impegnato a parlare che riuscì a dare appena due morsi a un frutto e a bere qualche sorso di sidro per bagnarsi la gola. Alla fine re Orrin si congedò per andare a passare in rivista la sua cavalleria. Arya uscì dal padiglione un minuto dopo, spiegando che doveva fare rapporto alla regina Islanzadi. «Chiederò che mi venga scaldata una tinozza d'acqua» aggiunse «per lavarmi via la sabbia dalla pelle, e poi riprenderò il mio aspetto consueto. Non mi sento a mio agio senza le orecchie a punta e con gli occhi rotondi e diritti, e le ossa del viso nei posti sbagliati.» Quando fu rimasta sola con Eragon e Saphira, Nasuada sospirò e abbandonò la testa contro lo schienale dello scranno. Eragon rimase colpito da quell'improvvisa manifestazione di stanchezza. Scomparsa era la sua vitalità, scomparsa l'imperiosa presenza, scomparso il fuoco dai suoi occhi. In quel momento Eragon capì che Nasuada aveva finto di essere più forte di quanto era per evitare di allettare i nemici e di demoralizzare i Varden con lo spettacolo della sua debolezza. «Stai male?» le chiese. Lei si guardò le braccia. «Non proprio. È solo che impiegano più tempo del previsto a guarire... Certi giorni sono peggio di altri.» «Se vuoi, posso...» «No. Grazie, no. Non mi tentare. Una delle regole della Prova dei Lunghi Coltelli è che devi lasciare che le ferite guariscano da sole, senza magia. Altrimenti i contendenti non sperimenterebbero la piena misura del dolore.» «Ma è una barbarie!» Un lieve sorriso le affiorò sulle labbra. «Può darsi, ma le cose stanno così e non fallirò a prova ormai conclusa solo perché non riesco a sopportare un po' di dolore.» «E se le ferite si infettano?» «Se si infettano, pagherò il prezzo del mio errore. Ma dubito che accadrà finché c'è Angela a curarle. La sua conoscenza delle piante medicinali è straordinaria. Sono quasi convinta che saprebbe dire il vero nome di ogni specie di piante delle pianure a est di questo accampamento soltanto toccandone le foglie.» Saphira, che era rimasta così immobile da sembrare addormentata, sbadigliò - le fauci quasi toccavano il pavimento e il soffitto -, scrollò la testa e distese il collo, facendo vorticare a una velocità da capogiro i puntini di luce che le squame proiettavano sulle pareti della tenda. Raddrizzandosi sullo scranno, Nasuada disse: «Ah, mi dispiace. So quanto dev'essere stato noioso. Siete stati tutti e due molto pazienti. Grazie.» Eragon s'inginocchiò e posò una mano sulle sue. «Non devi preoccuparti per me, Nasuada. Conosco i miei doveri. Non ho mai aspirato al comando: non è questo il mio destino. E se mai mi venisse offerto un trono, lo rifiuterei, assicurandomi che lo occupasse qualcuno di più adatto di me a guidare la nostra razza.» «Sei una brava persona, Eragon» mormorò Nasuada, e gli strinse la mano fra le sue. Poi ridacchiò. «Fra te, Roran e Murtagh, passo la maggior parte del tempo a preoccuparmi dei membri della tua famiglia.» Eragon alzò il capo a quelle parole, irato. «Murtagh non fa parte della mia famiglia.» «Ma certo. Perdonami. Eppure devi ammettere che è straordinaria la mole di problemi che tutti e tre avete riversato sia sull'Impero che sui Varden.» «È la nostra specialità» scherzò Eragon. «Ma non folli» disse Nasuada. «Almeno, non credo. È difficile dirlo, a volte.» Scoppiò a ridere. «Se tu, Roran e Murtagh veniste chiusi nella stessa cella, non so chi sopravviverebbe.» Anche Eragon rise. «Roran. Non permetterebbe mai a una cosuccia insignificante come la morte di intromettersi fra lui e Katrina.» Il sorriso di Nasuada si fece più teso. «Già, immagino di no.» Per un minuto rimase in silenzio, poi disse: «Ah, ma quanto sono egoista. La giornata è quasi finita e io sono qui a trattenerti solo per il gusto di un paio di minuti di amena conversazione.» «Il piacere è mio.» «Sì, ma ci sono posti migliori di questo per quattro chiacchiere fra amici. Dopo quello che hai passato, immagino che tu abbia voglia di un bel bagno, di abiti puliti, e di un pasto come si deve, dico bene? Devi avere una fame da lupi!» Eragon scoccò un'occhiata alla mela che aveva appena addentato, e decise che sarebbe stato villano continuare a mangiare quando il suo incontro con Nasuada stava volgendo al termine. Nasuada si accorse del suo sguardo e disse: «Il tuo volto risponde per te, Ammazzaspettri. Be', non prolungherò questa tortura. Sembri un lupo affamato. Vai a lavarti e a metterti la tua tunica migliore. Quando sarai presentabile, sarò lieta se accetterai il mio invito a cena. Sappi che non sarai il mio unico ospite, perché gli affari dei Varden richiedono la mia costante attenzione, ma mi alleggerirai di parecchio la fatica se decidi di partecipare.» Eragon represse una smorfia al pensiero di altre lunghe ore passate a parare affondi e stoccate verbali da parte di coloro che cercavano di usarlo a proprio vantaggio o per soddisfare la propria curiosità sui Cavalieri e i draghi. Eppure non si poteva dire di no a Nasuada, e così s'inchinò e accettò l'invito. FESTA FRA AMICI Eragon e Saphira uscirono dal padiglione rosso di Nasuada attorniati dal contingente di elfi e si incamminarono verso la piccola tenda che era stata loro assegnata quando si erano uniti ai Varden sulle Pianure Ardenti. Lì Eragon trovò ad attenderlo un barilotto d'acqua calda, le spire di vapore opalescenti nella luce obliqua del grande sole della sera, ma sul momento lo ignorò, e si chinò per entrare nella tenda. Dopo avere controllato che nessuno dei suoi averi fosse stato toccato mentre era lontano, Eragon si liberò dello zaino e ne tolse l'armatura con cautela, riponendola sotto la branda. Andava pulita e oliata, ma poteva aspettare. Poi rovistò ancora sotto la branda, graffiando con le dita la parete di tessuto, e cercò a tastoni finché non raggiunse un oggetto lungo e solido. Afferrò il pesante fagotto e se lo appoggiò sulle ginocchia. Sciolse i nodi che chiudevano la stoffa e poi, partendo dall'estremità più voluminosa, cominciò a sbrogliare le strisce di tela grezza. Un pollice dopo l'altro, apparve la consunta impugnatura di cuoio della spada di Murtagh. Quando ebbe sfoderato l'elsa, la guardia crociata e buona parte della scintillante lama, dentellata come una sega nei punti in cui si era opposta a Zar'roc, si fermò. Rimase seduto a fissare l'arma, combattuto. Non sapeva che cosa l'avesse spinto a farlo, ma il giorno dopo la battaglia era tornato sul pianoro e aveva recuperato la spada dal pantano dove Murtagh l'aveva abbandonata. Benché fosse rimasta esposta alle intemperie una sola notte, sull'acciaio era apparso un velo di macchioline di ruggine, che Eragon aveva subito dissolto con un incantesimo. Forse si era sentito in obbligo di prendere la spada di Murtagh perché Murtagh gli aveva rubato la sua, come se lo scambio, seppur impari e imposto, potesse compensare la perdita. O forse desiderava conservare un ricordo di quel sanguinoso conflitto. O forse nutriva ancora una sorta di affetto latente per Murtagh, nonostante le squallide circostanze che li avevano visti schierati l'uno contro l'altro. Per quanto aborrisse ciò che era diventato Murtagh e insieme provasse compassione per lui, non poteva negare il legame che c'era tra loro. Condividevano un destino comune. Se non fosse stato per un caso legato alla loro nascita, Eragon forse sarebbe stato allevato a Urû'baen e Murtagh nella Valle Palancar, e i loro ruoli avrebbero potuto essere scambiati. Le loro vite erano legate inesorabilmente. Mentre osservava l'acciaio splendente, Eragon pronunciò un incantesimo per cancellare i graffi dalla lama, eliminare le sbeccature lungo i bordi e ristabilire la solidità della tempra. Tuttavia si domandò se fosse il caso. Aveva tenuto la cicatrice che gli aveva procurato Durza come ricordo del loro incontro, almeno finché i draghi non l'avevano cancellata durante l'Agaetí Blödhren. Avrebbe dovuto conservare anche quest'altra cicatrice? Sarebbe stato un bene per lui portare alla cintura un ricordo così doloroso? E se avesse scelto di impugnare la lama di un traditore, quale messaggio avrebbe trasmesso ai Varden? Zar'roc era stata un dono di Brom: allora non aveva potuto rifiutarla, e nemmeno gli dispiaceva di averla accettata. Ma adesso non aveva alcun obbligo di reclamare per sé l'anonima arma che teneva sulle gambe. pensò. La riavvolse nel sudario di tela e la ripose sotto la branda. Poi, con una camicia e una tunica pulite sotto il braccio, uscì e andò a lavarsi. Pulito ed elegante nella camicia e nella tunica di fine làmarae, uscì per andare all'appuntamento con Nasuada vicino alle tende dei guaritori, come lei gli aveva chiesto. Saphira ci andò in volo, dicendo che l'accampamento era troppo affollato e continuava a inciampare nelle tende. Nasuada li aspettava accanto a una fila di tre aste, da cui penzolavano flosci cinque o sei vivaci stendardi nell'aria fresca della sera. Da quando si erano separati, la regina si era cambiata d'abito e adesso indossava un leggero vestito estivo di un delicato color paglia. Aveva raccolto i capelli folti come muschio in un'acconciatura alta, un intricato ammasso di nodi e treccine tenuto insieme da un nastro bianco. Sorrise a Eragon, che ricambiò e affrettò il passo. A mano a mano che si avvicinava, le sue guardie si mischiarono a quelle della regina con evidente dimostrazione di sospetto da parte dei Falchineri e studiata indifferenza da parte degli elfi. Nasuada lo prese sottobraccio e, mentre parlavano tranquilli, lo guidò attraverso la distesa di tende. Saphira volteggiava sull'accampamento, in attesa che giungessero a destinazione prima di affrontare la fatica dell'atterraggio. Il Cavaliere e la regina parlarono di molte cose. Nulla di importante, ma Eragon rimase affascinato dall'acume, dall'allegria e dall'attenzione dei commenti di Nasuada. Parlare con lei gli risultava facile, ancora di più ascoltarla, e fu proprio quella disinvoltura a fargli capire quanto le volesse bene. L'ascendente che aveva su di lui superava di molto il normale rapporto tra signore e vassallo. Il loro legame era un sentimento nuovo. A parte la zia Marian, di cui serbava solo un vago ricordo, Eragon era cresciuto in un mondo di uomini e non aveva mai avuto l'opportunità di fare amicizia con una donna. Era inesperto e insicuro, e anche goffo, ma Nasuada non sembrava farci caso. Lo fece fermare di fronte a una tenda. Dentro risplendeva la luce di mille candele e risuonava una moltitudine di voci incomprensibili. «È giunto il momento di rituffarci nel pantano della politica. Preparati.» Quando Nasuada scostò il lembo di stoffa all'ingresso, una folla di persone gridò: «Sorpresa!» ed Eragon ebbe un sussulto. In mezzo alla tenda dominava un ampio tavolo sostenuto da cavalletti e traboccante di cibo, a cui erano seduti Roran, Katrina e una ventina di abitanti di Carvahall, tra cui Horst e la sua famiglia, Angela l'erborista, Jeod e la moglie Helen e diverse altre persone che Eragon non conosceva ma che avevano tutta l'aria di essere marinai. Cinque o sei bambini che stavano giocando per terra accanto al tavolo si bloccarono di colpo e fissarono Eragon e Nasuada a bocca aperta, quasi incapaci di decidere quale tra le due strane figure meritasse di più la loro attenzione. Sopraffatto, Eragon fece un gran sorriso. Prima che gli venisse in mente qualcosa da dire, Angela levò il boccale e lo invitò: «Be', non startene lì impalato! Vieni a sederti. Muoio di fame!» Scoppiarono a ridere tutti e Nasuada trascinò Eragon verso le due sedie libere vicino a Roran. Eragon la aiutò a prendere posto, poi si sedette e le chiese: «Hai organizzato tu tutto questo?» «Roran mi ha suggerito chi invitare, ma... sì, è stata un'idea mia. Come puoi vedere ho aggiunto di mia iniziativa qualche nome alla lista degli ospiti.» «Grazie» rispose umilmente Eragon. «Grazie davvero.» Vide Elva seduta a gambe incrociate in fondo alla tenda, sulla sinistra, con un piatto in grembo. Gli altri bambini la evitavano - non che avessero molto in comune, si disse - e nemmeno gli adulti, tranne Angela, sembravano a proprio agio in sua presenza. La bambina minuta con le spalle spioventi alzò il capo e lo guardò da dietro la frangetta nera con quei suoi terribili occhi viola, poi scandì due mute parole, forse: "Salve, Ammazzaspettri." "Salve, Veggente" rispose lui allo stesso modo muto. Le piccole labbra rosa di Elva si distesero in un sorriso che sarebbe stato affascinante non fosse stato per le feroci orbite ardenti che lo sovrastavano. All'improvviso il tavolo tremò, i piatti presero a tintinnare e le pareti della tenda si gonfiarono. Eragon si aggrappò ai braccioli della sedia. Contro la parete di fondo si profilò uno strano rigonfiamento, poi fece capolino Saphira. Nelle ore che seguirono, Eragon si smarrì in un vortice confuso di cibo e bevande, e godette il piacere della buona compagnia. Gli sembrava di essere tornato a casa. Il vino scorreva a fiumi, e dopo averne scolate un paio di coppe gli abitanti del villaggio dimenticarono ogni deferenza e lo trattarono come uno di loro, il dono più grande che potessero fargli. Si dimostrarono altrettanto generosi con Nasuada, ma si trattennero dal rivolgerle battute di spirito, come invece facevano a volte con Eragon. Via via che le candele si consumavano, un pallido fumo colmò la tenda. Accanto a sé, Eragon sentiva risuonare all'infinito la fragorosa risata di Roran; dall'altra parte del tavolo Horst rideva anche più forte. Angela borbottò un incantesimo e con grande divertimento dei presenti fece danzare un omino che aveva modellato con la crosta di una pagnotta. A poco a poco i bambini vinsero la paura per Saphira e osarono avvicinarsi e accarezzarla sul muso. Dopo appena una manciata di minuti, cominciarono ad arrampicarsi sul collo della dragonessa, a dondolarsi sulle sue punte cervicali e a tirarle le creste sopra gli occhi. Eragon li guardava e rideva. Jeod intrattenne i presenti con una canzone che aveva letto in un libro molto tempo prima. Tara ballò una giga. Ogni volta che Nasuada gettava la testa all'indietro, i suoi denti bianchi risplendevano. Dietro le insistenze dei presenti, Eragon narrò molte delle sue avventure, compresa una dettagliata descrizione della sua fuga da Carvahall insieme a Brom, che suscitò un particolare interesse nel pubblico. «Ma ve lo immaginate? Avevamo una dragonessa nella nostra vallata e non ce ne siamo mai accorti» disse Gertrude, la guaritrice dal viso rubicondo, aggiustandosi lo scialle. Poi sfilò dalle maniche un paio di ferri da calza e li puntò contro Eragon. «E pensare che ti ho curato io quando ti sei graffiato le gambe volando con Saphira, ma non ho mai sospettato niente.» Scosse la testa e schioccò la lingua, poi intrecciò punti con la lana marrone e cominciò a sferruzzare con la velocità di chi vanta un'esperienza decennale. Esausta per l'avanzata gravidanza, Elain fu la prima ad abbandonare la festa, accompagnata da uno dei figli, Baldor. Mezz'ora dopo anche Nasuada si alzò per tornare al padiglione rosso, spiegando che la sua posizione le impediva di trattenersi fino a quando avrebbe desiderato; augurò a tutti salute e felicità, aggiungendo che sperava che avrebbero continuato a sostenerla nella lotta contro l'Impero. Mentre si allontanava dal tavolo fece un cenno a Eragon, che la raggiunse all'ingresso. Dando le spalle ai convenuti, gli disse: «So che hai bisogno di tempo per riprenderti dal viaggio e che hai delle faccende personali da sbrigare. Domani e dopodomani potrai fare ciò che vuoi. Ma la mattina del terzo giorno presentati al mio padiglione: dobbiamo parlare del tuo futuro. Ho un'importantissima missione da affidarti.» «Certo, mia signora.» Poi aggiunse: «Porti Elva con te dappertutto, non è vero?» «Sì, mi protegge da qualsiasi pericolo dovesse sfuggire ai Falchineri. E poi la sua capacità di prevedere ciò che affligge le persone si è rivelata di grande aiuto. È molto più facile ottenere la collaborazione di qualcuno quando ne conosci le più segrete afflizioni.» «Sei disposta a rinunciare a lei?» Nasuada lo trafisse con lo sguardo. «Intendi davvero annullare la maledizione di Elva?» «Voglio provare. Ricordi? Gliel'avevo promesso.» «Sì, c'ero anch'io.» Lo schianto di una sedia caduta la distrasse per un istante, poi continuò: «Le tue promesse saranno la nostra morte... Elva è insostituibile; nessun altro ha il suo dono. E l'aiuto che mi dà - negli ultimi giorni ne ho avuto la prova - vale più di una montagna d'oro. Ho pensato addirittura che tra tutti noi sia l'unica che possa sconfiggere Galbatorix. Sarebbe in grado di anticiparne ogni mossa e grazie al tuo incantesimo saprebbe come contrattaccare e uscirne comunque vincitrice, purché questo non le costi la vita... Per il bene dei Varden, Eragon, per il bene di tutta Alagaësia, non potresti solo fingere di guarirla?» «No» rispose lui, sputando la risposta come risentito. «Non lo farei nemmeno se potessi. Sarebbe sbagliato. Se costringiamo Elva a restare com'è, ci si rivolterà contro, e non voglio averla come nemica.» Si interruppe, poi, vedendo l'espressione di Nasuada, aggiunse: «E ci sono ottime possibilità che io fallisca. Nella migliore delle ipotesi, rimuovere un incantesimo pronunciato in termini tanto vaghi è una cosa molto difficile... Posso darti un consiglio?» «Prego.» «Sii sincera con Elva. Spiegale quanto è importante per i Varden e chiedile se vuole continuare a portare questo fardello per il bene di tutte le persone libere. Potrebbe anche rifiutare, ne ha ogni diritto, e in quel caso non potremmo più contare su di lei. Se accetta, invece, sarà stata una sua scelta.» Aggrottando appena la fronte, Nasuada annuì. «Le parlerò domani. Dovrai essere presente anche tu per aiutarmi a convincerla e, se dovessimo fallire, annullare la maledizione. Vieni nel mio padiglione tre ore dopo l'alba.» Poi si incamminò nella notte illuminata dalle torce. Molto più tardi, quando le candele brillavano fioche sui loro sostegni e gli abitanti del villaggio cominciavano a disperdersi in gruppi di due o tre, Roran afferrò Eragon per il gomito e lo trascinò fuori dalla tenda, per poi fermarsi vicino a Saphira, dove gli altri non avrebbero sentito. «Ciò che hai detto prima dell'Helgrind era tutto vero?» gli domandò. Gli stringeva il braccio a tal punto che a Eragon parve di avere un paio di tenaglie di ferro conficcate nella carne. Aveva lo sguardo duro e interrogativo, e anche insolitamente vulnerabile. Eragon lo fissò. «Se ti fidi di me, Roran, non chiedermelo mai più. Non sono cose che ti riguardano.» Perfino mentre parlava, Eragon avvertiva una profonda sensazione di disagio per il fatto di dover nascondere a Roran e Katrina che Sloan era ancora vivo. Sapeva che l'inganno era necessario, tuttavia mentire alla sua famiglia lo metteva in difficoltà. Per un momento prese in considerazione l'ipotesi di dire loro la verità, poi però gli tornarono in mente tutte le ragioni per cui aveva deciso di non farlo e tenne a freno la lingua. Roran esitò, turbato, poi serrò la mascella e gli lasciò andare il braccio. «Sì, mi fido di te. Dopotutto, si fa così in una famiglia, no? Ci si fida.» «E ci si uccide.» Roran rise e si strofinò il naso con il pollice. «Già, si fa anche quello.» Fece roteare le massicce spalle curve e massaggiò quella destra, un'abitudine che gli era rimasta da quando il Ra'zac l'aveva morso. «Ho un'altra domanda.» «Dimmi.» «Mi serve una benedizione... un favore.» Un sorriso astuto gli si dipinse sulle labbra, poi si strinse nelle spalle. «Mai avrei pensato di parlarne proprio con te, Eragon. In fondo sei più giovane di me, da poco hai raggiunto la maggiore età e per giunta sei mio cugino.» «Parlare? E di cosa? Vieni al punto.» «Di matrimonio» rispose Roran, e levò il mento. «Vuoi celebrare il matrimonio tra me e Katrina? Mi farebbe molto piacere, e anche se non le ho voluto anticipare niente prima di avere la tua risposta, so che lei sarebbe altrettanto onorata se tu accettassi.» Eragon, sbalordito, rimase senza parole. Alla fine riuscì a balbettare: «Io?» Poi si affrettò a dire: «Ne sarei felice, ovvio, ma... «Voglio che sia tu a farlo, Eragon» rispose Roran, dandogli una pacca sulla spalla. «Sei un Cavaliere, e poi sei l'unica persona ancora in vita nelle cui vene scorre il mio stesso sangue; Murtagh non conta. Non mi viene in mente nessun altro che potrebbe legare il mio polso a quello di Katrina.» «Allora d'accordo» rispose Eragon. Roran lo abbracciò, stringendolo con tutta la sua forza prodigiosa, e lo lasciò senza fiato. Quando alla fine lo lasciò, Eragon ci mise un po' a riprendersi, poi gli domandò: «Quando? Nasuada ha una missione da affidarmi. Non conosco ancora i dettagli, ma immagino che mi terrà occupato per un bel po'. Dunque... che ne dici del mese prossimo, se la situazione lo permetterà?» Roran incassò il collo nelle spalle e scosse la testa come un toro che strofina le corna in un cespuglio di rovi. «Dopodomani?» «Così presto? Non state correndo un po' troppo? Non c'è nemmeno il tempo per i preparativi. La considereranno tutti una cosa inopportuna.» Roran drizzò le spalle; gli si gonfiarono le vene delle mani mentre apriva e stringeva i pugni. «Non posso aspettare. Se non ci sposiamo subito, le vecchie comari avranno qualcosa di ben più interessante della mia impazienza di cui sparlare. Ci siamo capiti?» A Eragon ci volle un momento per afferrare il significato di quelle parole, ma poi non riuscì a evitare che gli si stampasse sulla faccia un gran sorriso. «Ti sono debitore» rispose Roran, ricambiando il sorriso. «Grazie. Adesso vado a dare la notizia a Katrina, poi faremo il possibile per organizzare il banchetto di nozze. Appena l'avremo decisa, ti farò sapere l'ora esatta.» «Perfetto.» Roran si incamminò verso la sua tenda, poi si voltò e lanciò le braccia in alto, come se volesse stringersi al petto il mondo intero. «Eragon, mi sposo!» Eragon scoppiò a ridere e gli fece un cenno di saluto con la mano. «Muoviti, pazzo che non sei altro. Katrina ti sta aspettando.» Non appena il cugino fu rientrato nella sua tenda, Eragon si arrampicò su Saphira. «Blödhgarm» chiamò. Silenzioso più di un'ombra, l'elfo scivolò alla luce, gli occhi gialli che brillavano come brace. «Io e Saphira andiamo a fare un voletto. Ci vediamo dopo, da me.» «Come vuoi, Ammazzaspettri» rispose Blödhgarm, chinando il capo. Poi Saphira dispiegò le immense ali, fece tre passi di corsa e si lanciò sopra la fila di tende, sferzandole col gran vento sollevato dal battito. I movimenti del suo corpo scossero Eragon, che per non cadere si aggrappò alla punta cervicale della dragonessa. Saphira salì a spirale finché l'accampamento illuminato si ridusse a un insignificante fazzoletto di luce, minuscolo rispetto al paesaggio buio che lo circondava. Rimasero lassù, fluttuando tra terra e cielo, dove tutto era silenzio. Eragon posò la testa sul collo della dragonessa e guardò la scintillante striscia di polvere che attraversava il cielo. Ed Eragon scivolò nel suo sonno vigile, ma fu assalito dalle visioni: una città di pietra, dal perimetro circolare, che sorgeva in mezzo a una pianura infinita, e una bambina che vagava tra i tortuosi vicoli angusti cantando una melodia ossessiva. La notte si trascinava lenta verso il mattino. INTRECCIO DI SAGHE Passata da poco l'alba, Eragon era seduto sulla branda a oliare l'usbergo di maglia, quando uno degli arcieri dei Varden venne a implorarlo di salvare sua moglie, afflitta da un tumore maligno. Benché mancasse meno di un'ora all'appuntamento con Nasuada, Eragon accettò e accompagnò l'uomo alla sua tenda. Trovò la donna molto indebolita dalla crescita della massa tumorale e dovette fare appello a tutti i suoi poteri per estrarre le insidiose propaggini della malattia dalla carne. Per lo sforzo si ritrovò spossato, ma fu felice di essere riuscito a salvare quella donna da una morte lunga e dolorosa. Poi raggiunse Saphira fuori e rimase con lei qualche minuto, accarezzandole i muscoli vicino alla base del collo. La dragonessa faceva le fusa, ondeggiava la coda sinuosa e torceva la testa e le spalle così che Eragon potesse raggiungere più facilmente la pelle liscia. Eragon continuò a coccolarla finché Saphira non si scostò e disse: Si avviarono verso il centro dell'accampamento e il padiglione rosso. Non era molto distante, così la dragonessa decise di camminare insieme a lui invece di librarsi tra le nuvole. A un centinaio di metri dal padiglione si imbatterono in Angela l'erborista. Era inginocchiata tra due tende e indicava un quadrato di pelle disteso su una roccia bassa e piatta su cui giaceva un mucchio disordinato di ossi lunghi un dito, ogni lato marchiato con un simbolo diverso: erano gli ossi di zampa di drago con cui gli aveva predetto il futuro a Teirm. Di fronte a lei c'era una donna alta e con le spalle larghe, la pelle abbronzata e segnata dalle intemperie, i capelli neri raccolti in una lunga e folta treccia che le ricadeva sulla schiena, il viso ancora grazioso nonostante le profonde rughe che gli anni le avevano scolpito intorno alla bocca. Indossava un abito rosso scuro che le stava piccolo, tanto che le maniche erano corte e le lasciavano scoperta gran parte degli avambracci. Attorno a ogni polso aveva una benda di tela nera, ma quella sul sinistro si era allentata, e le era scivolata fino al gomito; Eragon poté così scorgere spessi strati di cicatrici, provocate di sicuro dal continuo sfregamento di un paio di manette. Intuì che doveva essere stata rapita dai nemici e che si era ribellata, lacerandosi i polsi fino all'osso. Si domandò se era una criminale o una schiava, e al pensiero che qualcuno potesse essere così crudele da permettere a un prigioniero sotto la propria custodia di ferirsi a quel modo, benché da solo, si incupì. Accanto alla donna c'era una ragazza dall'aria seria, la cui bellezza da adolescente stava sbocciando in un'avvenenza più matura. I muscoli degli avambracci erano insolitamente sviluppati, come se fosse stata l'apprendista di un fabbro o di uno spadaccino, cosa piuttosto improbabile per una ragazza, per quanto forte potesse essere. Angela aveva appena finito di dire loro qualcosa quando Eragon e Saphira si fermarono dietro la strega dai capelli ricci. Con un solo gesto, Angela raccolse gli ossi nel lembo di pelle e li ripose sotto la fascia gialla che aveva in vita. Si rialzò e rivolse ai due un sorriso radioso. «Però, che tempismo impeccabile! A quanto pare, arrivate sempre quando il pendolo del destino comincia a muoversi.» «Il pendolo del destino?» domandò Eragon. Angela fece spallucce. «Be', allora? Non è che mi possa inventare sempre chissà quale novità.» Indicò con un cenno le due sconosciute, che nel frattempo si erano alzate, e disse: «Eragon, concederai loro la tua benedizione? Hanno affrontato molti pericoli e davanti a loro si apre un cammino irto di difficoltà. Sono certa che ti saranno grate per qualunque protezione riceveranno da un Cavaliere dei Draghi come te.» Eragon esitò. Sapeva che di rado Angela leggeva gli ossi di drago a chi richiedeva i suoi servigi - di solito solo a coloro con cui Solembum si degnava di parlare - perché una previsione di quel genere non era un numero di magia da ciarlatani ma una predizione in piena regola, in grado di svelare i misteri del futuro. Che avesse deciso di farlo per la bella donna con le cicatrici ai polsi e per la ragazza con gli avambracci da schermidore gli fece capire che erano due persone di spicco, che avevano o avrebbero avuto un ruolo importante nella costruzione della futura Alagaësia. A conferma dei suoi sospetti, scorse Solembum nella forma di un gattone con enormi orecchie pelose nascosto dietro una tenda vicina, intento a osservare la scena con enigmatici occhi gialli. Tuttavia Eragon era titubante, perseguitato dal ricordo della prima e unica benedizione che aveva impartito: a causa della sua scarsa familiarità con l'antica lingua aveva deviato il normale corso della vita di una bambina innocente. La dragonessa fece schioccare la coda. «Come vi chiamate?» domandò Eragon. «Se non ti dispiace, Ammazzaspettri, i nomi hanno un potere, e preferiremmo che i nostri restassero segreti» rispose la donna alta e bruna, con un lieve accento di cui lui non riconobbe la provenienza. Teneva lo sguardo appena inclinato verso il basso, ma il tono di voce era fermo e inflessibile. La ragazza trattenne il respiro, sconvolta da tanta sfacciataggine. Eragon annuì, né turbato né sorpreso, benché la reticenza della donna avesse solleticato ancora di più la sua curiosità. Gli sarebbe piaciuto sapere come si chiamavano, ma non era indispensabile. Si levò il guanto destro e posò il palmo sulla fronte calda della donna, che al contatto trasalì, ma non si ritrasse. Le si dilatarono le narici, gli angoli della bocca si assottigliarono e aggrottò le sopracciglia. Eragon la sentì tremare, come se il suo tocco le provocasse dolore e stesse combattendo contro l'istinto di scansargli il braccio. Eragon avvertì che Blödhgarm si stava avvicinando furtivo, pronto ad avventarsi sulla donna nel caso che si fosse rivelata ostile. Sconcertato da quella reazione, Eragon fece breccia nella barriera della propria mente, si immerse nel flusso di magia e, con il potere dell'antica lingua, disse: «Atra guliä un ilian tauthr ono un atra ono waíse sköliro fra rauthr.» Infondendo energia alla frase, come se fossero le parole di un incantesimo, era certo che avrebbe modificato il corso degli eventi e di conseguenza migliorato il destino della donna. Fece attenzione a limitare la quantità di energia trasferita nella benedizione, perché altrimenti un incantesimo di quel genere gli avrebbe consumato il corpo fino a prosciugarne tutta la vitalità, lasciando solo un involucro vuoto. Nonostante la cautela, dissipò molte più energie del previsto; gli si annebbiò la vista e le gambe presero a tremare, minacciando di cedere. Un momento dopo si riprese. Fu con un senso di sollievo che tolse la mano dalla fronte della donna, e gli parve che lei ne fosse altrettanto felice, perché indietreggiò e si strofinò le braccia. Ebbe l'impressione che cercasse di ripulirsi da qualche sudicia sostanza. Poi Eragon ripeté il procedimento con la ragazza. Mentre l'incantesimo veniva pronunciato, le si distese il viso come se sentisse la sua forza diventare parte del proprio corpo. Alla fine gli fece un inchino. «Grazie, Ammazzaspettri. Ti siamo debitrici. Spero che tu riesca a sconfiggere Galbatorix e l'Impero.» Poi si voltò e fece per andarsene, ma si fermò non appena Saphira grugnì e protese la testa oltre Eragon e Angela, soffermandosi su di lei e sulla compagna. La dragonessa piegò il collo, alitò prima sul viso della donna e poi su quello della ragazza e, proiettando i propri pensieri con tanta forza da superare ogni barriera salvo le più solide - lei ed Eragon, infatti, avevano notato che la donna aveva una mente difficile da penetrare - disse: Non appena Saphira cominciò a parlare, entrambe le donne si irrigidirono. Poi la più anziana si batté un pugno sul petto e disse: «Non accadrà, o Leggiadra Cacciatrice.» Infine si inchinò ad Angela e le disse: «Lavora sodo, colpisci per prima, Veggente.» «Salute, Cantalama.» Con un fruscio di sottane, le due donne si allontanarono e presto sparirono nel dedalo delle tende grigie. Mentre i tre si incamminavano verso il padiglione di Nasuada, Eragon scoccò uno sguardo ad Angela. «Chi erano quelle due?» Lei storse le labbra. «Pellegrine impegnate nella loro ricerca.» «Non mi pare una gran risposta» si lamentò Eragon. «Non è mia abitudine distribuire segreti come noccioline caramellate durante il solstizio d'inverno. Soprattutto se appartengono ad altri.» Eragon rimase in silenzio per un po'. «Se qualcuno si rifiuta di rivelarmi un'informazione, mi rende solo più deciso a scoprire la verità. Detesto non sapere le cose. Una risposta non data è come una spina nel fianco che mi fa male ogni volta che mi muovo, almeno finché non riesco a estrarla» aggiunse. «Hai tutta la mia solidarietà.» «Perché?» «Se le cose stanno così, ho il sospetto che tu passi tutto il giorno in preda a un dolore mortale, perché la vita è piena di domande a cui non si trova risposta.» A una sessantina di piedi dal padiglione di Nasuada, un contingente di lancieri in marcia attraverso l'accampamento bloccò loro la strada. Mentre aspettavano che passassero, Eragon fu scosso da un brivido e si soffiò sulle mani. «Magari avessimo il tempo di mangiare qualcosa.» Più rapida che mai, Angela gli chiese: «È la magia, vero? Ti ha spossato.» Eragon annuì. Allora l'erborista infilò una mano in una delle sacche che teneva appese in vita e ne trasse una barretta marrone punteggiata di scintillanti semi di lino. «Tieni, ti calmerà la fame almeno fino all'ora di pranzo.» «Che cos'è?» «Mangiala, ti piacerà. Fidati» insisté, porgendogliela. Mentre Eragon le prendeva la barretta unta dalle dita, Angela gli afferrò il polso con l'altra mano e lo tenne fermo finché non ebbe ispezionato i calli spessi mezzo pollice che aveva sulle nocche. «Molto astuto da parte tua» commentò. «Sono disgustosi come le verruche dei rospi, ma che importa? Almeno la pelle resterà intatta. Grande idea. Davvero una grande, grande idea. Ti sei ispirato agli Ascûdgamln, i pugni d'acciaio dei nani?» «Non ti sfugge niente, eh?» «Se anche fosse, poco male. Mi occupo solo delle cose che esistono.» Eragon batté le palpebre, sconcertato come sempre dall'arguzia dell'erborista. Angela gli tastò un callo con un'unghia corta. «Me li farei crescere anch'io, solo che poi, lavorando a maglia o al telaio, mi si impiglierebbero nella lana.» «Tu lavori a maglia?» le domandò, sorpreso che svolgesse un'attività tanto ordinaria. «Ma certo! È un modo meraviglioso di rilassarsi. E se non lo facessi, dove troverei un maglione con ricamate sul petto le difese di Dvalar contro i conigli rabbiosi nell'antica lingua, o una retina per capelli tinta di giallo, verde e rosa acceso?» «I conigli rabbiosi...» Angela scosse la folta chioma riccia. «Rimarresti strabiliato nello scoprire quanti maghi sono morti per il morso di un coniglio rabbioso. Capita molto più spesso di quello che si crede.» Eragon la fissò. Passati i lancieri, i tre procedettero verso il padiglione rosso accompagnati da Solembum, che li aveva raggiunti di soppiatto. Facendosi strada tra i mucchi di sterco lasciati dai cavalli di re Orrin, Angela gli chiese: «Allora, dimmi: oltre al combattimento con i Ra'zac, non ti è successo niente di tremendamente interessante durante il viaggio? Lo sai che adoro sentir parlare di cose interessanti.» Eragon sorrise, ripensando agli spiriti che avevano fatto visita a lui e ad Arya. Tuttavia non voleva discuterne, così rispose: «Visto che me lo chiedi, in effetti mi sono successe un sacco di cose interessanti. Per esempio, ho incontrato un eremita di nome Tenga che viveva tra le rovine di una torre elfica. Aveva la biblioteca più stupefacente che avessi mai visto. C'erano sette...» Angela si bloccò così di colpo che Eragon fece altri tre passi avanti prima di accorgersene e tornare indietro. La strega sembrava stordita, come se l'avessero colpita sulla testa. Solembum avanzò verso di lei quatto quatto, le si strusciò contro le gambe e alzò il muso. Angela si inumidì le labbra, poi disse: «Sei...» Tossicchiò. «Sei sicuro che si chiamasse Tenga?» «Lo conosci?» Solembum soffiò e gli si rizzò il pelo sulla schiena. Eragon si scostò dal gatto mannaro, ansioso di mettersi al riparo dai suoi artigli. «Se lo conosco?» Con una risata amara, Angela si portò le mani ai fianchi. «Se lo conosco? Altroché! Sono stata la sua apprendista per... per uno sventurato numero di anni.» Eragon non si aspettava che la donna avrebbe mai rivelato qualcosa del suo passato. Desideroso di saperne di più, le chiese: «Quando l'hai conosciuto? E dove?» «Molto tempo fa e molto lontano da qui. Tuttavia ci siamo separati in malo modo e non lo vedo da tantissimi anni.» Angela si accigliò. «Anzi, pensavo che fosse morto.» Poi fu la volta di Saphira: «Non ne ho la minima idea. Tenga stava sempre cercando la risposta a qualche domanda. Quando la trovava, passava a un'altra, e così via, all'infinito. Dall'ultima volta che l'ho visto potrebbe aver trovato risposta a un centinaio di domande, ma anche essere ancora alle prese con lo stesso enigma di quando me ne sono andata.» «Se le fasi lunari influenzano il numero e la qualità di opali che si formano alle pendici dei Monti Beor, come credono i nani.» «Ma come si fa a dimostrarlo?» obiettò Eragon. Angela si strinse nelle spalle. «Se c'è una persona in grado di riuscirci, è Tenga. Sarà un po' pazzo, ma non si può negare che sia brillante.» Poi Angela batté le mani e disse: «Basta! Mangia il tuo dolcetto, Eragon, e andiamo da Nasuada.» RIMEDIARE A UN ERRORE «Siete in ritardo» disse Nasuada a Eragon e Angela mentre prendevano posto sulle sedie disposte a semicerchio di fronte allo scranno dall'alto schienale. C'erano anche Elva e Greta, l'anziana domestica che nel Farthen Dûr aveva pregato Eragon di benedire la sua protetta. Come sempre, Saphira si era accucciata fuori e aveva infilato la testa in un'apertura su un lato per poter prendere parte alla riunione. Solembum era acciambellato accanto alla sua testa. A parte qualche scatto della coda, sembrava profondamente addormentato. Eragon e Angela si scusarono, poi il Cavaliere ascoltò Nasuada spiegare a Elva il valore del suo dono per i Varden - Elva, che si reggeva il piccolo mento aguzzo con i pugni, alzò la testa e rispose: «No.» Nel padiglione calò un silenzio carico d'angoscia. Fissando impassibile tutti i presenti, la bambina continuò: «Eragon, Angela, sapete entrambi cosa significa condividere i pensieri e le emozioni di chi sta per morire. Sapete quanto sia orribile e straziante: è come se una parte di me svanisse per sempre. E provo la stessa sensazione ogni volta che muore qualcuno. Voi non siete costretti a sopportare questa esperienza, a meno che non lo vogliate, mentre io... Io non ho altra scelta. Avverto ogni morte accanto a me. Perfino ora sento che la vita sta per abbandonare Sefton, uno dei tuoi spadaccini ferito sulle Pianure Ardenti, Nasuada, e so quali parole potrei dirgli per alleviare il suo terrore dell'oblio. La sua paura è così immensa, oh, che mi fa venire i brividi!» Con un grido incoerente, si portò le braccia davanti al viso come per schivare un colpo, poi disse: «Ah, è morto. Ma ce ne sono altri. C'è sempre qualcuno che muore. La fila dei morti non finisce mai.» La nota di amaro sarcasmo della sua voce, solo una parodia del tono che avrebbe dovuto tenere qualunque bambina di quell'età, si fece più marcata. «Lo capisci Nasuada, Lady Furianera, Colei che Diventerà la Regina del Mondo? Lo capisci? Io avverto tutto il dolore che c'è intorno a me, fisico o mentale che sia. Lo sento come se fossi io stessa a provarlo e la magia di Eragon mi obbliga ad alleviare il disagio di coloro che soffrono, noncurante di ciò che comporta per me. E se mi oppongo, come sto facendo ora, il mio corpo si ribella: lo stomaco brucia, mi scoppia la testa come se un nano mi stesse prendendo a martellate, fatico a muovermi e ancora di più a pensare. È questo che desideri per me, Nasuada? «Non ho mai tregua dai dolori del mondo, né di notte né di giorno. Da quando Eragon mi ha dato la sua Nasuada tentò di nuovo di farla ragionare, ma come Elva aveva garantito, il tentativo si rivelò inutile. Alla fine la regina chiese ad Angela, Eragon e Saphira di intervenire. L'erborista si rifiutò, dicendo che non avrebbe potuto trovare parole migliori delle sue; e poi pensava che quella di Elva fosse una scelta personale, che la bambina dovesse fare ciò che voleva senza essere tormentata come un'aquila da uno stormo di ghiandaie. Eragon era più o meno della stessa opinione, ma acconsentì a dirle un'ultima cosa: «Elva, non posso suggerirti ciò che devi fare, perché solo tu puoi deciderlo, ma non respingere la richiesta di Nasuada senza riflettere. Sta cercando di salvarci da Galbatorix e se vogliamo avere qualche possibilità di successo ha bisogno del nostro sostegno. Non vedo nel futuro, ma credo che il tuo dono potrebbe essere l'arma perfetta contro di lui. Potresti prevedere ogni sua mossa. Potresti dirci come respingere le sue schiere. E soprattutto avvertiresti dove è più vulnerabile, dove è più fragile, e potresti dirci che cosa fare per ferirlo.» «Se vuoi che cambi idea, Cavaliere, dovrai fare di meglio.» «Non voglio che cambi idea» rispose Eragon. «Voglio solo assicurarmi che tu abbia considerato quali implicazioni avrà la tua decisione, e che essa non sia stata troppo affrettata.» La bambina si agitò un po', ma non rispose. Poi Saphira le chiese: Elva rispose con dolcezza, senza alcuna malizia. «Ho già detto cosa c'è nel mio cuore, Saphira. Aggiungere altro risulterebbe superfluo.» Se anche Nasuada era frustrata dall'ostinazione di Elva, non lo diede a vedere, benché avesse un'espressione austera in volto, come richiedeva il tono della discussione. «Non condivido la tua scelta, Elva» le disse, «ma la rispetteremo, perché mi pare ovvio che non c'è modo di persuaderti. Suppongo di non poterti biasimare, poiché non conosco la sofferenza a cui sei esposta ogni giorno, e se fossi al tuo posto è probabile che mi comporterei alla stessa maniera. Eragon, se vuoi...» Alla richiesta di Nasuada, Eragon si inginocchiò davanti a Elva, che lo trafisse con gli splendenti occhi viola mentre lui le prendeva le mani tra le sue. La pelle della bambina scottava, come se avesse la febbre. «Le farà male, Ammazzaspettri?» chiese Greta con voce tremante. «Non dovrebbe, ma non ne sono sicuro. Rompere un incantesimo è un'arte imprecisa, molto più che evocarlo. Proprio per le difficoltà che comporta, i maghi tentano una cosa simile di rado, anzi, non lo fanno quasi mai.» Le rughe sul viso della vecchia si contrassero per la preoccupazione, poi Greta accarezzò Elva sulla testa e le disse: «Sii forte, prugnetta mia. Sii forte.» Non parve accorgersi dell'occhiataccia irritata che le rifilò la bambina. Eragon ignorò l'interruzione. «Elva, ascoltami. Ci sono due modi per rompere un incantesimo. Prima di tutto, il mago che l'ha evocato può aprirsi all'energia che alimenta la magia e...» «Questa è la parte in cui ho sempre avuto problemi» intervenne Angela. «Ecco perché mi affido più a piante, pozioni e talismani, magici già per loro natura, che non agli incantesimi.» «Se non ti dispiace...» Sulle guance dell'erborista si formarono due fossette; poi disse: «Scusami. Procedi pure.» «Bene» ringhiò Eragon. «Allora, come dicevo, un mago può...» «O una maga» precisò Angela. «Vuoi lasciarmi finire, per favore?» «Scusa.» Eragon vide Nasuada trattenere un sorriso. «Dicevo... Il mago si apre al flusso di energia che gli scorre in corpo e recita nell'antica lingua non solo le parole dell'incantesimo ma anche l'obiettivo finale. È una cosa molto difficile, come potete immaginare. Se il mago non è animato dalle migliori intenzioni, l'incantesimo di partenza verrà solo modificato e non infranto del tutto, così alla fine da sciogliere ce ne saranno due, e per giunta sovrapposti. «Il secondo metodo, invece, consiste nell'evocare un nuovo incantesimo che agisca contro gli effetti del primo e che, se eseguito correttamente, lo renda inefficace. Col tuo permesso, Elva, avrei deciso di procedere così.» «Una soluzione davvero elegante» proclamò Angela, «ma ti prego, dimmi: chi fornirà il flusso continuo di energia necessaria per sostenere il controincantesimo nel tempo? E poi, visto che qualcuno dovrà pur chiederlo, che cosa potrebbe andare storto?» Eragon tenne lo sguardo fisso su Elva. «L'energia dovrà venire da te» le disse, stringendole le mani tra le sue. «Non ne servirà molta, ma ti indebolirà lo stesso. Non sarai più in grado di correre o di portare legna come tutte le persone normali.» «Perché non ce la metti tu?» gli chiese Elva, inarcando un sopracciglio. «Dopotutto è colpa tua se mi trovo in questo guaio.» «Lo farei, ma in quel caso, più mi allontano da te, più sarà difficile inviartela. E se mi trovassi troppo distante - un miglio, diciamo, forse anche qualcosa in più - lo sforzo mi ucciderebbe. Quanto a ciò che potrebbe andare storto, l'unico rischio è che pronunci il controincantesimo in maniera scorretta, con il risultato di non riuscire ad annullare la mia benedizione. In quel caso dovrò evocarne un altro.» «E se nemmeno quello va a buon fine?» Eragon tacque. «Posso sempre ricorrere al primo metodo che ho spiegato. Preferirei evitarlo, tuttavia. È l'unico modo per annullare del tutto un incantesimo, ma se il tentativo non riesce - cosa più che possibile - ti ritroveresti in una situazione perfino peggiore di quella attuale.» Elva annuì. «Capisco.» «Ho il tuo permesso, dunque? Posso procedere?» Quando la bambina abbassò di nuovo il mento, Eragon trasse un profondo respiro e si preparò. Per concentrarsi socchiuse gli occhi e poi cominciò a parlare nell'antica lingua. Ogni parola gli sgorgava dalla bocca pesante come un colpo di martello. Pronunciava con cautela ogni sillaba, ogni suono diverso dalla sua lingua, per evitare contrattempi potenzialmente terribili. Il controincantesimo era impresso a fuoco nella sua memoria. Durante il viaggio di ritorno dall'Helgrind vi aveva dedicato molte ore, aveva lavorato sodo e sfidato se stesso per trovare alternative sempre migliori in vista del giorno in cui avrebbe tentato di rimediare al torto causato a Elva. Mentre parlava, Saphira incanalò la propria forza dentro di lui. Eragon la sentì sostenerlo e vegliare su di lui, pronta a intervenire non appena avesse intuito che era sul punto di storpiare la formula magica. Il controincantesimo era molto lungo e complesso, perché doveva andare a colpire ogni possibile interpretazione della sua benedizione. Trascorsero cinque minuti buoni prima che Eragon pronunciasse l'ultima frase, l'ultima parola e, infine, l'ultima sillaba. Nel silenzio che seguì, il viso di Elva si rabbuiò per la delusione. «Li sento ancora» disse. Nasuada si sporse dallo scranno. «Chi?» «Tu, lui, lei, chiunque stia soffrendo. Le voci non sono sparite! Non avverto più il bisogno di aiutare le persone, ma il dolore scorre ancora dentro di me.» «Eragon» disse Nasuada. Lui aggrottò le sopracciglia. «Devo aver saltato qualcosa. Datemi un istante per riflettere, poi metterò insieme un altro incantesimo che potrebbe funzionare. Ho preso in considerazione altre possibilità, ma...» La voce gli venne meno a poco a poco; era turbato perché non era riuscito nel suo intento. Ed evocare un incantesimo per bloccare il dolore di Elva sarebbe stato molto più difficile che non eliminare la benedizione nel suo complesso. Una parola sbagliata, una frase mal costruita e avrebbe potuto distruggere la capacità di Elva di immedesimarsi negli altri e precluderle la possibilità di imparare a comunicare con la propria mente, oppure soffocare il suo senso del dolore, tanto che, se si fosse ferita, non se ne sarebbe accorta subito. Eragon si stava consultando con Saphira quando Elva esclamò: «No!» Lui la guardò confuso. Un bagliore estatico sembrava emanare dalla bambina. Mentre sorrideva, i denti arrotondati e bianchi come perle luccicavano e gli occhi brillavano di gioia trionfante. «No, non riprovarci più.» «Ma, Elva, perché...» «Perché non voglio perdere altre forze. E perché mi sono appena resa conto che posso ignorarli!» Afferrò i braccioli della sedia, tremando per l'eccitazione. «Non provando più il bisogno spasmodico di aiutare i sofferenti, posso ignorarne i problemi e non stare più male! Posso ignorare l'uomo a cui è stata amputata una gamba, posso ignorare la donna che si è appena scottata la mano, posso ignorarli tutti e non sentirmi cattiva per questo! È vero, non riesco a bloccare del tutto i loro pensieri, non ancora, perlomeno, ma... Oh! Che sollievo! C'è silenzio. Un silenzio benedetto! Basta con i tagli, i graffi, le sbucciature e le ossa rotte. Basta con le futili preoccupazioni di giovani scapestrati. Basta con l'angoscia delle mogli abbandonate e dei mariti ingannati. Basta con le migliaia di insopportabili ferite di guerra. Basta col panico che ti torce le budella e precede il buio finale.» Con le guance rigate di lacrime, rideva, un roco gorgheggio che fece venire i brividi a Eragon. Gli occhi di Elva brillarono di una spiacevole gioia. «Io non sarò mai come gli altri. Se il mio destino è di essere diversa, allora ben venga la mia diversità. Finché riesco a controllare il mio potere, come sembra, non mi spaventa l'idea di portare questo fardello perché sarà una «Elva!» esclamò Greta. «Non dire queste cose terribili! Non posso credere che le pensi davvero!» La bambina si volse verso di lei così bruscamente che i capelli le sventagliarono sulle spalle. «Ah, sì, mi ero dimenticata di te, domestica mia. Sempre fedele. Sempre apprensiva. Ti sono grata per avermi adottata dopo la morte di mia madre e per avermi curata fin dai giorni del Farthen Dûr, ma non mi servi più. Vivrò da sola, baderò a me stessa e non dovrò mostrarmi riconoscente a nessuno.» Intimidita, la vecchia si coprì la bocca con il bordo di una manica e si ritrasse. Le parole di Elva lasciarono Eragon inorridito. Decise che l'avrebbe privata del suo dono, se aveva intenzione di abusarne. Con l'aiuto di Saphira, che era d'accordo con lui, scelse il più promettente tra tutti i nuovi controincantesimi che aveva contemplato nei giorni precedenti e prese fiato per pronunciarne i versi. Veloce come un serpente, Elva gli tappò la bocca con una mano, impedendogli di parlare. Quando Saphira ringhiò, quasi assordando Eragon, che aveva un udito fuori dal comune, il padiglione fu scosso da un fremito. Indietreggiarono tutti, tranne Elva, che continuava a tenere la mano premuta contro il viso di Eragon, e Saphira gridò: Richiamate dal ringhio della dragonessa, le sei guardie di Nasuada fecero irruzione nella tenda brandendo le armi, mentre Blödhgarm e gli altri elfi corsero da Saphira e si piazzarono alla sua destra e alla sua sinistra, all'altezza delle spalle, scostando la parete di stoffa del padiglione così da poter vedere cosa stava succedendo. Nasuada fece loro un cenno e i Falchineri abbassarono le armi; gli elfi rimasero schierati, pronti a intervenire. Le loro spade scintillavano come ghiaccio. In apparenza Elva non fu turbata né dal trambusto che aveva provocato né dalle lame puntate contro di lei. Abbassò il capo e guardò Eragon come se fosse uno strano insetto che aveva sorpreso a strisciare lungo il bordo della sedia, poi sorrise con un'espressione così dolce e innocente che il Cavaliere si chiese perché non aveva riposto più fiducia in lei. Con voce suadente come il miele caldo, la bimba gli disse: «Eragon, basta. Se pronunci il tuo incantesimo mi farai ancora del male come l'altra volta. E tu non lo vuoi. Altrimenti ogni sera, quando ti coricherai, penserai a me e il ricordo del torto commesso ti tormenterà. Ciò che stavi per fare era una cosa malvagia, Eragon. Sei forse il giudice del mondo? Vuoi condannarmi anche se non ho commesso alcun crimine solo perché non approvi la mia condotta? Quella strada porta al depravato piacere di controllare gli altri per la propria soddisfazione. Galbatorix sarebbe felice di te.» Poi lo lasciò andare, ma Eragon era troppo sconvolto per muoversi. L'aveva colpito nel profondo e lui non aveva argomentazioni con cui difendersi, perché le domande e le osservazioni di Elva erano le stesse che rivolgeva a se stesso. Al pensiero che la bambina l'avesse compreso così bene sentì un brivido gelido lungo la schiena. «Ti sono grata comunque, Eragon, perché oggi sei venuto a porre rimedio al tuo errore» continuò Elva. «Non tutti sono disposti ad ammettere e ad affrontare le proprie mancanze. Tuttavia non ti sei conquistato i miei favori. Hai pareggiato il conto meglio che potevi, ma era il minimo che avrebbe fatto qualsiasi persona rispettabile. Non mi hai risarcito per tutto ciò che ho dovuto sopportare; è impossibile. Dunque, la prossima volta che le nostre strade si incroceranno, Eragon Ammazzaspettri, non contare su di me, né come amica né come nemica. Provo sentimenti contrastanti, Cavaliere; sono pronta tanto a odiarti quanto ad amarti. E molto dipende da te... Saphira, tu mi hai dato la stella sulla fronte e sei sempre stata gentile con me. Sono e sarò la tua fedele serva.» Levando il mento per sfruttare al massimo la sua altezza di soli tre piedi e mezzo, Elva passò in rassegna l'interno del padiglione. «Eragon, Saphira, Nasuada... Angela. Buona giornata a tutti voi.» Poi si avviò di corsa verso l'ingresso e i Falchineri si fecero da parte per lasciarla uscire. Eragon si alzò, incerto sulle gambe. «Che razza di mostro ho creato?» I due Falchineri Urgali si toccarono la punta delle corna per scacciare la sventura. «Mi dispiace. A quanto pare non faccio che complicare le cose a te e a tutti noi» disse a Nasuada. Tranquilla come un lago di montagna, la regina si aggiustò la veste prima di rispondere: «Non importa. È solo che il gioco si è fatto un po' più complicato del previsto, tutto qui. E c'era da aspettarselo, visto che ci stiamo avvicinando sempre più a Urû'baen e a Galbatorix.» Un istante dopo Eragon sentì un sibilo nell'aria, come se stesse per essere colpito da un oggetto in volo. Trasalì, ma, per quanto rapido, non fece in tempo a evitare il sonoro schiaffo che gli fece voltare la testa da una parte e lo scaraventò barcollando contro una sedia. Rotolò al di là e poi si rialzò, il braccio sinistro levato per respingere un secondo schiaffo, il destro caricato all'indietro e pronto a intervenire con il coltello da caccia che nel frattempo aveva estratto dalla cintola. Con sua grande sorpresa, vide che era stata Angela a schiaffeggiarlo. Gli elfi erano riuniti pochi pollici dietro l'indovina, pronti a immobilizzarla se l'avesse attaccato di nuovo e a scortarla via se Eragon l'avesse ordinato. Solembum era ai suoi piedi, denti e artigli sfoderati, il pelo ritto sulla schiena. In quel preciso istante, a Eragon degli elfi non importava nulla. «Perché mi hai colpito?» le domandò, e trasalì, perché parlando la ferita che aveva sul labbro di sotto si era aperta un po' di più. Eragon sentì sulla lingua il sapore metallico del sangue caldo. Angela scosse la testa. «Adesso mi toccherà passare i prossimi dieci anni a insegnare a Elva come comportarsi! Non è questo che avevo in mente!» «Insegnarle come comportarsi?» esclamò Eragon. «Non te lo permetterà. Te lo impedirà con la stessa facilità con cui ha fermato me.» «Mmm. Non credo proprio. Non sa come importunarmi né ferirmi. L'ho capito il giorno in cui ci siamo conosciute.» «Vuoi spiegarlo anche a noi?» chiese Nasuada. «Dopo gli ultimi sviluppi, mi pare prudente trovare un modo per proteggerci da Elva.» «No, non credo che lo farò» rispose Angela; poi anche lei uscì dal padiglione a grandi falcate e Solembum la seguì furtivo, facendo ondeggiare la coda con estrema grazia. Gli elfi rinfoderarono le spade e indietreggiarono fino a trovarsi a una certa distanza dalla tenda. Nasuada si massaggiò le tempie con movimenti circolari. «Ah, la magia!» imprecò. «Già, la magia» convenne Eragon. Quando Greta si gettò a terra e cominciò a piangere e a lamentarsi strappandosi i radi capelli, i due sobbalzarono. «Oh, la mia bambina! Ho perso il mio agnellino! L'ho perso! Cosa ne sarà di lei, tutta sola? Oh, povera me, il mio fiorellino mi ha cacciata. Che vergognosa ricompensa per il mio lavoro. Mi sono spaccata la schiena come una schiava per lei. Che mondo duro e crudele, non fa che renderti infelice.» Gemette. «La mia prugnetta. La mia rosellina. Il mio pisellino dolce. Se n'è andata! Chi baderà a lei? Ammazzaspettri! La proteggerai?» Eragon la prese per un braccio e la aiutò a rialzarsi, poi per consolarla le promise che lui e Saphira avrebbero tenuto d'occhio Elva. DONI D'ORO Eragon era accanto a Saphira, a una cinquantina di iarde dal padiglione rosso di Nasuada. Felice di essersi liberato della confusione scoppiata attorno a Elva, alzò lo sguardo al terso cielo turchino e si massaggiò le spalle, già stanco per gli eventi della giornata. Saphira voleva raggiungere in volo il fiume Jiet e fare un bagno nelle sue placide acque profonde; lui invece era meno sicuro sul da farsi. Doveva ancora finire di oliare l'armatura, prepararsi per il matrimonio di Roran e Katrina, andare a far visita a Jeod, trovare una spada, e poi... Si grattò il mento. Saphira dispiegò le ali, pronta a spiccare il volo. Gli occhi della dragonessa brillarono. Vedendo Blödhgarm correre verso di lui, svelto come un gatto selvatico, Eragon abbassò lo sguardo. L'elfo gli chiese dove stesse andando Saphira e non parve felice della spiegazione; tuttavia, se anche aveva qualcosa da obiettare, lo tenne per sé. «D'accordo» si disse Eragon mentre Blödhgarm tornava dai compagni. «Prima le cose veramente importanti.» Attraversò l'accampamento e raggiunse un ampio spiazzo quadrato in cui una trentina di Varden si stavano esercitando con un vasto assortimento di armi. Con suo grande sollievo, erano troppo occupati per accorgersi della sua presenza. Si accovacciò e appoggiò la mano destra sulla terra battuta, col palmo rivolto verso l'alto. Scelse con cura le parole nell'antica lingua, poi mormorò: «Kuldr, rïsa lam iet un malthinae unin böllr.» Benché il suolo sembrasse intatto, sentì l'incantesimo filtrare sottoterra per centinaia di piedi in ogni direzione. Non più di cinque secondi dopo, la superficie del terreno cominciò a ribollire come l'acqua in una pentola lasciata sul fuoco troppo a lungo e si ricoprì di una brillante patina gialla. Eragon aveva imparato da Oromis che la terra conteneva sempre minuscole particelle quasi di ogni elemento, troppo piccole e disperse per poter essere estratte con i metodi tradizionali; pero un mago esperto poteva riuscirci, seppur con grande sforzo. Dal centro della macchia gialla di terra si levò un getto arcuato di polvere luccicante che gli ricadde sul palmo. Ogni granello scintillante si fuse con quello accanto fino a formare tre sfere d'oro zecchino, ciascuna delle dimensioni di una grossa nocciola. «Letta» disse Eragon, e pose fine alla magia. Si accovacciò sui talloni e si appoggiò con le mani al terreno, sopraffatto dalla stanchezza. La testa gli ciondolava in avanti; socchiuse le palpebre perché gli si annebbiava la vista. Trasse un profondo respiro e ammirando i globi dorati che aveva nella mano, lisci come specchi, attese che gli tornassero le forze. Infilò l'oro in tasca e riprese il cammino. Trovò la tenda delle cucine e consumò un lauto pasto; del resto ne aveva bisogno, dopo aver evocato tanti incantesimi complessi. Poi andò verso le tende degli abitanti di Carvahall. Nell'avvicinarsi udì un clangore metallico. Incuriosito, procedette in quella direzione. Aggirò tre carri disposti in fila davanti all'imbocco di un vialetto e vide Horst in mezzo a due tende, distanti fra loro una trentina di metri, che reggeva una sbarra di metallo lunga cinque piedi. L'estremità opposta, di un vivo rosso ciliegia, era posata su un'immensa incudine di duecento libbre issata sopra un gran ceppo basso. Su entrambi i lati, i due corpulenti figli del fabbro, Albriech e Baldor, facevano roteare la mazza sopra la testa in ampi cerchi e poi colpivano l'acciaio a turno. Dietro di loro ardeva una forgia improvvisata. Il fragore dei colpi era così assordante che Eragon rimase a debita distanza finché i due ragazzi non ebbero finito di appiattire e modellare il metallo e Horst non ebbe rimesso la sbarra nella forgia. Agitando il braccio libero, l'uomo lo salutò a gran voce: «Salute, Eragon!» Poi alzò un dito, anticipando la risposta di Eragon, e si tolse un tappo di feltro dall'orecchio sinistro. «Ah, adesso sì che ci sento. Che ci fai da queste parti?» Mentre parlava, i suoi figli presero dell'altro carbone da un secchio e lo gettarono nel fuoco, poi cominciarono a riordinare pinze, martelli, stampi e altri utensili sparsi a terra. Erano tutti e tre madidi di sudore. «Volevo capire da dove proveniva questo frastuono» spiegò Eragon. «Avrei dovuto immaginarlo che eri tu. Solo un abitante di Carvahall potrebbe fare un simile fracasso!» Horst rise, puntando la folta barba a forma di badile verso il cielo, finché quello sfogo di ilarità non si fu esaurito. «Ah, così stuzzichi il mio orgoglio. Proprio tu, che ne sei la prova vivente...» «Lo siamo tutti» rispose Eragon. «Tu, io, Roran, chiunque venga da Carvahall. Quando ce ne saremo andati, Alagaësia non sarà più la stessa.» Indicò la forgia e le altre attrezzature. «Che ci fai qui? Pensavo che tutti i fabbri fossero...» «Sì, in effetti è così, Eragon. Tuttavia, ho convinto il capitano responsabile di questa parte dell'accampamento a lasciarmi lavorare più vicino alla nostra tenda.» Horst strattonò l'estremità della barba. «Per via di Elain, sai com'è... Questo bambino la sta facendo penare e considerato ciò che abbiamo passato per arrivare fin qui non c'è da stupirsene. È sempre stata delicata, e adesso ho paura che... be'...» Si scrollò come un orso che si libera dalle mosche. «Magari, quando ti capita, potresti darle un'occhiata e vedere se riesci ad alleviarle il dolore.» «Contaci» promise Eragon. Con un grugnito di soddisfazione, Horst estrasse metà sbarra dalla brace per valutare meglio la colorazione dell'acciaio, poi la ricacciò nel fuoco e fece un cenno con il mento a Albriech. «Su, pompa un po' d'aria. È quasi pronta.» Mentre il figlio azionava il mantice di cuoio, Horst fece un gran sorriso a Eragon. «Quando ho detto ai Varden che lavoro facevo, erano felici come se fossi stato anch'io un Cavaliere dei Draghi. Sai, qui i fabbri scarseggiano. E mi hanno perfino procurato gli attrezzi che mi mancavano, compresa quell'incudine. Quando lasciammo Carvahall, piansi all'idea che non avrei più potuto esercitare il mio mestiere. Non sono in grado di forgiare spade, ma qui... ah, qui c'è abbastanza lavoro da tenere me, Albriech e Baldor occupati per i prossimi cinquant'anni. La paga è quella che è, ma almeno non siamo appesi a testa in giù nei sotterranei di Galbatorix.» «E nemmeno mangiucchiati dai Ra'zac» osservò Baldor. «Giusto, ben detto.» Horst fece cenno ai figli di riprendere le mazze e poi, portandosi il tappo di feltro accanto all'orecchio sinistro, disse: «Ti serve altro, Eragon? L'acciaio è pronto, non posso lasciarlo nel fuoco un secondo di più, altrimenti si piega.» «Sai dov'è Gedric?» «Gedric?» La ruga tra le sopracciglia di Horst si fece più profonda. «Credo che si stia esercitando con spada e lancia insieme agli altri uomini, laggiù, a circa un quarto di miglio da qui.» Gli indicò la direzione con il pollice. Eragon lo ringraziò e si avviò. Il ripetitivo clangore metallico riprese, chiaro quanto i rintocchi di una campana, acuto e penetrante come un ago di vetro che fende l'aria. Eragon si tappò le orecchie e sorrise. Lo confortava che la determinazione di Horst non fosse venuta meno, anche se aveva perso casa e ricchezza, e che fosse rimasto quello di prima. Per certi versi la coerenza e la determinazione del fabbro rinnovarono la sua fiducia nel fatto che, se fossero riusciti a detronizzare Galbatorix, alla fine sarebbe tornato tutto al suo posto, e la sua vita e quella degli altri abitanti del villaggio avrebbe riacquistato una parvenza di normalità. Poco dopo arrivò al campo dove gli uomini di Carvahall si stavano esercitando con le nuove armi. Gedric era lì, come aveva immaginato Horst, e combatteva con Fisk, Darmmen e Morn. Bastò un veloce scambio di battute con il veterano monco di un braccio che conduceva l'addestramento perché Gedric ne fosse dispensato. Il conciatore gli corse incontro e gli si parò davanti, lo sguardo rivolto a terra. Era basso e scuro di carnagione; aveva la mascella di un mastino e folte sopracciglia, e a furia di mescolare il contenuto delle botti maleodoranti in cui conciava le pelli, le braccia gli erano diventate forti e nodose. Benché fosse tutt'altro che bello, Eragon sapeva che era un uomo gentile e onesto. «Posso fare qualcosa per te, Ammazzaspettri?» bofonchiò. «L'hai già fatto. E sono venuto a ringraziarti e ricompensarti.» «Io? E in che modo ti avrei aiutato, sentiamo?» Parlava piano, con cautela, come temendo che Eragon gli stesse tendendo una trappola. «Subito dopo la mia fuga da Carvahall, hai scoperto che qualcuno ti aveva rubato tre pelli di vacca dalla casupola in cui le metti ad asciugare, vicino alle botti. Giusto?» Per l'imbarazzo, Gedric si adombrò e prese a sfregare i piedi per terra. «Ah... be', non l'avevo chiusa a chiave. Chiunque poteva intrufolarsi dentro e portare via quelle pelli. E considerato cos'è successo poi, non capisco che differenza fa. Ho distrutto quasi tutte le pelli prima di marciare sulla Grande Dorsale per evitare che l'Impero e quegli schifosi dei Ra'zac mettessero gli artigli su qualcosa di utile. Chiunque le ha prese mi ha solo risparmiato la fatica di doverne distruggere altre tre. Ormai quel che è stato è stato.» «Forse» rispose Eragon, «ma il mio senso dell'onore mi spinge a confessarti che il colpevole sono io.» A quel punto Gedric alzò la testa e lo guardò come se fosse una persona qualunque, senza paura, timore o reverenza, quasi il conciatore stesse rivalutando l'opinione che aveva di lui. «Le ho rubate io e non ne vado fiero, ma mi servivano. Senza di esse dubito che sarei sopravvissuto abbastanza a lungo da raggiungere gli elfi nella Du Weldenvarden. Ho sempre preferito pensare di averle prese in prestito, ma la verità è che le ho rubate, perché non avevo alcuna intenzione di restituirle. Quindi accetta le mie scuse. E poiché le pelli le ho ancora io, perlomeno ciò che ne resta, pagartele mi sembra il minimo.» Eragon prese dalla cintola una delle tre sfere d'oro - dure, rotonde e intiepidite dal calore della sua pelle - e la consegnò a Gedric. L'uomo fissò la scintillante perla di metallo: aveva l'enorme mascella serrata e rughe dure e inflessibili attorno alle labbra sottili. Non mancò di rispetto a Eragon soppesando l'oro o mordendolo, ma non appena riacquistò il dono della parola disse: «Non posso accettarla. Un tempo ero un bravo conciatore, ma le mie pelli non valevano tanto. La tua generosità ti rende merito, ma se accettassi quest'oro non sarei in pace con me stesso. Sarebbe come se non me lo fossi guadagnato.» Per nulla sorpreso, Eragon rispose: «Non negheresti a qualcuno la possibilità di contrattare un prezzo più onesto, vero?» «No.» «Bene. Io non faccio eccezione, dunque. Di solito si gioca al ribasso, ma diciamo che in questo caso ho scelto di puntare al rialzo. Contratterò comunque con impegno, come se volessi risparmiare una manciata di monete. Per me le tue pelli valgono quell'oro fino all'ultima oncia, e non ti pagherò un solo soldo di meno, nemmeno se mi puntassi un coltello alla gola.» Gedric strinse le dita massicce attorno alla sfera d'oro. «Visto che insisti, non sarò così villano da continuare a rifiutare. Nessuno può dire che Gedric Ostvensson si è lasciato sfuggire una fortuna perché era troppo occupato ad affermare il proprio scarso valore. Ti ringrazio, Ammazzaspettri.» Avvolse la sfera in una pezza di lana perché non si graffiasse e la ripose in una sacca che teneva legata alla cintola. «Garrow ha fatto un buon lavoro con te, Eragon. Anche con Roran. Sarà stato anche aspro come l'aceto e duro e secco come una rapa invernale, ma vi ha tirati su bene. Sono sicuro che sarebbe stato orgoglioso di voi.» Eragon sentì un'inaspettata emozione stringergli il petto. Gedric si voltò per raggiungere i compagni, poi ebbe un ripensamento. «Posso chiederti perché quelle tre pelli valevano tanto per te, Eragon? Che cosa ne hai fatto?» Eragon ridacchiò. «Che cosa ne ho fatto? Con l'aiuto di Brom ho confezionato una sella per Saphira. Non la mette più spesso come prima, almeno non da quando gli elfi ce ne hanno data una apposta per draghi, ma si è rivelata utilissima in più di un combattimento e in parecchie situazioni pericolose, perfino nella battaglia del Farthen Dûr.» Sbalordito, Gedric inarcò le sopracciglia, lasciando intravvedere uno strato di pelle chiara che di solito restava nascosto tra le rughe profonde. Come un taglio netto in un masso di granito grigio-azzurro, gli si dipinse sul viso squadrato un largo sorriso, che ne trasformò i lineamenti. «Una sella!» esclamò senza fiato. «Ma te lo immagini? Ho conciato la pelle per la sella di un Cavaliere dei Draghi! E nemmeno lo sapevo! No, non di Ansioso di darsela a gambe prima di ritrovarsi circondato, Eragon scivolò via tra le file di tende, soddisfatto. Ben presto si ritrovò davanti a un'altra tenda, vicina all'estremità orientale dell'accampamento, e bussò al palo d'ingresso. Sentì un sonoro fruscio, poi i due lembi di stoffa si aprirono di scatto e comparve Helen, la moglie di Jeod, che guardò Eragon con espressione gelida. «Sei venuto per parlare con lui, suppongo.» «Se c'è...» Eragon sapeva benissimo che l'avrebbe trovato, perché riusciva a leggere nel pensiero di entrambi con la stessa facilità. Per un momento pensò che la donna avrebbe negato la presenza del marito, poi però Helen si strinse nelle spalle e si fece da parte. «Allora entra pure.» Eragon trovò Jeod seduto su uno sgabello, immerso in un assortimento di pergamene, libri e fasci di fogli sparsi ammucchiati su una branda senza coperte. Una sottile ciocca di capelli gli pendeva dalla fronte, seguendo il profilo della cicatrice che serpeggiava fino alla tempia sinistra. «Eragon!» gridò non appena lo vide, e le rughe di concentrazione che gli si erano formate sul volto si spianarono. «Benvenuto, benvenuto!» Gli strinse la mano e poi gli offrì lo sgabello. «Siediti, io mi metterò su un angolo del letto. No, ti prego, sei nostro ospite. Vuoi qualcosa da bere o da mangiare? Nasuada ci dà una razione extra, dunque non fare complimenti, non patiremo la fame per causa tua. È un ben misero pasto rispetto a quello che ti abbiamo servito a Teirm, ma nessuno, nemmeno un re, dovrebbe andare in guerra e aspettarsi di mangiare bene.» «Una tazza di tè la berrei volentieri» rispose Eragon. «Vada per tè e biscotti, allora.» Jeod scoccò un'occhiata a Helen. Stizzita, la donna raccolse il bollitore da terra e se lo appoggiò su un fianco, poi ci infilò il beccuccio di una borraccia di pelle e la premette. Il bollitore echeggiò con un suono basso e continuo man mano che si riempiva. Helen strinse le dita attorno al collo della borraccia, limitando il getto d'acqua a un languoroso gocciolio. Rimase così, con lo sguardo assente di chi sta svolgendo un compito ingrato, mentre le gocce d'acqua continuavano a produrre quel rumore irritante. Sul viso di Jeod balenò un sorriso di scuse. In attesa che Helen terminasse, fissò un frammento di carta che aveva accanto al ginocchio. Eragon, invece, esaminò una piega su un lato della tenda. Il pomposo gocciolio continuò per più di tre minuti. Una volta riempito il bollitore, Helen appese la borraccia ormai vuota a un gancio sul palo centrale della tenda e uscì come una furia. Eragon guardò Jeod alzando un sopracciglio. Lui allargò le braccia. «La posizione che occupo tra i Varden non è così importante come sperava, e lei ne dà la colpa a me. Ha acconsentito a fuggire da Teirm convinta che Nasuada mi avrebbe accolto nella cerchia più ristretta dei suoi consiglieri e concesso terre e ricchezze degne di un nobile signore o chissà quale altra generosa ricompensa per aver aiutato a rubare l'uovo di Saphira tanti anni fa, o almeno così credo io, ma non aveva fatto i conti con la vita poco affascinante di un semplice soldato: dormire in una tenda, procurarsi il cibo, fare il bucato e via discorrendo. Non che ricchezza e prestigio siano le sue uniche preoccupazioni, ma devi capirla: in fondo apparteneva a una delle più ricche famiglie di commercianti di Teirm e da quando siamo sposati ho avuto ben poca fortuna. Non è avvezza a certe privazioni, deve ancora abituarsi a questa vita.» Alzò appena le spalle, poi le lasciò ricadere. «Io speravo tanto che questa avventura - sempre che meriti una definizione così romantica - avrebbe colmato la voragine che si era aperta tra noi negli ultimi anni, ma le cose sono sempre più complicate di quanto sembrano.» «Ma tu ritieni che i Varden avrebbero dovuto mostrarti maggiore considerazione?» gli chiese Eragon. «Non per me. Per Helen...» Jeod esitò. «Io voglio che sia felice. La ricompensa più grande per me è stata fuggire sano e salvo da Gil'head quando io e Brom fummo attaccati da Morzan, dal suo drago e dai suoi uomini; la soddisfazione di aver contribuito ad assestare un duro colpo a Galbatorix; riuscire a tornare alla mia vita precedente e servire comunque la causa dei Varden; e poi poter sposare Helen. Questa è la mia ricompensa, e sono più che soddisfatto. Ogni mio dubbio è stato fugato nel momento in cui ho visto Saphira levarsi in volo dal fumo delle Pianure Ardenti. Non so cosa fare con Helen, però. Ma dimentico che non sono problemi tuoi e non dovrei sfogarmi con te.» Eragon toccò una pergamena con la punta dell'indice. «Allora dimmi che te ne fai di tutta questa carta. Sei diventato un copista?» La domanda divertì Jeod. «Non direi proprio, anche se il mio lavoro è spesso altrettanto noioso. Poiché sono stato io a scoprire il passaggio segreto nel castello di Galbatorix a Urû'baen e sono riuscito a portare con me alcuni dei libri rari che avevo nella mia biblioteca a Teirm, Nasuada mi ha affidato il compito di cercare altri punti deboli nelle diverse città dell'Impero. Se riuscissi a trovare qualche allusione a un tunnel sotterraneo che conduce dentro le mura di Dras-Leona, per esempio, ci risparmieremmo un inutile spargimento di sangue.» «Dove stai cercando?» «Ovunque.» Jeod scostò il ciuffo di capelli che gli scendeva sulla fronte. «Storie, miti, leggende, poemi, canzoni, trattati religiosi, gli scritti di Cavalieri, maghi, viandanti, folli, oscuri potentati, generali vari e chiunque possa essere a conoscenza di una porta nascosta o un meccanismo segreto o qualcosa di simile che possiamo sfruttare a nostro vantaggio. La quantità di materiale da esaminare è immensa, perché ogni città è stata eretta secoli fa e alcune risalgono addirittura a prima dell'arrivo degli esseri umani in Alagaësia.» «Pensi di riuscire a trovare qualcosa?» «No, è improbabile. Di solito non si cava un ragno dal buco a tentare di svelare i segreti del passato. Ma se avessi abbastanza tempo, potrei anche farcela. Non ho dubbi che quanto sto cercando esiste; le città dell'Impero sono troppo antiche: è impossibile che non abbiano vie di accesso e di fuga clandestine. Ma che ne rimangano tracce scritte, e che tali resoconti siano in nostro possesso, è tutta un'altra questione. Chi è a conoscenza di botole nascoste e stratagemmi di siffatta natura di solito ha tutto l'interesse a tenere l'informazione per sé.» Jeod afferrò una manciata di fogli sulla branda e li avvicinò al viso, poi grugnì e li gettò da parte. «Sto cercando di risolvere indovinelli inventati da chi vuole che rimangano enigmi.» Eragon e Jeod continuarono a parlare di altri argomenti meno importanti, poi comparve Helen con tre tazze fumanti di tè al trifoglio. Prendendo la sua, Eragon notò che la rabbia di prima sembrava svanita e si domandò se per caso la donna non avesse origliato la loro conversazione. Helen diede al marito la sua tazza e, da. qualche parte dietro Eragon, prese un piatto di metallo colmo di biscottini piatti e un vasetto di terracotta pieno di miele. Poi indietreggiò di qualche metro e si appoggiò al palo centrale, soffiando sul tè bollente. Per educazione, Jeod attese che Eragon prendesse un biscotto dal piattino e lo addentasse, poi gli chiese: «A cosa devo l'onore, Eragon? Forse mi sbaglio, ma non credo che la tua sia solo una visita di piacere.» Eragon bevve un sorso. «Dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, ho promesso che ti avrei raccontato com'è morto Brom. Sono venuto per questo.» Un grigio pallore si diffuse sulle guance esangui di Jeod. «Oh.» «Se preferisci, non lo farò» si affrettò a chiarire Eragon. A fatica Jeod scosse la testa. «No, continua. È solo che mi hai colto di sorpresa.» Vedendo che non chiedeva alla moglie di andarsene, Eragon non capì se era il caso di continuare o meno, poi decise che non avrebbe fatto alcuna differenza se Helen o chiunque altro avesse ascoltato la storia. Con voce lenta e cauta, cominciò a narrare ciò che era successo da quando lui e Brom avevano lasciato la casa di Jeod. Descrisse l'incontro con la banda di Urgali, la ricerca dei Ra'zac a Dras-Leona, l'imboscata che quei mostruosi esseri deformi avevano teso loro fuori dalla città e l'agguato mortale ai danni di Brom, pugnalato dai Ra'zac messi in fuga da Murtagh. Via via che raccontava le ultime ore di Brom, della gelida grotta di pietra arenaria in cui l'aveva assistito fino alla fine, del senso di disperazione che l'aveva assalito mentre lo guardava scivolare nell'oblio, del puzzo di morte che pervadeva l'aria secca, delle ultime parole di Brom, della tomba di pietra arenaria costruita con la magia e poi trasformata in un diamante puro da Saphira, Eragon sentì un nodo stringergli la gola. «Se avessi avuto le conoscenze di adesso» disse, «avrei potuto salvarlo. Invece...» Incapace di finire la frase, si asciugò gli occhi e trangugiò il tè. Qualcosa di più forte non avrebbe guastato. Jeod si lasciò sfuggire un sospiro. «Dunque è stata questa la fine di Brom. Ahimè, senza di lui stiamo tutti peggio. Però, se avesse potuto scegliere, credo avrebbe voluto morire così, al servizio dei Varden, difendendo l'ultimo Cavaliere dei Draghi ancora libero.» «Sapevi che anche lui era stato un Cavaliere?» Jeod annuì. «I Varden me lo avevano detto prima che ci conoscessimo.» «Mi sembrava piuttosto restio a parlare di sé» osservò Helen. Jeod ed Eragon risero. «È vero» confermò l'uomo. «Non mi sono ancora ripreso da quella volta in cui vi vidi, tu e lui, sulla soglia di casa mia. Brom faceva sempre di testa sua, ma quando ci siamo ritrovati a viaggiare insieme siamo diventati buoni amici. Ancora non riesco a capire perché mi aveva lasciato credere di essere morto per... quanti, sedici anni? Diciassette? Comunque troppi. Inoltre, poiché fu lui a consegnare l'uovo di Saphira ai Varden dopo aver ucciso Morzan a Gil'ead, i Varden non avrebbero potuto dirmi che ce l'avevano loro senza rivelarmi che Brom era ancora vivo. E così ho trascorso quasi due decenni convinto che l'unica grande avventura della mia vita si fosse conclusa con un fallimento e che avessimo perso la sola speranza che un Cavaliere dei Draghi ci aiutasse a sconfiggere Galbatorix. Non è stato un peso facile da sopportare, te lo assicuro...» Si passò una mano sulla fronte. «Quando aprii la porta di casa e mi resi conto di chi avevo davanti, pensai che i fantasmi del passato fossero venuti a perseguitarmi. Brom disse che si era nascosto perché era l'unico modo per sfuggire alla morte e riuscire così ad addestrare il nuovo Cavaliere non appena fosse comparso, ma la sua spiegazione non mi convinse mai fino in fondo. Perché si era allontanato da quasi tutti quelli che conosceva o che gli volevano bene? Di cosa aveva paura? Cosa stava proteggendo?» Accarezzò il manico della tazza. «Non ne ho le prove, ma ho il sospetto che Brom avesse scoperto qualcosa a Gil'ead mentre stava combattendo contro Morzan e il suo drago, qualcosa di così fondamentale da spingerlo a cambiare vita. È una congettura fantasiosa, lo ammetto, ma non riesco a capire perché abbia deciso di nascondersi se non supponendo che sapesse qualcosa di cui non ha mai parlato ad anima viva, me compreso.» Jeod fece un altro sospiro e si passò una mano sul lungo volto. «Dopo aver passato tanti anni separati, speravo che io e lui potessimo tornare a cavalcare insieme, ma a quanto pare il fato aveva altri progetti. E perderlo una seconda volta, poche settimane dopo aver scoperto che era ancora vivo... il mondo mi ha giocato proprio uno scherzo crudele.» Helen passò davanti a Eragon e si avvicinò al marito, sfiorandogli la spalla. Lui le fece un pallido sorriso e le cinse la vita sottile con un braccio. «Sono felice che tu e Saphira abbiate costruito per Brom un sepolcro da far invidia al re dei nani. Con tutto ciò che ha fatto per Alagaësia, meritava questo e altro. Anche se ho il terribile sospetto che non appena qualche malintenzionato lo scoprirà non esiterà a profanarlo per rubare il diamante.» «In quel caso, se ne pentirà amaramente» borbottò Eragon. Decise che sarebbe tornato sul luogo della sepoltura appena possibile, a scagliare incantesimi di protezione contro eventuali ladri. «E poi il ladro sarà troppo impegnato a raccogliere gigli d'oro per disturbare Brom.» «Come?» «Niente. Non è importante.» I tre continuarono a bere. Helen mordicchiò un biscotto. Poi Eragon chiese a Jeod: «Tu l'hai conosciuto, Morzan, vero?» «Sì, anche se sempre in situazioni tutt'altro che amichevoli.» «Com'era?» «Come persona, dici? Non saprei, davvero, benché abbia sentito parlare spesso delle atrocità che ha commesso. Ogni volta che io e Brom lo incrociavamo sul nostro cammino, cercava di ucciderci. Anzi, di catturarci, torturarci e «Che aspetto aveva?» «Mi sembri parecchio interessato a lui.» Eragon batté le palpebre. «Sono curioso. È stato l'ultimo dei Rinnegati a morire, e per mano di Brom. E adesso suo figlio è il mio nemico giurato.» «Dunque, vediamo... Era alto, aveva le spalle larghe, i capelli scuri come le penne del corvo e gli occhi di colore diverso, uno azzurro e uno nero. Niente barba, e gli mancava la punta di un dito, ma non ricordo quale. Era un bell'uomo, sì, ma di una bellezza crudele e altera, ed era quando parlava che esibiva tutto il suo fascino. L'armatura era sempre lucente, che indossasse la cotta o il pettorale, come se non temesse di essere visto dai nemici, e non stento a credere che fosse davvero così. Quando rideva, sembrava che soffrisse.» «E la sua compagna, Selena? Hai conosciuto anche lei?» Jeod rise. «Se così fosse, oggi non sarei qui. Morzan può essere stato un abile spadaccino, un mago straordinario e un traditore assassino, ma a incutere vero terrore nelle persone era quella donna. Lui le affidava solo le missioni più ripugnanti, difficili o segrete, quelle che nessun altro avrebbe accettato di compiere. Era la sua Mano Nera, e la sua presenza annunciava sempre morte imminente, torture, tradimenti e chissà quali altri orrori.» Sentendo Jeod descrivere sua madre in quel modo, Eragon fu colto dalla nausea. «Era implacabile, non provava pietà né compassione. Correva voce che, quando aveva offerto a Morzan i suoi servigi, lui l'avesse messa alla prova. Prima le aveva insegnato a pronunciare la parola "guarire" nell'antica lingua - oltre che una guerriera era anche una strega, sai? - e poi l'aveva opposta a dodici uomini armati di spada, scelti tra i suoi migliori soldati.» «Come riuscì a sconfiggerli?» «Con un incantesimo fece loro dimenticare la paura, l'odio e tutti gli altri sentimenti che spingono un uomo a uccidere. Poi, mentre se ne stavano lì a sorridersi come sciocchi pecoroni, li sgozzò... Ti senti bene, Eragon? Sei pallido come un cadavere.» «Sì, sto bene. Cos'altro ricordi?» Jeod tamburellò con le dita sul fianco della tazza. «Di Selena? Davvero poco. È sempre stata un enigma. Fino a pochi mesi prima che Morzan morisse, nessuno oltre a lui conosceva il suo vero nome. Per tutti era la Mano Nera; Galbatorix si è ispirato a lei quando ha creato la sua rete di spie, assassini e maghi che conducono i loschi traffici dell'Impero. Perfino tra i Varden solo uno sparuto gruppo di persone conosceva il suo nome, ma ormai sono quasi tutti sottoterra. Ricordo che fu Brom a scoprirne la vera identità. Prima che andassi a riferire ai Varden del passaggio segreto per il castello di Ilirea, che gli elfi costruirono millenni or sono e che Galbatorix ha ampliato fino a formare la nera cittadella che adesso domina Urû'baen, Brom sorvegliava da tempo la proprietà di Morzan nella speranza di individuare qualche punto debole fino ad allora rimasto nascosto... Credo che sia riuscito a penetrare nel suo palazzo spacciandosi per un servo. Fu allora che scoprì tutto su Selena. Eppure non capimmo mai perché fosse così legata a Morzan. Forse lo amava. Gli è sempre stata fedelissima, fino in punto di morte. Poco dopo che Brom ebbe ucciso Morzan, ai Varden giunse voce che si fosse ammalata. Come se il falco fosse così affezionato al padrone che l'aveva addestrato da non poter vivere senza di lui.» «Lo amava» rispose, fissando il torbido fondo della tazza. «All'inizio, di sicuro; forse alla fine un po' meno. Murtagh è suo figlio.» Jeod inarcò un sopracciglio. «Davvero? Te l'avrà detto lui stesso, suppongo.» Eragon annuì. «Be', questo spiega molte cose. La madre di Murtagh... Sono sorpreso che Brom non mi abbia mai svelato quel segreto.» «Morzan fece tutto il possibile per nascondere l'esistenza di Murtagh perfino agli altri Rinnegati.» «Conoscendo la storia di quei furfanti traditori e affamati di potere è probabile che gli abbia salvato la vita. Peccato.» Tra di loro si insinuò il silenzio, come un timido animale pronto a fuggire al minimo movimento. Eragon continuò a guardare dentro la tazza. Era assillato da una quantità di domande, ma sapeva che né Jeod né nessun altro avrebbe potuto rispondere: perché Brom si era nascosto a Carvahall? Per vegliare su Eragon, il figlio del suo più acerrimo nemico? Era stato uno scherzo crudele dargli Zar'roc, la spada di suo padre? E perché Brom non gli aveva detto la verità sui suoi genitori? Strinse la tazza con più forza e, senza volerlo, la mandò in frantumi. A quel rumore improvviso trasalirono tutti e tre. «Aspetta, ti aiuto» disse Helen, correndogli incontro e tamponandogli la tunica con uno straccio. Imbarazzato, Eragon si scusò più volte, e i suoi ospiti lo rassicurarono dicendogli di non preoccuparsi, che non era nulla di grave. Mentre Helen raccoglieva i cocci di terracotta, Jeod cominciò a rovistare tra i cumuli di libri, pergamene e fogli che coprivano il letto, poi disse: «Ah, per poco non me ne dimenticavo. Ho una cosa per te, Eragon, che potrebbe rivelarsi utile. Se solo riuscissi a trovarla...» Con un grido di gioia si raddrizzò sventolando un libro, che consegnò al giovane. Era il «Sì» disse Jeod, facendosi da parte mentre Helen recuperava un frammento di tazza da sotto il letto. «Credo che potresti trarne vantaggio. Sei coinvolto in eventi che sono storia, Eragon, e le difficoltà che stai affrontando hanno radici lontane, che risalgono a fatti occorsi decenni, secoli, millenni fa. Se fossi in te, coglierei ogni opportunità per imparare la lezione che la storia ha da insegnarci: potrebbe aiutarti a risolvere i tuoi problemi di oggi. Per quanto mi riguarda, leggere i resoconti del passato mi ha dato spesso il coraggio e l'acume necessari a scegliere la giusta via.» Eragon ardeva dal desiderio di accettare il dono, tuttavia esitò. «Brom diceva che il «Sì, è un libro raro e di immenso valore» convenne Jeod, «ma solo entro i confini dell'Impero, perché Galbatorix ne brucia ogni copia che trova e manda alla forca gli sfortunati proprietari. Qui all'accampamento i cortigiani di re Orrin me ne hanno già rifilate sei copie, e direi che questo non si possa definire un importante centro culturale. Tuttavia non me ne separo a cuor leggero, ma solo perché tu possa farne un uso migliore di quanto riuscirei a fare io. I libri devono andare dove sono più apprezzati e non restare silenziosi a impolverarsi su mensole abbandonate, non trovi?» «Giusto.» Eragon chiuse il volume e di nuovo seguì con le dita l'intricato profilo della scritta sulla copertina, affascinato dai contorti ghirigori intagliati nella pelle. «Grazie. Lo custodirò come un tesoro finché sarà in mio possesso.» Jeod chinò il capo e si appoggiò alla parete della tenda con aria soddisfatta. Eragon voltò il libro ed esaminò l'iscrizione sul dorso. «A che ordine religioso apparteneva Heslant?» «A una piccola setta segreta chiamata Arcaena, originaria della zona vicino a Kuasta. Il loro ordine, che sopravvive da almeno cinque secoli, crede che ogni forma di conoscenza sia sacra.» Un accenno di sorriso diede ai lineamenti di Jeod un'espressione misteriosa. «Si occupano di raccogliere ogni informazione possibile e di proteggerla in attesa di un'epoca in cui, secondo loro, si abbatterà una non meglio precisata catastrofe che distruggerà ogni traccia di civilizzazione in Alagaësia.» «Mi pare una religione un po' strana» commentò Eragon. «Non sono tutte così, viste da fuori?» ribatté Jeod. «Anch'io ho un regalo per te. Be', in realtà è per tua moglie.» Helen inclinò la testa da un lato e aggrottò le sopracciglia con fare interrogativo. «Tu vieni da una famiglia di commercianti, vero?» La donna fece cenno di sì con il capo. «Anche tu avevi fiuto per gli affari?» Un lampo balenò negli occhi della donna. «Quando mio padre morì, se non avessi sposato Era quello che Eragon sperava. «Hai detto di essere soddisfatto della tua vita qui con i Varden, no?» chiese poi a Jeod. «Nel complesso sì.» «Capisco. Però hai rischiato tanto aiutando me e Brom, e ancora di più Roran e gli altri abitanti di Carvahall.» «I Pirati di Palancar.» Eragon ridacchiò, poi proseguì. «Senza il tuo intervento, di sicuro l'Impero li avrebbe catturati. E a causa del tuo atto di ribellione hai perso quanto di più caro avevi a Teirm.» «L'avremmo perso comunque. Ero in bancarotta e i Gemelli mi hanno tradito. Era solo questione di tempo prima che Lord Risthart mi facesse arrestare.» «Forse; comunque hai aiutato Roran. Chi può biasimarti se nel contempo pensavi a salvarti la pelle? Resta il fatto che hai rinunciato alla tua vita a Teirm per rubare Eragon passò un dito sotto la cintura, estrasse la seconda delle tre sfere d'oro e la consegnò a Helen, che la prese fra le mani con dolcezza, come se fosse un pulcino di pettirosso. Mentre la fissava meravigliata e Jeod tendeva il collo per sbirciare, Eragon disse: «Non è una fortuna, ma se sarete accorti, riuscirete a farla fruttare. Ciò che ha fatto Nasuada con il pizzo mi ha insegnato che la guerra offre ottime occasioni per arricchirsi.» «Oh, sì» replicò Helen, senza fiato. «Le guerre sono la delizia dei mercanti.» «Per esempio, ieri sera a cena Nasuada mi ha riferito che i nani sono a corto di idromele e, come potrai immaginare, hanno i mezzi per comprarne tutti i barili che vogliono, anche se il prezzo fosse mille volte più alto di prima della guerra. Ma il mio è solo un suggerimento. Se vi date da fare, potreste trovare altra gente più avida ancora di loro con cui entrare in affari.» Quando Helen corse ad abbracciarlo, Eragon fece un passo indietro, barcollando. I capelli di lei gli solleticarono il collo. All'improvviso intimidita, Helen si allontanò, poi fu pervasa dall'eccitazione di prima, portò la sfera color miele davanti al naso e disse: «Grazie, Eragon! Oh, grazie!» Indicò l'oro. «So come utilizzarlo. Con questo costruirò un impero perfino più grande di quello di mio padre.» Fece sparire la sfera scintillante nel pugno chiuso. «Tu credi che la mia ambizione superi le mie capacità? Aspetta e vedrai. Non fallirò!» Eragon le fece un inchino. «Spero che trarremo tutti beneficio dal tuo successo.» Helen si inchinò a sua volta e gli rispose: «Sei molto generoso, Ammazzaspettri. Grazie ancora.» Eragon notò che le si tendevano i muscoli del collo. «Sì, grazie» intervenne Jeod, alzandosi dal letto. «Non credo che ce lo meritiamo» - Helen gli scoccò un'occhiata furiosa, che lui ignorò - «ma lo apprezziamo molto.» Improvvisando, Eragon aggiunse: «C'è un regalo anche per te, Jeod, non da parte mia, ma di Saphira. Non appena avrete entrambi un paio d'ore libere, ha accettato di portarti a fare un giro.» Dividere Saphira con altri lo addolorava e sapeva che lei si sarebbe indispettita perché non l'aveva consultata prima di offrire i suoi servigi a qualcuno, ma dopo aver dato l'oro a Helen si sarebbe sentito in colpa se non avesse offerto a suo marito qualcosa di pari valore. Un velo di lacrime offuscò gli occhi di Jeod. Afferrò la mano di Eragon e gliela strinse, poi, senza lasciarla, disse: «Non posso immaginare un onore più grande. Grazie. Non sai quanto hai fatto per noi.» Divincolandosi dalla stretta, Eragon raggiunse a passo lento l'ingresso della tenda, scusandosi con più garbo possibile e congedandosi. Alla fine, dopo un'altra tornata di ringraziamenti da parte degli ospiti e un suo modesto: «Non ho fatto proprio niente», riuscì a fuggire. Fuori, sollevò il Si avviò di buon passo, stringendo il volume al petto, seguito a ruota da Blödhgarm e dagli altri elfi. MI SERVE UNA SPADA! Nascosto il Si avviò verso di lui, Blödhgarm al suo fianco. Non appena furono sotto il tetto di tela, tutti i presenti ammutolirono, gli occhi fissi sui due nuovi arrivati. Poi ripresero le loro attività, ma più svelti e a voce più bassa. Alzando un braccio in segno di benvenuto, Fredric corse loro incontro. Come sempre indossava l'irsuta corazza di pelle di bue che puzzava quasi quanto l'animale vivo, e a tracolla sulla schiena aveva un'immensa spada a doppia impugnatura; l'elsa gli spuntava dalla spalla destra. «Ammazzaspettri!» ringhiò. «Come posso aiutarti in questo bel pomeriggio?» «Mi serve una spada.» Dalla folta barba di Fredric spuntò un sorriso. «Ah, mi chiedevo se saresti mai venuto a trovarmi per questo. Quando sei partito per l'Helgrind senza una lama, ho pensato che di certe cose potessi ormai fare a meno, e che per combattere ti bastasse la magia.» «No, non ancora.» «Be', non posso dire che mi dispiaccia. Una buona spada fa comodo a chiunque, per quanto abile con gli incantesimi. Alla fine si risolve tutto a colpi di acciaio. Aspetta e vedrai: questa lotta contro l'Impero si concluderà solo quando la punta di una spada trafiggerà il cuore maledetto di Galbatorix. Eh, scommetterei la paga di un mese che perfino lui ha una spada, e la usa eccome, anche se è capace di sventrarci tutti come pesci solo schioccando le dita. La sensazione di stringere nel pugno del buon acciaio è impareggiabile.» Mentre parlava, Fredric li condusse verso una fila di spade separate dalle altre. «Che tipo di spada stai cercando?» gli chiese. «Se ben ricordo, quella che avevi prima, Zar'roc, era a una mano. Con una lama ampia circa due pollici - dei miei, si intende - e la forma adatta sia per il colpo di taglio sia per la stoccata, giusto?» Eragon annuì, e il maestro d'armi grugnì e prese a tirar fuori dalla rastrelliera una spada dopo l'altra; dopo averle fatte roteare in aria, le riponeva, insoddisfatto. «Le lame degli elfi di solito sono meno spesse e più leggere delle nostre o di quelle dei nani per gli incantesimi che impongono all'acciaio. Se le nostre fossero sottili come le loro, non durerebbero più di un minuto in battaglia prima di piegarsi, rompersi o scheggiarsi tanto da non servire più nemmeno per tagliare un formaggio morbido.» Scoccò una rapida occhiata a Blödhgarm. «Non è così, elfo?» «È come dici tu, umano» rispose lui con voce perfettamente modulata. Fredric annuì e osservò il bordo di un'altra spada, poi sbuffò e la rimise al suo posto. «È probabile che qualunque spada tu scelga sia più pesante di quella a cui eri abituato. Non dovrebbe essere un grosso problema per te, Ammazzaspettri, ma potrebbe diminuire la velocità degli affondi.» «Grazie per l'avvertimento» disse Eragon. «Figurati» rispose Fredric. «Sono qui apposta per evitare ai Varden di farsi sterminare e per aiutarli a far fuori il maggior numero possibile di maledetti soldati di Galbatorix. È un bel lavoro.» Poi passò a un'altra rastrelliera, nascosta dietro una pila di scudi rettangolari. «Trovare la spada giusta per ognuno è di per sé un'arte. Devi sentirla come un'estensione del tuo braccio, come se ti fosse spuntata dalla carne. Non devi pensare prima di usarla, ma farti guidare dall'istinto, come fa un'egretta con il becco o un drago con gli artigli. La spada perfetta è l'incarnazione del tuo intento: fa ciò che vuoi.» «Sembri un poeta.» Con espressione modesta, Fredric si strinse nelle spalle. «Sono ventisei anni che scelgo le armi per uomini pronti a marciare in combattimento. Dopo un po' è un lavoro che ti entra nelle ossa e ti induce a concentrarti su pensieri come il fato e il destino. "Chissà se quel ragazzo che ho congedato con un'alabarda sarebbe ancora vivo se invece gli avessi dato una mazza": cose del genere, insomma.» Fredric indugiò con la mano sulla spada al centro della rastrelliera e guardò Eragon. «Preferisci combattere con o senza scudo?» «Con. Ma non ce la faccio a reggerlo tutto il tempo. E quando mi attaccano, sembra che non ce ne sia mai uno a portata di mano.» Fredric tamburellò sull'elsa della spada e si mordicchiò la punta della barba. «Uff... Dunque ti serve una spada con cui difenderti anche senza avere altre armi, ma che non sia troppo lunga e vada bene per qualunque tipo di scudo, rotondo o rettangolare che sia. Ovvero una spada di medie dimensioni, facile da maneggiare con una mano sola. E poi dev'essere adatta per ogni occasione, abbastanza elegante per una cerimonia di incoronazione e tanto solida da respingere una banda di Kull.» Fece una smorfia. «Ciò che ha fatto Nasuada, allearsi con quei mostri, è contro natura. Non può funzionare. Noi e loro non siamo fatti per stare insieme...» Si riscosse. «È un peccato che ti serva una spada sola. O mi sbaglio?» «No. Io e Saphira siamo sempre in viaggio e non ne possiamo portare con noi cinque o sei.» «Suppongo che tu abbia ragione. E poi non ci si aspetta che un guerriero come te ne abbia più d'una. È la maledizione del nome, come la chiamo io.» «Sarebbe?» «Ogni grande guerriero brandisce una spada che ha un nome, e dico spada perché di solito è quella l'arma prediletta» gli spiegò. «O lo sceglie lui oppure, dopo aver dimostrato la propria abilità in qualche straordinaria impresa, lo scelgono i bardi. Da lì in poi è costretto a usare sempre quella, perché tutti si aspettano di vederlo con quella. Se si presenta in battaglia senza, i suoi compagni d'armi gli chiederanno dov'è e si domanderanno se per caso si vergogna del proprio successo o se li insulta rifiutando le lodi che gli hanno tributato. Perfino i suoi nemici possono rifiutarsi di combattere se non brandisce la sua blasonata lama. Aspetta e vedrai; non appena combatterai contro Murtagh o farai qualcos'altro di memorabile con la tua nuova spada, i Varden insisteranno per darle un nome. E da quel momento si aspetteranno di vedertela sempre alla cintura.» Mentre procedeva verso la terza rastrelliera, Fredric continuò: «Non avrei mai creduto di essere così fortunato da aiutare un Cavaliere a scegliere un'arma. Che occasione! È il momento più alto della mia carriera da quando sono con i Varden.» Scelse una spada e la consegnò a Eragon, che la soppesò puntandola in alto e quindi in basso, e poi scosse la testa; la forma dell'elsa non si adattava alla sua mano. Il maestro d'armi non sembrava deluso; al contrario, quel rifiuto parve rianimarlo, poiché la sfida lo solleticava. Gliene mostrò un'altra, ma Eragon scosse di nuovo la testa; il baricentro era troppo spostato in avanti per i suoi gusti. «Quello che mi preoccupa è che, qualsiasi spada io ti dia, dovrà sopportare impatti violenti, capaci di distruggere una lama normale» disse Fredric, tornando alla rastrelliera. «A te serve un'arma forgiata da un nano. Eccezion fatta per gli elfi, i loro fabbri sono i più abili; anzi, a volte sono anche meglio.» Lo guardò di sottecchi. «Ma sto facendo le domande sbagliate! Come ti hanno insegnato a parare le stoccate? Lama contro lama? Mi sembra di ricordare che tu abbia fatto qualcosa di simile quando hai sfidato Arya nel Farthen Dûr.» Eragon si accigliò. «E allora?» «E allora?» Fredric rise sguaiato. «Non per mancarti di rispetto, Ammazzaspettri, ma se colpisci una lama nemica di taglio, rovinerai sia la sua arma che la tua. Forse con una spada incantata come Zar'roc non era un problema, ma con quelle che ho io sì, a meno che tu non voglia cambiare arma dopo ogni battaglia.» A Eragon balenò in mente l'immagine dei bordi scheggiati della spada di Murtagh e si arrabbiò con se stesso per aver dimenticato una cosa tanto ovvia. Si era abituato a Zar'roc, che non si spuntava mai, non mostrava mai segni di usura e, per quanto ne sapeva lui, era immune a gran parte degli incantesimi. Non era nemmeno sicuro che la spada di un Cavaliere si potesse distruggere. «Per quello non devi preoccuparti; la proteggerò con la magia. Allora, devo aspettare tutto il giorno per avere ciò che mi serve?» «Un'altra domanda, Ammazzaspettri. La tua magia durerà per sempre?» Eragon si accigliò ancora di più. «Dato che me lo chiedi, no. C'è solo un'elfa che conosce i segreti delle spade dei Cavalieri, ma non ha voluto condividerli con me. L'unica cosa che posso fare io è trasferire nella spada una certa quantità di energia per impedire che venga danneggiata, almeno finché non arriva il colpo di grazia; a quel punto la spada tornerà allo stato originario e con ogni probabilità mi si frantumerà tra le mani alla prima occasione.» Fredric si grattò la barba. «Ti prendo in parola, Ammazzaspettri. Dunque, fammi capire: a furia di colpire soldati, l'incantesimo si consumerà, e più forte colpisci, prima accadrà, giusto?» «Giusto.» «Allora dovrai evitare di combattere lama contro lama, perché in quel caso l'incantesimo si consumerà più in fretta che con qualunque altro affondo.» «Non ho tempo, Fredric» tagliò corto Eragon, che stava perdendo la pazienza. «Non ho tempo di imparare una diversa tecnica di combattimento. L'Impero potrebbe attaccare da un momento all'altro. Devo concentrarmi ed esercitarmi su quello che so già fare, non cercare di padroneggiare una nuova serie di mosse.» Fredric batté le mani. «Allora so io che cosa fa per te!» Raggiunse una cassa piena di armi e cominciò a rovistare, parlottando tra sé. «Prima questa... sì... poi quella... e poi vediamo come siamo messi.» Dal fondo estrasse un'enorme mazza nera con l'impugnatura flangiata. Fredric la sfregò con una nocca. «Con questa puoi rompere una spada, aprire in due armature e fracassare elmi. Niente potrà scalfirla.» «Ma è un bastone» protestò Eragon. «Un bastone di ferro.» «E allora? Con la tua forza, puoi farla roteare come se fosse leggera quanto una canna. Con quest'arma seminerai il terrore sui campi di battaglia, fidati.» Eragon scosse la testa. «No. Non mi piace distruggere tutto ciò che incontro. E poi se avessi avuto una mazza invece di una spada non avrei mai potuto uccidere Durza trafiggendogli il cuore.» «Allora mi resta un'ultima alternativa, a meno che tu non insista per avere una spada tradizionale.» Fredric prese un'arma da un'altra sezione del padiglione e la portò a Eragon. Era un falcione, una spada diversa da quelle a cui era abituato, benché ne avesse già viste di simili tra i Varden. Aveva un pomello lustro, tondo, lucente come una moneta d'argento; una corta impugnatura di legno ricoperta di pelle nera; una guardia crociata curva decorata con una fila di rune dei nani; una lama singola lunga quanto il suo braccio, con una sottile scanalatura su ciascun profilo, vicina al lato piatto. La lama del falcione da un lato correva dritto; dall'altro, a circa sei pollici dalla fine, disegnava una sorta di piccolo spuntone, per poi curvare dolcemente verso la punta, aguzza come uno spillo. Con quella forma, le probabilità che la punta si piegasse o si spezzasse penetrando in un'armatura erano ridotte al minimo; inoltre l'estremità del falcione ricordava una zanna. A differenza di una spada a doppio taglio, il falcione era fatto per essere impugnato con la lama e la guardia crociata perpendicolari al terreno. L'aspetto più curioso, però, erano gli ultimi sei pollici della lama, compreso il bordo, che era grigio perla, più scuro del resto dell'acciaio, e lucido come uno specchio. Il confine tra le due parti non era netto: somigliava a una sciarpa di seta che fluttua al vento. Eragon indicò la banda grigia. «È la prima volta che mi capita di vederne una. Cos'è?» «Il thriknzdal» rispose Fredric. «L'hanno inventato i nani. Temprano il profilo e la spina separatamente. Il filo è resistentissimo, più di tutte le nostre lame messe insieme. Il centro della spada e il dorso poi li ritemprano, così che il retro del falcione sia più morbido, abbastanza da piegarsi e flettersi e sopportare l'impatto dei colpi senza rompersi come una lima ghiacciata.» «Tutte le spade dei nani sono così?» Fredric scosse la testa. «Solo quelle a lama singola e le più belle a lama doppia.» Esitò, e il suo sguardo tradì incertezza. «Capisci perché ho scelto questa spada per te, vero, Ammazzaspettri?» Sì, Eragon lo capiva. Con la lama alla giusta angolazione rispetto al terreno, a meno che non decidesse di proposito di inclinare il polso, ogni colpo dell'avversario avrebbe colpito il lato piatto, risparmiando così il profilo per il contrattacco. Per brandire il falcione nel giusto modo occorreva modificare appena la sua tecnica di combattimento. Uscì dalla tenda e si mise in posizione. Fece roteare il falcione sopra la testa, lo abbatté sull'elmo di un nemico immaginario, si volse e fece un affondo, schivò una lancia invisibile, compì un balzo di sei iarde a sinistra, una mossa abile ma poco pratica, poi si passò l'arma dietro la schiena, spostandola da una mano all'altra. Con il respiro e il battito del cuore più regolari che mai, tornò da Fredric e Blödhgarm, che lo stavano aspettando. Era colpito dalla rapidità e dall'equilibrio del falcione. Niente a che vedere con Zar'roc, certo; ma comunque era una spada superba. «Ottima scelta» dichiarò. Fredric tuttavia colse in lui una certa reticenza e infatti rispose: «Però non sei del tutto soddisfatto, Ammazzaspettri.» Eragon fece roteare il falcione, poi abbozzò una smorfia. «Vorrei solo non somigliasse tanto a un coltellaccio per scuoiare gli animali. Mi sento un po' ridicolo.» «Ah, se i tuoi amici rideranno di te non badarci. Dopo che avrai mozzato loro la testa, non lo faranno più, vedrai.» Divertito, Eragon annuì. «Lo prendo.» «Un momento, allora» disse Fredric, e scomparve nel padiglione, poi tornò con un fodero decorato di ghirigori d'argento. Glielo consegnò e gli chiese: «Sei capace di affilare una spada, Ammazzaspettri? Con Zar'roc non ce n'era bisogno, vero?» «No» ammise Eragon, «ma con la cote ci so fare. So affilare un coltello finché non è così aguzzo da spaccare un capello in due. E posso sempre usare la magia, se necessario.» Fredric grugnì e si diede una pacca sulle cosce, facendo cadere dai gambali una dozzina di peli di bue. «No, no, una spada con il profilo affilato come un rasoio è da evitare. La smussatura deve essere spessa e resistente. Un guerriero si deve occupare al meglio del proprio equipaggiamento, compreso affilare la spada!» Poi insisté per procurargli una nuova cote e, seduto per terra accanto al padiglione, gli mostrò come ottenere un filo adatto alla battaglia. Quando fu soddisfatto dei progressi di Eragon, disse: «Puoi combattere con un'armatura arrugginita e con l'elmo ammaccato, ma se vuoi veder sorgere il sole l'indomani, non combattere mai con una spada poco affilata. Se sei sopravvissuto a una battaglia e sei stanco come se avessi appena scalato i Monti Beor e la tua spada non è affilata quanto questa, non importa se ti senti male: appena ne hai la possibilità fermati, prendi la cote e affilala. La tua spada viene prima di ogni altra cosa; proprio come ti prenderesti cura del tuo cavallo o di Saphira prima di dedicarti a te stesso. Perché senza di essa per i tuoi nemici non sei altro che una facile preda.» Quando il maestro d'armi ebbe finito di dare a Eragon tutte le istruzioni del caso, ormai erano seduti al sole del tardo pomeriggio da più di un'ora. Un'ombra fresca fluttuò sopra di loro, poi Saphira atterrò lì vicino. Saphira gli strizzò l'occhio con indolenza. Dopo aver ringraziato Fredric ed essersi congedato da lui, Eragon si accordò con Blödhgarm per incontrarsi più tardi, legò il falcione alla cintura di Beloth il Savio e si arrampicò sul dorso di Saphira. Lanciò un grido e la dragonessa ruggì mentre batteva le ali e saliva in cielo. A Eragon vennero le vertigini, così si aggrappò alla punta cervicale e osservò le persone e le tende sotto di loro rimpicciolire fino a ridursi a versioni piatte e minuscole di se stesse. Dall'alto l'accampamento era una griglia di piramidi grigie con la facciata rivolta a est in ombra: sembrava una scacchiera. Le fortificazioni che correvano lungo tutto il perimetro spuntavano dal terreno come gli aculei di un istrice e le punte bianche dei pali in lontananza splendevano alla luce obliqua del sole. La cavalleria di re Orrin era una brulicante massa di puntini nel quadrante a nord-ovest. A est, invece, c'erano le tende degli Urgali, basse e scure sul pianoro ondulato. Salirono ancora più su. L'aria pura e gelida gli pungeva le guance e gli bruciava nei polmoni. Eragon inspirava solo a piccole boccate. Accanto a loro fluttuava una densa colonna di nubi, che sembravano solide come panna montata. Saphira le girò tutt'intorno a spirale; la sua ombra frastagliata sfrecciò fino alla punta della colonna. Quando passarono vicino alla nuvola, la condensa accecò Eragon per qualche istante, riempiendogli il naso e la bocca di fredde goccioline. Lui trattenne il fiato e si asciugò il viso. Oltrepassarono anche le nubi. Un'aquila rossa li superò, gridando. Saphira cominciò a sentirsi affaticata, e a Eragon girava la testa. La dragonessa cessò di battere le ali e sfruttò una corrente ascensionale dopo l'altra, mantenendo un'altitudine costante. Eragon guardò giù. Erano così in alto che ormai un centinaio di piedi in più o in meno non avrebbero fatto differenza: le cose sulla terra non sembravano più nemmeno vere. L'accampamento dei Varden era una scacchiera dalla forma irregolare suddivisa in minuscoli rettangoli grigi e neri. Il fiume Jiet era una corda d'argento contornata di tasselli verdi. A sud, le nubi sulfuree che si levavano dalle Pianure Ardenti formavano una catena di scintillanti montagne arancio, dimora di oscuri mostri che apparivano e scomparivano. Eragon distolse lo sguardo in fretta. Per forse mezz'ora si librarono sospinti dal vento, godendo in piena tranquillità del conforto silenzioso della reciproca compagnia. Eragon pronunciò a mente un incantesimo per isolarsi dal freddo. Finalmente erano da soli, loro due insieme, come nella Valle Palancar prima che l'Impero si intromettesse nelle loro vite. Saphira fu la prima a parlare. Virando a sinistra, Saphira intercettò una folata d'aria più calda che proveniva dal basso, poi si riportò in orizzontale. Investita da una turbolenza, Saphira ondeggiò. Poi si rivolse di nuovo a Eragon e gli chiese: Sporgendosi in avanti, la dragonessa ripiegò le ali lungo i fianchi e si lanciò in picchiata verso terra, più veloce di una rapidissima freccia. Via via che la gravità svaniva, Eragon rideva sempre più forte. Si tenne saldo con le gambe per evitare di cadere, poi, in uno slancio sconsiderato, lasciò andare la punta cervicale e alzò le mani sopra la testa. La terra sotto di loro girava come una ruota mentre Saphira perforava l'aria. Poi la dragonessa rallentò, si volse sul fianco destro e si lanciò in picchiata a testa in giù. «Saphira!» gridò Eragon, battendole sulla spalla. Dalle narici le uscì un nastro di fumo, poi la dragonessa si raddrizzò e di nuovo puntò dritto verso la terra, che si avvicinava velocemente. A Eragon si tapparono le orecchie, e prese a deglutire via via che la pressione aumentava. A meno di mille piedi dall'accampamento dei Varden, pochi secondi prima di schiantarsi contro le tende e scavare un cratere ampio e sanguinolento, Saphira dispiegò le ali e lasciò che il vento le gonfiasse. Il sussulto scagliò Eragon in avanti, e la punta cervicale a cui si era aggrappato per poco non gli trafisse un occhio. Dopo tre poderosi battiti d'ali, Saphira rimase immobile. Tenendo le ali dispiegate, cominciò poi a scendere con dolcezza, volando in circolo. Virando verso la tenda di Eragon, Saphira scosse la testa, facendolo tremare tutto, poi disse: Eragon la accarezzò. Eragon smontò e la lasciò a riassettarsi in compagnia di sei elfi, mentre lui corse con gli altri sei per l'accampamento finché non trovò Gertrude la guaritrice, che gli insegnò il rito che avrebbe dovuto pronunciare l'indomani alle nozze. Si esercitò insieme a lei, così da evitare errori imbarazzanti. Poi tornò nella sua tenda, si sciacquò la faccia e si cambiò d'abito prima di andare a cena insieme a Saphira da re Orrin e dalla sua corte, come promesso. A tarda sera, quando la festa fu terminata, tornarono alla tenda, ammirando le stelle e parlando di ciò che era successo e di ciò che sarebbe accaduto in futuro. Ed erano felici. Arrivati a destinazione, Eragon si fermò, alzò la testa e guardò Saphira: il suo cuore era così colmo d'amore che pensava che avrebbe smesso di battere. OSPITI INATTESI L'indomani mattina Eragon prese posto sul retro della sua tenda, si tolse gli strati di abiti più pesanti e cominciò a eseguire le pose del secondo livello della Rimgar, la serie di esercizi inventati dagli elfi. Ben presto non sentì più freddo. Anzi, cominciò ad ansimare per lo sforzo e si ritrovò con il corpo madido di sudore; quando si contorceva in una posizione, era così difficile tenersi in equilibrio su mani e piedi che aveva la sensazione che i muscoli gli si sarebbero strappati dalle ossa. Un'ora dopo terminò la Rimgar. Si asciugò le mani nella stoffa della tenda, prese il falcione e si esercitò nella scherma per altri trenta minuti. Avrebbe preferito continuare a impratichirsi con l'arma per il resto della giornata, perché sapeva che la sua vita dipendeva dall'abilità con cui sapeva usarla, ma il matrimonio di Roran era imminente e agli abitanti del villaggio serviva tutto l'aiuto possibile per terminare in tempo i preparativi. Dopo essersi riposato un po', fece un bagno nell'acqua fredda e si vestì, poi si incamminò insieme a Saphira verso le cucine, dove Elain vegliava sulla preparazione delle pietanze per il ricevimento. Blödhgarm e i suoi compagni li seguivano a una dozzina di iarde di distanza, scivolando agili tra le tende. «Ah, bene, Eragon» gli disse Elain. «Speravo proprio che venissi.» Era in piedi, con le mani premute sulla parte bassa della schiena per alleviare il peso della gravidanza. Gli indicò con un cenno del capo una fila di spiedi e calderoni sospesi sopra un letto di braci, un gruppo di uomini che stavano macellando un maiale, dei forni di fortuna costruiti con pietra e fango e una pila di barilotti: al di là c'era una fila di assi appoggiate su ceppi di legno che sei donne stavano usando come piano di lavoro. Poi aggiunse: «Ci sono ancora venti pagnotte da impastare. Te ne puoi occupare tu, per favore?» Tuttavia si accigliò quando gli vide i calli sulle nocche. «Cerca di non far finire anche quelli nell'impasto, d'accordo?» Quando Eragon prese posto tra loro, le sei donne, tra cui Felda e Birgit, ammutolirono. I suoi pochi tentativi di ravvivare la conversazione fallirono, ma dopo un po', quando ormai aveva rinunciato a farle sentire a loro agio e si stava concentrando sulla pasta, ripresero a parlare spontaneamente. Discussero di Roran e Katrina, di quanto erano fortunati, della vita all'accampamento e del viaggio che avevano intrapreso per arrivare fin lì; poi, senza tanti preamboli, Felda guardò Eragon e gli disse: «L'impasto mi sembra un po' troppo molle. Non è il caso di aggiungere un po' di farina?» Eragon ne verificò la consistenza. «Sì, hai ragione. Grazie.» Felda sorrise, e da lì in poi le donne lo coinvolsero nelle loro chiacchiere. Mentre Eragon impastava, Saphira si crogiolava al sole in un praticello vicino. I bambini di Carvahall giocavano addosso a lei e nelle vicinanze; risa acute punteggiavano il mormorio più profondo delle voci degli adulti. Quando un paio di cani rognosi cominciarono ad abbaiarle contro, la dragonessa alzò la testa e grugnì, e i due animali corsero via tra i guaiti. Eragon si guardò intorno: conosceva tutti, era cresciuto insieme a quelle persone. Horst e Fisk erano dalla parte opposta degli spiedi a costruire tavoli per la festa. Kiselt si sciacquava gli avambracci sporchi di sangue. Albriech, Baldor, Mandel e molti altri ragazzi trasportavano pali decorati con nastri verso la collina dove Roran e Katrina si sarebbero sposati. Morn il taverniere preparava da bere e sua moglie Tara lo aiutava reggendo tre caraffe e un barile. A poche centinaia di piedi di distanza, Roran gridava qualcosa a un uomo che cercava in tutti i modi di far voltare il suo mulo carico. Loring, Delwin e il piccolo Nolfavrell erano radunati nei paraggi a guardare. Con una sonora imprecazione, Roran afferrò il mulo per i finimenti e si affannò a farlo girare su se stesso. Quella scena divertì Eragon; non immaginava che il cugino potesse scaldarsi tanto né perdere le staffe così in fretta. «Il potente guerriero è nervoso prima della contesa» osservò Isolde, una delle sei donne insieme a Eragon. Il gruppo scoppiò a ridere. «Forse teme che gli faccia cilecca la spada durante la battaglia» rispose Birgit, mescolando acqua e farina. Risate allegre travolsero le donne. Eragon arrossì, tenne lo sguardo fisso davanti a sé e prese a impastare più veloce. Doppi sensi come quello erano all'ordine del giorno durante i matrimoni, e anche lui aveva fatto la sua parte in altre occasioni, ma lo sconcertava che questa volta avessero come bersaglio suo cugino. Il suo pensiero andava non solo ai presenti, ma anche a chi non avrebbe potuto partecipare alle nozze: Byrd, Quimby, Parr, Hida, il giovane Elmund, Kelby e tutti gli altri che erano morti per colpa dell'Impero. Ma soprattutto pensò a Garrow. Quanto avrebbe desiderato che lo zio fosse ancora vivo per vedere suo figlio, acclamato come un eroe sia dagli abitanti del villaggio sia dai Varden, prendere in sposa Katrina e diventare un uomo a tutti gli effetti... Eragon chiuse gli occhi e rivolse il viso al sole di mezzogiorno, sorridendo al cielo, soddisfatto. Era una bella giornata. L'aroma di lievito, farina, carne arrosto, vino appena versato, zuppe calde, dolcetti e caramelle disciolte si diffuse per tutto lo spiazzo. I suoi amici e i suoi famigliari erano radunati lì intorno per un'occasione di festa, non di lutto. E per il momento lui e Saphira erano al sicuro. Un corno risuonò per l'accampamento, un suono acuto, innaturale, isolato. Ancora. E ancora. Si bloccarono tutti, incerti sul significato di quelle tre note. L'accampamento rimase in silenzio per un po', fatta eccezione per gli animali, poi cominciarono a rimbombare i tamburi di guerra dei Varden. Scoppiò il caos. Le madri correvano a cercare i loro figli e i cuochi spegnevano i falò con l'acqua, mentre tutti, uomini e donne, si precipitavano sulle armi. Eragon schizzò verso Saphira proprio mentre la dragonessa si stava rialzando. Dilatò la mente, trovò Blödhgarm e non appena gli elfi abbassarono la guardia disse: Eragon si lanciò in groppa a Saphira. Non appena le ebbe gettato una gamba sul collo, la dragonessa superò con un balzo quattro file di tende, poi atterrò e saltò una seconda volta con le ali semichiuse. Non volava, ma procedeva a balzi, come un puma che attraversa un fiume impetuoso. Ogni volta che toccavano terra, Eragon digrignava i denti, gli tremava la schiena e gli sembrava di cadere. Tra un balzo e l'altro, in mezzo a guerrieri spaventati che si scansavano al loro passaggio, Eragon rintracciò Trianna e gli altri membri del Du Vrangr Gata, si mise in contatto con loro e li organizzò per la battaglia. Qualcuno che non faceva parte del Tortuoso Cammino gli si insinuò nei pensieri. Eragon si ritrasse, barricando la propria coscienza dietro alte mura, poi capì che si trattava di Angela l'erborista e accettò il contatto. Come un falegname che dispone i propri attrezzi e li esamina prima di cominciare un nuovo progetto, Eragon passò in rassegna gli incantesimi di protezione che aveva evocato per sé, Saphira, Nasuada, Arya e Roran. Sembrava tutto a posto. Saphira si fermò davanti alla tenda di Eragon, scavando solchi con gli artigli nella terra battuta. Eragon saltò giù e cadde rotolando non appena ebbe toccato il suolo, poi si rialzò con un balzo, si precipitò dentro e strada facendo cominciò a sfilarsi la cintura a cui era legato il falcione. Poi la tolse e, rovistando sotto la branda, recuperò l'armatura. Infilò la testa nel freddo e pesante usbergo di maglia e se lo sistemò sulle spalle, con un suono simile a un tintinnio di monete. Lo legò sotto il collo, infilò al di sopra la cuffia e poi si ficcò in testa l'elmo. Infine recuperò la cintura e se la riallacciò in vita. Con i gambali e i parabraccia nella mano sinistra, infilò il mignolo nello spallaccio dello scudo, afferrò la pesante sella di Saphira con la mano destra e schizzò fuori dalla tenda. Gettata a terra l'armatura con un sonoro clangore, issò la sella sulle ampie spalle di Saphira e ci si arrampicò sopra. Per la fretta e l'eccitazione, oltre che per l'angoscia, non riusciva a stringere le cinghie. Saphira si spostò. Saphira grugnì. Nell'accampamento ferveva una febbrile attività: uomini e nani sciamavano in fiumi tonanti verso nord, pronti a rispondere al richiamo dei tamburi di guerra. Eragon raccolse l'armatura, montò su Saphira e si sistemò in sella. Con un improvviso battito d'ali, uno scatto d'accelerazione, una raffica d'aria vorticosa e lo stridulo lamento dei parabraccia contro lo scudo, la dragonessa spiccò il volo. Mentre procedevano rapidi verso l'estremità nord dell'accampamento, Eragon si legò i gambali agli stinchi, tenendosi stretto a Saphira con la sola forza delle gambe. Appese lo scudo a una delle punte cervicali della dragonessa, poi incastrò i parabraccia tra la pancia e il davanti della sella. Quando ebbe terminato di fissarli, fece scivolare le gambe negli appositi alloggiamenti di pelle posti su entrambi i lati della sella, poi strinse le fibbie una per una. Passò una mano sulla cintura di Beloth il Savio. Ricordò che aveva esaurito tutta l'energia per curare Saphira sull'Helgrind e gemette. Si stava sistemando i parabraccia quando la dragonessa curvò ad arco le ali, avvolgendo l'aria con le sue membrane translucide, e si impennò, posandosi sulla cresta di uno dei terrapieni che circondavano l'accampamento. Nasuada era già lì, seduta sul suo immenso destriero, Tempesta. Accanto a lei c'erano Jörmundur, anch'egli a cavallo, Arya, che invece era a piedi, e i Falchineri di guardia al momento, capitanati da Khagra, uno degli Urgali che Eragon aveva incontrato sulle Pianure Ardenti. Blödhgarm e gli altri elfi emersero dalla foresta di tende alle loro spalle e si disposero vicino a Eragon e a Saphira. Da un'altra parte dell'accampamento arrivarono al galoppo re Orrin e il suo seguito; a mano a mano che si avvicinavano a Nasuada, riportarono al passo i destrieri imbizzarriti. A ruota arrivarono anche Narheim, il capo dei nani, e tre dei suoi guerrieri, in groppa a pony equipaggiati con armature di maglia e pelle. Nar Garzhvog sopraggiunse di corsa dai campi a est, preceduto di parecchi secondi dal tonfo dei suoi passi pesanti. Nasuada gridò alle guardie all'entrata nord di aprire il cancello di legno grezzo e farlo entrare, anche se volendo avrebbe potuto abbatterlo. «Chi ci sta attaccando?» grugnì, scalando il terrapieno con quattro lunghe falcate che di umano avevano ben poco. I cavalli si ritrassero davanti al gigantesco Urgali. «Guarda» indicò Nasuada. Eragon stava già studiando il nemico. Sulla vicina riva del fiume Jiet, a circa due miglia di distanza, erano approdate cinque navi affusolate, nere come la pece, e avevano scaricato uno sciame di uomini vestiti con i colori dell'esercito di Galbatorix. Catturando e riflettendo la luce con le spade, le lance, gli scudi, gli elmi e le cotte di maglia, il manipolo scintillava come acqua sferzata dal vento sotto il sole d'estate. Arya si schermò gli occhi con una mano e guardò i soldati in tralice. «Stimo che siano tra le duecentosettanta e le trecento unità.» «Perché così pochi?» si domandò Jörmundur. Re Orrin si accigliò. «Galbatorix non può essere così folle da credere di poterci distruggere con un battaglione tanto esiguo!» Si sfilò l'elmo a forma di corona e si asciugò la fronte con un angolo della tunica. «Potremmo spazzarli via senza perdere nemmeno un uomo.» «Forse» rispose Nasuada. «O forse no.» Biascicando le parole, Garzhvog aggiunse: «Il Re Drago è un falso traditore, un ariete farabutto, ma non è un pazzo. Anzi, è astuto come una donnola assetata di sangue.» I soldati si disposero in ranghi ordinati e poi cominciarono a marciare verso i Varden. Un giovane messaggero corse da Nasuada, che si chinò ad ascoltare, poi lo congedò. «Nar Garzhvog, i tuoi sono al sicuro dentro l'accampamento. Si sono raccolti vicino all'entrata est, aspettano che tu vada da loro e prenda il comando.» Garzhvog grugnì, ma rimase dov'era. Guardando di nuovo i soldati che si stavano avvicinando, Nasuada aggiunse: «Non mi viene in mente nessun motivo valido per attaccarli allo scoperto. Possiamo abbatterli con gli arcieri non appena saranno a tiro. E una volta arrivati al terrapieno si disperderanno per via delle trincee e della palizzata. Non sopravviverà nessuno.» Concluse il discorso con evidente soddisfazione. «Quando faranno la prima mossa, io e i miei cavalieri potremmo attaccarli alle spalle» suggerì Orrin. «Rimarranno così sorpresi che non avranno nemmeno il tempo di difendersi.» «L'andamento della battaglia può...» stava replicando Nasuada quando il corno d'ottone che aveva annunciato l'arrivo dei soldati suonò ancora, così forte che Eragon, Arya e gli altri elfi si coprirono le orecchie. Eragon sussultò di dolore. Eragon dimenticò quello che stava per dire non appena scorse un certo movimento sulla riva opposta del fiume Jiet, dietro un velo di dolenti salici. Rosso come un rubino immerso nel sangue, rosso come il ferro incandescente pronto per essere forgiato, rosso come un tizzone ardente di odio e rabbia, sopra le languide chiome apparve Castigo. E sul dorso dello scintillante drago sedeva Murtagh con la lucente armatura d'acciaio, brandendo Zar'roc sopra la testa. FUOCO NEL CIELO Mentre osservava Castigo e Murtagh salire in alto nel cielo verso nord, Eragon sentì Narheim sussurrare «Barzûl» e poi maledire Murtagh perché aveva ucciso Rothgar, il re dei nani. Arya distolse lo sguardo. «Nasuada, Maestà» disse poi, facendo guizzare gli occhi da lei a Orrin, «devi fermare quei soldati prima che raggiungano l'accampamento. Non puoi permettere che attacchino le nostre linee difensive, altrimenti spazzeranno via i bastioni come un'onda di burrasca e scateneranno un indicibile scompiglio tra le tende, dove non siamo in grado di rispondere con efficacia.» «Come? "Un indicibile scompiglio"?» ripeté Orrin in tono di scherno. «Hai così scarsa fiducia nelle nostre capacità, ambasciatrice? Forse gli umani e i nani non sono abili come voi elfi, ma non avremo difficoltà a sbarazzarci di questi poveri disgraziati, te lo assicuro.» I lineamenti di Arya si irrigidirono. «Le vostre capacità non hanno uguali, mio re, non ne dubito, ma ascoltami bene: questa è una trappola tesa per Eragon e Saphira. Riavutosi dall'iniziale stupore, Eragon aggiunse: «Non dobbiamo permettere a Castigo di volare sopra le tende. Potrebbe incendiarne la metà in un colpo solo.» Nasuada afferrò il pomolo della sella con entrambe le mani, in apparenza indifferente a Murtagh, a Castigo e ai soldati, che ormai erano a meno di un miglio di distanza. «Ma perché non coglierci di sorpresa, allora?» chiese. «Perché avvisarci della loro presenza?» Fu Narheim a risponderle. «Perché non volevano che Eragon e Saphira fossero coinvolti nel combattimento. Forse mi sbaglio, ma il loro piano è che affrontino Murtagh e Castigo in cielo mentre i soldati ci attaccano a terra.» «Allora vi pare saggio esaudire il loro desiderio e far cadere di proposito Eragon e Saphira nella loro trappola?» Nasuada sollevò un sopracciglio. «Sì» insisté Arya, «perché abbiamo un vantaggio che loro non sospetta no nemmeno.» Indicò Blödhgarm. «Stavolta Eragon non affronterà Murtagh da solo, ma si potrà avvalere della forza congiunta di tredici elfi. Murtagh non se lo aspetta. Se blocchi i soldati prima che ci raggiungano, avrai mandato all'aria metà del piano di Galbatorix. Se poi mandi Eragon e Saphira a combattere, forti dell'appoggio dei più potenti tra gli stregoni della mia razza, il gioco è fatto.» «Mi hai convinto» rispose Nasuada. «Ma i soldati sono troppo vicini perché possiamo intercettarli con la fanteria fuori dall'accampamento. Orrin...» Ancora prima che finisse la frase, il re si era lanciato al galoppo verso i cancelli a nord. Qualcuno del suo seguito suonò la tromba e diede al resto della cavalleria il segnale di prepararsi all'attacco. «Re Orrin avrà bisogno di aiuto. Mandagli i tuoi arieti» ordinò Nasuada a Garzhvog. «Come vuoi, Lady Furianera.» Gettando all'indietro l'immensa testa cornuta, Garzhvog lanciò un feroce muggito lamentoso. Sentendo l'ululato selvaggio dell'Urgali, a Eragon si rizzarono i peli sulle braccia e sul collo. Poi Garzhvog serrò la mandibola di colpo e grugnì: «Ecco fatto.» Infine il Kull partì al trotto e corse verso l'ingresso dove erano radunati il re e i suoi cavalieri. Quattro Varden aprirono i cancelli. Orrin levò la spada, lanciò un grido e uscì al galoppo, guidando i suoi uomini con le tuniche impunturate d'oro contro i soldati nemici. Un pennacchio di polvere color crema si levò da sotto gli zoccoli dei cavalli, avvolgendo la formazione a punta di freccia. «Jörmundur» chiamò Nasuada. «Sì, mia signora?» «Manda duecento spadaccini e un centinaio di lancieri a dar loro man forte. E fa' in modo che cinquanta arcieri si dispongano a una settantina di iarde dal combattimento. Voglio che quei soldati vengano schiacciati, annientati, cancellati dall'esistenza. Agli uomini va detto chiaro e tondo che non devono avere pietà.» Jörmundur si inchinò. «E di' loro che, nonostante mi sia impossibile scendere in battaglia a causa delle mie braccia ferite, il mio spirito marcia con loro.» «Sì, mia signora.» Mentre Jörmundur si allontanava di corsa, Narheim avvicinò il suo pony a Nasuada. «E il mio popolo? Che ruolo abbiamo noi?» Nasuada guardò accigliata la densa polvere soffocante che fluttuava sull'ondulata distesa erbosa. «Potete aiutarci a proteggere il perimetro dell'accampamento. Se i soldati dovessero sfuggirci...» Fu costretta a interrompersi perché quattrocento Urgali - ne erano arrivati altri dopo la battaglia delle Pianure Ardenti - emersero con gran fragore dal centro dell'accampamento, uscirono dal cancello e si avviarono verso il campo, ruggendo incomprensibili grida di guerra. Quando furono svaniti tra la polvere, Nasuada riprese a parlare: «Come dicevo, se quei soldati dovessero sfuggirci, le vostre asce saranno bene accette.» Poi furono investiti da una raffica di vento, che portò con sé le grida di uomini e cavalli morenti, lo spaventoso stridio del metallo contro il metallo, il clangore delle spade sugli elmi, l'impatto sordo delle lance sugli scudi e, in sottofondo, un'orribile risata triste che usciva da una moltitudine di gole e continuava incessante in quel delirio. Era la risata dei folli, pensò Eragon. Narheim si diede un pugno nel fianco. «Per Morgothal, non è da noi starcene qui impalati mentre c'è un combattimento in corso! Consentici di tagliare qualche testa per te, Nasuada!» «No!» esclamò lei. «No, no e poi no! Vi ho già dato un ordine e mi aspetto che obbediate. È in corso una battaglia tra uomini, cavalli, Urgali e forse anche draghi. Non è posto per nani, quello. Verreste calpestati come bambini.» All'imprecazione furiosa di Narheim, alzò una mano. «So bene che siete guerrieri impavidi. Nessuno lo sa meglio di me, dato che ho combattuto accanto a voi nel Farthen Dûr. Tuttavia, non per insistere, ma siete piccoli per i nostri canoni, e preferisco non rischiare di perdere dei guerrieri come voi in una contesa in cui la vostra statura potrebbe esservi fatale. È meglio se aspettate qui, su questa collinetta, dove sovrasterete chiunque cerchi di arrampicarsi; aspettate che siano i soldati a venire da voi. Se qualcuno di loro dovesse raggiungerci, saranno guerrieri così abili e tremendi che vi voglio con me, tu e il tuo popolo, perché li respingiate. Si sa, è più facile sradicare una montagna che sconfiggere un nano.» Scontento, Narheim bofonchiò qualcosa, ma nessuno riuscì a sentire le sue parole perché in quel momento i Varden che Nasuada aveva schierato varcarono l'apertura nel terrapieno dove prima c'era il cancello. Lo scalpiccio di piedi e lo sferragliare di armi e armature si affievolì a mano a mano che gli uomini si allontanavano dall'accampamento. Poi il vento si placò, trasformandosi in una brezza costante; dal luogo dov'era in atto lo scontro giunse ancora quella lugubre risata. Un istante dopo, un grido di incredibile intensità sbaragliò le difese mentali di Eragon e penetrò nella sua coscienza, colmandolo di angoscia. Sentì un uomo dire: Nasuada si agitò in sella al suo destriero, con espressione tesa. «Chi era?» «L'hai sentito anche tu?» «A quanto pare l'abbiamo sentito tutti» rispose Arya. «Credo che fosse Barden, uno degli stregoni che cavalcavano con Orrin, ma...» Mentre il re e i suoi uomini tenevano a bada i soldati nemici, Castigo volava in circolo sempre più in alto, ma adesso era sospeso a mezz'aria, immobile, a metà strada tra i soldati e l'accampamento, e la voce di Murtagh, resa più profonda dalla magia, echeggiò per tutta la pianura: vedo, nascosto dietro le sottane di Nasuada. Vieni a combattere con me! È il tuo destino. O sei un codardo, Saphira alzò la testa e rispose al posto suo, con un ruggito perfino più forte dello stentoreo discorso di Murtagh, poi scaricò uno scoppiettante getto di fuoco blu lungo venti piedi. I cavalli vicini a lei, compreso quello di Nasuada, si diedero alla fuga, lasciando la dragonessa ed Eragon soli sul terrapieno insieme agli elfi. Arya si avvicinò e posò una mano sulla gamba sinistra di Eragon, poi lo fissò con gli occhi verdi a mandorla. «Accettala da parte mia, Shur'tugal» gli disse. Ed Eragon sentì un fiotto di energia scorrergli dentro. «Eka elrun ono» le sussurrò. «Fa' attenzione» gli rispose Arya nell'antica lingua. «Non voglio vederti sconfitto da Murtagh. Io...» Sembrava che volesse aggiungere dell'altro, ma esitò, poi ritrasse la mano e tornò accanto a Blödhgarm. «Buon volo, Bjartskular!» intonarono gli elfi, e Saphira si lanciò all'attacco. Mentre la dragonessa puntava verso Castigo con un gran battito d'ali, Eragon unì la sua mente prima con quella di lei poi con quella di Arya e, attraverso di lei, con quelle di Blödhgarm e degli altri undici elfi. Poiché Arya fungeva da punto di riferimento per gli elfi, Eragon poteva concentrarsi sui pensieri suoi e di Saphira; le conosceva entrambe così bene che le loro reazioni non l'avrebbero distratto nel bel mezzo del combattimento. Afferrò lo scudo con la mano sinistra e sguainò il falcione, tenendolo sollevato in modo da non ferire accidentalmente le ali, le spalle o il collo di Saphira, che erano sempre in movimento. Saphira si avvicinava a Castigo, ma il drago rosso non le si scagliò contro e nemmeno la attaccò: fluttuava nel cielo con le ali dispiegate, consentendole di raggiungerlo indisturbata. Sfruttando le correnti ascensionali, i due draghi si ritrovarono l'uno di fronte all'altra a una cinquantina di iarde di distanza, la punta delle code nervosa, il muso deformato in un ringhio feroce. Aveva ragione. Castigo era più lungo e aveva il petto più largo rispetto alla battaglia delle Pianure Ardenti. Benché fosse ancora un cucciolo, era già grande quasi quanto Saphira. Seppur con riluttanza, Eragon distolse lo sguardo dal drago e lo posò sul Cavaliere. Murtagh aveva il capo scoperto e i suoi lunghi capelli neri ondeggiavano come una morbida, lucente criniera. Sul volto aveva un'espressione arcigna: Eragon non l'aveva mai visto così, e sapeva che stavolta non avrebbe avuto nessuna pietà; non poteva. Ridotto di molto il volume della voce, benché fosse ancora più sonora del normale, Murtagh disse: «Tu e Saphira ci avete provocato molto dolore, Eragon. Galbatorix era furioso con noi perché vi abbiamo lasciato andare. E dopo che avete ucciso i Ra'zac era così arrabbiato che ha fatto a pezzi cinque dei suoi servitori e poi ha rivolto la sua ira contro me e Castigo. Abbiamo sofferto orribilmente per causa vostra. Non accadrà più.» Portò indietro il braccio, come se Castigo fosse sul punto di scattare in avanti e lui si stesse preparando a colpire. «Aspetta!» gridò Eragon. «Conosco un modo per liberarvi entrambi dal giuramento prestato a Galbatorix.» Un'espressione di disperato desiderio trasformò i lineamenti di Murtagh, che abbassò appena Zar'roc di qualche pollice. Poi si accigliò, sputò verso terra e gridò: «Non ti credo! È impossibile!» «Invece sì! Lascia almeno che ti spieghi.» Murtagh sembrava in lotta con se stesso, e per un istante Eragon pensò che si sarebbe rifiutato di ascoltarlo. Castigo volse la testa e guardò il suo Cavaliere, e un flusso di pensieri si trasmise dall'uno all'altro. «Accidenti a te, Eragon, ti sei servito di questa proposta come esca» esclamò Murtagh, e posò Zar'roc sul davanti della sella. «Ci eravamo già rassegnati al nostro destino; invece tu ci vuoi tormentare con lo spettro di una speranza che ormai avevamo abbandonato da tempo. Se questa speranza si dimostrerà vana, fratello, giuro che prima di portarti da Galbatorix ti taglierò la mano destra... Tanto, per ciò che dovrai fare a Urû'baen non ti servirà.» A Eragon venne subito in mente una risposta adeguata, ma la tenne per sé. «Galbatorix non avrebbe voluto che te lo dicessi, ma quando ero dagli elfi...» «... ho appreso che se si modifica il carattere, cambia anche il proprio nome nell'antica lingua. La tua identità non è scolpita nella pietra, Murtagh! Se tu e Castigo riuscirete a cambiare qualcosa in voi, il vostro giuramento non sarà più vincolante e Galbatorix vi lascerà andare.» Castigo virò di parecchi iarde verso Saphira. «Perché non l'hai detto prima?» domandò Murtagh. «Allora ero troppo confuso.» Una cinquantina di piedi separavano Castigo e Saphira. Abbandonata la truce espressione di prima, il drago rosso arricciò appena il labbro di sopra, tanto per mettere in guardia Saphira, e nei suoi scintillanti occhi cremisi brillò un'immensa tristezza confusa, quasi sperasse che Saphira o Eragon potessero spiegargli come mai era venuto al mondo solo perché Galbatorix potesse renderlo suo schiavo, abusare di lui e costringerlo a distruggere la vita di altri esseri viventi. Annusò Saphira, facendo vibrare la punta del naso. Anche lei lo annusò, la lingua che le guizzava fuori dalla bocca per sentirne l'odore. E all'improvviso Eragon e Saphira provarono una profonda compassione per Castigo; tuttavia, pur desiderando parlare con lui, non osarono aprirgli la loro mente. Così da vicino, Eragon notò i tendini tesi sul collo di Murtagh e la vena forcuta che gli pulsava in mezzo alla fronte. «Io non sono malvagio!» gridò Murtagh. «Considerate le circostanze, ho fatto meglio che potevo. Se nostra madre avesse ritenuto opportuno lasciare sopravvissuto.» «Forse no.» Murtagh si colpì il pettorale con un pugno. «Aha! Allora come faccio a seguire il tuo consiglio? Se sono già buono, se meglio di così non avrei potuto essere, come faccio a cambiare? Devo forse diventare peggiore? Devo prima abbracciare le tenebre di Galbatorix per poi liberarmene? Non mi sembra una soluzione ragionevole. Se riuscissi a modificare la mia identità, il nuovo Murtagh non ti piacerebbe, e mi malediresti con la stessa forza con cui ora maledici Galbatorix.» Frustrato, Eragon rispose: «Sì, ma il punto è che non devi diventare migliore o peggiore, solo diverso. Al mondo ci sono tanti tipi di persone e tanti modi di comportarsi con onore. Pensa a qualcuno che ammiri ma che ha scelto una strada diversa dalla tua, e modella le tue azioni sulle sue. Forse ti ci vorrà un po', ma se riesci a trasformare la tua personalità a sufficienza, tu e Castigo potrete lasciare Galbatorix e l'Impero, e unirvi a noi e ai Varden, dove sarete liberi di fare ciò che volete.» chiese Saphira, ma Eragon la ignorò. Murtagh lo derise. «E così mi stai chiedendo di essere chi non sono. Fammi capire: se io e Castigo vogliamo salvarci, dobbiamo distruggere la nostra identità, vero? La tua cura è peggiore della nostra pena.» «Ti sto chiedendo di dare la possibilità a te stesso di crescere e diventare diverso da ciò che sei ora. È difficile, lo so, ma le persone non fanno che reinventarsi. Liberati della tua rabbia, e potrai voltare le spalle a Galbatorix una volta per tutte.» «Liberarmi della mia rabbia?» Murtagh rise. «Solo quando tu ti libererai della tua per ciò che ha fatto l'Impero a tuo zio e alla tua fattoria. È la rabbia a definirci, Eragon. Senza di essa io e te saremmo cibo per i vermi. Tuttavia...» Con gli occhi socchiusi, Murtagh tamburellò sulla guardia a crociera di Zar'roc e intanto i tendini del collo gli si distesero, benché la vena che gli scorreva in mezzo alla fronte fosse ancora gonfia. «Devo ammetterlo, l'idea mi intriga. Forse ci potremo lavorare insieme quando saremo a Urû'baen. Sempre che il re ci consenta di restare uniti. Naturalmente potrebbe anche decidere di tenerci separati per sempre. Fossi in lui, non avrei dubbi a scegliere questa seconda possibilità.» Eragon serrò le dita attorno all'elsa del falcione. «A quanto pare sei convinto che verremo con te nella capitale.» «Oh, certo, fratello.» Le labbra di Murtagh si tirarono in una specie di sorriso. «Pur volendo, io e Castigo non riusciremmo mai a cambiare in un baleno ciò che siamo. Fino a quando non avremo l'opportunità di farlo, rimarremo fedeli a Galbatorix, e lui ci ha ordinato senza mezzi termini di catturarvi. Non vogliamo affrontare la delusione del re. Vi abbiamo già sconfitti una volta: sarà un gioco da ragazzi ripetere l'impresa.» Dalle fauci di Saphira divampò una fiammata; Eragon aveva pronta una risposta sullo stesso tono, ma la ricacciò in gola. Se avesse perso le staffe, ci sarebbe stato un inevitabile spargimento di sangue. «Murtagh, Castigo, vi prego, non volete almeno tentare di fare come vi ho suggerito? Non desiderate opporvi a Galbatorix? Se non siete disposti ad affrontarlo, non vi libererete mai delle vostre catene.» «Tu lo sottovaluti, Eragon» grugnì Murtagh. «Sono secoli che rende schiave le persone sfruttandone il nome, fin da quando reclutò nostro padre. Pensi che non sappia che il vero nome di ognuno cambia nel corso della vita? Di sicuro ha preso precauzioni contro quest'eventualità. Se il mio vero nome o quello di Castigo dovessero cambiare in questo preciso istante, con ogni probabilità ciò evocherebbe un incantesimo che allerterebbe Galbatorix, costringendoci a tornare subito a Urû'baen in modo che lui possa legarci di nuovo a sé.» «Solo se indovina quali sono i vostri nuovi nomi, però...» «In questo è un maestro.» Murtagh prese Zar'roc dalla sella. «Potremmo seguire il tuo suggerimento in futuro, ma solo dopo un attento studio e una ponderata preparazione. Non voglio rischiare che io e Castigo riconquistiamo la libertà solo perché un attimo dopo Galbatorix ce la rubi di nuovo.» Levò la spada; la lama iridescente vibrò. «Dunque non abbiamo altra scelta se non portarvi con noi a Urû'baen. Ci seguirete di vostra spontanea volontà?» Incapace di trattenersi ancora, Eragon esclamò: «Piuttosto mi strappo il cuore con le mie stesse mani!» «Meglio se strappi i miei, di cuori!» replicò Murtagh, poi brandì la spada sopra la testa e lanciò un selvaggio grido di guerra. Ruggendo insieme al suo cavaliere, Castigo diede due rapidi battiti d'ali per superare Saphira. Mentre saliva, fece un mezzo giro su se stesso in modo da portare la testa proprio sopra il collo della dragonessa e così immobilizzarla con un solo morso alla base del cranio. La reazione di Saphira non si fece attendere. Piegò il collo verso il basso e portò le ali in avanti, e un attimo dopo si era già lanciata in picchiata, le ali parallele al terreno polveroso a sostenere il suo peso instabile. Poi chiuse l'ala destra, e volse la testa a sinistra e la coda a destra, ruotando in senso orario. Colpì Castigo sul fianco sinistro con la coda muscolosa, spezzandogli l'ala in cinque punti diversi. Le estremità fratturate degli ossi cavi gli trafissero le squame lucenti. Globuli di sangue bollente di drago piovvero su Eragon e Saphira. Una goccia schizzò sul retro della cuffia di Eragon e gli filtrò sotto la cotta di maglia fino alla pelle. Bruciava come olio caldo. Eragon si strofinò il collo, cercando di ripulirsi. Il ruggito di Castigo si trasformò in un lamento di dolore, e il giovane drago passò accanto a Saphira ondeggiando, incapace di galleggiare nell'aria. «Ben fatto!» le gridò Eragon mentre la dragonessa si raddrizzava. Poi dall'alto vide Murtagh prendere dalla cintura un piccolo oggetto rotondo e premerlo contro la spalla di Castigo. Non avvertì nessun flusso di magia, ma quell'oggetto luccicava e, a mano a mano che gli ossi tornavano a posto, l'ala spezzata del drago ebbe un sussulto, i muscoli e i tendini ondeggiarono e gli squarci si richiusero. Infine anche le ferite nel fianco del drago si rimarginarono. Del tutto ristabilito, Castigo pose fine alla sua caduta e risalì verso Saphira a velocità prodigiosa, incendiando l'aria davanti a sé con una lancia bollente di fuoco rosso scuro. Saphira si tuffò contro di lui, volando tutto intorno a quella torre fiammeggiante, poi gli morse il collo, facendolo indietreggiare, gli graffiò le spalle e il petto con gli artigli anteriori e lo colpì con le immense ali. Il bordo di quella destra agganciò Murtagh, scaraventandolo di lato sulla sella, ma il Cavaliere si riebbe subito e la colpì, aprendo uno squarcio di tre piedi nella membrana. Sibilando, Saphira allontanò da sé Castigo scalciandolo con le zampe di dietro ed eruttò un getto di fuoco, che si biforcò, passandogli ai lati senza fare alcun danno. Eragon sentì pulsare la ferita attraverso di lei. Fissò il taglio insanguinato, e i suoi pensieri iniziarono a correre. Se a combattere contro di lui non ci fosse stato Murtagh, ma un qualsiasi mago, il giovane Cavaliere non avrebbe mai osato scagliare un incantesimo nel bel mezzo della battaglia, perché in quel caso lo stregone si sarebbe convinto che ormai era una questione di vita o di morte, e, tentando il tutto per tutto, avrebbe risposto con un disperato attacco magico. Con Murtagh, invece, era diverso. Eragon sapeva che Galbatorix gli aveva ordinato di catturare lui e Saphira, non di ucciderli. curare la dragonessa senza correre rischi. E comprese in ritardo che poteva attaccare Murtagh con qualsiasi tipo di incantesimo: suo fratello non avrebbe saputo rispondere in maniera letale. Si chiese perché Murtagh aveva usato un oggetto magico per curare le ferite di Castigo invece di pronunciare lui stesso un incantesimo. Mentre si preparava a medicarle l'ala, Arya gli disse: Eragon avvertì che Arya si stava concentrando, poi il taglio nell'ala di Saphira smise di lacrimare sangue e i contorni infiammati della delicata membrana cerulea si fusero senza lasciare cicatrici né croste. Il sollievo della dragonessa fu palpabile. Con voce appena affaticata, Arya disse: Dopo che Saphira l'aveva colpito con un calcio, il drago rosso si era dimenato e aveva perso quota. D'un tratto virò di un quarto di miglio verso ovest, probabilmente convinto che la dragonessa si fosse precipitata a inseguirlo, dato che cadendo aveva meno possibilità di proteggersi dai suoi attacchi. Quando si accorse che Saphira non gli stava alle calcagna, Castigo risalì volando in circolo finché non si ritrovò un migliaio di piedi più su rispetto a lei. Allora richiuse le ali e si scagliò contro l'avversaria; aveva le fauci spalancate, che dardeggiavano fiamme, e gli artigli d'avorio sfoderati. Sul suo dorso, Murtagh brandiva Zar'roc. Quando Saphira chiuse un'ala e si lanciò in picchiata con una brusca virata vertiginosa, per poco Eragon non perse il falcione, ma poi la dragonessa la dispiegò di nuovo per rallentare la discesa. Se avesse chinato la testa all'indietro, Eragon avrebbe potuto vedere la terra sotto di loro. O forse era sopra? Strinse i denti e si concentrò per mantenersi ben saldo in sella. Castigo e Saphira si scontrarono e a Eragon parve che la dragonessa si fosse schiantata contro il dorso di una montagna. La forza dell'impatto lo sbalzò in avanti e gli fece battere l'elmo contro una delle punte cervicali, che scalfì lo spesso acciaio. Stordito, rimase in sella a guardare il cielo e la terra scambiarsi di posto e vorticare senza uno schema preciso. Quando Castigo le colpì il ventre scoperto, sentì Saphira rabbrividire. Se solo avesse avuto il tempo di infilarle la corazza che le avevano dato i nani... Una scintillante zampa color rubino le apparve attorno alla spalla e la dilaniò con gli artigli insanguinati. Senza pensarci, Eragon la colpì, frantumando una fila di squame e tagliando un ammasso di tendini. Tre dita si afflosciarono. Eragon si accanì. Ringhiando, Castigo si divincolò da Saphira. Mentre il corpulento drago inarcava il collo e si riempiva i polmoni, Eragon si chinò, coprendosi il viso con il gomito. Un vorace inferno inghiottì Saphira. Grazie alle difese di Eragon, il calore del fuoco non poteva far loro del male, ma la torrenziale pioggia di fiamme incandescenti era comunque accecante. Per uscire dal turbine di fuoco, Saphira virò a sinistra. Intanto Murtagh aveva richiuso la ferita alla zampa di Castigo, che si scagliò di nuovo contro la dragonessa. Mentre scendevano in picchiata verso le grigie tende dei Varden scartando a destra e a sinistra così in fretta da dare la nausea ai loro Cavalieri, i due draghi ingaggiarono un serrato corpo a corpo. Saphira riuscì a conficcare le zanne nella cresta cornuta che spuntava dietro la testa di Castigo, nonostante gli ossi appuntiti le pungessero la lingua. Castigo lanciò un grido e si dimenò come un pesce preso all'amo, cercando di liberarsi dalla morsa, ma nulla poté contro la stretta di ferro delle mandibole di Saphira. I due draghi continuarono a precipitare l'uno accanto all'altro, come foglie intrecciate. Eragon si sporse e assestò un fendente alla spalla destra di Murtagh, non tanto con l'intenzione di ucciderlo quanto di ferirlo abbastanza gravemente da porre fine al combattimento. A differenza di quando combatté sulle Pianure Ardenti, adesso Eragon era riposato e, col braccio veloce come quello di un elfo, era fiducioso che Murtagh non avrebbe avuto scampo. Invece l'avversario levò lo scudo e bloccò il falcione. La sua reazione fu così inaspettata che Eragon vacillò ed ebbe appena il tempo di indietreggiare e respingere Zar'roc, la cui lama vibrò nell'aria a una velocità esorbitante e lo ferì a una spalla. Murtagh non perse tempo: lo colpì al polso e poi, quando Eragon si scagliò di lato, gli fece passare la lama sotto lo scudo. Riuscì a infilarla tra l'orlo dell'usbergo di maglia e la vita dei pantaloni, trafiggendogli il fianco sinistro. La punta di Zar'roc gli si conficcò nell'osso. Il dolore travolse Eragon come un getto d'acqua gelida, ma gli diede anche una soprannaturale lucidità di pensiero e gli trasmise una scarica di energia straordinaria in tutto il corpo. Mentre Murtagh sfilava la spada, Eragon gridò e gli si scagliò contro. Con una veloce torsione del polso, Murtagh intrappolò il falcione sotto Zar'roc e digrignò i denti in un ghigno sinistro. Senza un attimo di esitazione, Eragon liberò la sua arma, poi finse di voler colpire l'avversario al ginocchio destro, ma all'ultimo momento abbatté il falcione in direzione opposta, ferendo Murtagh alla guancia. «Avresti dovuto metterti l'elmo» gli disse. Erano così vicini a schiantarsi al suolo - mancava solo qualche centinaio di piedi - che Saphira dovette lasciar andare Castigo. I due draghi si separarono prima che Eragon e Murtagh potessero ferirsi di nuovo. Mentre Saphira e Castigo risalivano a spirale, lanciandosi entrambi verso una nube bianco perla che si stava addensando sopra le tende dei Varden, Eragon sollevò l'usbergo e la tunica e si esaminò il fianco. Nel punto in cui Zar'roc l'aveva colpito, spingendo la cotta di maglia contro il corpo, c'era un esangue lembo di pelle grande quanto un pugno. In mezzo, dove era penetrata la lama, una sottile linea rossa lunga due pollici. La ferita sanguinava, inzuppandogli la parte alta dei pantaloni. Il fatto di essere stato ferito da Zar'roc, una spada che non l'aveva mai abbandonato nei momenti di pericolo e che ancora considerava sua a buon diritto, lo turbò. Che la sua arma gli si fosse ritorta contro era mondo girava alla rovescia, e il suo istinto gli imponeva di ribellarsi a quello stato di cose. Mentre attraversava un vortice d'aria, Saphira tremò tutta ed Eragon sussultò avvertendo una nuova fitta di dolore al fianco. Per fortuna non stavano combattendo a terra, concluse, altrimenti non credeva che sarebbe riuscito a reggersi in piedi. di Islanzadi, mi guarisca con un incantesimo.» Eragon si contorse sulla sella mentre la magia degli elfi faceva effetto, e il fianco cominciò a formicolargli e a prudergli come se fosse ricoperto di pulci che lo mordevano. Quando il prurito diminuì, si infilò una mano sotto la tunica e, con grande gioia, sentì solo pelle liscia. Saphira virò a sinistra e, mentre Castigo si affannava a voltarsi, si tuffò nel cuore dell'immensa nube perlata di fronte a loro. Tutto divenne freddo, umido e bianco, poi Saphira sbucò dalla parte opposta, alle spalle di Castigo, pochi piedi sopra di lui. Con un ruggito trionfante, Saphira si abbatté sul drago rosso e lo afferrò per i fianchi, conficcandogli gli artigli in profondità nei garretti e lungo la spina dorsale. Protese la testa, gli addentò l'ala sinistra e serrò la presa, tagliando la carne di netto con uno schiocco delle zanne affilate come un rasoio. Castigo si dibatté e lanciò un grido: Eragon non sospettava che i draghi potessero emettere versi tanto orribili. Pallido in viso benché insanguinato, Murtagh puntò Zar'roc contro Eragon - la spada vibrò nell'aria - e un fascio di energia mentale immenso travolse la coscienza di Eragon. Quella misteriosa presenza rovistò nei suoi pensieri, cercando di carpirli e di sottometterli al suo volere. Come sulle Pianure Ardenti, Eragon si accorse che la mente del fratello sembrava contenere una vera folla, come se un confuso coro di voci stesse mormorando in sottofondo al tumulto dei suoi pensieri. Forse c'era un gruppo di maghi ad assisterlo, come lui aveva gli elfi. Per quanto difficile, Eragon svuotò la mente da ogni cosa, eccetto l'immagine di Zar'roc. Si concentrò sulla spada con tutte le sue forze, rasserenando la coscienza nella calma della meditazione, così che Murtagh non trovasse alcun appiglio a cui aggrapparsi. E quando Castigo si dimenò sotto di loro e l'attenzione di Murtagh vacillò per un istante, lanciò un furioso contrattacco, afferrando a sua volta la coscienza dell'altro Cavaliere. I due lottarono uno contro l'altro in caduta libera, in un cupo silenzio, respingendosi a vicenda entro i confini delle rispettive menti. A volte sembrava che avesse la meglio Murtagh, a volte il fratello, ma nessuno riusciva a prevalere. Eragon scoccò un'occhiata in basso e si accorse che non mancava molto al momento in cui si sarebbero schiantati al suolo; così capì che la contesa andava decisa con altri mezzi. Abbassando il falcione al livello di Murtagh, gridò «Letta!», lo stesso incantesimo che il fratello aveva usato contro di lui nel precedente confronto. Era una magia semplice, che gli avrebbe bloccato le braccia e il torso, ma così avrebbero potuto affrontarsi direttamente e stabilire chi aveva più energia a disposizione. Murtagh pronunciò un controincantesimo, ma le parole si persero nel ringhio di Castigo e nell'ululato del vento. Via via che la forza lo abbandonava, il polso di Eragon accelerava. Quando ormai aveva quasi esaurito le forze e si sentiva debole, Saphira e gli elfi riversarono l'energia dei propri corpi nel suo, evitando così che l'incantesimo di Eragon si spezzasse. Sulle prime Murtagh, che gli stava di fronte, apparve compiaciuto e sicuro di sé, ma più Eragon lo teneva a bada, più si accigliava e digrignava i denti, ritraendo le labbra. Per tutto il tempo, le rispettive menti rimasero sotto assedio. Un paio di volte Eragon senti diminuire l'energia che Arya gli stava inviando e intuì che due degli stregoni al comando di Blödhgarm dovevano essere svenuti. dovette sforzarsi di riprendere il controllo della propria mente, perché quella perdita di concentrazione aveva permesso all'avversario di far breccia nelle sue difese mentali. La forza di Arya e degli altri elfi si dimezzò e perfino Saphira cominciò a tremare di stanchezza. Proprio quando Eragon era convinto che avrebbe perso, Murtagh lanciò un grido di dolore. Via via che la resistenza del fratello calava, a Eragon parve di liberarsi di un grosso peso. Murtagh era esterrefatto davanti al successo dell'avversario. allontanò da lui, battendo le ali a fatica, come se persino tenerle dispiegate le costasse molte energie. Eragon si voltò, e per un fugace istante ebbe l'impressione che un prato invaso dal sole e punteggiato di cavalli stesse per scagliarsi contro di loro; poi fu come se un gigante lo travolgesse dal basso e tutto divenne nero. La prima cosa che vide fu il collo puntuto di Saphira a un paio di pollici dal suo naso. Le squame brillavano come ghiaccio blu cobalto. C'era qualcuno che stava tentando di penetrargli nella mente, qualcuno la cui coscienza trasmetteva un'intensa sensazione di fretta. A mano a mano che rientrava in possesso delle sue piene facoltà, si accorse che si trattava di Arya. Di scatto, Eragon balzò a sedere in sella, accorgendosi a stento che Saphira era accucciata in un cerchio di cavalieri del re. Arya non c'era. Ora che aveva recuperato i sensi, sentì che l'incantesimo lanciato contro Murtagh gli stava ancora prosciugando l'energia, e in quantità sempre maggiori. Se non fosse stato per l'aiuto degli elfi e della sua dragonessa, sarebbe già morto. Eragon pose fine alla magia, poi cercò Castigo e Murtagh. Nel paesaggio ondulato rimbombò la voce amplificata di Murtagh: «Eragon, Saphira! Non crediate di avere vinto. Ci incontreremo di nuovo, ve lo prometto, e allora io e Castigo vi sconfiggeremo, perché saremo ancora più forti!» Eragon strinse lo scudo e il falcione con tanta forza che gli uscì il sangue da sotto le unghie. Eragon osservò Castigo e Murtagh finché non scomparvero dalla sua vista, poi sospirò e accarezzò Saphira sul collo. Saphira piegò il collo e gli leccò la parte alta del braccio destro, facendogli tintinnare l'usbergo di maglia, poi lo guardò con occhi scintillanti. Eragon riuscì ad abbozzare solo l'ombra di un sorriso. ... ... Un rivolo di sudore gli gocciolò dalla fronte e si infilò nell'angolo dell'occhio destro. Lo asciugò con il palmo della mano, poi batté le palpebre e notò i cavalieri raccolti intorno a loro. L'elfa respirava con tanto affanno che per qualche istante non riuscì nemmeno a parlare. Eragon rimase a guardarla allarmato, poi disse: «I soldati si sono dimostrati più pericolosi del previsto. Non sappiamo perché. Il Du Vrangr Gata non ha sentito che un confuso borbottio provenire dagli stregoni di Orrin.» Poi, non appena riprese fiato, cominciò a esaminare i tagli e le ferite di Saphira. Prima che Eragon potesse chiederle altro, un'accozzaglia di grida eccitate provenienti dal vortice di guerrieri soffocò ogni altro rumore. «Indietro, indietro! Arcieri, mantenete i ranghi! Accidenti, che nessuno si muova, l'abbiamo preso!» gridò re Orrin. Eragon e Saphira ebbero la stessa idea. La dragonessa piegò le gambe, superò con un balzo i soldati disposti in circolo spaventando gli animali, che - disarcionati i loro cavalieri - corsero via, e si fece strada lungo il campo di battaglia disseminato di cadaveri verso il punto da cui proveniva la voce del re, ignorando uomini e Urgali come se fossero tanti steli d'erba. Gli altri elfi si affrettarono a tenerle dietro, armati di spade e archi. Saphira trovò Orrin in sella al suo destriero, in testa al fitto manipolo di guerrieri, mentre fissava un uomo a una quarantina di piedi di distanza. Il re era paonazzo e aveva gli occhi spiritati; l'armatura era sudicia dopo il combattimento. Era stato ferito sotto il braccio sinistro e l'asta di una lancia gli spuntava di parecchi pollici dalla coscia destra. Quando si accorse della presenza della dragonessa, fu invaso da un improvviso sollievo. «Bene, bene, siete qui» bofonchiò, mentre Saphira raggiungeva il suo cavallo. «Avevamo giusto bisogno di te, Saphira, e anche di te, Ammazzaspettri.» Uno degli arcieri avanzò di qualche pollice. Orrin brandì la spada contro di lui e strillò: «Indietro! Se non restate dove siete vi mozzerò la testa, lo giuro sulla corona di Angvard!» Poi riprese a fissare l'uomo. Eragon seguì il suo sguardo, e vide un soldato di media statura, con una voglia viola sul collo e i capelli castani appiattiti per via dell'elmo. Lo scudo era ridotto in frantumi; la spada era scalfita, piegata e aveva perso gli ultimi sei pollici della lama. La calzabraca era inzaccherata di fango del fiume. Aveva uno squarcio nel costato ricoperto di sangue. Una freccia con un pennacchio bianco di piume di cigno gli si era conficcata nel piede destro e lo teneva inchiodato al terreno. Dalla gola gli usciva un orribile gorgoglio, una sorta di risata che aumentava di intensità e poi calava, come se fosse stato ubriaco, raggiungendo note sempre più acute: pareva sul punto di mettersi a gridare dall'orrore. «Che cosa sei?» urlò Orrin. Poiché il soldato non rispose subito, il re imprecò e gli disse: «Rispondimi, o ti darò in pasto ai miei stregoni. Sei un uomo, una bestia o il seme del demonio? In quale orrido pozzo Galbatorix ha trovato te e i tuoi simili? Sei un Ra'zac?» L'ultima domanda ebbe un effetto immediato su Eragon, come se gli avessero infilato un ago nella carne; si raddrizzò di colpo, i cinque sensi vigili. La risata cessò per un istante. «Un uomo. Sono un uomo come voi.» «Non mi sembra affatto.» «Volevo assicurarmi che la mia famiglia avesse un futuro. Ti sembra una cosa tanto strana, Surdan?» «Non incantarmi con le parole, miserabile dalla lingua biforcuta! Dimmi come hai fatto a diventare quello che sei e sii sincero, altrimenti ti verserò del piombo fuso nella gola, e voglio proprio vedere se nemmeno La risatina instabile crebbe d'intensità, poi il soldato disse: «Niente e nessuno può farmi del male, Surdan. Il re ci ha resi immuni al dolore. In cambio le nostre famiglie vivranno nell'agio per il resto della loro vita. Potete nascondervi, ma noi continueremo a inseguirvi, anche dopo che un uomo normale sarebbe crollato a terra esausto. Potete combatterci, ma noi continueremo a uccidervi finché avremo un braccio con cui brandire la spada. Non potete arrendervi, perché non ci interessa di farvi prigionieri. Non potete fare altro che morire e riportare la pace in questa landa.» Con una smorfia raccapricciante, il soldato afferrò la freccia con la mano straziata e la sfilò dal piede con un rumore di carne lacerata. Dalla punta pendevano brandelli di pelle rosso vivo. Il soldato la sventolò davanti a loro, poi la scagliò contro uno degli arcieri, ferendolo a una mano. Con una risata più fragorosa che mai, avanzò barcollando e trascinando il piede ferito. Infine alzò la spada, come se volesse attaccare. «Colpitelo!» gridò Orrin. Le corde degli archi vibrarono come liuti stonati, poi una ventina di frecce saettarono contro il soldato e un istante dopo lo raggiunsero al petto. Due gli rimbalzarono sulla corazza, ma le altre gli penetrarono nel costato. Con la risata ridotta a un sibilo mentre il sangue gli filtrava nei polmoni, l'uomo continuò ad avanzare, tingendo l'erba di un vivo scarlatto. Gli arcieri gli rovesciarono addosso un'altra pioggia di frecce, ma, benché avesse braccia e spalle trafitte, il soldato di Galbatorix non si fermò. Seguì un'altra raffica di frecce. Quando una di queste gli spaccò in due una rotula, altre gli si conficcarono nella parte alta delle gambe e una gli perforò il collo, scavando un buco nella voglia, il soldato inciampò e cadde, ma proseguì sibilando, lasciando alle proprie spalle una scia di sangue. Si rifiutava di morire. Cominciò a strisciare in avanti aiutandosi con le braccia; intanto sorrideva e ridacchiava come per una battuta oscena di cui solo lui comprendeva il significato. Nel guardarlo, Eragon sentì un brivido gelido lungo la schiena. Orrin imprecò con violenza ed Eragon colse una nota isterica nella sua voce. Balzato giù dal destriero, il re scagliò spada e scudo per terra e indicò l'Urgali più vicino. «Dammi l'ascia.» Sbalordito, l'ariete dalla pelle grigia esitò, poi obbedì. Re Orrin raggiunse zoppicando il soldato, alzò la pesante ascia con tutte e due le mani e con un solo colpo gli mozzò la testa. La risatina cessò all'istante. L'uomo strabuzzò gli occhi e mosse le labbra ancora per qualche secondo, poi rimase immobile. Orrin afferrò la testa per i capelli e la sollevò, così che tutti la potessero vedere. «Dunque è possibile ucciderli» dichiarò. «Diffondete la voce che l'unico modo per fermare questi mostri è decapitarli. Oppure fracassare loro il cranio con una mazza, o colpirli con una freccia tra gli occhi da una distanza di sicurezza... Dentegrigio, dove sei?» Un cavaliere tarchiato di mezza età si fece avanti e prese al volo la testa che gli aveva lanciato Orrin. «Issala su un palo all'entrata nord dell'accampamento. Fa' lo stesso con quelle degli altri. Che serva da monito a Galbatorix: le sue scorrettezze non ci fanno paura, vinceremo comunque.» Tornando al suo destriero, il re restituì l'ascia all'Urgali, poi raccolse le armi. A poche iarde di distanza, Eragon notò Nar Garzhvog in un crocchio di Kull. Rivolse due parole a Saphira, che si avviò furtiva verso di loro. I due si scambiarono un cenno di saluto, poi Eragon gli chiese: «Anche gli altri soldati nemici erano come quello?» E indicò il cadavere pieno di frecce. «Nessuno di loro prova dolore. Li colpisci e credi di averli uccisi, ma appena volti le spalle, ti disarmano.» Garzhvog si accigliò. «Ho perso molti arieti, oggi. Abbiamo combattuto contro moltitudini di umani, Spadarossa, però mai contro questi demoni che ridono. Sono contro natura. C'è quasi da pensare che siano posseduti da spiriti senza corna e che forse le nostre divinità si siano rivoltate contro di noi.» «Sciocchezze» sbuffò Eragon. «È solo uno dei tanti incantesimi di Galbatorix, e ben presto troveremo il modo di proteggerci anche da quello.» Ostentava sicurezza, ma l'idea di combattere contro nemici che non provavano dolore turbava non poco anche lui. E poi, stando a ciò che aveva detto Garzhvog, non appena la notizia fosse circolata tra i Varden, per Nasuada sarebbe stato ancora più difficile mantenere alto il morale della sua gente. Mentre i Varden e gli Urgali cominciavano a raccogliere i compagni caduti, spogliando i morti di tutto ciò che poteva tornare utile, e a decapitare i soldati trascinandone i corpi mutilati in pile da dare alle fiamme, Eragon, Saphira e re Orrin tornarono all'accampamento, accompagnati da Arya e dagli altri elfi. Lungo il tragitto, Eragon si offrì di guarire la gamba del re, ma lui rifiutò: «Ho i miei medici, Ammazzaspettri.» Nasuada e Jörmundur li stavano aspettando al cancello nord. Avvicinandosi a Orrin, la regina disse: «Che cosa è andato storto?» Eragon chiuse gli occhi mentre Orrin le spiegava che sulle prime l'assalto era parso dare buoni frutti. I cavalieri si erano infiltrati nei ranghi nemici, assestando a destra e a manca quelli che pensavano fossero colpi mortali e riportando solo una vittima durante la carica. Quando avevano attaccato il resto dei soldati, tuttavia, molti di quelli che avevano già abbattuto si erano rialzati e avevano ripreso a combattere. Orrin fu scosso da un brivido. «A quel punto abbiamo perso il controllo. Sarebbe successo a chiunque. Non sapevamo se i soldati erano invincibili e nemmeno se erano umani come noi. Quando un nemico ti viene incontro con le ossa che spuntano dal polpaccio, un giavellotto nella pancia e mezza faccia dilaniata, e tuttavia ride, è difficile tenere duro. I miei guerrieri si sono lasciati prendere dal panico. Hanno rotto le righe. Regnava la confusione più totale. Una carneficina. Quando gli Urgali e i tuoi guerrieri ci hanno raggiunto, Nasuada, sono stati inghiottiti da quella follia collettiva.» Scosse il capo. «Non ho mai visto niente di simile, nemmeno sulle Pianure Ardenti.» Nasuada era turbata. Guardò Eragon e poi Arya. «Che cos'ha fatto Galbatorix?» Fu Arya a rispondere: «Ha sradicato in loro il senso del dolore, anche se non del tutto. Quegli uomini capiscono dove si trovano e che cosa stanno facendo, ma poiché non provano dolore fisico, non si fermano. È un incantesimo che richiede una quantità minima di energia.» Nasuada si inumidì le labbra, poi si rivolse di nuovo a Orrin: «Sai quanti uomini abbiamo perso?» Orrin era tormentato dai brividi. Si piegò in due, premendosi una mano sulla gamba, poi digrignò i denti e grugnì: «Trecento soldati contro... Com'era composto il contingente che hai mandato tu?» «Duecento spadaccini. Un centinaio di lancieri. Cinquanta arcieri.» «Quelli, più gli Urgali, più la mia cavalleria... Diciamo un migliaio di unità nostre contro trecento fanti loro in campo aperto. Li abbiamo massacrati fino all'ultimo, ma quanto ci è costato...» Il re scosse la testa. «Finché non contiamo i morti non lo sapremo con certezza, ma a occhio e croce mi pare che tre quarti dei tuoi spadaccini siano andati. Anche la maggior parte dei lancieri e qualche arciere. Dei miei cavalieri ne rimangono ben pochi: cinquanta, settanta, non di più. Molti di loro erano miei amici. Gli Urgali morti saranno un centinaio, forse centocinquanta. In totale? Cinque o seicento cadaveri da seppellire, e i sopravvissuti sono quasi tutti feriti. Non lo so... non lo so. Non...» Orrin aprì la bocca, poi si accasciò su un lato e, se Arya non fosse corsa a sorreggerlo, sarebbe caduto. Nasuada schioccò le dita e richiamò due dei Varden fra le tende, poi ordinò loro di portare Orrin nel suo padiglione e di far venire i guaritori. «Pur avendo sterminato il nemico, abbiamo subito una dolorosa sconfitta» mormorò Nasuada, e serrò le labbra in un espressione di dolore e disperazione. Aveva gli occhi lucidi. Raddrizzando la schiena, scoccò a Eragon e Saphira uno sguardo d'acciaio. «Com'è andata a voi due?» Ascoltò impassibile mentre Eragon descriveva l'incontro con Murtagh e Castigo. Poi annuì. «Siete riusciti a sfuggire al loro attacco: prima della battaglia non avremmo osato sperare di più. E invece avete fatto ben altro. Avete dimostrato che Galbatorix non è riuscito a rendere Murtagh così invincibile e potente come credeva. Con l'aiuto di qualche altro incantesimo, avresti potuto fare di lui ciò che volevi, dunque credo che non oserà affrontare l'esercito della regina Islanzadi da solo. Se riusciamo a radunare un buon numero di stregoni, la prossima volta che verranno per rapirvi riusciremo a ucciderli, ne sono sicura.» «Non li vuoi catturare?» chiese Eragon. «Se è per questo voglio molte cose, ma dubito che riuscirò a ottenerle tutte. Forse quei due non cercheranno di uccidervi, ma se si dovesse presentare l'opportunità dobbiamo eliminarli senza indugi. Forse tu hai altre idee...» «... No.» Poi Nasuada si rivolse ad Arya: «Qualcuno dei vostri stregoni è morto?» «Un paio sono svenuti, ma si sono tutti ripresi, grazie.» Nasuada trasse un profondo respiro e si volse verso nord, lo sguardo perso nel vuoto. «Eragon, per favore, informa Trianna che voglio che il Du Vrangr Gata escogiti un modo per rispondere all'incantesimo di Galbatorix. Per quanto sia spregevole, dobbiamo rispondere con la stessa moneta. Non possiamo permetterci di fare altrimenti. Adottare la stessa soluzione sarebbe poco pratico, rischieremmo di ferirci con troppa facilità, ma almeno dovremmo trovare qualche centinaio di spadaccini volontari che accettino di diventare immuni alla sofferenza fisica.» «Sì, mia signora.» «Quanti morti» commentò Nasuada. Si avvolse le redini intorno alle mani. «Siamo rimasti nello stesso luogo troppo a lungo. È tempo di costringere l'Impero a rimettersi sulla difensiva.» Fece allontanare il cavallo dalla carneficina davanti all'accampamento, e lo stallone agitò il muso e morse il freno. «Eragon, oggi tuo cugino mi ha pregato di prendere parte alla battaglia. Che io glielo abbia negato, considerato l'imminente matrimonio, non è stato di suo gradimento, anche se sospetto che la sua promessa sposa la pensi diversamente. Vuoi farmi il favore di informarmi se intendono comunque procedere con la cerimonia? Dopo tanto spargimento di sangue, una festa rincuorerebbe i Varden.» «Te lo farò sapere appena possibile.» «Grazie. Adesso va' pure.» La prima cosa che fecero Eragon e Saphira dopo essersi congedati da Nasuada fu andare a far visita agli elfi che erano svenuti durante lo scontro contro Murtagh e Castigo e ringraziare loro e gli altri compagni per l'aiuto. Poi Eragon, Arya e Blödhgarm si occuparono delle ferite riportate dalla dragonessa, le curarono i tagli, i graffi e altre contusioni. Quando ebbero finito, Eragon cercò Trianna con la mente e le trasmise le istruzioni di Nasuada. Alla fine, lui e Saphira andarono a cercare Roran, accompagnati da Blödhgarm e dai suoi elfi; Arya invece aveva delle faccende personali da sbrigare. Quando Eragon li scorse accanto a un angolo della tenda di Horst, Roran e Katrina erano assorti in una pacata ma accesa discussione; tuttavia ammutolirono non appena li videro avvicinarsi. Katrina incrociò le braccia e si voltò; Roran afferrò la punta del martello infilato nella cintura e sfregò il tacco dello stivale contro un sasso. Eragon si fermò davanti a loro e attese qualche istante, sperando che gli avrebbero spiegato la ragione del litigio. Invece Katrina domandò: «Siete feriti?» I suoi occhi continuavano a guizzare tra lui e Saphira. «Ormai è tutto passato.» «Che... che strano. A Carvahall giravano voci sulla magia, ma non ci avevo mai creduto. Sembrava impossibile. Qui invece ci sono maghi ovunque... Li avete battuti, Murtagh e Castigo? È per quello che sono volati via?» «Abbiamo avuto la meglio, sì, ma non abbiamo causato loro danni permanenti.» Eragon fece una pausa; quando però si rese conto che nessuno dei due avrebbe parlato, chiese loro se volevano ancora sposarsi quel giorno. «Nasuada ha suggerito di procedere, ma forse è meglio aspettare. Ci sono ancora un sacco di cose da fare, tra cui seppellire i morti. Domani sarebbe meglio, e anche più decoroso.» «No» rispose Roran e stavolta strofinò la punta dello stivale contro il sasso. «L'Impero potrebbe attaccare da un momento all'altro. Domani potrebbe essere troppo tardi. Se... se dovessi morire prima che ci siamo sposati, che cosa ne sarà di Katrina e di nostro...» Esitò e arrossì. L'espressione di Katrina si addolcì, poi la fanciulla si volse verso Roran e gli prese la mano. «E poi il cibo è già pronto, le decorazioni appese e i nostri amici si sono tutti radunati per le nozze. Sarebbe un peccato se i preparativi andassero in fumo.» Poi alzò una mano e gli accarezzò la barba; allora lui le sorrise e la cinse con un braccio. «Fra un'ora» disse Roran. MARITO E MOGLIE Quattro ore dopo, Eragon era sulla cresta di una bassa collina punteggiata di fiori di campo gialli. Tutto intorno, un prato rigoglioso costeggiava le rive del fiume Jiet, che scorreva rapido a un centinaio di piedi alla sua destra. Il cielo era terso e limpido; la luce del sole bagnava la terra con il suo delicato bagliore. L'aria era fresca e immota e sapeva di fresco, come se fosse appena piovuto. Davanti alla collina si erano radunati tutti gli abitanti di Carvahall, nessuno dei quali era stato ferito in battaglia, e la metà dei Varden, o almeno così sembrava. Molti guerrieri reggevano lunghe lance con appesi stendardi multicolori ricamati. In fondo al prato erano schierati diversi cavalli, tra cui Fiammabianca. Nonostante gli sforzi di Nasuada, organizzare il grande evento aveva richiesto più tempo del previsto. Quando Saphira fluttuò sopra l'adunata e, battendo le ali, si posò accanto a Eragon, un'ondata di vento gli arruffò i capelli, ancora umidi dopo il bagno. Il giovane le sorrise e le sfiorò la spalla. In condizioni normali, all'idea di parlare davanti a tante persone e officiare una cerimonia così importante e solenne, Eragon sarebbe stato nervoso, ma dopo l'ultimo combattimento ogni cosa aveva assunto una parvenza di irrealtà, come se non fosse altro che un sogno particolarmente vivido. Ai piedi della collina c'erano Nasuada, Arya, Narheim, Jörmundur, Angela, Elva e altri invitati di riguardo. Mancava re Orrin, poiché aveva riportato ferite più gravi del previsto e i guaritori si stavano ancora occupando di lui nel suo padiglione. A fare le sue veci c'era Irwin, il primo ministro. Gli unici Urgali presenti erano le due guardie private di Nasuada. Eragon era lì quando la regina aveva invitato Nar Garzhvog al matrimonio, e aveva tratto un sospiro di sollievo quando l'ariete aveva avuto il buonsenso di declinare l'offerta. Gli abitanti del villaggio non avrebbero mai tollerato un folto gruppo di Urgali alle nozze. Già Nasuada aveva faticato parecchio a convincerli ad accettare le guardie. In un fruscio di vesti, gli abitanti di Carvahall e i Varden si disposero su due file, formando un lungo corteo che si distendeva per tutta la collina, fino al capannello di invitati. Poi gli abitanti del villaggio cominciarono a intonare in coro gli antichi canti nuziali in uso nella Valle Palancar. Erano versi famosi, che parlavano del ciclo delle stagioni, della calda terra che ogni anno dà vita a un nuovo raccolto, della nascita dei vitelli a primavera, delle nidiate di pettirossi e delle uova deposte dai pesci, dei giovani destinati a prendere il posto dei più anziani. Uno degli stregoni di Blödhgarm, un'elfa con i capelli argentei, trasse una piccola arpa d'oro da una custodia di velluto e accompagnò i canti con note improvvisate, infiorettando il tema semplice delle melodie e infondendo una vena malinconica in quella musica familiare. A passi lenti ma decisi, Roran e Katrina spuntarono ciascuno da un lato del corteo, si volsero verso la collina e, senza toccarsi, cominciarono ad avanzare verso Eragon. Roran indossava una tunica nuova, presa in prestito da uno dei Varden. Si era pettinato per bene, regolato la barba e ripulito gli stivali. Era raggiante; dal suo viso emanava una gioia indescrivibile. Tutto sommato, a Eragon parve bellissimo e molto elegante. Fu Katrina tuttavia a catturare la sua attenzione. Aveva un abito azzurro, come si confà a una sposa al primo matrimonio, di taglio semplice ma con uno strascico di pizzo lungo venti piedi sorretto da due bambine. In contrasto con la stoffa color pastello, la sua ricciuta chioma sciolta brillava come rame lucido. Tra le mani aveva un bouquet di fiori di campo. Era orgogliosa, serena e splendida. Eragon sentì le donne trattenere il fiato mentre ne ammiravano lo strascico. Dando per scontato che fosse un regalo di Nasuada, decise che più tardi l'avrebbe ringraziata per avere chiesto al Du Vrangr Gata di confezionare l'abito da sposa per Katrina. Tre passi dietro Roran veniva Horst. E alla stessa distanza dietro Katrina c'era Birgit, attenta a non calpestarle lo strascico. Quando i due promessi giunsero a metà strada, dai salici che fiancheggiavano il fiume Jiet si levò in volo una coppia di colombe bianche con una ghirlanda di giunchiglie gialle tra le zampe. Via via che si avvicinavano, Katrina rallentò e poi si fermò. Gli uccelli disegnarono in volo tre cerchi sopra di lei, da nord a est, poi si abbassarono e prima di tornare al fiume le posarono la ghirlanda sulla testa. «È stata una tua idea?» mormorò Eragon ad Arya. L'elfa sorrise. In cima alla collina, Roran e Katrina attesero immobili di fronte a Eragon che gli abitanti del villaggio terminassero di cantare. Mentre il ritornello finale sfumava, Eragon alzò le mani e disse: «Benvenuti a tutti voi. Siamo qui riuniti oggi per celebrare l'unione tra le famiglie di Roran Garrowsson e di Katrina Ismirasdaughter. Godono entrambi di ottima reputazione e a quanto mi risulta non hanno ricevuto altre proposte di matrimonio. Se così non fosse, tuttavia, o se esistesse qualsiasi altro motivo per cui non devono diventare marito e moglie, esprimete le vostre obiezioni davanti a questi testimoni, così che si possa giudicare la bontà di ciò che sostenete.» Eragon tacque per il tempo che ritenne necessario, poi continuò: «Chi parla a nome di Roran Garrowsson?» Horst fece un passo avanti. «Roran non ha più un padre né uno zio, dunque sarò io, Horst Ostrecsson, a parlare per lui come se fosse sangue del mio sangue.» «E chi parla a nome di Katrina Ismirasdaughter?» Birgit fece un passo in avanti. «Katrina non ha più una madre né una zia, dunque sarò io, Birgit Mardrasdaughter, a parlare per lei come se fosse sangue del mio sangue.» Nonostante la vendetta contro Roran, per tradizione era suo diritto e anche sua responsabilità parlare per Katrina, poiché la madre della ragazza era stata una sua cara amica. «Mi sembra giusto e appropriato. Che cosa porta Roran Garrowsson in questo matrimonio, così che lui e la moglie possano prosperare?» «Porta il suo nome» rispose Horst. «Porta il suo martello. Porta la forza delle sue mani. E porta la promessa di una fattoria a Carvahall, dove potranno vivere entrambi in pace.» Non appena i convenuti compresero le implicazioni di quelle parole, tra loro si diffuse lo sgomento: Horst aveva appena dichiarato in pubblico e nel modo più vincolante possibile che Roran non avrebbe mai consentito all'Impero di impedirgli di tornare a casa sua con Katrina e di darle la vita che avrebbe avuto se non fosse stato per Galbatorix e la sua sanguinosa intromissione. Aveva appena scommesso il proprio onore di uomo e di marito sulla caduta dell'Impero. «Accetti questa offerta, Birgit Mardrasdaughter?» le chiese Eragon. La fanciulla annuì. «Sì.» «E che cosa porta Katrina Ismirasdaughter in questo matrimonio, così che lei e il marito possano prosperare?» «Porta l'amore e la devozione con cui servirà Roran Garrowsson. Porta la sua abilità di massaia. E porta una dote.» Sorpreso, Eragon osservò Birgit fare un cenno a due uomini accanto a Nasuada, che avanzarono con un baule di metallo. Birgit girò la chiave nella chiusura, poi sollevò il coperchio e mostrò il contenuto a Eragon, che ammirò senza fiato il mucchio di gioielli. «Porta una collana d'oro tempestata di diamanti. Porta una spilla di corallo rosso del Mare del Sud e una retina per capelli di perle. Porta cinque anelli d'oro ed elettro. Il primo...» Via via che Birgit descriveva ogni pezzo, lo alzava a mezz'aria, così che tutti potessero vedere che stava dicendo la verità. Strabiliato, Eragon scoccò un'occhiata a Nasuada e colse il suo sorriso compiaciuto. Dopo che Birgit ebbe terminato la litania e richiuso a chiave il baule, Eragon chiese: «Accetti questa offerta, Horst Ostrecsson?» «Sì.» «E così, secondo le leggi della nostra terra, le vostre famiglie diventano una sola.» Poi si rivolse direttamente a Roran e a Katrina per la prima volta: «Coloro che parlano per voi si sono accordati sui termini del vostro matrimonio. Roran, sei soddisfatto del modo in cui Horst Ostrecsson ha condotto i negoziati a tuo nome?» «Sì.» «E tu, Katrina, sei soddisfatta del modo in cui Birgit Mardrasdaughter ha condotto i negoziati a tuo nome?» «Sì.» «Roran Fortemartello, figlio di Garrow, giuri dunque sul tuo nome e sulla tua stirpe di proteggere Katrina Ismirasdaughter e di provvedere a lei finché entrambi avrete vita?» «Io, Roran Fortemartello, figlio di Garrow, giuro sul mio nome e sulla mia stirpe di proteggere Katrina Ismirasdaughter e provvedere a lei finché entrambi avremo vita.» «Giuri di difendere il suo onore, di rimanerle fedele negli anni a venire e di trattarla con rispetto, dignità e gentilezza, come si conviene?» «Giuro di difendere il suo onore, di restarle fedele negli anni a venire e di trattarla con rispetto, dignità e gentilezza, come si conviene.» «E giuri di darle accesso ai tuoi beni, qualunque essi siano, e al forziere dove tieni il tuo denaro entro il tramonto di domani, così che possa cominciare a occuparsi dei tuoi affari come si conviene a una moglie?» Roran giurò. «Katrina, figlia di Ismira, giuri sul tuo nome e sulla tua stirpe di servire Roran Garrowsson e provvedere a lui finché entrambi avrete vita?» «Io, Katrina, figlia di Ismira, giuro sul mio nome e sulla mia stirpe di servire Roran Garrowsson e provvedere a lui finché entrambi avremo vita.» «Giuri di difendere il suo onore, di restargli fedele negli anni a venire, di portare in grembo i suoi figli finché potrai e di essere una madre premurosa?» «Giuro di difendere il suo onore, di restargli fedele negli anni a venire, di portare in grembo i suoi figli finché potrò e di essere una madre premurosa.» «E giuri di farti carico della sua ricchezza e dei suoi possedimenti e di amministrarli in maniera responsabile, così che lui possa concentrarsi su quegli incarichi che spettano a un marito?» Katrina giurò. Sorridendo, Eragon si sfilò un nastro dalla manica e disse: «Incrociate i polsi.» Roran e Katrina tesero rispettivamente il braccio sinistro e il destro e obbedirono. Eragon posò il nastro sui polsi, li avvolse nella banda di seta per tre volte, e poi ne legò le estremità con un fiocco. «Com'è mio diritto in qualità di Cavaliere dei Draghi, vi dichiaro marito e moglie!» La folla esplose in acclamazioni. Quando Roran e Katrina si avvicinarono per baciarsi, l'entusiasmo raddoppiò. Saphira protese la testa verso la coppia raggiante e non appena i due si separarono li toccò entrambi sulla fronte con la punta del muso. Roran e Katrina si volsero verso la folla e alzarono al cielo le braccia unite. «Che il banchetto abbia inizio!» dichiarò lo sposo. Eragon seguì la coppia, che discese il fianco della collina e si fece strada tra la calca urlante verso due sedie poste all'inizio di una fila di tavoli. Lì sedettero Roran e Katrina, re e regina del loro matrimonio. Poi gli invitati si misero in coda per le congratulazioni e i regali. Eragon fu il primo. Con un sorriso ampio quanto il loro, strinse la mano libera di Roran e chinò la testa al cospetto di Katrina. «Grazie» gli disse lei. «Sì, grazie» convenne Roran. «È stato un onore.» Li guardò entrambi, poi scoppiò a ridere. «Che c'è?» gli chiese il cugino. «Voi due! Siete felici come due sciocchi!» Con uno sguardo scintillante, Katrina rise e abbracciò il marito. «È vero!» Tornando serio, Eragon aggiunse: «Dovete sapere quanto siete fortunati a essere qui insieme oggi. Se Roran non fosse riuscito a radunare tutti e a convincerli a raggiungere le Pianure Ardenti, e se i Ra'zac avessero portato Katrina a Urû'baen, non avreste potuto...» «È vero, ma per fortuna non è andata così» lo interruppe Roran. «Non rattristiamo questo giorno con pensieri spiacevoli su ciò che sarebbe potuto accadere.» «Non era questo il mio intento.» Eragon osservò la fila di persone in attesa dietro di lui, assicurandosi che non fossero così vicine da sentire. «Noi tre siamo nemici dell'Impero. E oggi abbiamo avuto la riprova che non siamo al sicuro nemmeno tra i Varden. Appena possibile, Galbatorix colpirà ciascuno di noi, compresa te, Katrina, per ferire gli altri due. Ecco perché vi ho preparato questi.» Dalla sacca appesa alla cintura estrasse due semplici anelli d'oro, così lucidi che brillavano. La sera prima aveva fuso l'ultima delle tre sfere d'oro estratte dalla terra e li aveva modellati. Consegnò quello più grande a Roran e l'altro a Katrina. Roran se lo rigirò tra le dita per esaminarlo, poi lo alzò al cielo, studiando con gli occhi socchiusi i segni nell'antica lingua incisi all'interno. «È bellissimo, ma in che modo ci proteggerà?» «Ho evocato tre incantesimi» rispose Eragon. «Per prima cosa, se mai avrete bisogno del mio aiuto o di quello di Saphira, fate girare l'anello intorno al dito una volta e pronunciate queste parole: "Aiutami, Ammazzaspettri; aiutami, Squamediluce", e noi vi sentiremo e accorreremo più veloci possibile. Poi, se uno di voi due è in pericolo di vita, il vostro anello avviserà noi e l'altro, quello che non è in pericolo. Infine, finché porterete gli anelli al dito, saprete sempre dove trovare l'altro, per quanto lontani possiate essere...» Eragon esitò, poi aggiunse: «Spero che accetterete di portarli.» «Ma certo» rispose Katrina. Roran gonfiò il petto e gli si strozzò la voce. «Grazie» disse. «Grazie. Magari li avessimo avuti prima di essere separati a Carvahall...» Poiché avevano solo una mano libera ciascuno, Katrina aiutò Roran e gli infilò l'anello sul dito medio della mano destra, e lui fece altrettanto con la mano sinistra della fanciulla. «Ho anche un altro regalo per voi» proseguì Eragon. Si volse, fischiò e agitò la mano. Facendosi strada tra la folla, arrivò di corsa un palafreniere che teneva Fiammabianca per le briglia. Consegnò le redini dello stallone al Cavaliere, poi fece un inchino e si congedò. «Roran, ti servirà un buon cavallo» iniziò Eragon. «Ti presento Fiammabianca. È stato prima di Brom, poi mio, e adesso lo voglio dare a te.» Roran lo guardò con molta attenzione. «È una bestia magnifica.» «La più bella che ci sia. Lo accetterai?» «Con piacere.» Eragon richiamò il palafreniere e riaffidò Fiammabianca alle sue cure, spiegandogli che adesso il nuovo proprietario era Roran. Non appena l'uomo e il cavallo si furono allontanati, Eragon guardò le persone in fila con i regali per i due sposi. Ridendo, disse: «Se stamattina eravate poveri, prima di stasera sarete ricchi sfondati. Se io e Saphira riusciremo mai a sistemarci, verremo a vivere con voi nel gigantesco palazzo che costruirete per tutti i vostri figli.» «Per quanto grande lo possiamo fare, dubito che basterà a contenere un drago» rispose Roran. «Ma sarete sempre i benvenuti» aggiunse Katrina. «Tutti e due.» Dopo essersi congratulato con loro ancora una volta, Eragon si nascose in fondo a un tavolo e si divertì a lanciare pezzetti di pollo arrosto a Saphira e a guardarla addentarli al volo. Rimase al banchetto finché Nasuada non ebbe parlato con i due sposi e consegnato loro qualcosa di piccolo, che però non riuscì a vedere. Incrociò la regina mentre se ne stava andando. «Che c'è, Eragon?» gli chiese. «Non posso restare.» «Sei stata tu a dare a Katrina l'abito e la dote?» «Sì. Disapprovi?» «Ti sono grato perché sei stata così gentile con la mia famiglia, ma mi chiedo...» «Sì?» «I Varden non sono a corto di fondi?» «Sì» rispose Nasuada, «ma non come prima. Da quando ho avuto l'idea di vendere il merletto a poco prezzo e ho trionfato nella Prova dei Lunghi Coltelli, ottenendo l'assoluta fedeltà delle tribù nomadi, che mi hanno anche consentito l'accesso alle loro ricchezze, abbiamo più probabilità di morire in guerra perché ci manca uno scudo o una lancia che non di fame.» Arricciò le labbra in un sorriso. «Ciò che ho dato a Katrina non è nulla in confronto alle enormi somme di denaro di cui ha bisogno questo esercito per funzionare. E non penso di avere scialacquato il mio oro. Anzi, credo di aver concluso un ottimo affare. Ho acquistato prestigio e rispetto presso Katrina e di conseguenza anche la benevolenza di Roran. Forse sono troppo ottimista, ma ho il sospetto che la sua fedeltà si dimostrerà più preziosa di un centinaio di scudi o di lance.» «Cerchi sempre di migliorare le prospettive dei Varden, vero?» «Sempre. E dovresti farlo anche tu.» Nasuada si allontanò, poi tornò sui suoi passi e aggiunse: «Prima del tramonto vieni nel mio padiglione: andremo a trovare gli uomini che sono rimasti feriti oggi. Lo sai, molti non possiamo guarirli. Farà loro bene vedere che abbiamo a cuore la loro salute e che ne apprezziamo il sacrificio.» Eragon annuì. «Ci sarò.» «Bene.» Eragon trascorse ore a ridere, mangiare e scambiare storie con i vecchi amici. L'idromele scorreva a fiumi e il ricevimento di nozze si fece ancora più chiassoso. Facendo spazio tra i tavoli, gli uomini dimostrarono il loro valore sfidandosi a incontri di lotta, gare di tiro con l'arco e di bastoni con la punta ferrata. Due elfi, un uomo e una donna, si dimostrarono abili spadaccini e strabiliarono il pubblico con la velocità e la grazia della loro danza a colpi di lama. Quando perfino Arya acconsentì a eseguire una canzone, Eragon sentì un brivido correre lungo la schiena. Roran e Katrina parlavano poco; preferivano stare seduti e contemplarsi a vicenda, dimentichi di ciò che li circondava. Quando il bordo del sole arancio toccò il remoto orizzonte, tuttavia, Eragon si congedò, seppur con riluttanza. Con Saphira al fianco, abbandonò la rumorosa baldoria e si incamminò verso il padiglione di Nasuada, respirando a pieni polmoni la fresca aria della sera per schiarirsi le idee. Nasuada lo aspettava davanti alla tenda rossa; i Falchineri erano radunati lì vicino. Senza una parola, lei, Eragon e la dragonessa attraversarono l'accampamento fino alle tende dei guaritori, dove giacevano i guerrieri feriti. Per più di un'ora Nasuada ed Eragon si intrattennero con chi aveva perso un arto o la vista o aveva contratto un'infezione incurabile combattendo contro l'Impero. Qualcuno era stato ferito al mattino. Altri, come scoprì Eragon, nonostante le erbe e gli incantesimi distribuiti a profusione, ancora non si erano ripresi dalla battaglia delle Pianure Ardenti. Benché prima di avviarsi insieme a lui tra le file di uomini avvolti nelle coperte Nasuada lo avesse messo in guardia, chiedendogli di non dissipare le sue energie nel tentativo di guarire tutti, Eragon non riuscì a trattenersi dal borbottare qualche incantesimo qua e là, almeno per alleviare il dolore, curare un ascesso, saldare un osso fratturato o cancellare un'orrenda cicatrice. Incontrò un uomo che aveva perso la gamba sinistra dal ginocchio in giù e due dita della mano destra. Aveva il pizzetto grigio e gli occhi coperti da una benda nera. Quando Eragon lo salutò e gli chiese come stava, lui lo afferrò per il gomito con le tre dita rimaste e gli disse con voce roca: «Ah, Ammazzaspettri. Sapevo che saresti venuto. È da quando ho visto la luce che ti aspetto.» «Che vuoi dire?» «La luce che ha illuminato il mondo. In un solo istante ho visto ogni cosa vivente intorno a me, dalla più grande alla più piccola. Ho visto le ossa risplendere dentro le mie braccia. Ho visto i vermi nella terra, le cornacchie nel cielo e gli acari in mezzo alle loro ali. Sono stato scelto dagli dei, Ammazzaspettri. Se mi hanno concesso questa visione, un motivo c'è. Vi ho visti sul campo di battaglia, tu e il tuo drago; parevi un sole abbagliante in una moltitudine di fioche candele. E poi ho visto tuo fratello, sì, tuo fratello e il suo drago, e anche loro due parevano un sole.» Mentre ascoltava, a Eragon si drizzarono i peli sul collo. «Non ho fratelli, io» rispose. Lo spadaccino menomato ridacchiò. «Non pensare di Prenderti gioco di me, Ammazzaspettri. Io la so lunga. Il mondo brucia intorno a me; dal fuoco sento i sussurri dei pensieri altrui, ed è da quei sussurri che apprendo tante cose. Adesso ti nascondi da me, ma ti vedo comunque: sei un uomo dalla fiamma gialla, con dodici stelle che ti fluttuano attorno alla vita e un'altra, più luminosa delle altre, sulla mano destra.» Eragon premette il palmo contro la cintura di Beloth il Savio per verificare che i dodici diamanti cuciti all'interno fossero ancora nascosti. Sì, c'erano. «Ascoltami, Ammazzaspettri» sussurrò l'uomo, attirandolo verso il suo viso rugoso. «Ho visto tuo fratello, e lui bruciava. Ma non come te. Oh, no. La luce dalla sua anima non gli brillava da «E dov'erano questi altri? Li hai visti?» Il guerriero esitò. «Li sentivo vicini, infuriati contro il mondo intero, come se odiassero ogni cosa, ma non riuscivo a vedere i loro corpi. C'erano e non c'erano, insomma. Non te lo so spiegare meglio... Non volevo avvicinarmi più di così a quelle creature, Ammazzaspettri. Non erano umane, di questo sono sicuro, e il loro odio somigliava alla più violenta tempesta mai vista racchiusa in una minuscola bottiglia.» «E quando il vetro si romperà...» sussurrò Eragon. «Già, Ammazzaspettri. A volte mi chiedo se Galbatorix non sia riuscito a catturare addirittura le divinità in persona e a ridurle in schiavitù, ma poi scoppio a ridere e mi dico che sono pazzo.» «Quali divinità? Quelle dei nani? Quelle delle tribù nomadi?» «Che differenza fa, Ammazzaspettri? Una divinità è pur sempre una divinità, poco importa da dove viene.» Eragon borbottò: «Forse hai ragione.» Quando si allontanò dal giaciglio dell'uomo, una delle guaritrici lo prese da parte e gli disse: «Perdonalo, mio signore. A causa delle gravi ferite è quasi uscito di senno. Non fa che delirare, sostiene di vedere soli, stelle e luci scintillanti. A volte sembra che sappia cose che non dovrebbe, ma non farti ingannare, è solo che le sente dagli altri pazienti. Chiacchierano tutto il tempo, sai? Non hanno altro da fare, poveretti.» «Prima di tutto io non sono il tuo signore, e poi quell'uomo non è pazzo» rispose Eragon. «Che cosa sia non lo so per certo, ma possiede un dono straordinario. Se migliora o peggiora, ti prego di informare il Du Vrangr Gata.» La guaritrice fece un inchino. «Come desideri, Ammazzaspettri. Ti chiedo perdono per il mio errore.» «Com'è stato ferito?» «Si è mozzato le dita cercando di fermare la spada di un soldato con la mano. Poi uno dei proiettili delle catapulte dell'Impero gli è finito sulla gamba, frantumandogliela. Siamo stati costretti ad amputargliela. Chi era accanto a lui ha detto che non appena è stato colpito, ha cominciato a gridare qualcosa a proposito di una certa luce e quando l'hanno soccorso hanno notato che aveva gli occhi bianchi. Non aveva più nemmeno le pupille.» «Ah. Mi sei stata di grande aiuto. Grazie.» Quando Eragon e Nasuada lasciarono le tende dei guaritori, era buio. La regina sospirò e disse: «Adesso mi andrebbe proprio una tazza di idromele.» Eragon annuì, lo sguardo fisso a terra. Tornarono al padiglione rosso e dopo un po' Nasuada gli chiese: «A cosa stai pensando?» «Viviamo in un mondo strano, e se riuscirò a comprenderne anche solo una minima parte potrò ritenermi fortunato.» Poi le raccontò della conversazione con l'uomo ferito, e anche Nasuada la trovò interessante. «Dovresti parlarne con Arya» gli suggerì. «Forse lei sa chi potrebbero essere questi "altri" di cui parlava.» Arrivati al padiglione, si separarono. Nasuada andò a finire di leggere un rapporto, mentre Eragon proseguì verso la sua tenda, seguito da Saphira. La dragonessa si accucciò e si preparò a dormire. Lui le si sedette accanto e si mise a fissare le stelle, mentre davanti agli occhi gli sfilava una parata di uomini feriti in marcia. Ciò che molti di loro gli avevano detto continuava a echeggiargli nella mente: ♦ ♦ ♦ SUSSURRI NELLA NOTTE Roran aprì gli occhi e fissò la tela che gli pendeva sopra la testa. La tenda era pervasa da una sottile luce grigia, che privava gli oggetti del loro colore e tramutava ogni cosa in una pallida ombra della propria versione diurna. Rabbrividì. Le coperte gli erano scivolate fino alla vita e aveva il busto esposto all'aria gelida della notte. Nel risistemarle si accorse che Katrina non era più al suo fianco. La vide seduta vicino all'ingresso della tenda, a fissare il cielo, avvolta in un mantello. I capelli le ricadevano fino alla base della schiena come un intricato, scuro ammasso di rovi. Nel guardarla, Roran si sentì un nodo in gola. Portando con sé le coperte, andò a sedersi accanto a lei. Le cinse le spalle con un braccio, e Katrina gli posò la testa e il collo contro il petto. Roran ne avvertì il calore. La baciò sulla fronte. Contemplò a lungo le stelle lucenti insieme a lei e ne ascoltò il ritmo regolare del respiro: insieme al suo, era l'unico suono percepibile in quel mondo addormentato. Poi Katrina sussurrò: «Le costellazioni hanno una forma diversa qui. L'avevi notato?» «Sì.» Roran spostò il braccio e seguì la curva della sua vita, avvertendo il lieve gonfiore della pancia che cresceva. «Perché ti sei svegliata?» Lei rabbrividì. «Stavo pensando.» «Oh.» Katrina, senza sciogliersi dall'abbraccio, si voltò a guardarlo; negli occhi le brillava la luce delle stelle. «Stavo pensando a te e a noi... e al nostro futuro insieme.» «Sono pensieri impegnativi, vista l'ora tarda.» «Adesso che siamo sposati, come pensi di provvedere a me e al bambino?» «È questo che ti preoccupa?» Le sorrise. «Non morirai di fame; abbiamo oro a sufficienza. E i Varden si preoccuperanno che i cugini di Eragon abbiano sempre vitto e alloggio garantiti. Anche se dovesse succedermi qualcosa, continueranno a prendersi cura di te e di nostro figlio.» «Sì, ma tu cos'hai intenzione di fare?» Confuso, Roran la scrutò alla ricerca del motivo di tanta agitazione. «Aiuterò Eragon a porre fine a questa guerra, così potremo tornare nella Valle Palancar e sistemarci laggiù senza dover temere che i soldati ci portino a Urû'baen. Che altro dovrei fare?» «Allora combatterai con i Varden?» «Sì, lo sai.» «Se Nasuada ti avesse dato il permesso, lo avresti fatto anche oggi?» «Sì.» «Ma che ne sarà del nostro bambino? Un esercito in marcia non è un ambiente adatto per crescere un figlio.» «Non possiamo fuggire e nasconderci dall'Impero, Katrina. A meno che i Varden non vincano, Galbatorix ci scoverà e ci ucciderà, noi e i nostri figli e i figli dei nostri figli. E credo che i Varden potranno vincere solo se tutti faranno il possibile per aiutarli.» Katrina gli posò un dito sulle labbra. «Sei il mio unico amore. Nessun altro uomo avrà mai il mio cuore. Farò tutto quanto è in mio potere per renderti la vita meno gravosa. Cucinerò per te, ti rammenderò i vestiti e ti pulirò l'armatura... Ma quando avrò partorito, me ne andrò da questo esercito.» «Te ne andrai?» Roran si irrigidì. «Sciocchezze! E dove, sentiamo?» «A Dauth, forse. Ricorda, Lady Alarice ci ha offerto ospitalità, e poi qualcuno di noi è rimasto là. Non sarei da sola.» «Se pensi che permetterò a te e alla nostra creatura appena nata di attraversare Alagaësia da soli, allora...» «Non c'è bisogno di gridare.» «Non sto...» «Invece sì.» Stringendogli le mani e premendosele sul cuore, gli disse: «Qui non è sicuro. Se fossimo solo noi due, accetterei il pericolo, ma è in gioco la vita del nostro bambino. Ti amo, Roran, ti amo tanto, ma nostro figlio deve venire prima di qualunque cosa vogliamo per noi stessi. Altrimenti non meritiamo di essere genitori.» Aveva gli occhi lucidi, e anche lui sentì i suoi inumidirsi. «Dopotutto, quando i soldati ci hanno attaccato, sei stato tu a convincermi a lasciare Carvahall per nasconderci nella Grande Dorsale. Adesso è lo stesso.» Roran, con gli occhi appannati, vide le stelle tremolare. «Preferirei perdere un braccio che separarmi un'altra volta da te.» A quel punto Katrina cominciò a piangere, il corpo scosso da silenziosi singhiozzi. «Nemmeno io voglio lasciarti.» Roran la strinse più forte a sé e la cullò. Quando Katrina cessò di piangere, le sussurrò all'orecchio: «Preferirei perdere un braccio che separarmi da te, ma preferirei morire piuttosto che permettere che facciano del male a te... o al nostro bambino. Se te ne vuoi andare, fallo ora, finché ancora riesci a viaggiare senza difficoltà.» Katrina scosse la testa. «No. Voglio che sia Gertrude a farmi da levatrice. Mi fido solo di lei. E se dovessi avere qualche problema preferisco che sia qui, dove ci sono maghi esperti nella cura delle persone.» «Vedrai, andrà tutto bene» disse Roran. «Appena nostro figlio sarà nato, ti trasferirai ad Aberon, non a Dauth: ci sono meno probabilità che venga attaccata. E se anche lì dovesse diventare troppo pericoloso, allora andrai sui Monti Beor e vivrai con i nani. E se Galbatorix colpirà anche loro, andrai dagli elfi nella Du Weldenwarden.» «E se Galbatorix attaccherà anche la foresta, volerò sulla luna e crescerò nostro figlio tra gli spiriti celesti.» «Che si inchineranno al tuo cospetto e ti nomineranno loro regina, come meriti.» Gli si accoccolò più vicina. Rimasero seduti a osservare le stelle svanire dal cielo, una dopo l'altra, oscurate dal bagliore che si diffondeva a oriente. Quando fu rimasta solo la stella del mattino, Roran disse: «Lo sai cosa significa questo, vero?» «Cosa?» «Che dovrò fare in modo di uccidere i soldati di Galbatorix fino all'ultimo, di occupare tutte le città dell'Impero, di sconfiggere Murtagh e Castigo e decapitare il re e il suo drago traditore prima che comincino le doglie. Così non dovrai più partire.» Katrina rimase in silenzio per un momento, poi rispose: «Se ci riuscissi, ne sarei molto felice.» Stavano per tornare a letto quando nel cielo scintillante videro veleggiare una nave in miniatura, fatta di fili d'erba secchi. Fluttuò davanti alla loro tenda, rollando su invisibili onde d'aria: sembrava quasi che la prua a forma di testa di drago li stesse guardando. Roran rimase pietrificato, e anche Katrina. Come una creatura vivente, la nave si lanciò lungo il sentiero che conduceva alla loro tenda, poi prese a girarle tutto intorno a caccia di una falena vagante. Quando la falena le sfuggì, la nave tornò indietro e si fermò a pochi pollici dal viso di Katrina. Prima che Roran decidesse se afferrarla o meno, la piccola nave si voltò e volò via verso la stella del mattino: svanì di nuovo nell'infinito oceano celeste, lasciandoli lì a fissarla stupefatti. ♦ ♦ ♦ ORDINI Quella sera tardi, visioni di morte e violenza si radunarono ai margini dei sogni di Eragon e il panico minacciò di sopraffarlo. Si agitava insofferente, voleva svegliarsi ma non ci riusciva. Immagini fugaci e sconnesse gli balenarono davanti agli occhi: spade che trafiggono, uomini che urlano, e il volto arrabbiato di Murtagh. Poi sentì Saphira entrargli nella mente e passare nei suoi sogni come un forte vento, spazzando via quell'incubo minaccioso. Nel silenzio che calò, gli sussurrò: Un senso di profonda pace si insinuò in Eragon, che si rigirò e si perse in ricordi più felici. Era bello sapere che Saphira era con lui. Quando aprì gli occhi, un'ora prima del sorgere del sole, si ritrovò disteso sotto una delle ali venate di Saphira. La dragonessa l'aveva avvolto con la coda; ne sentiva il fianco caldo contro la testa. Mentre lei alzava il capo e sbadigliava, Eragon sorrise e sgattaiolò fuori. Saphira sbadigliò di nuovo e si stirò come un gatto. Eragon fece il bagno, si rase con l'aiuto della magia, ripulì il fodero del falcione dal sangue rappreso del giorno prima e poi infilò una delle sue tuniche elfiche. Soddisfatto del risultato, dopo che Saphira ebbe finito le abluzioni mattutine si incamminò insieme a lei verso il padiglione di Nasuada. Tutti e sei i Falchineri di turno erano schierati fuori, la solita espressione truce sui visi rugosi. Eragon attese che un nano robusto li annunciasse, poi entrò; Saphira invece strisciò fino al lembo di stoffa aperto all'ingresso e vi infilò la testa, pronta a prendere parte alla discussione. Eragon si inchinò al cospetto di Nasuada, seduta sull'alto scranno decorato con motivi di cardi in fiore. «Mia signora, mi hai chiesto di venire qui per parlare del mio futuro; hai detto che avevi un'importante missione da affidarmi.» «Sì, è vero» rispose lei. «Prego, siedi.» Gli indicò uno sgabello pieghevole lì vicino. Inclinando la spada che aveva in vita così che non lo intralciasse, Eragon prese posto. «Come sai, Galbatorix ha inviato dei battaglioni nelle città di Aroughs, Feinster e Belatona nel tentativo di impedirci di prenderle d'assedio o perlomeno di rallentare la nostra avanzata e costringerci a dividere le truppe così che fossimo più vulnerabili ai soldati accampati a nord. Dopo la battaglia di ieri, i nostri esploratori ci hanno informato che gli ultimi uomini di Galbatorix si sono ritirati verso destinazioni sconosciute. Era mia intenzione attaccarli giorni fa, ma non l'ho fatto perché tu non c'eri. Senza di te, Murtagh e Castigo avrebbero massacrato i nostri guerrieri impunemente; non avevamo nemmeno modo di scoprire se drago e Cavaliere erano tra i soldati. Ora che sei di nuovo con noi, per certi versi la nostra posizione è migliorata, benché non quanto avessi sperato, dato che adesso dobbiamo anche affrontare l'ultima trovata di Galbatorix: gli uomini che non provano dolore. L'unica cosa incoraggiante è che voi due, insieme agli stregoni di Islanzadi, avete dimostrato di essere in grado di respingere Murtagh e Castigo. È su questa speranza che si regge il nostro piano in vista della vittoria finale.» «Ne sono sicura» disse Nasuada. «Che cosa intendi fare, allora?» le chiese Eragon. «Ci sono diverse alternative, e se vogliamo che qualcuna si riveli efficace dobbiamo intraprenderle tutte ad un tempo. Per prima cosa, non possiamo spingerci oltre all'interno del territorio nemico lasciando dietro di noi città di cui Galbatorix ha ancora il controllo. Significherebbe esporci ad attacchi da più parti e invitare il tiranno a invadere il Surda in nostra assenza. Dunque ho già ordinato ai Varden di marciare verso nord fino al guado più vicino e sicuro del fiume Jiet. Una volta attraversato il fiume, manderò dei guerrieri a espugnare la città di Aroughs a sud, mentre re Orrin e io avanzeremo con il resto delle forze fino a Feinster che, con l'aiuto tuo e di Saphira, soccomberà senza troppi sforzi. «Mentre noi saremo impegnati nel noioso compito di attraversare la campagna, ho altre responsabilità da affidarti, Eragon.» Si sporse verso di lui dallo scranno. «Abbiamo bisogno del pieno appoggio dei nani. Gli elfi stanno combattendo nel nord di Alagaësia, i surdani si sono uniti a noi nel corpo e nella mente e perfino gli Urgali sono nostri alleati. Ma abbiamo bisogno dei nani. Senza di loro non ce la faremo mai. Soprattutto adesso che dobbiamo vedercela con soldati che non temono il dolore.» «I nani hanno già scelto un nuovo re o una nuova regina?» Nasuada fece una smorfia. «Narheim mi assicura che stanno procedendo spediti, ma come gli elfi, anche i nani hanno una concezione del tempo più dilatata della nostra. Procedere spediti per loro potrebbe significare mesi di consultazioni.» «Non comprendono l'urgenza della situazione?» «Alcuni sì, ma molti sono contrari ad aiutarci in questa guerra e cercano di ritardare le operazioni il più possibile nella speranza di insediare uno di loro sul trono di marmo di Tronjheim. I nani sono vissuti in clandestinità così a lungo che sono diventati pericolosamente sospettosi verso gli altri popoli. Se dovesse salire al trono un sovrano ostile ai nostri progetti, addio alleanza. Non possiamo permettere che ciò accada. E non possiamo nemmeno aspettare che risolvano le loro contese nei tempi consueti. Ma...» - e alzò un dito - «... da qui non posso intervenire in modo efficace nelle loro scelte politiche: sono troppo lontana. E anche se fossi a Tronjheim, non potrei garantire un risultato a noi favorevole; i nani non vedono di buon occhio che un estraneo si immischi nelle loro faccende di governo. Dunque voglio che tu vada a Tronjheim a nome mio e faccia il possibile per assicurare che scelgano un nuovo monarca in fretta, uno che sia solidale alla nostra causa.» «Io? Ma...» «Re Rothgar ti ha adottato nel Dûrgrimst Ingeitum. Secondo le loro leggi e tradizioni, sei un nano a tutti gli effetti, Eragon. Hai il diritto di partecipare agli incontri del clan, e poiché Orik è stato nominato loro capo ed è il tuo fratello adottivo oltre che un amico dei Varden, sono certa che ti consentirà di accompagnarlo ai concili segreti durante i quali verrà eletto il nuovo reggente.» A Eragon parve una proposta assurda. «E Murtagh e Castigo? Torneranno, ne sono sicuro, e io e Saphira siamo gli unici in grado di tenere loro testa, seppure con qualche aiuto. Se non saremo qui, nessuno potrà impedire loro di uccidere te, Orrin o Arya e il resto dei Varden.» Nasuada si accigliò. «Hai inflitto a Murtagh una cocente sconfitta. Con ogni probabilità, mentre stiamo parlando, lui e Castigo volano verso Urû'baen: Galbatorix vorrà interrogarli sulla battaglia e li punirà per avere fallito. Non li rimanderà qui ad attaccarci finché non sarà sicuro che sono in grado di battervi. Di certo ora Murtagh non è più tanto convinto dei veri limiti della tua forza, dunque quell'infausto evento potrebbe essere ancora lontano. Prima di allora, credo che avrai abbastanza tempo per andare e tornare dal Farthen Dûr.» «Potresti sbagliarti» azzardò Eragon. «E poi come farai a impedire che Galbatorix venga a sapere della nostra assenza e che vi attacchi mentre noi siamo lontani? Dubito che tu abbia snidato tutte le spie che ha disseminato tra noi.» Nasuada tamburellò con le dita sui braccioli dello scranno. «Ho ordinato a «Non ho alcuna inten...» «Lasciami finire.» Eragon allora serrò la mascella e fissò Nasuada, stringendo la mano sul pomolo del falcione. «Benché non abbia giurato fedeltà a me, Saphira, la mia speranza è che tu possa accettare di restare qui mentre Eragon andrà dai nani, così da ingannare l'Impero e gli stessi Varden sui suoi spostamenti. Se riusciremo a nascondere la tua partenza ai più» disse, stavolta rivolta a Eragon, «nessuno avrà motivo di sospettare che non sei qui. Dovremo solo escogitare una scusa plausibile per giustificare il tuo improvviso desiderio di restare chiuso nella tua tenda di giorno. Potremmo dire che tu e Saphira state facendo delle sortite notturne in territorio nemico e che quindi dovete riposare quando il sole è alto. Cosa ve ne pare? «Perché lo stratagemma funzioni, tuttavia, anche Blödhgarm e i suoi compagni dovranno restare qui, sia per evitare di destare sospetti sia per motivi di sicurezza. Se Murtagh e Castigo dovessero ricomparire mentre tu non ci sei, Arya potrà prendere il tuo posto in sella a Saphira. Tra lei, gli stregoni di Blödhgarm e i maghi del Du Vrangr Gata, dovremmo avere ottime probabilità di successo.» «Se Saphira non mi accompagna nel Farthen Dûr, come farò ad arrivare laggiù in un tempo ragionevole?» rispose Eragon, acido. «Correndo. Mi hai detto tu stesso che hai coperto gran parte della strada dall'Helgrind a qui di corsa. Mi aspetto che, non dovendoti nascondere da soldati o contadini, tu possa coprire molte più leghe ogni giorno.» Nasuada tamburellò di nuovo con le dita sul legno lustro dello scranno. «Certo, andare da solo sarebbe una follia. Se non c'è nessuno ad aiutarlo, perfino un potente mago può morire per un banale contrattempo nei remoti recessi delle terre selvagge. Ma sarebbe uno spreco se ti facessi accompagnare da Arya: le sue qualità mi servono qui. Se invece a sparire senza ragione fosse uno degli elfi di Blödhgarm, se ne accorgerebbero subito tutti. Quindi ho deciso che ti assisterà un Kull, poiché sono le uniche creature in grado di tenere il tuo passo.» «Un Kull!» esclamò Eragon, incapace di trattenersi. «Mi vorresti mandare dai nani insieme a un ariete? Non so dire quale razza detestino di più. Strappano loro le corna per farne archi! Se entrassi nel Farthen Dûr con un Urgali, i nani non ascolterebbero una sola parola di ciò che ho da dire.» «Lo so bene» rispose Nasuada. «Ecco perché non andrai subito a Tronjheim. Prima ti fermerai alla Rocca di Bregan, sul monte Thardûr, l'ancestrale dimora dell'Ingemmi. Lì tu e il Kull vi separerete e tu proseguirai verso il Farthen Dûr con Orik.» Fissando un punto oltre Nasuada, Eragon disse: «E se non sono d'accordo con il cammino che hai scelto per me? E se sono convinto che ci siano modi più sicuri per esaudire ciò che mi chiedi?» «E quali sarebbero, di grazia?» domandò Nasuada, con la mano a mezz'aria. «Ci devo pensare, ma sono certo che ci sono.» «Ci ho già pensato io, Eragon, e a lungo, anche. Che tu mi faccia da emissario è la nostra unica speranza di influenzare la scelta dei nani. Sono cresciuta tra loro, ricordatelo, e li capisco meglio della maggior parte degli esseri umani.» «Sono sempre dell'idea che sia un errore» borbottò Eragon. «Manda Jörmundur, piuttosto, o un altro dei tuoi comandanti. Io non ci andrò, almeno non finché...» «Non ci andrai?» ripeté Nasuada, alzando la voce. «Un vassallo che disobbedisce al proprio signore non è certo meglio di un guerriero che ignora il suo capitano sul campo di battaglia, e può essere punito allo stesso modo. In qualità di tua signora, dunque, ti ordino di correre fino al Farthen Dûr, che tu lo voglia oppure no, e assistere alla scelta del prossimo reggente dei nani.» Furioso, Eragon respirava pesantemente dal naso e continuava a stringere e lasciare il pomolo del falcione. In tono più pacato ma comunque circospetto, Nasuada aggiunse: «Che cosa farai, Eragon? Eseguirai i miei ordini o vuoi spodestarmi e assumere il comando dei Varden? Non hai altre possibilità.» Turbato, Eragon rispose: «No, con te si può ragionare. Ti posso convincere in altri modi.» «Invece no, perché non esiste un'alternativa che abbia le stesse probabilità di successo.» Eragon incrociò il suo sguardo. «Potrei rifiutarmi di eseguire gli ordini e accettare la punizione che riterrai più opportuna.» Quel suggerimento la lasciò sbalordita. Poi rispose: «Vederti legato a un palo e frustato sarebbe un danno irreparabile per i Varden. E distruggerebbe la mia autorità, perché tutti capirebbero che mi puoi sfidare come e quando vuoi, rimendiando soltanto una manciata di tagli che potresti guarire un istante dopo, dal momento che non possiamo condannarti a morte come faremmo con un qualunque guerriero che disobbedisce a un superiore. Preferirei abdicare e consegnarti il comando dei Varden che permettere una cosa simile. Se credi di poter ricoprire questo ruolo meglio di me, allora prendilo; prendi il mio trono e proclamati generale in capo dell'esercito! Ma finché parlerò a nome dei Varden, ho il diritto di prendere certe decisioni. Se si riveleranno un errore, la responsabilità è comunque mia.» «Non vuoi proprio ascoltare nessun consiglio?» le chiese Eragon, preoccupato. «Vuoi imporre il tuo volere sui Varden noncurante di ciò che ti suggerisce chi ti sta intorno?» Nasuada batté l'unghia del dito medio sul legno lustro dello scranno. «Certo che li ascolto, i consigli. Ne ascolto un fiume continuo ogni ora, se è per quello, ma talvolta le conclusioni a cui arrivo non corrispondono a quelle dei miei sottoposti. Ora devi decidere se vuoi mantenere il tuo giuramento di fedeltà verso di me e rispettare la mia decisione, benché tu non sia d'accordo, o se vuoi comportarti a immagine e somiglianza di Galbatorix.» «Voglio solo ciò che è meglio per i Varden» insisté Eragon. «Anch'io.» «Non mi lasci altra scelta se non quella che non condivido.» «A volte è più difficile eseguire un ordine che comandare.» «Posso pensarci un momento?» «Certo.» Quando la dragonessa curvò il collo e fissò Eragon negli occhi, mille macchioline di luce viola presero a danzare dentro il padiglione. Eragon strinse le labbra in una rigida linea. Le emozioni di entrambi scorrevano da una mente all'altra a ondate, in un flusso condiviso di rabbia, attesa, riluttanza e tenerezza. La rabbia e la riluttanza fluivano da Eragon; da Saphira, invece, provenivano sentimenti più dolci ma altrettanto complessi, che placarono la collera di Eragon e gli aprirono prospettive che altrimenti non avrebbe mai colto. Tuttavia Eragon ribadì con cocciuta insistenza la propria ostilità al piano di Nasuada. Una scintilla divertita brillò negli occhi color zaffiro di Saphira. La dragonessa gli diede una leccatina. Eragon scavò nel terreno con la punta dello stivale, poi disse: Eragon guardò Nasuada. «Benissimo» disse, «accetto.» La regina si rilassò. «Grazie. E tu, Saphira? Resti o vai?» Proiettando i suoi pensieri in modo da includere sia lei sia Eragon, rispose: Nasuada inclinò la testa. «Grazie. Ti sono molto grata per il tuo sostegno.» «Ne hai parlato con Blödhgarm?» chiese Eragon. «Lui è d'accordo?» «No, ho pensato che gli avresti spiegato tu tutti i dettagli.» Eragon dubitava che gli elfi sarebbero stati felici all'idea che viaggiasse fino al Farthen Dûr in compagnia di un Urgali. «Posso darti un suggerimento?» «Lo sai che sono sempre bene accetti.» Questo commento lo spiazzò. «Un suggerimento e una richiesta, allora.» Nasuada alzò un dito, facendogli segno di continuare. «Quando i nani avranno scelto il nuovo re o la nuova regina, Saphira deve raggiungermi nel Farthen Dûr sia per rendere omaggio al nuovo sovrano sia per mantenere la promessa fatta a re Rothgar dopo la battaglia di Tronjheim.» L'espressione di Nasuada si inasprì: sembrava un gatto selvatico a caccia. «Di che promessa si tratta?» chiese. «Non me ne avevi mai parlato.» «Saphira ha promesso di riparare Isidar Mithrim, lo Zaffiro Stellato, per rimediare al danno di Arya, che lo ruppe in quell'occasione.» Con gli occhi sgranati per lo stupore, Nasuada guardò Saphira e disse: «Sei capace di una simile impresa?» «Sarebbe più importante di quanto immagini» rispose Nasuada. «Lo Zaffiro Stellato occupa un posto speciale nel cuore di ogni nano. Vanno pazzi per le gemme in generale, ma amano e venerano Isidar Mithrim più di ogni altra perché è stupenda, e soprattutto perché è immensa. Riportala ai fasti di un tempo e restituirai l'orgoglio a un'intera razza.» Eragon disse: «Anche se Saphira dovesse fallire, è opportuno che sia presente all'incoronazione del nuovo sovrano. Puoi nascondere la sua assenza per qualche giorno diffondendo tra i Varden la notizia che siamo partiti per un breve viaggio ad Aberon o qualcosa del genere. Quando le spie di Galbatorix si accorgeranno dell'inganno, l'Impero non farà in tempo ad attaccare prima del nostro ritorno.» Nasuada annuì. «È una buona idea. Non appena i nani stabiliranno una data per l'incoronazione, fammelo sapere.» «D'accordo.» «Questo era il suggerimento. Ora veniamo alla richiesta. Che cosa volevi domandarmi?» «Poiché insisti a farmi partire, con il tuo permesso dopo l'incoronazione vorrei volare con Saphira da Tronjheim a Ellesméra.» «A che scopo?» «Per consultarci con i maestri che abbiamo incontrato durante la nostra ultima visita nella Du Weldenvarden. Avevamo promesso loro che non appena gli eventi l'avessero consentito saremmo tornati per completare il nostro addestramento.» Nasuada aggrottò le sopracciglia. «Non c'è tempo: non potete trascorrere settimane o mesi a Ellesméra per riprendere il vostro addestramento.» «Lo so, ma forse riusciremo a trovare il tempo almeno per una breve visita.» Nasuada appoggiò la testa allo schienale dello scranno intarsiato e guardò Eragon attraverso le palpebre socchiuse. «E chi sono i tuoi maestri? Ho notato che eludi sempre ogni domanda su di loro. Chi è stato a istruirvi a Ellesméra?» Toccando Aren, l'anello di Brom, Eragon rispose: «Abbiamo giurato a Islanzadi che non avremmo rivelato la loro identità senza il permesso suo, di Arya o di chiunque le fosse succeduto sul trono.» «Per tutti i demoni del cielo e della terra, quanti giuramenti avete fatto tu e Saphira?» domandò Nasuada. «A quanto pare vi impegnate con chiunque incontriate.» Un po' imbarazzato, Eragon si strinse nelle spalle e aprì bocca per parlare, ma poi intervenne Saphira: «Mmm. Dunque, se voglio sapere la verità, devo chiedere ad Arya?» domandò Nasuada. «Sì, ma dubito che te la dirà; gli elfi considerano l'identità dei nostri maestri uno dei loro segreti più preziosi. Non correranno mai il rischio di condividerlo con qualcuno a meno che non sia strettamente necessario, per evitare che ne giunga voce a Galbatorix.» Eragon fissò la gemma azzurra incastonata nell'anello, chiedendosi quante altre informazioni il giuramento prestato e il suo onore gli avrebbero consentito di rivelare, poi aggiunse: «Sappi una cosa, però: non siamo così soli come pensavamo.» L'espressione di Nasuada si indurì. «Capisco. Buono a sapersi, Eragon... Vorrei solo che gli elfi fossero più disponibili nei miei confronti.» Dopo aver arricciato le labbra un istante, continuò: «Perché dovete andare fino a Ellesméra? Non avete un modo per comunicare direttamente con i vostri tutori?» Eragon allargò le braccia in un gesto di impotenza. «Magari. Ahimè, ancora non è stato inventato un incantesimo che riesca a far breccia nelle difese che circondano la Du Weldenvarden.» «Gli elfi non hanno nemmeno lasciato un varco che essi stessi possano sfruttare?» «Se così fosse, Arya avrebbe chiamato la regina Islanzadi non appena aveva ripreso i sensi nel Farthen Dûr invece di andare di persona nella Du Weldenvarden.» «Suppongo che tu abbia ragione. Ma allora come hai fatto a consultare la regina sul destino di Sloan? Hai lasciato intendere che quando vi siete parlati l'esercito elfico era ancora di stanza nella Foresta.» «Sì» rispose, «ma sul limitare, al di là delle barriere di protezione.» Mentre Nasuada valutava la richiesta di Eragon, tra i due calò un silenzio palpabile. Fuori dalla tenda, il Cavaliere sentì i Falchineri discutere se fosse meglio usare un'alabarda o una roncola per combattere contro un grande numero di fanti e, più oltre, il cigolio di un carretto trascinato da buoi, il clangore delle armature di uomini che si allontanavano trottando e centinaia di altri suoni indistinti in tutto l'accampamento. Poi Nasuada chiese: «Che cosa speri di ottenere da quella visita?» «Non lo so!» borbottò Eragon. Colpì il pomolo del falcione con un pugno. «Ed è proprio questo il nocciolo del problema: ignoriamo troppe cose. Forse non otterremo niente, ma potremmo anche scoprire qualcosa che ci aiuti a sbaragliare Murtagh e Galbatorix una volta per tutte. Non pensare che ieri abbiamo vinto, Nasuada. Niente affatto! E temo che quando ci ritroveremo di fronte a Castigo e a Murtagh, lui sarà perfino più forte, e visto che le capacità di Galbatorix sono di gran lunga superiori a quelle di Murtagh, nonostante la gran quantità di potere che ha già riversato su mio Nasuada rimase seduta immobile per più di un minuto. «Non posso prendere questa decisione prima che i nani abbiano incoronato il nuovo sovrano. Se andrai nella Du Weldenvarden o meno dipenderà dai movimenti dell'Impero e da ciò che le nostre spie riporteranno sulle attività di Murtagh e Castigo.» Nelle due ore seguenti Nasuada istruì Eragon sui tredici clan dei nani. Gli impartì una lezione sulla storia e sulla politica del loro popolo, sui prodotti di punta che commerciavano, sui nomi, le famiglie e le diverse personalità dei capiclan, sull'elenco dei tunnel più importanti scavati e controllati da ciascun clan e su quello che, secondo lei, era il modo migliore di convincerli a eleggere un re o una regina solidali alla causa dei Varden. «L'ideale sarebbe che salisse al trono Orik» disse. «Re Rothgar era tenuto in grande considerazione dalla maggior parte dei sudditi e il Dûrgrimst Ingeitum rimane uno dei clan più ricchi e influenti, il che va a suo vantaggio. Lui è devoto alla nostra causa. Ha prestato servizio tra i Varden, possiamo entrambi contare su di lui come amico, e poi è tuo fratello adottivo. Credo abbia le qualità per diventare un re eccellente.» Un'espressione divertita le illuminò il viso. «Be', c'è un piccolo problema. Secondo i criteri dei nani, è troppo giovane, e il fatto che si sia schierato in nostro favore potrebbe rivelarsi una barriera insormontabile per gli altri capiclan. Un altro ostacolo è che, dopo più di duecento anni di governo dell'Ingeitum, gli altri grandi clan, il Dûrgrimst Feldûnost e il Dûrgrimst Knurlcarathn tanto per citarne un paio, sono ansiosi di veder passare la corona a qualcun altro. Sostieni Orik con ogni mezzo possibile se ciò può aiutare a ottenere il trono, ma se diventasse evidente che il suo tentativo è destinato a fallire e il tuo supporto potrebbe garantire il successo a un altro capoclan che appoggia i Varden, allora schierati dalla parte di quest'ultimo, anche se così facendo offenderai Orik. Non puoi lasciare che l'amicizia interferisca con la politica, non adesso.» Quando Nasuada ebbe finito la sua lezione, lei, Eragon e Saphira escogitarono un modo perché lui potesse sgattaiolare fuori dall'accampamento senza essere visto. Dopo aver definito i dettagli del piano, Eragon e la dragonessa tornarono alla tenda e informarono Blödhgarm della decisione presa. Con sua grande sorpresa, l'elfo con la pelliccia non ebbe nulla da obiettare. Incuriosito, Eragon gli chiese: «Dunque approvi?» «Non spetta a me dirlo» rispose, la voce ridotta a un sommesso ronzio. «Ma poiché non mi pare che gli stratagemmi di Nasuada ti mettano in una condizione di irragionevole pericolo, e anzi, potresti avere l'opportunità di continuare il tuo addestramento a Ellesméra, né io né i miei fratelli ci opporremo.» Inclinò la testa. «E adesso, Bjartskular e Argetlam, se volete scusarmi...» L'elfo aggirò Saphira e uscì dalla tenda; quando scostò il telo posto all'ingresso, un luminoso raggio di luce trafisse l'interno buio. Per una manciata di minuti, Eragon e Saphira rimasero seduti in silenzio, poi lui le posò una mano sopra la testa. Eragon sospirò. Saphira batté le palpebre e fece dardeggiare la lingua, ed Eragon avvertì uno strano mutamento nelle sue emozioni. LABILI TRACCE Con una serie di balzi vertiginosi, Saphira attraversò l'accampamento e accompagnò Eragon alla tenda di Roran e Katrina. La ragazza era fuori a lavare una sottoveste in un secchio d'acqua insaponata e strofinava la stoffa bianca su un'asse di legno. Quando la dragonessa atterrò, sollevando un nugolo di polvere, Katrina si portò una mano agli occhi per proteggerli. Anche Roran uscì, allacciandosi la cintura. Tossì e strizzò gli occhi a sua volta. «Che cosa ti porta qui?» chiese al cugino appena smontato da Saphira. In tutta fretta, Eragon gli spiegò dell'imminente partenza e fece loro capire quanto era importante che mantenessero il segreto con gli altri abitanti del villaggio. «Non importa se si offenderanno perché mi rifiuto di vederli: non potete rivelare loro la mia assenza, nemmeno a Horst o a Elain. Piuttosto che pronunciare una sola parola sul piano di Nasuada, preferisco che pensino che sono diventato uno zoticone ingrato. Ve lo chiedo per il bene di coloro che si sono schierati contro l'Impero. Lo farete?» «Non ti tradiremo mai, Eragon» rispose Katrina. «Non dubitarne.» Poi Roran lo informò che anche lui stava per partire. «Dove vai?» esclamò Eragon. «La nuova destinazione mi è stata assegnata pochi minuti fa. Andiamo da qualche parte su a nord, oltre le linee nemiche, a saccheggiare i convogli dell'Impero che trasportano i rifornimenti.» Eragon osservò prima Roran, serio e determinato, già in tensione al pensiero della battaglia; poi Katrina, che cercava di nascondere la preoccupazione; infine Saphira, dalle cui narici, mentre respirava, uscivano piccole lingue di fuoco tremolanti. «E così ci separeremo tutti.» Ciò che evitò di dire, benché l'idea aleggiasse su di loro come un sudario, era che forse non si sarebbero mai più rivisti in questa vita. Roran lo afferrò per l'avambraccio, tirandolo verso di sé, e lo strinse per un istante. Poi si allontanò e lo fissò dritto negli occhi. «Guardati le spalle, fratello. Galbatorix non è il solo a cui piacerebbe infilarti un coltello nelle costole non appena ti volti.» «Sì, e tu fai come me. E se ti ritrovi faccia a faccia con uno stregone, corri dalla parte opposta. Gli incantesimi di difesa che ho evocato per te non dureranno in eterno.» Katrina lo abbracciò e gli sussurrò: «Non stare via troppo a lungo.» «No.» Poi i due sposi andarono da Saphira e posarono entrambi la fronte sul suo lungo muso ossuto. Il petto della dragonessa vibrava mentre emetteva una nota bassa di gola. Quando le riaprì, Roran e Katrina si fecero da parte ed Eragon si arrampicò in sella. Poi salutò i cugini con un groppo in gola e continuò ad agitare la mano anche dopo aver preso il volo. Batté le palpebre per schiarirsi la vista, si appoggiò alla punta cervicale davanti a sé e guardò il cielo di traverso. Saphira salì di qualche centinaio di piedi prima di puntare verso il quadrante sud-ovest dell'accampamento, dove da file di forni e immensi focolari si levavano colonne di fumo. Mentre la dragonessa fluttuava verso uno spiazzo tra due tende aperte, ognuna lunga cinquanta piedi, li investì una lieve corrente d'aria. La colazione era già terminata, e quando Saphira atterrò con un fragoroso tonfo, il luogo era deserto. Eragon corse ai focolari dietro i tavoli di legno, seguito a ruota dalla dragonessa. Le centinaia di uomini indaffarati, che badavano al fuoco, macellavano la carne, rompevano le uova, impastavano il pane, rimestavano paioli di ferro colmi di liquidi misteriosi, strofinavano enormi pile di pentole e padelle sporche o erano impegnati nell'infinita fatica di cucinare per i Varden non li degnarono della minima attenzione. Che cos'erano mai un drago e il suo Cavaliere al confronto delle impietose necessità della vorace creatura dalle mille bocche la cui fame si affannavano a saziare? Un uomo corpulento con il pizzetto brizzolato, abbastanza basso da poter essere scambiato per un nano, trotterellò verso Eragon e Saphira e fece loro un veloce inchino. «Sono Quoth Merrinsson. Come posso aiutarvi? Se vuoi, Ammazzaspettri, abbiamo del pane appena sfornato.» Gli indicò una doppia fila di pagnotte che riposavano su un vassoio su un tavolo vicino. «Se puoi darmela, mezza pagnotta la accetto volentieri» rispose Eragon. «Tuttavia non è per placare la mia fame che sono qui. Saphira vorrebbe qualcosa da mangiare, ma non abbiamo tempo di andare a caccia.» Quoth guardò sopra la spalla di Eragon e vide l'imponente mole della dragonessa. «Di solito quanto mangia la...? Ah, scusate: di solito quanto mangi, Saphira? Posso darti subito sei porzioni di carne arrosto, e altre sei tra cinque minuti. È abbastanza, o...?» Deglutì, facendo sobbalzare il pomo d'Adamo. Saphira emise un dolce gorgoglio e Quoth, strillando, fece un balzo indietro. «Se è possibile, preferirebbe un animale vivo» gli spiegò Eragon. Con voce stridula, Quoth rispose: «Se è possibile? Oh, ma certo, quello che volete.» Annuì, strizzando il grembiule tra le mani sporche di grasso. «Tutto è possibile, Ammazzaspettri, Saphira. Non per questo mancherà il cibo sulla tavola di re Orrin oggi pomeriggio, no, no.» Mentre lui ripeteva la richiesta a Quoth, attorno alle iridi dell'uomo comparvero dei cerchi bianchi. «Te-temo che i nani abbiano comprato quasi tutte le no-nostre scorte di i-idromele. Ne sono rimasti so-solo pochi barili, e sono riservati al re...» Quando una fiamma lunga quattro piedi uscì dalle narici di Saphira e bruciò l'erba davanti alla dragonessa, il povero Quoth sussultò. Dagli steli anneriti si levarono intricate volute di fumo. «Ve ne fa-faccio portare uno su-subito. Se vo-volete seguirmi, vi accompagno dove c'è il be-bestiame, così potrete sce-scegliere il capo migliore.» Aggirando il fuoco, i tavoli e i gruppi di uomini indaffarati, il cuoco li condusse a una serie di grandi recinti di legno che racchiudevano maiali, bovini, oche, capre, pecore, conigli e un gran numero di cervi selvatici che i cacciatori dei Varden avevano catturato durante le loro incursioni nelle foreste che circondavano l'accampamento. Vicino ai recinti c'erano stie piene di polli, anatre, colombi, quaglie, pernici e altri pennuti. Tutto quello starnazzare, cinguettare, tubare e gracchiare creava una cacofonia così stridente che Eragon digrignò i denti, infastidito. Per evitare di essere sopraffatto dai pensieri e dai sentimenti di tutte quelle creature, fece in modo di chiudere la mente a chiunque, tranne che a Saphira. I tre si fermarono a un centinaio di piedi dai recinti, per evitare che la presenza della dragonessa scatenasse il panico tra le bestie imprigionate. «C'è qualcosa di tuo gradimento?» le chiese Quoth, guardandola e strofinandosi le mani con nervosa destrezza. Mentre passava in rassegna i recinti, Saphira inspirò e disse a Eragon: Gli trasmise mentalmente l'immagine di una mucca di media grandezza con il fianco sinistro chiazzato di bianco. Dopo che Eragon gli ebbe indicato l'animale, Quoth richiamò a gran voce una fila di uomini che stavano oziando accanto ai recinti. Due di loro allontanarono la mucca dal resto della mandria, le fecero passare una corda attorno alla testa e la trascinarono riluttante verso la dragonessa. A trenta piedi di distanza, la mucca puntò le zampe e si accucciò terrorizzata, poi cercò di liberarsi e fuggire. Prima che ci riuscisse, Saphira coprì la distanza che le separava a balzi. Vedendola correre verso di loro con le fauci spalancate, i due uomini si gettarono a terra. Mentre la mucca si voltava per fuggire, la dragonessa la colpì sul fianco, abbattendola, poi la bloccò con le zampe divaricate. La mucca emise un solo muggito di terrore prima che le fauci della dragonessa le si chiudessero sul collo. Scuotendo violentemente la testa, le spezzò la spina dorsale. Poi si fermò, si chinò sulla vittima e guardò Eragon, in attesa. Lui chiuse gli occhi ed espanse la mente per raggiungere la mucca, i cui sensi erano già svaniti nell'oblio, anche se il corpo era ancora vivo e la carne pulsava di energia vitale, persino più intensa per la scarica di paura che l'aveva attraversata pochi attimi prima. Ciò che stava per fare era ripugnante, ma senza indugio Eragon posò una mano sulla cintura di Beloth il Savio e trasferì più energia possibile dal corpo della mucca nei dodici diamanti nascosti. Gli ci vollero solo pochi secondi. Poi annuì verso Saphira. Eragon ringraziò gli uomini per l'aiuto e li congedò. Mentre la dragonessa divorava il suo pasto, Eragon si sedette con la schiena contro il barile di idromele e osservò i cuochi. Ogni volta che uno di loro o un assistente decapitava un pollo o sgozzava un maiale o una capra o qualsiasi altro animale, trasferiva l'energia della creatura morente nella cintura di Beloth il Savio. Era un compito orribile, perché gli animali erano ancora vivi quando ne toccava la coscienza, e lui si sentiva travolgere da un lamentoso vortice di paura e confusione che gli faceva battere il cuore all'impazzata e gli imperlava la fronte di sudore; a quel punto, il suo unico desiderio era guarire quegli esseri sofferenti. Ma sapeva che erano destinati a morire, altrimenti i Varden avrebbero patito la fame. Nelle ultime battaglie aveva esaurito la scorta di energia e voleva fare rifornimento prima di partire per quel viaggio così lungo e pieno di insidie. Se Nasuada gli avesse consentito di rimandare la partenza di un'altra settimana, avrebbe potuto ricaricare i diamanti traendo l'energia dal proprio corpo, recuperando le forze prima di correre nel Farthen Dûr, ma nelle poche ore rimaste era impossibile. E se anche non avesse fatto altro che restare disteso a letto e riversare il fuoco dalle sue membra nelle gemme, non sarebbe riuscito a raccoglierne tanto quanto quello che gli stava fornendo la moltitudine di animali destinati alla mensa. A quanto sembrava, i diamanti della cintura di Beloth il Savio potevano assorbire una quantità di energia quasi illimitata, così si fermò solo quando non riuscì più a tollerare la prospettiva di immergersi negli ultimi spasmi vitali di quelle povere bestie. Tremante e sudato dalla testa ai piedi, si chinò, le mani sulle ginocchia, e fissò il terreno fra i piedi, sforzandosi di non vomitare. Nei suoi pensieri si insinuarono immagini che non appartenevano ai suoi ricordi: Saphira che sorvolava il Lago Leona portandolo in groppa, loro due che si tuffavano nell'acqua fresca e limpida, una nube di candide bolle che gli scorreva davanti, il piacere condiviso di volare e nuotare e giocare insieme. Prese a respirare con più calma e guardò Saphira che, accucciata fra i resti della mucca, ne sgranocchiava il teschio. Sorrise e le comunicò la sua gratitudine per l'aiuto. Saphira deglutì e rispose: La dragonessa lo guardò, soppesò le sue parole, poi alzò una zampa sporca di sangue e cominciò a leccarla per ripulirla. Eragon strillò per la sorpresa e balzò via, sventolando il bordo fumante della tunica. Il lato destro della faccia gli scottava. Dopo essersi grattata il muso con la zampa un'altra volta, Saphira spiccò il volo con un balzo e fluttuando sopra l'accampamento dei Varden riportò Eragon alla sua tenda. Lui smontò e rimase a guardarla. Nessuno dei due disse nulla per un po', lasciando che fossero le emozioni condivise a parlare. Saphira batté le palpebre ed Eragon si disse che aveva gli occhi più lucidi del normale. Sentiva che se fosse rimasto con lei anche solo un altro istante non sarebbe mai riuscito ad andarsene, così si voltò di scatto e senza guardarsi indietro spari nel buio della sua tenda. Benché ormai il contatto tra loro fosse diventato una parte integrante di sé, come carne della propria carne, lo troncò di netto. Ben presto sarebbero stati troppo lontani per avvertire uno la mente dell'altra, e lui non desiderava affatto prolungare il dolore del congedo. Rimase dov'era per un attimo, stringendo l'elsa del falcione e ondeggiando come se avesse le vertigini. Già lo pervadeva il sordo dolore della solitudine e senza la confortante presenza della coscienza di Saphira si sentì minuscolo e isolato. Da sotto la branda estrasse lo zaino che aveva utilizzato tornando dall'Helgrind. Vi ripose il tubo di legno intarsiato avvolto nella stoffa che conteneva la pergamena con il poema composto per l'Agaetí Blödhren, che Oromis aveva copiato per lui nella sua più elegante calligrafia; il fiasco di faelnirv magico e l'astuccio di steatite contenente il nalgask, anch'essi doni di Oromis; il librone che gli aveva regalato Jeod, il Gli unici capi di vestiario che decise di portare furono un paio di guanti, che ficcò dentro l'elmo, e il pesante mantello di lana, nel caso avesse fatto freddo durante la notte. Tutto il resto rimase avvolto nelle bisacce sulla sella di Saphira. Poi chiuse lo zaino e vi legò in cima l'arco privo di corda e la faretra. Stava per allacciare nello stesso punto anche il falcione, ma si rese conto che, se si fosse piegato di lato, la spada sarebbe potuta scivolare fuori dal fodero. Così lo fissò sul retro dello zaino, sistemandolo in modo che l'elsa gli spuntasse tra il collo e la spalla destra, pronta per essere sguainata subito all'occorrenza. Si infilò in spalla lo zaino, varcò le barriere della propria mente e sentì l'energia scorrergli nel corpo, e da lì nei dodici diamanti incastonati nella cintura di Beloth il Savio. Attingendo a quel flusso di forza, mormorò l'incantesimo che aveva pronunciato una sola volta, quello che respingeva la luce attorno a sé e lo rendeva invisibile. Mentre evocava la formula magica, si sentì indebolire da un lieve velo di fatica. Quando si guardò il busto e le gambe, non vedere nulla tranne le impronte degli stivali nella terra fu un'esperienza sconcertante. Andò in fondo alla tenda, squarciò la stoffa resistente con il coltello da caccia e sgattaiolò fuori. Agile come un gatto ben nutrito, Blödhgarm lo stava aspettando fuori. Inclinò la testa verso il punto in cui immaginava si trovasse Eragon e gli sussurrò: «Arrivederci, Ammazzaspettri», poi si apprestò a pronunciare cinque o sei parole nell'antica lingua per riparare lo squarcio. Eragon si avviò lungo il sentiero tra due file di tende, cercando di fare meno rumore possibile. Ogni volta che si avvicinava qualcuno, si scostava e restava immobile, sperando che non si notassero le impronte lasciate dalle sue orme nella terra o nel prato. Maledisse il fatto che il terreno fosse tanto secco; per quanto li appoggiasse con delicatezza, i suoi stivali tendevano a sollevare nuvolette di polvere. Cosa sorprendente, l'invisibilità diminuì il suo senso dell'equilibrio; non vedendosi le mani e i piedi, continuava a calcolare in modo impreciso le distanze e a cozzare contro qualsiasi cosa, quasi come se si fosse scolato troppa birra. Nonostante avanzasse incerto, raggiunse la fine dell'accampamento in un tempo ragionevole e senza destare alcun sospetto. Si fermò dietro un barile per raccogliere l'acqua piovana, in un punto in cui l'ombra avrebbe nascosto le sue impronte, e studiò i bastioni e i canali fiancheggiati da pali aguzzi che proteggevano il fianco orientale dei Varden. Se fosse stato dalla parte opposta, per quanto invisibile, entrare e sfuggire alle tante sentinelle sarebbe stato difficilissimo. Ma poiché le trincee e i bastioni erano stati progettati per respingere i nemici e non per imprigionare gli alleati, uscire era un'impresa molto più semplice. Eragon attese finché le due sentinelle più vicine non si voltarono, poi si lanciò in avanti, dandosi più spinta possibile con le braccia. Impiegò appena pochi istanti ad attraversare il centinaio di piedi che separavano il barile dal declivio del terrapieno, che poi risalì in fretta, come un sasso fatto rimbalzare a pelo d'acqua. Arrivato in cima, piantò bene i piedi nel terreno; poi saltò, e agitando le braccia superò le linee di difesa dei Varden. Si librò in aria per lo spazio di tre silenziosi battiti del cuore, poi atterrò, e gli scricchiolarono le ossa. Non appena ebbe recuperato l'equilibrio, si distese a terra e trattenne il fiato. Una delle sentinelle di ronda si fermò, ma non sembrava che avesse notato nulla di strano, e infatti dopo un po' riprese a camminare. Eragon esalò un respiro e sussurrò: «Du deloi lunaea», poi sentì che l'incantesimo cancellava le orme lasciate dai suoi stivali. Ancora invisibile, si rialzò e si allontanò di buon passo dall'accampamento, attento a calpestare solo ciuffi d'erba in modo da non sollevare altra terra. Più si allontanava dalle sentinelle, più veloce correva, finché non si lanciò al galoppo, più rapido di un cavallo. Quasi un'ora dopo discese a saltelli il ripido crinale di un fosso che il vento e la pioggia avevano scavato nel prato, dove scorreva un rigagnolo fiancheggiato di giunchi e mazzesorde. Eragon lo seguì, mantenendosi a una certa distanza dal molle, umido terriccio vicino all'acqua per evitare di lasciare tracce, finché il fiumiciattolo non si trasformò in un piccolo stagno. Lì, seduto a torso nudo su un masso accanto alla riva, riconobbe il profilo di un Kull. Via via che Eragon si faceva strada attraverso il campo di mazzesorde, il rumore delle foglie e degli steli avvertì il Kull della sua presenza. La creatura volse l'immensa testa cornuta verso di lui, annusando l'aria. Era Nar Garzhvog, il capo degli Urgali alleati dei Varden. «Tu!» esclamò Eragon, tornando visibile. «Salve, Spadarossa» borbottò Garzhvog. L'Urgali sollevò le muscolose membra e il torso gigantesco, e si erse in tutta la sua altezza di otto piedi e mezzo, la pelle grigia sopra i muscoli vibrante alla luce del sole di mezzodì. «Salve, Nar Garzhvog» rispose Eragon. «E i tuoi arieti? Se vieni con me, chi li comanderà?» gli chiese, confuso. «Il mio fratello di sangue, Skgahgrezh. Non è un Kull, ma ha le corna lunghe e il collo massiccio. È un ottimo condottiero.» «Capisco... Perché sei voluto venire, comunque?» L'Urgali sollevò il mento squadrato e si schiarì la gola. «Tu sei Spadarossa. Non devi morire, altrimenti gli Urgralgra - o Urgali, come ci chiamate voi - non potranno vendicarsi di Galbatorix e la nostra razza scomparirà. Ecco perché correrò insieme a te. Sono il migliore tra i nostri combattenti. Ho sconfitto quarantadue arieti in una volta sola.» Eragon annuì, per niente dispiaciuto dalla piega che avevano preso gli eventi. Tra tutti gli Urgali, Garzhvog era quello di cui si fidava di più, perché ne aveva messo alla prova la coscienza prima della battaglia delle Pianure Ardenti e aveva scoperto che, almeno secondo i criteri della sua razza, era onesto e affidabile. «Molto bene, Nar Garzhvog» disse, stringendosi la cinghia dello zaino in vita. «Che si sappia, non è mai successo nella storia che uno come me e uno come te corressero insieme.» Garzhvog ridacchiò tra sé. «Forza, andiamo, Spadarossa.» Insieme si rivolsero a est e insieme partirono alla volta dei Monti Beor. La corsa di Eragon era lieve e veloce, mentre l'Urgali lo seguiva a grandi falcate. Un suo passo corrispondeva a due passi di Eragon, e la terra tremava sotto il suo peso imponente. In cielo, nubi gonfie di pioggia si ammassavano all'orizzonte, facendo presagire una tempesta torrenziale, e i falchi che volavano in circolo a caccia di prede lanciavano il loro verso malinconico. OLTRE LE COLLINE E I MONTI Eragon e Nar Garzhvog corsero per due giorni di fila, notte compresa, fermandosi solo per dissetarsi e liberare il corpo dei suoi rifiuti. Alla fine Garzhvog disse: «Spadarossa, ho bisogno di mangiare e di dormire.» Eragon si appoggiò a un ceppo lì vicino, ansimando, e annuì. Non voleva cedere per primo, ma era affamato e stanco quanto il Kull. Poco dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, aveva scoperto di riuscire a batterlo in velocità per le prime cinque miglia; poi, quanto a resistenza, l'Urgali non era da meno, e addirittura lo superava. «Vengo a caccia con te» gli propose. «Non serve. Tu accendi un grande fuoco; al cibo penso io.» «D'accordo.» Dopo che Garzhvog si fu incamminato verso un boschetto di betulle a nord, Eragon slegò la cinghia dello zaino e con un sospiro di sollievo lo posò a terra vicino al ceppo. «Accidenti a questa armatura» bofonchiò. Nemmeno entro i confini dell'Impero aveva corso tanto con quel peso sulle spalle. Non aveva immaginato che sarebbe stata un'impresa così ardua. Gli facevano male i piedi e la schiena e, quando tentò di accucciarsi, le ginocchia si rifiutarono di piegarsi. Cercando di non badare alla scomodità che gli dava il non potersi chinare, prese a raccogliere erba e rami secchi, che poi ammucchiò su un fazzoletto di terra asciutto e roccioso. Lui e Garzhvog si trovavano a est della punta meridionale del Lago Tüdosten. Il suolo era umido e la vegetazione rigogliosa, con prati d'erba alta sei piedi, in cui vagavano branchi di cervi, gazzelle e buoi selvatici dal manto nero, con grandi corna rivolte all'indietro. Eragon sapeva che la zona era così ricca per la presenza dei Monti Beor, che contribuivano alla formazione di enormi banchi di nubi che si spostavano per molte leghe sulle pianure al di là della catena montuosa, portando la pioggia in luoghi altrimenti aridi come il deserto di Hadarac. Benché i due avessero già corso per un impressionante numero di leghe, Eragon era deluso. Tra il fiume Jiet e il Lago Tüdosten avevano perso molte ore a nascondersi e deviare in modo da non essere visti. Ora che si erano lasciati il lago alle spalle, sperava che avrebbero aumentato l'andatura. Un'ora dopo, quando Garzhvog tornò, Eragon era seduto di fronte al fuoco lungo una iarda e ampio due piedi che aveva acceso e fissava le fiamme, cercando di resistere in tutti i modi alla tentazione di scivolare nel mondo dei sogni a occhi aperti e riposare. Non appena alzò la testa, gli scricchiolò il collo. Garzhvog avanzava verso di lui con la carcassa di una bella cerva bene in carne sotto il braccio sinistro. Come se non pesasse più di un sacco di stracci, sollevò l'animale e ne conficcò la testa sulla forcella di un albero a una ventina di iarde dal fuoco. Poi prese un coltello e cominciò a ripulire la carcassa. Eragon si alzò - le sue giunture parevano di pietra - e si avvicinò all'ariete barcollando. «Come hai fatto a ucciderla?» gli chiese. «Con la fionda» ringhiò l'altro. «Vuoi cuocerla allo spiedo? O gli Urgali mangiano la carne cruda?» Garzhvog volse il capo e scrutò Eragon da dietro il corno sinistro a spirale, un occhio giallo incavato che brillava di chissà quale enigmatica emozione. «Non siamo bestie, Spadarossa.» «Non ho detto questo.» L'Urgali grugnì e tornò al suo lavoro. «Ci vorrà una vita per cucinarlo allo spiedo» commentò Eragon. «Pensavo di farlo stufato, e quello che avanza si potrà friggere su una pietra.» «Stufato? E come? Non abbiamo una pentola.» Garzhvog si chinò e si pulì la mano destra per terra, poi dalla sacca che aveva in vita estrasse uno strano oggetto di forma quadrata, ripiegato più volte, e lo lanciò a Eragon. Lui cercò di prenderlo, ma era così stanco che lo mancò. Sembrava un vello enorme. Non appena lo raccolse da terra, il quadrato si aprì: aveva la forma di un sacco, largo un piede e mezzo e profondo tre. Il bordo era rinforzato con una spessa striscia di cuoio su cui erano cuciti anelli di metallo. Eragon rovesciò il contenitore, sbalordito da tanta morbidezza e dal fatto che non ci fossero cuciture. «Che cos'è?» «Lo stomaco dell'orso che ho ucciso l'anno in cui mi sono spuntate le corna. Appendilo a qualcosa o mettilo in un buco per terra, poi riempilo d'acqua e buttaci dentro delle pietre bollenti. Le pietre scalderanno l'acqua. Sentirai che delizia.» «Ma la pelle non brucia?» «Non è mai successo.» «È magico?» «Niente magia. Solo pellaccia dura.» Mentre afferrava la cerva per i fianchi e, con un solo movimento, le spezzava l'osso pelvico in due, Garzhvog sbuffò. Per sfondare lo sterno usò il coltello. «Dev'essere stato un orso enorme» disse Eragon. Garzhvog emise uno strano suono di gola, una sorta di «Hai ucciso anche quello con la fionda?» «L'ho strangolato a mani nude. Nel rito di iniziazione all'età adulta devi dimostrare il tuo coraggio, e non sono ammesse armi.» Garzhvog tacque un momento, il coltello infilzato nella carcassa fino all'elsa. «A nessuno di noi verrebbe mai in mente di cercare di uccidere un orso. Perlopiù andiamo a caccia di lupi o di capre di montagna. Ecco perché io sono diventato il capo.» Eragon lasciò a lui il compito di preparare la carne e tornò al fuoco. Accanto a esso scavò un buco e vi depositò lo stomaco dell'orso, infilando dei pezzi di legno nei cerchi di metallo per bloccarlo. Poi raccolse una dozzina di sassi grandi quanto mele e li gettò nel fuoco. In attesa che si scaldassero, usò la magia per riempire d'acqua i due terzi della pelle, poi ricavò un paio di pinze da un giovane salice e un pezzo di pelle nodosa. Quando i sassi furono rosso ciliegia, gridò: «Sono pronti!» «Buttali nell'acqua» rispose Garzhvog. Servendosi delle pinze, Eragon recuperò quelli più vicini e obbedì. Al contatto con il calore, la superficie dell'acqua esplose in volute di vapore. Altri due, e l'acqua giunse a ebollizione. Garzhvog vi gettò dentro due manciate di carne, poi insaporì lo stufato con un paio di abbondanti pizzichi di sale presi dalla sacca che aveva in vita e diversi rametti di rosmarino, timo e altre erbe selvatiche che aveva trovato durante la caccia. Poi piazzò una lastra piatta di scisto accanto al fuoco. Quando fu calda al punto giusto, vi appoggiò sopra le strisce di carne. Mentre il cibo cuoceva, i due ricavarono dei cucchiai dal ceppo su cui Eragon aveva posato lo zaino. La fame protrasse a dismisura il tempo di attesa, almeno per Eragon, ma in verità lo stufato fu pronto in pochi minuti. Lui e Garzhvog mangiarono voraci come lupi. Eragon divorò il doppio di quanto non fosse mai riuscito a mangiare prima e il resto fu ripulito dall'ariete, che si abbuffava come sei uomini corpulenti. Poi Eragon si sdraiò, appoggiandosi ai gomiti, e fissò le lucciole brillanti che erano comparse lungo il limitare del boschetto di betulle e si rincorrevano disegnando linee contorte. Da qualche parte una civetta chiurlò, un suono dolce e rauco. Le prime stelle punteggiarono il cielo viola. Eragon fissò un punto nel vuoto e pensò a Saphira, poi ad Arya, poi a tutte e due; infine chiuse gli occhi. Le tempie gli pulsavano a ritmo regolare. Sentì uno scricchiolio; riaprì gli occhi e dalla parte opposta della pelle dell'orso vide che Garzhvog si puliva i denti con l'estremità appuntita di un femore. Eragon gli guardò i piedi nudi - l'Urgali si era tolto i sandali prima di mangiare - e con sua grande sorpresa notò che aveva sette dita. «Anche i nani hanno sette dita» gli fece notare. Garzhvog sputò un pezzo di carne nella brace. «Non lo sapevo. Sai, non ho mai avuto tutta questa voglia di guardare i piedi di un nano.» «Non ti pare curioso che gli Urgali e i nani abbiano quattordici dita mentre gli elfi e gli umani ne hanno dieci?» Garzhvog arricciò le labbra carnose in un ringhio. «A parte le dita dei piedi, non abbiamo niente in comune con quei ratti di montagna senza corna, Spadarossa. Si vede che quando crearono il mondo, agli dei piacque così. Non ci sono altre spiegazioni.» Per tutta risposta, Eragon grugnì e tornò a guardare le lucciole. Poi disse: «Raccontami una storia di cui la tua razza va fiera, Nar Garzhvog.» Il Kull rifletté un momento, poi si tolse l'osso di bocca. «Tanto tempo fa» cominciò «viveva una giovane Urgralgra di nome Maghara. Aveva le corna che brillavano come pietra lucida, i capelli che le scendevano fin oltre la vita e con la sua risata riusciva a incantare gli uccelli e a chiamarli a sé dai loro nidi negli alberi. Ma non era bella. Anzi, era proprio brutta. Nel suo villaggio viveva un ariete fortissimo. Aveva ucciso quattro avversari in incontri di lotta e ne aveva sconfitti ventitré. Tuttavia, anche se grazie alle sue imprese si era conquistato una vasta fama, non aveva ancora scelto una compagna. Maghara desiderava essere la prescelta, ma lui non l'avrebbe mai nemmeno degnata di uno sguardo perché era brutta; e poiché sapeva di essere brutta, Maghara non riusciva a vedere quanto fossero lucenti le sue corna, o splendidi i suoi lunghi capelli, o quanto fosse bello sentirla ridere. Con il cuore infranto, Maghara scalò la montagna più alta della Grande Dorsale e invocò l'aiuto di Rahna, la madre di tutti noi, colei che ha inventato il telaio e l'aratro, colei che ha innalzato i Monti Beor mentre era in fuga dal grande drago. Rahna, Colei che ha le Corna Dorate, rispose e le chiese perché l'aveva chiamata. "Fammi diventare bella, o Madre Onorata, così che possa ammaliare l'ariete che bramo" le rispose Maghara. "Non serve essere bella, Maghara. Hai corna lucenti, lunghi capelli e una deliziosa risata. Con queste qualità conquisterai un ariete che non sia così sciocco da guardare solo il viso di una femmina" le disse Rahna, però Maghara si buttò a terra e insisté: "Non sarò felice finché non avrò lui, Madre Onorata. Ti prego, fammi diventare bella." Rahna sorrise e rispose: "Se esaudisco la tua richiesta, bambina mia, come pensi di ripagarmi?" E Maghara: "Ti darò ciò che vuoi." «Rahna fu soddisfatta, così la fece diventare bella. Quando Maghara tornò al villaggio, tutti la ammirarono. Grazie al suo nuovo viso, l'ariete che amava la scelse come compagna ed ebbero molti figli e vissero felici per sette anni. Poi Rahna andò da lei e le disse: "Hai trascorso sette anni insieme all'ariete che volevi. Sei felice?" E Maghara rispose: "Sì." Allora Rahna continuò: "Sono venuta a riscuotere la mia ricompensa." Si guardò intorno nella casa di pietra, afferrò il primogenito di Maghara e disse: "Prendo lui." Maghara implorò Colei che ha le Corna Dorate di risparmiarlo, ma lei fu irremovibile. Alla fine Maghara prese la mazza del compagno e fece per colpire la dea, ma l'arma le si frantumò fra le mani. Per punizione Rahna la privò della bellezza e se ne andò con il primogenito verso il suo palazzo, dove risiedono i quattro venti. Chiamò il bambino Hegraz, lo allevò e lo fece diventare uno dei più potenti guerrieri che mai abbiano camminato su questa terra. La morale della storia è che non bisogna mai opporsi al proprio destino, perché si finisce sempre col perdere ciò che abbiamo di più caro.» Eragon guardò il fulgido profilo della luna crescente apparire sopra l'orizzonte a est. «Raccontami dei vostri villaggi.» «Cosa vuoi sapere?» «Tutto. Quella volta, quando entrai nella tua mente e in quella di Khagra e di Otvek, trovai centinaia di immagini, ma ne ricordo solo una manciata e comunque non nei dettagli. Sto cercando di dare un senso a ciò che vidi allora.» «Potrei dirti un sacco di cose» grugnì Garzhvog. Con gli occhi grevi e pensierosi, si passò lo stuzzicadenti improvvisato attorno a una zanna e disse: «Prendiamo dei tronchi e scolpiamo su di essi i musi degli animali e le montagne, poi li conficchiamo nel terreno accanto alle nostre case per spaventare gli spiriti delle foreste. A volte sono così ben fatti che sembrano vivi. Quando entri in uno dei nostri villaggi, ti senti addosso gli occhi degli animali...» Trattenne l'osso fra le dita, poi continuò a muoverlo avanti e indietro nella bocca. «Accanto alla soglia di ogni capanna appendiamo il namna. È un lembo di stoffa grande quanto la mia mano aperta. Ce ne sono di tutti i colori e descrivono la storia della famiglia che vive in quella capanna. Solo i tessitori più anziani e abili possono aggiungere qualche particolare o ripararne uno se è danneggiato...» L'osso gli scomparve nel pugno. «Nei mesi invernali, chi ha una compagna lavora con lei al tappeto del focolare. Ci vogliono almeno cinque anni per finirlo, dunque alla fine sai se hai scelto la compagna giusta.» «Non ho mai visto uno dei vostri villaggi» disse Eragon. «Devono essere ben nascosti.» «E ben difesi, anche. Pochi di coloro che vedono le nostre case sopravvivono per raccontarlo.» Concentrandosi sul Kull, Eragon gli chiese, con una punta di nervosismo nella voce: «Come hai fatto a imparare la nostra lingua? C'erano esseri umani tra voi? Li tenevate come schiavi?» Garzhvog ricambiò lo sguardo senza battere ciglio. «Noi non abbiamo schiavi, Spadarossa. Ciò che so lo strappo dalle menti degli uomini contro cui combatto e poi lo condivido con il resto della mia tribù.» «Hai ucciso molti umani, vero?» «Anche tu hai ucciso molti Urgralgra, Spadarossa. Ecco perché dobbiamo essere alleati; altrimenti la mia razza non sopravviverà.» Eragon incrociò le braccia. «Quando io e Brom eravamo sulle tracce dei Ra'zac, passammo da Yazuac, un villaggio vicino al fiume Ninor. Trovammo tutti gli abitanti ammucchiati al centro, morti. In cima alla pila di cadaveri c'era un neonato infilzato su una lancia. Fu la cosa più brutta che avessi mai visto. E a ucciderli erano stati gli Urgali.» «Prima che mi spuntassero le corna» replicò Garzhvog, «mio padre mi portò in uno dei nostri villaggi lungo la frangia occidentale della Grande Dorsale. Trovammo la nostra gente torturata, bruciata e massacrata. Gli abitanti di Narda ci avevano scoperti e avevano attaccato di sorpresa il villaggio insieme a molti soldati. Della nostra tribù non si salvò nessuno... È vero che amiamo la guerra più di altre razze, Spadarossa, e spesso questa è stata la nostra rovina. Le donne non ci prendono nemmeno in considerazione come compagni se prima non dimostriamo il nostro valore in battaglia e non abbiamo ucciso almeno tre nemici. E la gioia che si prova nel combattere è impareggiabile. Ma benché amiamo le imprese d'armi, non significa che non siamo consapevoli dei nostri errori. A meno che la nostra razza non riesca a cambiare, se dovesse sconfiggere i Varden, Galbatorix ci ucciderà tutti, mentre sarete tu e Nasuada a ucciderci nel caso in cui foste voi ad avere la meglio su quel traditore dalla lingua biforcuta. Non ho forse ragione, Spadarossa?» Eragon annuì. «Sì.» «Non è bene rimuginare sugli errori del passato, dunque. Se non riusciamo a superare ciò che hanno fatto i nostri popoli, non ci sarà mai pace tra umani e Urgralgra.» «Immaginiamo di sconfiggere Galbatorix e che Nasuada dia alla tua razza la terra che avete chiesto. Come dovremmo comportarci se fra vent'anni i vostri figli cominciassero a saccheggiare e a uccidere per fare colpo sulle femmine? La vostra storia insegna che è andata così ogni volta che gli Urgali hanno siglato accordi di pace.» Con un profondo sospiro, Garzhvog rispose: «In quel caso c'è da sperare che ci siano ancora degli Urgralgra oltreoceano, e che siano più saggi, perché di noi in questa landa non resterà più nessuno.» Per tutta la notte nessuno dei due proferì più parola. Garzhvog si rannicchiò su un fianco e dormì con l'immensa testa posata a terra, mentre Eragon si avvolse nel mantello, sedette con la schiena appoggiata al ceppo e fissò le stelle che a rilento andavano e venivano nel suo mondo di sogni a occhi aperti. Alla fine del giorno dopo arrivarono in vista dei Monti Beor. All'inizio non erano altro che forme spettrali all'orizzonte, spigolosi pannelli bianchi e viola; ma via via che però calava la sera, la distante catena montuosa acquistò consistenza, ed Eragon riuscì a distinguere la scura striscia di alberi che correva lungo la base e, sopra, quella ancora più ampia e scintillante di neve e ghiaccio, a sua volta sormontata dalle vette di nuda pietra grigia, così alte che non vi cresceva alcuna vegetazione e nemmeno vi cadeva la neve. Eragon rimase sopraffatto dalle dimensioni dei Monti Beor, proprio come la prima volta che li aveva visti. L'istinto continuava a dirgli che non poteva esistere nulla di così immenso, eppure gli occhi non lo ingannavano. Le montagne erano alte in media dieci miglia, alcune perfino di più. Eragon e Garzhvog non si fermarono per la notte ma continuarono a correre con il buio e per tutto il giorno dopo. Al mattino il cielo era terso; a causa della presenza dei Monti Beor, però, il sole non si vide prima di mezzogiorno, quando fece capolino all'improvviso fra due picchi, e raggi di luce grandi quanto le montagne si riversarono sulla terra ancora avvolta in quello strano crepuscolo. Allora Eragon si fermò sulla riva di un ruscello e contemplò la vista, rapito e silenzioso, per diversi minuti. Via via che aggiravano la vasta catena montuosa, il viaggio cominciò a sembrargli disagevole come quando era volato da Gil'ead al Farthen Dûr con Murtagh, Saphira e Arya. Gli parve anche di riconoscere il luogo dove si erano accampati dopo aver attraversato il Deserto di Hadarac. I giorni e le notti si alternavano interminabili con insostenibile lentezza e strabiliante velocità, perché ogni ora era identica a quella prima, il che induceva Eragon a chiedersi se la loro impresa si sarebbe mai conclusa e se ampie parti di essa fossero mai davvero accadute. Quando arrivarono alla bocca dell'enorme crepaccio che divideva in due le montagne per molte leghe, da nord a sud, svoltarono a destra e passarono in mezzo ai freddi picchi imperturbabili. Arrivati al fiume Zannadorso, che sgorgava dalla stretta vallata che portava al Farthen Dûr, guadarono le gelide acque e proseguirono verso sud. Quella sera, prima di avventurarsi a est nel cuore delle montagne, si accamparono vicino a un laghetto e riposarono le membra esauste. Garzhvog uccise un altro cervo con la fionda, stavolta un maschio, e mangiarono entrambi a volontà. Saziata la fame, mentre era chino a riparare un buco sul fianco dello stivale, Eragon sentì un ululato spettrale che gli fece battere il cuore all'impazzata. Si guardò intorno nel paesaggio buio e, allarmato, scorse il profilo di una grossa bestia che saltellava sui ciottoli intorno al laghetto. «Garzhvog» chiamò Eragon a fior di labbra, poi fece per prendere il falcione dallo zaino. Il Kull raccolse da terra un sasso grande come un pugno, caricò la tasca di cuoio della fionda e poi, ergendosi in tutta la sua altezza, aprì le fauci e ululò nella notte finché nella landa circostante non risuonò l'eco del suo coraggioso grido di sfida. La bestia si fermò, poi riprese a camminare più lentamente, annusando il terreno qua e là. Quando entrò nell'alone di luce del fuoco, Eragon trattenne il respiro. Di fronte a loro c'era un lupo grigio grande come un cavallo, con due sciabole al posto delle zanne e ardenti occhi gialli che seguivano ogni loro movimento. Le zampe del lupo erano larghe come scudi. pensò. Mentre il gigantesco lupo perlustrava l'accampamento, muovendosi quasi senza far rumore nonostante la stazza, Eragon pensò a come si sarebbero comportati gli elfi con un animale selvatico e declamò nell'antica lingua: «Fratello Lupo, non è nostra intenzione farti del male. Stanotte il nostro branco riposa, non caccia. Ti invitiamo a condividere con noi il nostro cibo e il calore del nostro rifugio fino a domattina.» Sentendolo, lo Shrrg si fermò e ruotò le orecchie in avanti. «Spadarossa, che cosa fai?» grugnì Garzhvog. «Non attaccare per primo.» La bestia dal massiccio dorso avanzò piano, facendo vibrare la punta del grosso naso umido. Avvicinò il muso irsuto al fuoco, incuriosito dal dimenarsi delle fiamme, poi raggiunse i resti di carne e viscere sparsi a terra dove Garzhvog aveva macellato il cervo. Si accucciò e addentò i bocconi di cibo, poi si alzò e, senza voltarsi, si allontanò nelle profondità della notte. Eragon si rilassò e ripose il falcione nel fodero. Garzhvog, tuttavia, rimase in piedi dov'era, le labbra scoperte in un ringhio, le orecchie tese e lo sguardo concentrato in cerca di anomalie nell'oscurità circostante. Alle prime luci dell'alba i due lasciarono l'accampamento e si avviarono di corsa verso est, entrando nella valle che li avrebbe condotti al Monte Thardûr. Mentre passavano sotto i rami della fitta foresta che proteggeva l'interno della catena montuosa, l'aria divenne molto più fresca e il soffice letto di aghi di pino per terra attutì i loro passi. Gli orridi alberi scuri che li sovrastavano altissimi sembravano osservarli mentre si facevano strada tra i grossi tronchi e aggiravano le radici contorte che spuntavano dalla terra umida, alte due, tre e spesso quattro piedi. Grandi scoiattoli neri zampettavano tra i rami, squittendo a gran voce. Un folto strato di muschio ricopriva gli alberi morti e caduti. Felci e lamponi e altre frondose piante verdi crescevano rigogliose accanto a funghi di ogni forma, dimensione e colore. Non appena Eragon e Garzhvog si ritrovarono all'interno della lunga vallata, il mondo rimpicciolì. Attorno a loro incombevano gigantesche montagne, tanto grandi quanto opprimenti, e il cielo era una remota, irraggiungibile striscia di mare blu, così lontana come Eragon non l'aveva mai vista. Poche nubi sfilacciate sfioravano le spalle delle montagne. Circa un'ora dopo mezzogiorno, quando tra gli alberi riecheggiò una serie di terribili ruggiti, i due rallentarono. Eragon sguainò il falcione e Garzhvog raccolse da terra una liscia pietra di fiume e la caricò nella tasca della fionda. «È un orso delle caverne» dichiarò. Un verso furioso e acuto, simile al rumore di metallo contro metallo, sottolineò le sue parole. «E c'è anche un Nagra. Dobbiamo stare attenti, Spadarossa.» Procedettero lentamente, e ben presto scorsero degli animali sul dorso di una montagna, parecchie centinaia di piedi più su di dove erano loro in quel momento. Un branco di cinghiali rossicci con larghe zanne taglienti correvano in modo disordinato davanti a un'immensa massa di pelo marrone-argenteo, dotata di artigli uncinati e denti aguzzi, che si muoveva a gran velocità. All'inizio la distanza ingannò Eragon, ma poi paragonò gli animali agli alberi accanto a loro e si rese conto che rispetto ai cinghiali uno Shrrg non era altro che un nanerottolo, e che l'orso era grande quasi quanto la sua casa nella Valle Palancar. I cinghiali lo avevano azzannato ai fianchi, che sanguinavano, ma a quanto pareva l'attacco era riuscito solo a farlo infuriare ancora di più. Ritto sulle zampe, l'orso ruggì e schiacciò un cinghiale con una delle sue immense zampe, scaraventandolo da parte e squarciandogli il manto. Per tre volte la bestia tentò di rialzarsi e per tre volte l'orso la colpì, finché quella non cedette e rimase immobile. Mentre l'orso si chinava per banchettare con la preda, gli altri cinghiali si rifugiarono strillando sotto gli alberi, risalirono la montagna e si allontanarono. Sbalordito dalla forza dell'orso delle caverne, Eragon seguì Garzhvog che entrava lentamente nel campo visivo dell'animale. Alzando il muso insanguinato dal ventre della vittima, l'orso li guardò con i suoi occhietti luccicanti, poi decise che non costituivano una minaccia e riprese a mangiare. «Credo che nemmeno Saphira riuscirebbe ad avere la meglio su un mostro del genere» mormorò Eragon. Garzhvog emise un piccolo grugnito. «Un drago sputa fuoco. Un orso delle caverne no.» Nessuno dei due distolse lo sguardo dall'orso finché non fu scomparso dietro gli alberi, e perfino allora tennero le armi a portata di mano, non sapendo quali altri pericoli avrebbero potuto incontrare. Quando ormai il giorno scivolava nel pomeriggio, udirono un altro suono. Qualcuno rideva. Eragon e Garzhvog si fermarono, poi l'ariete alzò un dito e con sorprendente rapidità si infilò in un fitto muro di vegetazione, strisciando verso la risata. Eragon lo seguì, Camminando con cautela, trattenendo il respiro per paura che questo tradisse la loro presenza. Sbirciò attraverso un cespuglio di foglie di sanguinella e accanto a un sentiero battuto che correva sul fondo della vallata vide tre bambini nani che, tra strilli e risate, giocavano a lanciarsi dei legnetti. Non c'erano adulti nei paraggi. Eragon rimase a distanza di sicurezza, poi sbuffò ed esaminò il cielo: a circa un miglio da lì scorse diversi pennacchi di fumo bianco. Garzhvog gli si accucciò accanto, spezzando un ramoscello, e si guardarono negli occhi. «Spadarossa, qui ci separiamo» disse l'ariete. «Non verrai alla Rocca di Bregan con me?» «No. Il mio compito era proteggerti. Se ti accompagno oltre, i nani non avranno più fiducia in te. Il Monte Thardûr è vicino e sono sicuro che nessuno oserà farti del male durante il tragitto.» Eragon si strofinò la base del collo e guardò prima Grazhvog e poi il fumo a est. «Tornerai subito dai Varden?» Con una risatina sommessa, Garzhvog rispose: «Sì, ma forse non così veloce come all'andata.» Senza sapere che cosa dire, con la punta dello stivale Eragon staccò il bordo marcio di un ceppo, sotto cui apparve una covata di larve bianche aggrovigliate nei cunicoli che avevano scavato. «Non farti mangiare da uno Shrrg o da un orso... Altrimenti poi mi tocca scovare quella bestiaccia e ucciderla, e non ne ho proprio il tempo.» Garzhvog avvicinò i pugni alla fronte ossuta. «Che i tuoi nemici si prostrino davanti a te, Spadarossa.» Poi si alzò, si voltò e si allontanò a grandi balzi. Ben presto la foresta inghiottì la sagoma ingombrante del Kull. Eragon si riempì i polmoni della fresca aria di montagna, poi si fece strada nella fitta boscaglia. Quando emerse dal folto di felci e sanguinella, i minuscoli bambini nani rimasero pietrificati, un'espressione cauta sui faccini rubicondi. Allargando le braccia, Eragon disse: «Sono Eragon Ammazzaspettri, Figlio di Nessuno. Cerco Orik, figlio di Thrifk, alla Rocca di Bregan. Potete portarmi da lui?» Vedendo che i bambini non rispondevano, si rese conto che non capivano la sua lingua. «Sono un Cavaliere dei Draghi» continuò, parlando piano e sottolineando ogni parola. «Eka eddyr aí Shur'tugal... Shur'tugal... Argetlam.» Ai bambini si illuminarono gli occhi. «Argetlam!» esclamarono pieni di stupore. «Argetlam!» Gli corsero incontro, avvolgendogli le gambe con le loro braccine corte, e gli tirarono i vestiti, gridando di gioia. Eragon li fissò e si rese conto che gli si stampava in volto uno sorriso sciocco. I bambini lo afferrarono per le mani e lui si lasciò guidare lungo il sentiero. Anche se non capiva nulla, continuavano a parlargli nella lingua dei nani e a raccontargli ciò che non poteva comprendere, ma si divertì ad ascoltare. Quando uno di loro - una femmina, forse - protese le braccia verso di lui, Eragon la prese e se la issò sulle spalle, e non appena lei gli tirò i capelli sussultò. La piccola proruppe in una risata acuta e dolce, ed Eragon sorrise di nuovo. Così equipaggiato e accompagnato, si incamminò verso il Monte Thardûr e da lì alla Rocca di Bregan, dove viveva Orik, il suo fratello adottivo. ♦ ♦ ♦ PER IL MIO AMORE Roran fissò il tondo sasso levigato che teneva fra le mani. Si accigliò, frustrato. «Stenr rïsa!» grugnì a fior di labbra. Il sasso si rifiutò di muoversi. «Che stai facendo, Fortemartello?» gli chiese Carn, lasciandosi cadere sul ceppo accanto a Roran. Roran infilò il sasso nella cintura, poi accettò il pane e il formaggio che gli aveva portato lo stregone e rispose: «Niente. Cercavo di distrarmi.» Carn annuì. «Tutti lo fanno prima di una missione.» Mentre Roran mangiava, il suo sguardo vagò tra i compagni d'armi. Erano trenta, lui compreso, tutti guerrieri dalla scorza dura. Ognuno aveva un arco e molti anche una spada, ma solo in pochi avevano deciso di combattere con una lancia, una mazza o un martello. Roran intuì che sette o otto dovevano essere all'incirca suoi coetanei, mentre gli altri erano molto più vecchi. Il più anziano era il capitano, Martland Barbarossa, il deposto duca di Thun: aveva visto trascorrere tanti inverni che ormai la sua leggendaria barba era diventata argentea, anzi, sembrava ricoperta di ghiaccio. Dopo essersi unito al contingente di Martland, Roran si era presentato nella sua tenda. Il duca era basso e, avendo trascorso una vita a cavalcare e a maneggiare spade, aveva membra forti. La barba che gli aveva meritato il soprannome era folta e ben curata e gli arrivava a metà del petto. Dopo aver osservato Roran, il conte aveva detto: "Lady Nasuada mi ha detto grandi cose di te, ragazzo, e ho sentito molto altro dai miei uomini, per non parlare di voci, pettegolezzi, dicerie e cose simili. Lo sai com'è che funziona, no? Non c'è dubbio, hai compiuto gesta degne di nota: affrontare i Ra'zac nel loro covo, per esempio, è stata un'impresa davvero non da poco. Certo, potevi contare sull'aiuto di tuo cugino, eh? Forse con la gente del tuo villaggio sei abituato a fare il bello e il cattivo tempo, ma adesso sei uno dei Varden, ragazzo. Anzi, adesso sei uno dei miei guerrieri. Non siamo la tua famiglia. Non siamo i tuoi vicini di casa. E non dare per scontato che siamo tuoi amici. Il nostro compito è eseguire gli ordini di Nasuada, e li eseguiremo, qualunque sia il nostro giudizio in merito. Finché presterai servizio sotto di me, farai ciò che ti dico, quando te lo dico e come te lo dico, o giuro sulle ossa della mia povera mamma... che possa riposare in pace... che ti frusterò di persona fino a spellarti vivo, e non m'importa un fico secco di chi sei parente. Hai capito?" "Sissignore!" "Ottimo. Se ti comporterai bene, dimostrerai di avere buon senso e soprattutto se venderai cara la pelle, tra i Varden potrai fare carriera in fretta: basta essere determinati. Tuttavia sarò io a decidere se ritenerti degno di comandare un manipolo di uomini. Ma non credere nemmeno per un istante... per un solo maledetto istante, capito?... di potermi adulare e conquistarti così i miei favori. Che io ti piaccia o che tu mi odi sono affari tuoi. L'unica cosa che mi interessa è che tu ci sappia fare." "Tutto chiaro, signore!" "Sì, lo spero proprio, Fortemartello. Lo scopriremo presto. Adesso va', presentati da Ulhart, il mio braccio destro." Roran ingoiò gli ultimi tozzi di pane e li accompagnò con un sorso di vino preso dalla bisaccia. Avrebbe preferito consumare un pasto caldo, quella sera, ma erano in pieno territorio nemico e se avessero acceso il fuoco i soldati dell'Impero avrebbero potuto individuarli. Con un sospiro allungò le gambe. Negli ultimi tre giorni aveva cavalcato Fiammabianca dal tramonto all'alba e gli facevano male le ginocchia. Nei recessi della mente, giorno e notte Roran sentiva una debole ma costante pressione, un prurito che lo spingeva sempre nella stessa direzione: Katrina. La fonte di quella sensazione era l'anello che gli aveva dato Eragon. Gli era di grande conforto sapere che grazie a esso lui e Katrina si sarebbero sempre potuti ritrovare in qualunque punto di Alagaësia, anche se fossero diventati entrambi sordi e ciechi. Accanto a sé sentì Carn borbottare frasi nell'antica lingua e sorrise. Era il loro stregone, mandato per assicurarsi che non venissero uccisi da un mago nemico con un semplice cenno della mano. Da qualche compagno Roran aveva appreso che non era molto potente, anzi, per lanciare un incantesimo doveva sforzarsi, e non poco, ma compensava la propria debolezza inventando formule magiche di straordinaria astuzia e insinuandosi nelle menti degli avversari con abilità. Carn era magro, sia di viso sia di corpo, teneva gli occhi sempre socchiusi e aveva l'aria nervosa e impulsiva. A Roran era piaciuto subito. Di fronte a lui, altri due uomini, Halmar e Ferth, erano seduti davanti alla loro tenda. Halmar diceva all'altro: «Allora, quando i soldati vennero a prenderlo, lui radunò gli uomini all'interno della sua proprietà e diede fuoco alle pozze d'olio che i servi avevano versato, intrappolando così i soldati e facendo credere a chi arrivò dopo che fossero tutti morti carbonizzati. Ma ci pensi? Uccise cinquecento soldati in un colpo solo, e senza sguainare nemmeno la spada!» «Come fece a fuggire?» chiese Ferth. «Il nonno di Barbarossa era un gran bastardo, oh, sì, ma era anche molto astuto. Aveva fatto scavare un tunnel che dal palazzo arrivava fino al fiume più vicino. Passando di lì, Barbarossa riuscì a mettere in salvo la sua famiglia e tutti i suoi servitori, poi li portò nel Surda, dove re Larkin diede loro rifugio. Passarono molti anni prima che Galbatorix scoprisse che erano ancora vivi. Siamo fortunati a essere con lui, puoi starne certo. Ha perso solo due battaglie, e in entrambi i casi per colpa della magia.» Vedendo arrivare Ulhart in mezzo alla fila di sedici tende, Halmar tacque. Il veterano dal volto arcigno si fermò a gambe larghe, immobile come una quercia con le radici ben piantate in terra, e passò in rassegna le tende per verificare che non mancasse nessuno all'appello. «Il sole è tramontato, tutti a dormire» ordinò. «Si parte due ore prima dell'alba. Il convoglio dev'essere sette miglia a nord-ovest da qui. Se arriviamo in tempo, li attaccheremo non appena cominciano a muoversi. Uccidiamo tutti, appicchiamo il fuoco e poi torniamo indietro. Sapete come fare, no? Fortemartello, tu vieni con me. Fai qualche sciocchezza e ti sventro come un pesce con un amo aguzzo.» Gli uomini ridacchiarono. «Forza, andate a dormire.» Il vento sferzava Roran in pieno volto. Il sangue gli pulsava forte nelle vene, tanto da soffocare ogni altro suono. Fiammabianca era lanciato al galoppo. Il suo campo visivo era limitato; non vedeva nulla, a parte due soldati in sella a giumente marroni accanto al penultimo carro della carovana dei rifornimenti. Levando il martello sopra la testa, gridò con tutte le sue forze. I due soldati vennero colti alla sprovvista e presero ad armeggiare con le armi e gli scudi. A uno di loro cadde la lancia e l'uomo si chinò a raccoglierla. Roran tirò le redini per rallentare il passo di Fiammabianca, poi si alzò sulle staffe e, portatosi a fianco del primo soldato, lo colpì sulla spalla, squarciandogli la cotta di maglia. L'uomo gridò, e il braccio gli ricadde lungo il corpo. Roran lo finì con un colpo di rovescio. Recuperata la lancia, l'altro soldato cercò di colpire Roran al collo, e quello si riparò abbassandosi dietro lo scudo rotondo. Ogni volta che la punta della lancia cozzava contro il legno, lo scudo vibrava. Roran strinse le gambe attorno ai fianchi di Fiammabianca, che si impennò, poi prese a nitrire e a scalciare con gli zoccoli ferrati. Lo stallone colpì il soldato al petto, strappandogli la tunica rossa. Non appena il cavallo si fu calmato, Roran fece roteare il martello di lato e gli squarciò la gola. Lasciandolo agonizzante a terra, spronò Fiammabianca verso il carro successivo, dove Ulhart stava combattendo da solo contro tre soldati. Ogni carro era tirato da quattro buoi, e mentre Fiammabianca superava il carro appena conquistato, il bue in prima fila voltò la testa, infilando la punta del corno nella gamba destra di Roran, che si ritrovò con il fiato mozzato dal dolore. Fu come se un ferro incandescente gli avesse perforato la carne; Roran guardò in basso e vide penzolare un lembo dello stivale con un brandello di pelle e muscoli appeso. Lanciando un altro grido bellicoso, raggiunse il più vicino dei tre soldati contro cui stava lottando Ulhart e lo abbatté con un solo colpo di martello. L'altro soldato però riuscì a schivare il suo affondo, girò il cavallo e fuggì. «Prendilo!» gli gridò Ulhart, ma lui si era già lanciato all'inseguimento. Il soldato in fuga conficcò gli speroni nella pancia del cavallo fino a farlo sanguinare, ma nonostante quella disperata crudeltà non poté competere con Fiammabianca. Mentre lo stallone sfrecciava a un'incredibile velocità, Roran si abbassò. Compreso che era impossibile sperare di fuggire, il soldato tirò le redini, si voltò e lo colpì con la sciabola. Roran alzò il martello e riuscì a deviare appena in tempo la lama affilata come un rasoio. Poi fece roteare l'arma sopra la testa, ma il soldato la schivò e lo colpì alle braccia e alle gambe altre due volte. Roran imprecò a fior di labbra. Il soldato era ovviamente più esperto di lui con la spada; se non fosse riuscito a sconfiggerlo nel giro di qualche secondo, l'avrebbe ucciso di sicuro. Il soldato doveva avere intuito il proprio vantaggio, perché i suoi attacchi si fecero ancora più serrati. In ben tre occasioni Roran fu certo che la sciabola del suo avversario l'avrebbe colpito, ma ogni volta all'ultimo momento la lama lo mancava, deviata da una forza invisibile. Allora si ricordò con riconoscenza degli incantesimi di difesa pronunciati da Eragon. Non sapendo che altro fare, si affidò alla sorpresa: protese il collo e la testa e gridò «Buh!» come se volesse spaventare qualcuno in un corridoio buio. Il soldato trasalì e Roran si chinò e gli piantò il martello nel ginocchio sinistro. L'uomo impallidì dal dolore. Prima che potesse riprendersi, Roran lo colpì all'altezza del coccige e poi, mentre l'altro gridava e inarcava la schiena, pose fine alle sue sofferenze con una rapida mazzata alla testa. Rimase seduto un momento, senza fiato, poi tirò le redini di Fiammabianca e lo spronò al piccolo galoppo verso il convoglio. Guardandosi intorno rapido, attratto da ogni minimo movimento, Roran fece il punto della situazione. Gran parte dei soldati erano già morti, così come i civili che conducevano i carri. Vicino alla testa del convoglio, Carn era in piedi di fronte a un uomo alto con una lunga veste; tranne qualche piccolo fremito di tanto in tanto, unico segnale dell'invisibile duello in corso, erano entrambi immobili. Roran vide l'avversario di Carn cadere a terra. A metà convoglio, tuttavia, cinque soldati intraprendenti si erano asserragliati all'interno di tre carri senza buoi disposti a triangolo, e sembrava che riuscissero a tenere in scacco Martland Barbarossa e altri dieci Varden. Quattro di loro erano armati di lancia; il quinto prese a scoccare frecce, obbligandoli a riparare dietro il carro più vicino. L'arciere aveva già ferito parecchi avversari: alcuni erano caduti da cavallo, altri erano riusciti a restare in sella abbastanza a lungo da trovare un rifugio. Roran si accigliò. Non potevano permettersi di perdere tempo su una delle strade più battute dell'Impero, e poi andavano troppo a rilento. Il tempo era tiranno. Tutti i soldati erano rivolti a ovest, la direzione da cui i Varden avevano attaccato. Oltre a Roran, nessuno si era portato dalla parte opposta del convoglio; dunque i nemici ignoravano che stava per attaccarli da est. Escogitò un piano. In altre circostanze l'avrebbe scartato perché ridicolo e impraticabile, ma in quel momento gli parve l'unica azione che avrebbe potuto porre fine a quel momento di stallo. Non si preoccupò di considerare il pericolo che lui stesso avrebbe corso; quando la carica era cominciata, la paura di morire o di restare ferito era svanita. Lanciò Fiammabianca al galoppo. Afferrò il bordo della sella, posò appena le punte degli stivali sulle staffe e tese i muscoli. Quando fu a una cinquantina di piedi dal triangolo di carri, si diede una spinta, si issò sulla sella e rimase accucciato. Gli ci vollero tutta l'abilità e la concentrazione di cui era capace per mantenere l'equilibrio. Come aveva previsto, Fiammabianca diminuì la velocità e virò di lato a mano a mano che i carri si avvicinavano. Non appena lo stallone si fu voltato, Roran lasciò le redini e balzò giù da cavallo, spiccando un gran salto e atterrando sul carro rivolto a est. Si sentì lo stomaco sottosopra. Colse di sfuggita il volto dell'arciere, gli occhi rotondi profilati di bianco, poi gli si avventò contro e rovinarono entrambi a terra. Il corpo del nemico attutì la sua caduta. Mettendosi in ginocchio, Roran levò lo scudo e lo piantò tra l'elmo e la tunica del soldato, spezzandogli il collo; poi si alzò. Gli altri quattro soldati reagirono con lentezza. Quello a sinistra fece l'errore di cercare di portare con sé la lancia nel triangolo formato dai carri, ma la lunga arma si incastrò tra il retro di un carro e la ruota davanti di un altro, e gli si spezzò fra le mani. Roran gli si avventò contro. Il soldato cercò di battere in ritirata, ma i carri gli bloccavano la via di fuga. Roran fece roteare il martello e lo colpì sotto il mento. Il secondo soldato fu più astuto. Lasciò andare la lancia e tentò di sfoderare la spada che teneva alla cintura, ma riuscì solo a sguainare la lama per metà prima che Roran lo colpisse al petto. Ormai il terzo e il quarto soldato erano pronti per affrontarlo. Puntarono su di lui, le spade tese, un ghigno in volto. Roran cercò di schivarli, ma la gamba ferita lo tradì; inciampò e cadde su un ginocchio. Riuscì a bloccare con lo scudo un fendente, poi si gettò in avanti e fracassò il piede di uno dei due soldati con il lato piatto del martello. L'uomo crollò a terra imprecando e un istante dopo Roran gli fracassò il volto; poi cadde di schiena, anche se sapeva che l'ultimo soldato era proprio dietro di lui. Pietrificato, rimase disteso a braccia e gambe aperte. Il soldato era sopra di lui con la spada tesa, la punta della lama scintillante a meno di un pollice dalla sua gola. Poi attorno al collo dell'uomo comparve un braccio nerboruto, che lo strattonò all'indietro. Il soldato emise un grido strozzato mentre dal petto gli spuntavano la lama di una spada e uno schizzo di sangue, poi crollò a terra, inerte, e dietro di lui apparve Martin Barbarossa. Il duca aveva il respiro affannoso e la barba e il petto insanguinati. Poi infilzò la spada nel terreno, si appoggiò sul pomello e osservò la carneficina all'interno del triangolo di carri. Annuì. «Sì, credo che tu ci sappia fare.» Roran si sedette in fondo a un carro, mordendosi la lingua mentre Carn gli tagliava il resto dello stivale per sfilarglielo. Cercando di ignorare le stilettate di dolore alla gamba, guardò gli avvoltoi volargli in circolo sopra la testa e si concentrò sui ricordi di casa sua, nella Valle Palancar. Mentre Carn esaminava in profondità lo squarcio, grugnì. «Mi dispiace, ma devo ispezionare la ferita» gli disse lo stregone. Roran continuò a fissare gli avvoltoi e non rispose. Un minuto dopo, Carn pronunciò una serie di parole nell'antica lingua, e trascorso qualche secondo Roran avvertì che le fitte si trasformavano in un dolore sordo e continuo. Poi guardò la gamba e scoprì che era perfettamente guarita. Per lo sforzo di curare lui e altri due uomini prima, il mago era grigio in volto e tremava. Si accasciò contro il carro, abbracciandosi il busto, un'espressione nauseata in viso. «Stai bene?» gli chiese Roran. Carn alzò appena le spalle. «Dammi un attimo e mi riprenderò... Il bue ti ha lacerato solo la parte esterna dell'osso della gamba. Ho curato la ferita solo in superficie, ma non avevo la forza per guarirla completamente. Ti ho dato dei punti per tenere insieme la pelle e il muscolo, così sanguineranno meno e non ti faranno troppo male. I punti non reggeranno a lungo; ma la carne deve guarire da sola.» «Quanto tempo ci vorrà?» «Una settimana, forse due.» Roran si infilò ciò che restava dello stivale. «Eragon mi ha circondato di incantesimi per proteggermi da eventuali ferite. Oggi mi hanno salvato la vita diverse volte. Perché non mi hanno protetto dal corno del bue?» «Non lo so» rispose Carn sospirando. «È impossibile essere pronti per ogni eventualità. Ecco perché la magia è così pericolosa. Se tralasci anche un solo aspetto di un incantesimo magari non succede niente di grave, al massimo ti indebolisce un po', ma nella peggiore delle ipotesi può avere conseguenze terribili che non avevi previsto. Accade anche ai migliori maghi. Forse c'era qualcosa che non andava negli incantesimi di tuo cugino, una parola sbagliata o una frase mal costruita: ecco perché il bue è riuscito a ferirti.» Roran scese dal carro e raggiunse zoppicando la testa del convoglio per verificare l'esito della battaglia. Cinque Varden erano stati feriti, lui compreso, e altri due erano morti: uno lo conosceva appena, mentre con l'altro, Ferth, aveva parlato in diverse occasioni. Dei nemici, invece, non era sopravvissuto nessuno. Si fermò accanto ai primi due soldati che aveva ucciso e ne esaminò i cadaveri. Sentì un sapore amaro in bocca e gli si rivoltò lo stomaco per la repulsione. Chiuse gli occhi e rilassò tutti i muscoli del corpo per cercare di calmarsi. «Mai visto niente di simile, Fortemartello» esclamò Ulhart. Roran si riebbe e si trovò davanti il guerriero brizzolato che teneva Fiammabianca per le redini. «Nessuno sarebbe stato così pazzo da inventarsi un trucchetto come quello... Oh! Saltare sui carri! E uno su mille sarebbe sopravvissuto per raccontarlo. Ottimo lavoro. Sta' attento, però. Non penserai di potertene andare in giro a fare il funambolo e combattere da solo contro cinque soldati e aspettarti di vedere la prossima estate, eh? Fatti furbo, e sii più cauto.» «Lo terrò a mente» rispose Roran, prendendo il cavallo dal suo superiore. Dopo aver sbaragliato l'ultimo soldato, i guerrieri rimasti incolumi erano andati di carro in carro, e usando i coltelli avevano aperto i fagotti e descritto il contenuto a Martland, il quale aveva preso nota di tutto così che Nasuada potesse studiare le informazioni e forse carpire qualche indizio sui piani futuri di Galbatorix. Roran osservò gli uomini esaminare gli ultimi carri, che contenevano sacchi di farina e mucchi di uniformi. Poi sgozzarono i buoi sopravvissuti, inondando la strada di sangue. A Roran dispiacque di uccidere quelle povere bestie, ma capiva quanto fosse importante privarne l'Impero e, se glielo avessero chiesto, avrebbe impugnato il coltello lui stesso. Avrebbero potuto portarli con sé fino all'accampamento dei Varden, ma erano troppo lenti e ingombranti. I cavalli dei soldati nemici invece sarebbero riusciti a tenere il passo; così ne catturarono quanti più possibile e li legarono dietro i loro. Poi uno degli uomini prese una torcia imbevuta di resina dalle bisacce fissate alla sella e dopo aver armeggiato per qualche istante con la pietra focaia e l'acciaio la accese. Cavalcò avanti e indietro lungo il convoglio, appiccò il fuoco a ciascun carro e infine gettò la torcia nell'ultimo della fila. «In sella!» gridò Martland. Mentre montava su Fiammabianca, Roran sentì pulsare la gamba ferita. Spronò lo stallone e raggiunse Carn, mentre il resto degli uomini si disponeva in coppie dietro il duca. Martland partì al trotto, seguito a ruota dal gruppo, e si lasciò alle spalle i carri in fiamme, una fila di gemme luccicanti allineate lungo la strada deserta. ♦ ♦ ♦ UNA FORESTA DI PIETRA Dalla folla si levò un'ovazione. Eragon era seduto sugli spalti di legno che i nani avevano costruito fuori dai bastioni della Rocca di Bregan. Il forte era arroccato su una spalla arrotondata del Monte Thardûr, a oltre un miglio di altitudine dal fondo della valle nebbiosa. Da lì si vedeva a leghe di distanza in ogni direzione, almeno fino alle creste delle montagne, che bloccavano la visuale. Come Tronjheim e le altre città dei nani che Eragon aveva visitato, la Rocca di Bregan era tutta di pietra, un granito rossastro che dava alle stanze e ai corridoi un senso di calore. La Rocca era un solido e imponente edificio di cinque piani che terminava con una torre campanaria a cielo aperto, sormontata da una goccia di vetro larga quanto due nani e sorretta da quattro coste di granito che si univano a formare una sorta di montatura appuntita. La goccia, come gli aveva spiegato Orik, era una versione ingrandita delle lanterne senza fiamma dei nani, e in caso di emergenza la sua luce dorata poteva illuminare l'intera valle. I nani la chiamavano Az Sindriznarrvel, la Gemma di Sindri. Ammassate tutto intorno sorgevano i numerosi alloggi per la servitù e per i guerrieri del Dûrgrimst Ingeitum, e altre strutture di vario genere, come stalle, forge e un tempio dedicato a Morgothal, il dio del fuoco adorato dai nani, il patrono dei fabbri. Sotto le alte mura lisce, disseminate nelle radure dentro la foresta, c'erano decine di fattorie di pietra da cui si levavano spirali di fumo. Orik aveva mostrato e spiegato a Eragon tutto ciò e molto altro dopo che i tre bambini nani lo avevano scortato nel cortile della rocca, gridando «Argetlam!» a chiunque fosse a portata d'orecchio. Orik lo aveva accolto come un fratello, poi l'aveva portato ai bagni e gli aveva procurato una veste porpora scuro e una banda dorata da mettere sulla fronte. Infine lo sorprese presentandogli Vedra, una nana dagli occhi luminosi, il viso tondo come una mela e i capelli lunghi, sua moglie da soli due giorni. Mentre Eragon, sbalordito, faceva loro le congratulazioni, Orik spostò il peso del corpo da un piede all'altro e disse: «Mi è spiaciuto che tu non abbia potuto partecipare alla cerimonia. Ho chiesto a uno dei nostri stregoni di cercare Nasuada e le ho domandato se poteva far avere il mio invito a te e a Saphira, ma si è rifiutata; temeva che ti distraesse dall'incarico imminente. Non mi sento di biasimarla, ma avrei voluto che nonostante questa guerra fossi venuto alle mie nozze, così come mi sarebbe piaciuto partecipare a quelle di tuo cugino, perché adesso siamo tutti parenti, se non per vincoli di sangue, almeno davanti alla legge.» Con un forte accento, Vedra aggiunse: «Ti prego di considerarmi tua sorella, Ammazzaspettri. Per quanto in mio potere, alla Rocca di Bregan sarai sempre trattato come uno di famiglia e potrai rifugiarti da noi ogni volta che ne avrai bisogno, fosse anche Galbatorix in persona a darti la caccia.» Eragon si inchinò, commosso dalla sua offerta. «È molto gentile da parte tua.» Poi le chiese: «Se non sono troppo indiscreto, perché tu e Orik avete scelto di sposarvi proprio adesso?» «Avremmo dovuto celebrare le nozze questa primavera, ma...» disse Vedra. «Ma gli Urgali hanno attaccato il Farthen Dûr» continuò Orik con i suoi soliti modi bruschi «e poi Rothgar mi ha spedito insieme a te a Ellesméra. Quando sono tornato qui e le famiglie del clan mi hanno accettato come loro grimstborith, abbiamo pensato che fosse il momento ideale per rendere ufficiale il nostro fidanzamento e diventare marito e moglie. Forse nessuno di noi sopravviverà fino al prossimo anno, dunque perché temporeggiare?» «E così sei diventato capoclan» disse Eragon. «Sì. Scegliere il nuovo leader del Dûrgrimst Ingeitum è stata una faccenda controversa - abbiamo discusso per più di una settimana - ma alla fine le famiglie hanno accettato che fossi io a seguire le orme di Rothgar e a prenderne il posto, in quanto suo unico erede.» Eragon, seduto accanto a Orik e a Vedra, divorava il pane e la carne di montone che gli avevano portato i nani, osservando la gara in corso. Orik gli aveva spiegato che, secondo la tradizione, una famiglia di nani benestante deve organizzare dei giochi per intrattenere gli invitati al ricevimento di nozze. La famiglia di Rothgar era così ricca che la festa proseguiva ormai da tre giorni ed era previsto che continuasse per altri quattro. Le discipline in programma erano diverse: lotta, tiro con l'arco, scherma, gare di forza fisica e il Ghastar, che stavano ammirando proprio in quel momento. Dalle estremità opposte di un campo erboso, due nani si lanciarono di corsa l'uno contro l'altro in groppa a una Feldûnost bianca. Le capre di montagna cornute attraversarono il prato a balzi di una settantina di piedi ciascuno. Il nano sulla destra aveva un piccolo scudo legato al braccio sinistro, ma non portava armi. L'altro invece non aveva scudi ma era pronto a scagliare un giavellotto. Mentre la distanza tra le barbebianche diminuiva, Eragon trattenne il fiato. Quando furono a meno di trenta piedi l'una dall'altra, il nano con la lancia tagliò l'aria col braccio e scagliò la sua arma contro l'avversario. L'altro non si riparò con lo scudo, ma tese la mano e con incredibile destrezza afferrò il giavellotto per il manico e poi lo brandì sopra la testa. La folla riunita intorno ai recinti esplose in un grido roboante, a cui si unì anche Eragon, battendo le mani con vigore. «Che abilità!» esclamò Orik, poi rise e scolò il boccale di idromele; la sua lucente cotta di maglia brillava al sole della sera. Indossava un elmo impreziosito con oro, argento e rubini, e sulle dita sfoggiava cinque grossi anelli. Alla vita gli pendeva l'immancabile ascia. Vedra era abbigliata in maniera ancora più ricca: indossava un sontuoso vestito con inserti di tessuto ricamato, al collo portava fili di perle e d'oro lavorato e tra i capelli un pettine d'avorio con incastonato uno smeraldo grande quanto il pollice di Eragon. Una fila di nani si alzò e diede fiato a una sezione di corni ricurvi; le loro note bronzee echeggiarono in lontananza tra le montagne. Poi un nano con il petto ampio quanto un barile fece un passo avanti e nella sua lingua annunciò il vincitore della gara appena conclusa e i nomi dell'ultima coppia di contendenti pronta ad affrontarsi a Ghastar. Quando il maestro di cerimonia tacque, Eragon si chinò e chiese a Vedra: «Ci accompagnerai anche tu al Farthen Dûr?» Lei scosse la testa e fece un gran sorriso. «Non posso. Devo restare qui a occuparmi degli affari dell'Ingeitum mentre Orik non c'è, così al suo ritorno non troverà i guerrieri affamati e i forzieri saccheggiati.» Ridacchiando, Orik tese il boccale verso uno dei servitori in piedi a diverse iarde di distanza. Mentre il nano correva a una brocca per riempirglielo di idromele, disse a Eragon con orgoglio: «Vedra non esagera. Lei non è solo mia moglie, è anche... Ah, non ci sono parole per descriverla. È la grimstcarvlorss del Dûrgrimst Ingeitum. Significa... sì, insomma, "colei che si occupa della casa", "colei che amministra il focolare". È compito suo assicurarsi che le famiglie del nostro clan paghino le decime stabilite alla Rocca di Bregan, che le nostre greggi siano condotte ai pascoli giusti nel momento giusto, che le nostre scorte di cibo e di grano non diminuiscano troppo, che le donne dell'Ingeitum producano abbastanza stoffa, che i nostri guerrieri siano bene equipaggiati, che i nostri fabbri abbiano sempre ferro da fondere e, in poche parole, che il nostro clan sia organizzato come si deve perché possa prosperare e crescere. Tra noi c'è un detto: "Con una brava grimstcarvlorss il tuo clan prospererà, mentre"...» «... "mentre con una maldisposta tutto in rovina finirà"» concluse Vedra. Orik sorrise e le prese una mano tra le sue. «E Vedra è la migliore grimstcarvlorss che ci sia. Non è un titolo ereditario. Se si vuole ricoprire quel ruolo, bisogna dimostrare di meritarselo. È raro che la moglie di un grimstborith sia grimstcarvlorss. Io sono stato molto fortunato.» Lui e Vedra protesero le teste e si stropicciarono i nasi l'uno contro l'altro. Eragon distolse lo sguardo, sentendosi solo ed escluso. Poi Orik si scostò dalla moglie, bevve un sorso di idromele e continuò: «La nostra storia è ricca di celebri grimstcarvlorss. Si dice spesso che l'unica cosa di cui siamo capaci noi capiclan è dichiararci guerra a vicenda e che le grimstcarvlorss ne siano contente, perché finché litighiamo tra noi non abbiamo il tempo di immischiarci negli affari del clan.» «Andiamo, Skilfz Delva» lo rimproverò Vedra. «Lo sai che non è vero. Almeno non nel nostro caso.» «Mmm» rispose Orik, e toccò la fronte della moglie con la sua. Si sfregarono i nasi un'altra volta. Sentendo la folla prorompere in una frenesia di fischi e acclamazioni, Eragon rivolse l'attenzione alla gara. Uno dei concorrenti aveva perso il controllo e all'ultimo momento aveva fatto deviare la sua Feldûnost da un lato: al momento stava cercando di sfuggire all'avversario. Il nano con il giavellotto lo rincorse facendo per due volte il giro dei recinti. Quando si ritrovarono di nuovo vicini, si alzò sulle staffe e scagliò la lancia, colpendo il nano codardo dietro la spalla. Con un grido, il malcapitato cadde dalla capra, poi afferrò la lama e il manico del giavellotto conficcato nella carne. Un guaritore lo raggiunse di corsa. Un momento dopo, tutti voltarono le spalle allo spettacolo. Orik arricciò il labbro in una smorfia di disgusto. «Bah! Passeranno anni prima che la sua famiglia riesca a cancellare l'onta del disonore. Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a questo deprecabile spettacolo, Eragon.» «Non è mai piacevole vedere qualcuno umiliarsi a quel modo.» I tre rimasero seduti in silenzio per le due gare seguenti, poi Orik colse Eragon di sorpresa, lo afferrò per la spalla e gli chiese: «Ti piacerebbe vedere una foresta pietrificata?» «Non esistono simili prodigi, a meno che non siano sculture.» Orik scosse il capo; gli brillavano gli occhi. «Non è una scultura, ed esiste davvero. Te lo chiedo di nuovo: ti piacerebbe vedere una foresta pietrificata?» «Se non mi stai prendendo in giro... sì.» «Ah, sono felice che tu abbia accettato. No, non sto scherzando: ti prometto che domani tu e io cammineremo tra alberi di granito. È una delle meraviglie dei Monti Beor. Ogni ospite del Dûrgrimst Ingeitum dovrebbe avere l'opportunità di visitarla.» L'indomani mattina Eragon si alzò dal lettino troppo piccolo nella stanza di pietra con il soffitto basso e i mobili grandi la metà del giusto, si lavò il viso in una bacinella di acqua gelida e, come d'abitudine, espanse la mente verso Saphira, ma avvertì solo i pensieri dei nani e degli animali all'interno della rocca e tutto intorno. Allora barcollò e si chinò in avanti, aggrappandosi al bordo della bacinella, sopraffatto da una sensazione di isolamento. Rimase così, incapace di muoversi e di pensare, finché non vide tutto rosso e strane macchie non gli balenarono davanti agli occhi. Con un sussulto, espirò e riempì di nuovo i polmoni. Recuperato il controllo, si vestì e si incamminò per i tortuosi corridoi della roccaforte, inchinandosi ai nani che incontrava, i quali da parte loro lo salutavano ripetendo con vigore l'appellativo: «Argetlam!». Trovò Orik e altri dodici nani nel cortile della rocca, intenti a sellare una fila di robusti pony il cui fiato caldo formava bianchi pennacchi nell'aria gelida. Circondato da quegli omini bassi e corpulenti, Eragon si sentì un gigante. Orik lo salutò. «Se vuoi cavalcare, abbiamo un asino nelle stalle.» «No, se per voi fa lo stesso io vengo a piedi.» Orik si strinse nelle spalle. «Come desideri.» Quando furono pronti per partire, Vedra discese gli ampi scalini di pietra all'ingresso del salone principale della Rocca di Bregan, lo strascico del vestito dietro di sé, e diede a Orik un corno d'avorio decorato con filigrana d'oro attorno al bocchino e al padiglione. «Apparteneva a mio padre quando cavalcava con il Grimstborith Aldhrim. Te lo affido, affinché tu possa ricordarmi nei giorni a venire» gli disse. Aggiunse dell'altro nella lingua dei nani, a voce così bassa che Eragon non riuscì a sentire, poi lei e Orik si toccarono la fronte. Ritto in sella, il nano diede fiato al corno. Ne uscì una nota profonda e struggente, che aumentò di volume finché l'aria nel cortile non parve vibrare come una corda mossa dal vento. Una coppia di corvi si levò gracchiando dalla torre. Sentendo il suono del corno, a Eragon si raggelò il sangue. Cominciò ad agitarsi sul posto, ansioso di partire. Rivolto un ultimo sguardo a Vedra, Orik spronò il pony, uscì al trotto dai cancelli principali della roccaforte e puntò a est, verso l'inizio della valle, seguito a ruota da Eragon e dagli altri dodici nani. Procedettero per tre ore lungo un sentiero ben tracciato sul fianco del monte Thardûr e poi salirono ancora più in alto. I nani spronarono i pony al massimo delle loro possibilità, ma quando Eragon era libero di correre, li batteva comunque in velocità. Pur frustrato, si trattenne dal lamentarsi, perché era chiaro che con i suoi ospiti avrebbe viaggiato più lentamente che non con un elfo o un Kull. Rabbrividì e si strinse nel mantello. Il sole doveva ancora sorgere sui Monti Beor e una fredda umidità si diffondeva nella valle, anche se mancavano solo poche ore a mezzogiorno. Raggiunsero una piatta distesa di granito larga più di un migliaio di piedi, delimitata sulla destra da una ripida scogliera di colonne ottagonali. Veli di tremula foschia oscuravano l'estremità del campo di pietra. Orik alzò una mano e disse: «Guardate, Az Knurldrâthn.» Eragon si incupì. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere nulla di interessante in quel luogo spoglio. «Non vedo nessuna foresta pietrificata.» Orik scese dal pony e consegnò le redini al guerriero alle sue spalle, poi disse: «Vieni con me, Eragon.» Si incamminarono insieme verso il mobile banco di nebbia, ed Eragon dovette rallentare perché il nano riuscisse a stargli dietro. La foschia gli baciava il viso, fresca e umida. Il vapore divenne così fitto da oscurare il resto della valle e li avvolse in un grigio paesaggio indistinto, dove perfino l'alto e il basso sembravano concetti arbitrari. Per nulla scoraggiato, Orik avanzò sicuro. Eragon tuttavia si sentiva disorientato e un po' incerto, e camminava tenendo una mano davanti a sé per evitare di urtare contro qualcosa celato nella nebbia. Orik si fermò sul bordo di uno stretto crepaccio che deturpava la lastra di granito su cui si trovavano e gli chiese: «Cosa vedi adesso?» Eragon strizzò gli occhi e si guardò intorno, ma la nebbia sembrava uniforme come prima. Stava quasi per dire che non vedeva ancora niente, ma poi notò una lieve irregolarità nella foschia, un tenue gioco di luci e ombre che manteneva la propria forma anche mentre la nebbia fluttuava. Notò altre zone statiche: strani angoli astratti a contrasto che formavano oggetti irriconoscibili. «Non...» cominciò, quando un alito di vento gli scompigliò i capelli. Incoraggiata appena da quell'improvvisa brezza, la nebbia si diradò e i giochi d'ombra si rivelarono tronchi di grossi alberi cinerei dai rami nudi e mutilati. Eragon e Orik erano circondati da decine di alberi, gli scheletri pallidi di un'antica foresta. Eragon premette il palmo contro un tronco. La corteccia era fredda e dura come sasso, e recava macchie di pallidi licheni. Fu percorso da un brivido. Benché non fosse superstizioso, quella spettrale foschia, la misteriosa penombra e poi la comparsa degli alberi, cupi, carichi di presagi e misteriosi accesero in lui una scintilla di paura. Si inumidì le labbra e chiese: «Com'è possibile?» Orik si strinse nelle spalle. «Alcuni sostengono che Gûntera li abbia deposti qui quando creò Alagaësia dal nulla. Altri invece affermano che sono opera di Helzvog, perché la pietra è il suo elemento preferito, e vuoi che il re della pietra non avesse alberi pietrificati nel suo giardino? Tuttavia c'è chi sostiene che questi alberi un tempo fossero come gli altri, ma che eoni fa una grande catastrofe li seppellì e con il passare del tempo il legno diventò terra e la terra pietra.» «È davvero possibile?» «Solo gli dei lo sanno con certezza. Chi se non loro può sperare di comprendere i perché e i come del mondo?» Orik si voltò. «I nostri antenati scoprirono il primo albero mentre scavavano in questa zona per estrarre il granito, più di un migliaio di anni fa. L'allora grimstborith del Dûrgrimst Ingeitum, Hvalmar Manomonca, bloccò gli scavi e chiese ai suoi uomini di estrarre gli alberi dalla roccia a colpi di scalpello. Dopo che ne ebbero liberati una cinquantina, Hvalmar si rese conto che potevano esserci centinaia, perfino migliaia di alberi pietrificati sepolti sotto il fianco del Monte Thardûr: così ordinò di abbandonare il progetto. Questo luogo tuttavia ha catturato fin da subito l'immaginazione della nostra razza e da allora i knurlan di ogni clan vengono qui e si danno un gran daffare per liberare sempre più alberi dalla morsa del granito. C'è chi ha dedicato la propria vita a questa impresa. È diventata tradizione mandare qui i figli ribelli a scalpellare almeno un paio d'alberi sotto la supervisione di un mastro muratore.» «Che noia.» «Sì, ma così hanno tutto il tempo di pentirsi dei loro errori.» Orik accarezzò con una mano la barba intrecciata. «Quando avevo trentaquattro anni ed ero una testa calda, anch'io trascorsi qui alcuni mesi.» «E ti sei pentito?» «Eta. No. In effetti è stata... una noia. Quando mi resi conto che dopo tutte quelle settimane avevo liberato dal granito solo un ramo, fuggii e mi unii a un gruppo di Vrenshrrgn...» «Cioè nani del clan Vrenshrrgn?» «Sì, knurlagn del clan Vrenshrrgn, proprio così, Lupi della Guerra o Lupi di Guerra, che dir si voglia nella tua lingua. Dunque, una volta mi ubriacai di birra e mentre loro stavano cacciando dei Nagran decisi che anch'io dovevo uccidere un cinghiale e portarlo a Rothgar per placare la sua ira. Non fu certo una cosa saggia: perfino i nostri guerrieri più abili temevano i Nagran, e io ero ancora un ragazzo. Non appena mi schiarii la mente, mi maledissi per la mia follia, ma ormai avevo giurato, dunque non avevo altra scelta se non rispettare la parola data.» Quando Orik fece una pausa, Eragon gli chiese: «E cosa accadde?» «Oh, con l'aiuto dei Vrenshrrgn uccisi un Nagra, ma il cinghiale mi ferì a una spalla e mi scaraventò tra i rami di un albero vicino. I Vrenshrrgn dovettero riportarci entrambi, il Nagra e me, alla Rocca di Bregan. Rothgar fu molto contento del cinghiale, e io... be', nonostante le medicazioni dei nostri migliori guaritori, trascorsi un mese a letto. Rothgar stabilì che fosse una punizione sufficiente per aver sfidato i suoi ordini.» Eragon osservò il nano. «Ti manca, eh?» Orik rimase un istante con il mento appoggiato contro l'ampio petto. Poi levò l'ascia e colpì il granito con l'estremità dell'impugnatura, producendo uno schiocco acuto che echeggiò tra gli alberi. «Sono trascorsi quasi due secoli da quando la nostra nazione venne tormentata da una dûrgrimstvren, una guerra tra clan, Eragon. Ma per la barba nera di Morgothal, adesso siamo sull'orlo di un'altra crisi.» «Proprio adesso?» esclamò Eragon, inorridito. «La situazione è davvero così grave?» Orik si accigliò. «Peggio di quanto pensi. La tensione tra i clan non è mai stata così alta, non che io ricordi, almeno. La morte di Rothgar e l'invasione dell'Impero a opera di Nasuada sono servite a infiammare gli animi, a inasprire antiche rivalità e a rafforzare chi crede sia una follia affidare il nostro destino ai Varden.» «Come possono crederlo, dopo che Galbatorix ha già attaccato Tronjheim con gli Urgali?» «Perché c'è chi crede che sia impossibile sconfiggerlo, e queste argomentazioni hanno molto seguito tra la nostra gente» rispose Orik. «In tutta onestà, Eragon, sei in grado di dirmi che, se tu e Saphira doveste affrontare Galbatorix in questo preciso istante, sareste in grado di batterlo?» Eragon sentì una morsa alla gola. «No.» «Come pensavo. Quanti osteggiano i Varden sono accecati dalla minaccia di Galbatorix. Sostengono che se ci fossimo rifiutati di dare rifugio ai Varden e se non avessimo accettato te e Saphira nella nostra bella Tronjheim, il re non avrebbe avuto alcun motivo per dichiararci guerra. Dicono che se ce ne stiamo per conto nostro e restiamo nascosti nelle nostre caverne e nei nostri cunicoli non avremo nulla da temere. Ma non si rendono conto che la fame di potere di Galbatorix è insaziabile e che lui non si darà pace finché non avrà tutta Alagaësia ai suoi piedi.» Orik scosse la testa; strinse la lama dell'ascia tra le grosse dita, e i muscoli dei suoi avambracci si gonfiarono e si tesero. «Non permetterò che la nostra gente viva rannicchiata in un cunicolo come un coniglio spaventato in attesa che il lupo cattivo si metta a scavare e la divori. Dobbiamo continuare a combattere nella speranza di trovare un modo per uccidere Galbatorix. E non permetterò che la nostra nazione venga fatta a pezzi da una guerra tra clan. Date le circostanze, un'altra dûrgrimstvren distruggerebbe la nostra civiltà e forse condannerebbe anche i Varden.» Con la mascella serrata, Orik si volse verso Eragon. «Per il bene del mio popolo, è mia intenzione salire al trono. I clan Gedthrall, Ledwonnû e Nagra mi hanno già confermato il loro sostegno. Tuttavia molti altri si frappongono tra me e la corona; non sarà facile raccogliere abbastanza voti da riuscire a diventare re. Eragon, devo sapere se tu mi appoggerai.» Il Cavaliere incrociò le braccia e camminò fino a un albero, poi a quello dopo, infine tornò indietro. «Se lo faccio, gli altri clan si potrebbero rivoltare contro di te. Stai per chiedere al tuo popolo di allearsi con i Varden e in più di accettare fra loro un Cavaliere dei Draghi, cosa che non hanno mai tollerato prima e dubito vogliano fare proprio adesso.» «Sì, qualcuno potrebbe ribellarsi, ma potrei anche ottenere altri voti. Lascia che sia io a giudicare. Desidero solo sapere se mi appoggerai. Perché tanta esitazione?» Eragon fissò una radice ritorta che spuntava dal granito accanto ai suoi piedi, evitando di incrociare lo sguardo di Orik. «Tu hai a cuore il bene del tuo popolo, e a ragione. Ma io ho preoccupazioni più grandi, che comprendono il bene dei Varden e degli elfi e di chiunque si opponga a Galbatorix. Se le probabilità che tu vinca sono limitate e se c'è un altro capoclan più favorito, e non ostile ai Varden...» «Ma non esiste un grimstborith più solidale con la loro causa di me!» «Non sto mettendo in dubbio la tua amicizia» protestò Eragon. «Ma se le cose dovessero prendere la piega di cui parlavo, e il mio sostegno potesse garantire a un altro capoclan di ottenere il trono, per il bene del tuo popolo e per il bene di tutta Alagaësia non dovrei appoggiare il nano che ha le maggiori probabilità di vittoria?» Con voce tombale, Orik rispose: «Hai prestato un giuramento di sangue sul Knurlnien, Eragon. Secondo la legge del nostro regno, per quanto gli altri possano contestarlo, sei un membro del Dûrgrimst Ingeitum. Ciò che ha fatto Rothgar adottandoti non ha precedenti nella nostra storia e non può essere cancellato a meno che, in qualità di capoclan, io non ti bandisca. Se ti ribelli a me, Eragon, mi umilierai di fronte alla nostra razza e nessuno si fiderà mai più della mia autorità. Inoltre confermerai ai tuoi detrattori che non ci si può fidare di un Cavaliere dei Draghi. I membri di un clan non si schierano a tradimento con quelli di un altro. Non si fa, a meno che tu non voglia svegliarti una notte con un pugnale nel cuore.» «Mi stai minacciando?» gli chiese Eragon, con la stessa calma. Orik imprecò e abbatté di nuovo l'ascia contro il granito. «No! Non alzerei mai una mano contro di te! Sei mio fratello adottivo, sei l'unico Cavaliere immune all'influenza di Galbatorix, e che io sia maledetto se non mi sono affezionato a te durante i nostri viaggi insieme. Ma ciò non significa che gli altri membri dell'Ingeitum sarebbero altrettanto indulgenti. La mia non è una minaccia; è un dato di fatto. Devi capirlo, Eragon. Se al nostro clan giunge voce che hai dato il tuo sostegno a un altro, potrei anche non riuscire a fermarli. Benché tu sia nostro ospite e le regole dell'ospitalità ti proteggano, se dici una sola parola contro l'Ingeitum il clan ti considererà un traditore, e non è nostra abitudine accogliere tra noi un traditore. Mi capisci, Eragon?» «Che cosa ti aspetti che faccia?» gridò il giovane. Allargo le braccia e prese a camminare avanti e indietro di fronte a Orik. «Ho prestato giuramento a Nasuada, e questi sono gli ordini che mi ha dato.» «Ma ti sei impegnato anche con il Dûrgrimst Ingeitum!» ruggì Orik. Eragon si fermò e fissò il nano. «Vuoi che condanni l'intera Alagaësia solo perché tu possa mantenere la tua posizione?» «Non insultarmi!» «E tu non chiedermi l'impossibile! Ti appoggerò se avrai buone possibilità di salire al trono, altrimenti no. Come tu ti preoccupi del Dûrgrimst Ingeitum e della tua razza, io devo preoccuparmi di Alagaësia.» Eragon si accasciò contro il gelido tronco di un albero. «Ma non posso nemmeno permettermi di offendere te e il tuo - anzi, il In tono più gentile, Orik rispose: «Un'alternativa c'è. Ti complicherebbe le cose, ma almeno così risolveresti il tuo dilemma.» «E quale sarebbe, questa miracolosa soluzione?» Infilando di nuovo l'ascia nella cintura, Orik lo raggiunse, lo afferrò per gli avambracci e lo fissò da sotto le sopracciglia cespugliose. «Fidati di me, farò la cosa giusta, Eragon Ammazzaspettri. Concedimi la tua lealtà come se fossi davvero nato nel Dûrgrimst Ingeitum. Chi risponde a me non dovrebbe mai avere la sfrontatezza di parlare contro il proprio capo e a favore di un altro. Se un grimstborith commette un errore, la responsabilità è solo sua, ma non significa che io sia insensibile al tuo dilemma.» Abbassò lo sguardo per un momento, poi proseguì: «Fidati: se non posso essere re, non mi lascerò accecare dalla prospettiva del potere al punto da non accorgermi che il mio tentativo è destinato a fallire. In quel caso - ma so che non accadrà - darò il mio sostegno a uno degli altri candidati di mia spontanea volontà, perché desidero meno di te veder eleggere un capoclan ostile ai Varden. E se dovessi aiutare a promuovere la vittoria di un altro, la posizione e il prestigio che metterò al servizio di quel capoclan dovrà, per sua propria natura, includere anche te, poiché fai parte dell'Ingeitum. Hai fiducia in me, Eragon? Mi accetterai come grimstborith al pari degli altri miei sudditi che mi hanno giurato fedeltà?» Eragon sospirò, appoggiò la testa contro il ruvido albero e guardò i rami contorti e bianchi come ossa avvolti nella foschia sopra di sé. «Non sarò uno stupido servitore da comandare a bacchetta. Se si tratta del Dûrgrimst Ingeitum, ti cedo volentieri il campo, ma per tutto il resto non avrai alcun ascendente su di me» precisò rivolto a Orik. Il nano annuì, serio. «Non è la missione che ti ha affidato Nasuada e nemmeno chi potresti uccidere nella lotta contro l'Impero a preoccuparmi. No, ciò che mi tiene sveglio la notte quando invece dovrei dormire profondamente come Arghen nella sua caverna è immaginarti mentre tenti di influenzare la votazione dei clan. Le tue intenzioni sono nobili, lo so, ma non sei un esperto della nostra politica, per quanto Nasuada possa averti istruito. Questo riguarda me, Eragon. Lascia che organizzi io le cose nella maniera che riterrò più opportuna. È ciò a cui mi ha preparato Rothgar per tutta la vita.» Eragon sospirò e, con la netta sensazione di essere caduto nel precipizio, replicò: «Benissimo, allora. Per la successione farò ciò che vuoi, Grimstborith Orik.» Sul volto del nano si dipinse un largo sorriso. Strinse con più forza gli avambracci di Eragon e poi lo lasciò andare. «Grazie. Non sai che cosa significa per me. Sei molto gentile, davvero, non lo dimenticherò, nemmeno se vivrò fino a duecento anni e avrò una barba così lunga che striscerà per terra.» Suo malgrado, Eragon ridacchiò. «Be', spero che non diventi tanto lunga, altrimenti non faresti che inciampare!» «Chi lo sa» rispose Orik, ridendo. «E poi credo che Vedra me la taglierebbe se solo mi arrivasse alle ginocchia. Ha opinioni molto precise sulla lunghezza appropriata di una barba.» Guidati da Orik, i due lasciarono la foresta pietrificata e si incamminarono nella foschia incolore che vorticava attorno ai tronchi calcificati. Ritrovarono i dodici guerrieri e poi cominciarono a ridiscendere il fianco del Monte Thardûr. Giunti in fondo alla valle, procedettero in fila indiana verso il lato opposto, e poi i nani condussero Eragon a un tunnel così ben nascosto nella parete di roccia che da solo non ne avrebbe mai trovato l'ingresso. Fu con rammarico che salutò il pallido sole e la fresca aria di montagna per imboccare il tunnel oscuro. Il passaggio era largo otto piedi e alto sei, gli sembrava minuscolo, e, come tutti i tunnel dei nani che aveva visto, proseguiva diritto come un fuso a perdita d'occhio. Si voltò appena in tempo per vedere Farr chiudere la lastra di granito che fungeva da porta, poi il gruppo si ritrovò immerso nella notte. Un momento dopo, non appena i nani ebbero estratto dalle bisacce le lanterne senza fiamma, apparvero quattordici globi luccicanti di diversi colori. Orik ne consegnò uno a Eragon. Si avviarono sotto le radici della montagna. Gli zoccoli dei pony colmavano il tunnel di echi fragorosi che sembravano gridare contro di loro come spettri infuriati. Eragon fece una smorfia, sapendo che avrebbero sentito quel fracasso fino al Farthen Dûr, dove si concludeva il tunnel, a molte leghe di distanza. Si strinse nelle spalle e afferrò con più forza gli spallacci dello zaino. Quanto avrebbe voluto librarsi alto nel cielo con Saphira... ♦ ♦ ♦ LA MORTE CHE RIDE Roran si accucciò e sbirciò tra gli intricati rami del salice. Mentre il crepuscolo calava rapido, a duecento iarde da Roran cinquantatré individui tra soldati e civili alla guida dei carri delle provviste consumavano la cena seduti intorno a tre focolari. Si erano accampati per la notte su un ampio terrapieno erboso accanto a un fiume senza nome. I carri erano disposti in un semicerchio approssimativo attorno ai fuochi. Decine di buoi legati con una corda pascolavano dietro l'accampamento e di tanto in tanto muggivano. Una ventina di iarde più in là, tuttavia, dal terreno si ergeva una sorta di terrazza di terra soffice, che vanificava ogni possibilità di attacco o di fuga da quella parte. «Hai visto trappole?» chiese. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che Carn era dietro di lui, insieme a Halmar e ad altri due. A parte i quattro spadaccini che si erano aggiunti alla compagnia di Martland per sostituire chi era morto o aveva subito ferite troppo gravi nell'ultimo confronto, Roran aveva già combattuto a fianco di tutti gli uomini del gruppo. Certo, non andava d'accordo con ognuno di loro, ma credeva in quei suoi compagni al punto da affidare loro la sua vita, e la cosa era reciproca. Era un legame che andava oltre l'età o l'educazione. Dopo la prima battaglia, Roran era rimasto sorpreso da quanto si sentiva legato ai suoi compagni e dal calore con cui lo ricambiavano. «Non mi pare» mormorò Carn. «Ma allora...» «Potrebbero aver inventato nuovi incantesimi a te sconosciuti, sì, sì. Hanno con loro un mago?» «Non ne sono sicuro, ma credo di no.» Roran scostò un ramo per vedere meglio com'erano disposti i carri. «Non mi piace» bofonchiò. «Nell'altro convoglio il mago c'era, in questo no. Perché?» «Noi maghi siamo meno di quanti immagini...» «Mmm.» Roran si grattò la barba, ancora turbato dall'apparente mancanza di buonsenso che i soldati nemici dimostravano. Silenzio. Poi Carn rispose: «Fatto. Martland dice che condivide i tuoi timori, ma a meno che tu non voglia tornare da Nasuada con la coda tra le gambe, dobbiamo tentare la sorte.» Roran borbottò e distolse lo sguardo dai soldati nemici. Con un cenno del capo indicò agli altri uomini di tornare a carponi dove avevano lasciato i cavalli. Poi si alzò e montò in sella a Fiammabianca. «Ehi, piano, bello» gli sussurrò, accarezzandolo, mentre il cavallo scuoteva la testa. Nella fioca luce, la criniera e il manto di Fiammabianca rilucevano come argento. Per l'ennesima volta, Roran desiderò che il suo stallone fosse meno appariscente: magari rossiccio, come un baio, o nocciola. Staccò lo scudo dalla sella, infilò il braccio nelle cinghie e prese il martello dalla cintura. Deglutì, avvertendo la solita tensione alle spalle, e strinse con più forza l'impugnatura dell'arma. Quando tutti e cinque furono pronti, Carn alzò un dito, socchiuse le palpebre e arricciò le labbra, come se stesse parlando tra sé. Un grillo friniva poco lontano. Poi aprì gli occhi di scatto. «Ricordate di tenere lo sguardo a terra finché non vi si abitua la vista, e comunque non fissate mai il cielo.» Poi cominciò a recitare nell'antica lingua parole incomprensibili, vibranti di energia. Roran si riparò con lo scudo e guardò di traverso la sella mentre una luce pura e bianca, intensa come il sole di mezzogiorno, illuminava il paesaggio attorno. Intuì che quel bagliore partiva da un punto sopra l'accampamento, ma resistette alla tentazione di scoprire dove fosse di preciso. Gridando, calciò Fiammabianca nelle costole e mentre lo stallone balzava in avanti si chinò sulla criniera. Carn e gli altri guerrieri fecero altrettanto, brandendo le armi. Roran venne frustato dai rami, poi finalmente Fiammabianca uscì dal folto degli alberi e si lanciò al galoppo verso l'accampamento. Due altri gruppi di cavalieri li seguirono rumoreggiando, uno capitanato da Martland, l'altro da Ulhart. Soldati e civili gridarono allarmati e si coprirono gli occhi. Barcollando come se fossero diventati ciechi all'improvviso, cercarono a tentoni le armi sforzandosi di prendere posizione per respingere l'attacco. Roran non provò nemmeno a rallentare la corsa di Fiammabianca. Anzi, lo spronò ancora di più, si alzò sulle staffe e si tenne saldo con tutte le sue forze mentre lo stallone superava con un salto lo stretto spazio tra due carri. Quando toccarono terra, Roran batté i denti. Fiammabianca prese a scalciare e a sollevare spruzzi di terra, che finirono in uno dei falò, sollevando uno sbuffo di scintille. Anche il resto del gruppo saltò i carri come lui. Contando sul fatto che gli altri si sarebbero occupati dei soldati alle sue spalle, Roran si concentrò su quelli davanti. Puntando Fiammabianca contro uno di loro, lo colpì con l'estremità del martello e gli ruppe il naso, riducendogli il volto a una maschera di schizzi rossi. Lo eliminò con un secondo colpo alla testa, poi parò il fendente di un altro soldato. Più oltre lungo i carri disposti a semicerchio anche Martland, Ulhart e i loro uomini entrarono nell'accampamento tra schiocchi di zoccoli, in un clangore di armi e armature. Un cavallo nitrì e cadde ferito da una lancia. Roran parò un secondo affondo del soldato, che poi colpì alla mano, costringendolo a lasciar cadere l'arma. Senza indugi, gli assestò un altro fendente, fracassandogli lo sterno e facendolo crollare a terra, ansante, ferito a morte. Roran si girava e si rigirava sulla sella in attesa dell'avversario successivo. I suoi muscoli vibravano di frenetica eccitazione; ogni dettaglio gli appariva nitido e chiaro, come intagliato nel vetro. Si sentiva invincibile, invulnerabile. Perfino il tempo parve dilatarsi e rallentare, tanto che una falena confusa che gli fluttuò accanto gli sembrò quasi volare nel miele. Poi due mani lo afferrarono da dietro, strattonandolo per l'usbergo di maglia, lo disarcionarono e lo fecero cadere sulla dura terra, lasciandolo senza fiato. Gli si offuscò la vista e per un istante vide tutto nero. Quando si riprese, si ritrovò seduto sul petto il primo soldato che lo aveva attaccato; lo stava strangolando. Il nemico era proprio davanti alla fonte luminosa che Carn aveva creato in cielo e un alone bianco gli circondava la testa e le spalle, lasciando i tratti del viso così in ombra che Roran non distingueva nulla della sua faccia se non il candore dei denti. Vedendolo ormai boccheggiante, il soldato serrò ancora di più le dita attorno alla gola di Roran, che cercò a tastoni il martello, invano. Tendendo il collo per evitare di essere ucciso, sfilò il pugnale dalla cintura e lo conficcò nell'usbergo, poi nei gambali e infine tra le costole dell'avversario. Il soldato non batté ciglio e non mollò la presa. Anzi, continuò a ridere. Sentendo quel gorgoglio angosciante, più orribile di qualunque altra cosa avesse mai udito, a Roran si serrò lo stomaco dalla paura. Lo ricordava bene, quel suono; l'aveva già sentito guardando i Varden combattere contro gli uomini che non provavano dolore sul prato accanto al fiume Jiet. In un baleno comprese perché i soldati avevano scelto un accampamento così stravagante. All'improvviso Roran vide tutto rosso e davanti agli occhi presero a danzargli tante stelline gialle. Ormai prossimo a perdere i sensi, sfilò il pugnale e colpì a caso verso l'alto, conficcandolo nell'ascella del soldato, poi rigirò la lama nella ferita. Fiotti di sangue caldo gli schizzarono sulla mano, ma quello non parve accorgersene. Quando gli prese la testa e gliela sbatté con forza a terra, Roran vide il mondo esplodere in macchie di colori pulsanti. Una volta. Due. Tre. Roran cercò di liberarsi muovendo i fianchi, invano. Cieco e disperato, infierì dove credeva si trovasse la faccia del soldato, e infatti sentì il pugnale entrare nella morbida carne. Lo estrasse piano, poi lo affondò di nuovo nello stesso punto e stavolta avvertì l'urto della lama contro l'osso. La pressione attorno al collo svanì. Roran rimase disteso dov'era, ansimante, poi si girò su un fianco e vomitò; gli bruciava la gola. Tra colpi di tosse e rantoli si rialzò a fatica: il soldato era disteso immobile accanto a lui, con il pugnale che gli spuntava dalla narice destra. «Mirate alla testa!» gridò Roran, nonostante la gola in fiamme. «Alla testa!» Lasciò il pugnale conficcato nel naso dell'uomo e raccolse da terra il martello, poi afferrò anche una lancia abbandonata e la impugnò con la mano con cui di solito reggeva lo scudo. Superato il soldato morto con un balzo, corse verso Halmar, che stava combattendo con tre soldati ad un tempo. Prima che si accorgessero di lui, Roran colpì alla testa i due nemici più vicini con tanta violenza che gli elmi si aprirono in due. Lasciò il terzo a Halmar, e corse verso il soldato a cui aveva rotto lo sterno e che credeva ormai morto. Lo trovò seduto contro la ruota di un carro, che sputava sangue rappreso e cercava di incordare un arco. Gli trafisse un occhio con la lancia. Quando sfilò la lama, sulla punta rimasero appiccicati brandelli di materia grigia. Allora ebbe un'idea. Scagliò la lancia contro un uomo con la tunica rossa dalla parte opposta del fuoco più vicino, impalandolo all'altezza del petto, poi infilò il manico del martello sotto la cintura e finì di incordare l'arco sottratto all'altro soldato. Appoggiando la schiena contro un carro, cominciò a scoccare frecce contro i nemici per tutto l'accampamento, cercando di colpirli al volto, alla gola o al cuore, quando aveva fortuna, o almeno di azzopparli, così che i suoi compagni potessero finirli senza difficoltà. Se non altro, pensò, un soldato ferito sarebbe morto dissanguato prima della fine del combattimento. L'iniziale compostezza dell'attacco era degenerata nella più totale confusione. I Varden erano dispersi e sgomenti, qualcuno in sella al proprio destriero, altri a piedi, quasi tutti insanguinati. Almeno cinque erano morti quando i soldati che credevano di avere massacrato erano tornati a colpirli. In quell'ammasso convulso di corpi era impossibile stabilire quanti nemici restassero in vita, ma Roran calcolò che erano comunque più di loro, all'incirca venticinque. Roran uccise altri quattro soldati e ne ferì più di una ventina. Quando gli furono rimaste due sole frecce, scorse Carn all'estremità opposta dell'accampamento, che duellava con un soldato vicino a una tenda in fiamme. Tese la corda dell'arco finché le piume della freccia non gli solleticarono l'orecchio, e colpì il nemico in pieno petto; quando quello vacillò, Carn poté mozzargli la testa. Roran gettò via l'arco e gli corse incontro, brandendo il martello e gridando: «Non li puoi uccidere con la magia?» Per un istante Carn riuscì solo ad ansimare, poi scosse il capo e rispose: «Ogni mio incantesimo si è rivelato vano.» La luce emanata dalla tenda in fiamme gli indorava un lato del volto. Roran imprecò. «Insieme, allora!» gridò, levando lo scudo. I due avanzarono spalla a spalla verso il gruppo di guerrieri più vicino, un manipolo di otto uomini che avevano circondato tre Varden. I minuti seguenti furono un spasmo di armi scintillanti, membra dilaniate e improvvise fitte di dolore per Roran. I soldati si stancavano più lentamente degli altri uomini, non si sottraevano allo scontro e non arretravano mai, nemmeno dopo aver ricevuto le ferite più orribili. Il combattimento era così faticoso che a Roran tornò la nausea, e non appena cadde anche l'ottavo soldato si piegò su se stesso e vomitò un'altra volta; poi sputò per ripulirsi la bocca dalla bile. Uno dei Varden che avevano cercato di liberare era morto, trafitto alle reni da un coltello, ma i due sopravvissuti unirono le loro forze a Carn e Roran e insieme caricarono il drappello in arrivo. «Spingeteli verso il fiume!» gridò Roran. Pensava che l'acqua e il fango ne avrebbero limitato i movimenti e che forse così i Varden sarebbero riusciti a ottenere il controllo della situazione. Non molto distante, Martland era riuscito a radunare i dodici Varden ancora a cavallo e metteva in pratica il suggerimento di Roran. I soldati e i pochi civili ancora vivi non si arrendevano, però. Anzi, respinsero gli uomini a piedi con gli scudi e scagliarono lance contro i cavalli; ma nonostante la loro violenta resistenza, i Varden li costrinsero a indietreggiare un passo alla volta finché gli uomini dalla tunica cremisi non si ritrovarono immersi nella rapida corrente fino alle ginocchia, mezzi accecati dall'insolita luce che brillava in cielo. «Serrate i ranghi!» gridò Martland, smontando da cavallo e piazzandosi a gambe aperte sul limitare dell'argine. «Non devono riconquistare la riva!» Roran si accucciò, conficcò i talloni nel terreno soffice finché non ebbe trovato una posizione comoda e attese l'attacco del corpulento soldato che gli stava di fronte, a diversi piedi di distanza. Con un ruggito, questi balzò fuori dalle gelide acque basse e fece roteare la spada contro di lui, ma Roran parò l'affondo con lo scudo e rispose con un colpo di martello, che a sua volta il soldato bloccò con il proprio scudo, cercando poi di ferirlo alle gambe. Per diversi secondi continuarono a menare fendenti, senza che nessuno dei due riuscisse a colpire l'avversario. Alla fine Roran gli dilaniò l'avambraccio sinistro, facendolo arretrare di alcuni passi. Il soldato si limitò a sorridere e poi scoppiò in una risata raggelante, priva di gioia. Roran si chiese se lui o qualcuno dei suoi compagni sarebbe sopravvissuto alla notte. Da lì in poi la battaglia si trasformò in un incubo. La strana luce maligna dava all'acqua e ai soldati un aspetto soprannaturale, esangue, e proiettava sulla superficie del fiume lunghe ombre sottili e affilate come rasoi, mentre dietro e tutto intorno regnava la notte più buia. Roran continuava a respingere i soldati che uscivano barcollando dall'acqua per ucciderlo, li colpiva con il martello finché non avevano più le sembianze di esseri umani; tuttavia non morivano. A ogni colpo, grosse chiazze tonde di sangue nero punteggiavano le acque del fiume come macchie d'inchiostro versato, poi la corrente le trasportava via. La spaventosa monotonia di ogni attacco lasciava Roran intontito e terrorizzato. Per quanto si affannasse, c'era sempre un altro nemico mutilato pronto a falciarlo e pugnalarlo. E continuavano a risuonare le risatine folli di quegli uomini che sapevano di essere morti e tuttavia mantenevano una parvenza di vita anche se i Varden martoriavano loro il corpo. E poi, il silenzio. Roran rimase accucciato dietro lo scudo, con il martello a mezz'aria, ansante, madido di sudore e inzuppato di sangue. Trascorse un minuto prima che si accorgesse che nell'acqua non c'era più nessuno. Guardò a destra e a sinistra tre volte, incredulo all'idea che alla fine i soldati fossero davvero morti, e pace all'anima loro. Un cadavere galleggiava accanto a lui nell'acqua scintillante. Quando una mano gli afferrò il braccio, emise un grido inarticolato. Si voltò di scatto, ringhiando e ritraendosi, ma poi si accorse che era Carn. Pallido e insanguinato, lo stregone gli stava parlando. «Abbiamo vinto, Roran! Eh? Sono tutti morti! Li abbiamo sconfitti!» Roran lasciò cadere il braccio e gettò la testa all'indietro, troppo stanco perfino per sedersi. Si sentiva... era come se avesse i cinque sensi più affinati del consueto, e tuttavia le emozioni erano spente e mute, ammassate da qualche parte dentro di lui, nel profondo. Era felice che fosse così, altrimenti sarebbe impazzito, pensò. «Radunatevi e ispezionate i carri!» gridò Martland. «Prima vi sbrigate, prima potremo andarcene da questo luogo maledetto! Carn, occupati di Weimar. Quel taglio non mi piace per niente.» Con un enorme sforzo di volontà, Roran si voltò e si trascinò lungo l'argine del fiume fino al carro più vicino. Battendo le palpebre per allontanare il sudore che gli colava dalla fronte, vide che del contingente iniziale solo nove uomini erano ancora in grado di reggersi sulle loro gambe. Allontanò quel pensiero dalla mente. Mentre Martland Barbarossa attraversava l'accampamento disseminato di cadaveri, un soldato che sembrava morto si volse e gli mozzò la mano destra. Con un movimento così armonioso che pareva l'avesse provato e riprovato all'infinito, Martland gli allontanò la spada con un calcio, poi si inginocchiò, sfilò un pugnale dalla cintura e glielo conficcò in un orecchio, uccidendolo. Il viso paonazzo, Martland si ficcò il moncherino sotto l'ascella sinistra e allontanò chiunque gli corresse incontro. «Lasciatemi stare! È una ferita da nulla. Salite su quei carri, scansafatiche che non siete altro! Se non vi muovete, rimarremo qui così a lungo che la barba mi diventerà bianca come la neve. Forza!» Vedendo che Carn si rifiutava di eseguire l'ordine, Martland si accigliò e gridò: «Vattene di qui o ti farò frustare per insubordinazione, hai la mia parola.» Carn raccolse la mano mozzata, che si muoveva ancora. «Forse riesco a riattaccarla, ma mi serve qualche minuto.» «Ah, al diavolo! Dammela!» esclamò il duca, e gliela portò via, poi la nascose sotto la tunica. «Finiscila di agitarti tanto per me e vedi piuttosto di salvare Weimar e Lindel. Potrai tentare di riattaccarla quando saremo lontani da questi mostri.» «Potrebbe essere troppo tardi» commentò Carn. «Il mio era un ordine, stregone, non una richiesta!» tuonò Martland. Mentre Carn indietreggiava, strinse con i denti la manica della tunica attorno al braccio mutilato, che poi infilò di nuovo sotto l'ascella sinistra. Aveva il viso imperlato di sudore. «Bene! Che razza di malefici oggetti sono nascosti in quegli stramaledetti carri?» «Corda!» gridò qualcuno. «Whisky!» gridò un altro. Martland grugnì. «Ulhart, prendi nota al posto mio.» Roran aiutò gli altri a rovistare tra le merci, urlando a Ulhart che cosa trovava. Macellarono i buoi e diedero fuoco ai carri, come l'altra volta. Infine radunarono i cavalli e montarono in groppa, legando i feriti alle selle. Quando furono pronti per partire, Carn fece dei gesti verso il bagliore nel cielo e mormorò una lunga, intricata parola. La notte avvolse il mondo intero. Roran alzò la testa e scorse una pulsante immagine di Carn impressa sulle stelle fioche, poi, quando si fu abituato all'oscurità, vide le delicate sagome grigie di migliaia di falene disorientate disperse nel cielo, come le ombre delle anime degli uomini. Col cuore gonfio di dolore, spronò Fiammabianca e si allontanò dai resti del convoglio. ♦ ♦ ♦ SANGUE SULLE ROCCE Frustrato, Eragon si precipitò fuori dalla camera circolare sepolta sotto il centro di Tronjheim e sbatté la porta di quercia con un sonoro boato. Si fermò con le mani sui fianchi in mezzo al corridoio a volta e fissò il pavimento di piastrelle rettangolari di agata e giada. Da quando lui e Orik erano arrivati in città, tre giorni prima, i tredici capiclan non avevano fatto altro che discutere di argomenti a suo parere futili: quale clan aveva il diritto di far pascolare le proprie greggi in un determinato appezzamento di terreno divenuto oggetto di contesa, per esempio. Mentre li ascoltava dibattere su punti oscuri del loro codice legislativo, spesso Eragon aveva voglia di gridare che si stavano comportando da stupidi ciechi, e se non avessero accantonato subito quelle frivole preoccupazioni e scelto un nuovo sovrano senza altri indugi, avrebbero condannato l'intera Alagaësia a sottostare al comando di Galbatorix. Ancora perso nei suoi pensieri, si incamminò lungo il corridoio, degnando di ben poca attenzione le quattro guardie che lo seguivano ovunque andasse e i nani che incontrava e che lo salutavano utilizzando molteplici varianti dell'appellativo "Argetlam". Oltre a Íorûnn, si erano fatti avanti altri due aspiranti al trono: Gannel, il capo del Dûrgrimst Quan, e Nado, il capo del Dûrgrimst Knurlcarathn. In qualità di custodi della religione dei nani, i membri del Quan godevano di un'enorme influenza, ma fino a quel momento avevano ottenuto solo il sostegno del Dûrgrimst Ragni Hefthyn e del Dûrgrimst Ebardac, quest'ultimo devoto alla ricerca scientifica. Di contro, Nado aveva creato una coalizione più forte, che comprendeva i Feldûnost, i Fanghur e gli Az Sweldn rak Anhûin. Se Íorûnn sembrava interessata al trono solo per soddisfare la propria sete di potere e Gannel non pareva di per sé ostile ai Varden, benché non si mostrasse mai nemmeno troppo cordiale, Nado, invece, si opponeva apertamente e con veemenza a qualsiasi tipo di impegno con Eragon, Nasuada, l'Impero, Galbatorix, la regina Islanzadi e, almeno così sembrava, ogni altro essere vivente fuori dai Monti Beor. I membri del Knurlcarathn lavoravano la pietra e non avevano pari quanto a risorse minerarie e operai di cui avvalersi, perché tutti gli altri clan dipendevano dalla loro competenza per costruire tunnel e abitazioni, e perfino l'Ingeitum aveva bisogno di loro per estrarre il ferro che serviva ai fabbri. E se il tentativo di Nado non fosse andato a buon fine, Eragon sapeva che molti capi degli altri clan minori che ne condividevano la posizione avrebbero fatto a gara per prendere il suo posto. Gli Az Sweldn rak Anhûin, per esempio, che Galbatorix e i Rinnegati avevano quasi spazzato via durante la rivolta, si erano dichiarati nemici giurati di Eragon in occasione della sua visita alla città di Tarnag e anche adesso, durante la consulta, avevano dimostrato in ogni modo possibile il loro implacabile odio nei confronti suoi, di Saphira e di tutto ciò che aveva a che fare con draghi e Cavalieri. Anzi, si erano opposti perfino alla presenza di Eragon, anche se era ammesso dalla legge in vigore nel regno, e avevano costretto gli altri capiclan a esprimere il proprio parere in merito, ritardando così la riunione di sei inutili ore. Quanto solide fossero le alleanze tra i clan, tuttavia, era una questione incerta. Né Orik né Íorûnn né Gannel né Nado godevano di un sostegno sufficiente a garantirsi la vittoria ai voti, e dunque erano tutti indaffarati a cercare di conservare la fedeltà di quei clan che avevano già promesso loro di aiutarli e nel contempo di soffiare sostenitori agli avversari. Nonostante l'importanza del momento, Eragon trovava tutto noioso e deludente al di là dell'umana sopportazione. Grazie alle spiegazioni di Orik, comprese che prima di eleggere il nuovo sovrano i capiclan dovevano stabilire tramite un voto se erano pronti a scegliere un nuovo re o una nuova regina. Per essere dichiarata valida, l'elezione preliminare doveva ottenere almeno nove voti a favore. Fino a quel momento nessun capoclan, Orik compreso, si era sentito tanto sicuro da andare al voto. Come aveva detto Orik, era la parte più delicata della procedura di successione, e in qualche caso si era protratta per un tempo lunghissimo. Mentre rifletteva sul da farsi, Eragon vagò senza meta per il dedalo di stanze sotto Tronjheim finché non si ritrovò in una sala polverosa, con cinque archi neri su un lato e il bassorilievo di un orso inferocito alto venti piedi sull'altro. La bestia aveva le zanne d'oro e due rubini rotondi e sfaccettati al posto degli occhi. «Dove siamo, Kvîstor?» domandò. La sua voce riecheggiò cupa nella stanza. Avvertiva i pensieri di molti nani ai livelli superiori, ma non aveva idea di come raggiungerli. Il capo delle guardie, un giovane di non più di una sessantina d'anni, fece un passo avanti. «Queste stanze furono scavate millenni fa dal Grimstnzborith Korgan quando Tronjheim era ancora in costruzione. Da allora non le abbiamo usate spesso, tranne quando tutto il nostro popolo si riunisce all'interno del Farthen Dûr.» Eragon annuì. «Potete riportarmi di sopra?» «Ma certo, Argetlam.» Dopo parecchi minuti di cammino a passo sostenuto, si ritrovarono davanti a un'ampia scalinata con i gradini bassi, a misura di nano, che sbucava dal terreno e portava a un passaggio nel quadrante sud-ovest della base di Tronjheim. Da lì Kvîstor guidò Eragon fino a uno dei quattro corridoi - quello meridionale, come gli altri lungo un miglio - che dividevano Tronjheim in corrispondenza dei punti cardinali. Era lo stesso punto da cui lui e Saphira erano entrati la prima volta parecchi mesi prima, e fu con uno strano senso di nostalgia che lo percorse, diretto al centro della città-montagna. Era come se nel frattempo fosse invecchiato di molti anni. Il corridoio alto quattro piani brulicava di nani di ogni clan. Eragon era sicuro che si fossero accorti di lui, ma non tutti lo degnarono di attenzione, e meno male: almeno si sarebbe risparmiato lo sforzo di ricambiare altri saluti. Quando vide una fila di membri dell'Az Sweldn rak Anhûin attraversare il corridoio, si irrigidì. Loro volsero le teste tutti insieme per guardarlo, rabbuiati dietro i veli viola che indossavano sempre in pubblico. L'ultimo nano della fila sputò per terra verso Eragon, poi si infilò sotto un arco e raggiunse i suoi fratelli. Impossibile dire se fosse uomo o donna. Dopo mezz'ora arrivò in fondo al maestoso corridoio. Era già stato lì molte altre volte, ma non appena ebbe superato l'arco fiancheggiato da colonne di onice nera alte quanto tre uomini e sormontate da zirconi gialli e fu entrato nella camera circolare nel cuore di Tronjheim, venne sopraffatto da un senso di timore e meraviglia. Il diametro della stanza era di circa mille piedi e sul pavimento di lucida corniola era inciso un martello circondato da dodici stelle d'argento, lo stemma del Dûrgrimst Ingeitum e del primo re dei nani, Korgan, che aveva scoperto il Farthen Dûr scavando in cerca di oro. Di fronte a lui, alla sua destra e alla sua sinistra, partivano altri tre corridoi che conducevano ad altrettante sale. Priva di soffitto, la camera saliva fino al picco di Tronjheim, un miglio più in alto, e da lì si apriva nella rocca dei draghi, in cui avevano soggiornato lui e Saphira prima che Arya rompesse lo Zaffiro Stellato, e, più oltre, nel disco blu scuro del cielo, che sembrava distante al di là di ogni umana immaginazione, racchiuso dal cratere del Farthen Dûr, la montagna cava alta dieci miglia che celava Tronjheim al resto del mondo. Solo una scarsa quantità di luce solare giungeva fino alla base di Tronjheim. La Città dell'Eterno Crepuscolo, la chiamavano gli elfi. Fatta eccezione per un'abbagliante trentina di minuti prima e dopo mezzogiorno in piena estate, era così buio che i nani ne illuminavano gli interni con un numero infinito di lanterne senza fiamma. Ce n'erano a migliaia. Ne splendeva una sul lato esterno di ogni colonna a sostegno degli archi lungo ciascun livello della città-montagna, e ne erano state montate molte altre davanti all'ingresso di stanze misteriose e sconosciute e davanti a Vol Turin, la Scala Infinita, che saliva a spirale fino alla sommità. L'effetto era suggestivo e spettacolare. Le lanterne brillavano di mille colori, e sembrava che l'interno della camera fosse punteggiato di gemme luccicanti. Tanta meraviglia tuttavia impallidiva di fronte allo splendore di un vero gioiello, il più grande di tutti: Isidar Mithrim. Sul pavimento della camera i nani avevano costruito un'impalcatura di legno del diametro di sessanta piedi, e all'interno della gabbia di quercia fatta su misura stavano ricomponendo con la massima cura e delicatezza, pezzo per pezzo, lo Zaffiro Stellato. I frammenti erano conservati in scatole prive di coperchio riempite di lana grezza, ognuna con un'etichetta che recava scritta una fila di rune filiformi. Le scatole erano disposte lungo una vasta porzione del lato occidentale dell'ampia sala. Almeno trecento nani erano chini sopra di esse e si davano un gran daffare per riunire i frammenti e dare loro un ordine. Vicino all'impalcatura, un altro gruppo si prendeva cura della gemma scheggiata e costruiva strutture lignee. Eragon li osservò lavorare per qualche minuto, poi si avviò verso la sezione di pavimento che Durza aveva scalfito quando lui e i suoi guerrieri Urgali erano entrati a Tronjheim dai tunnel sotterranei. Con la punta dello stivale batté sulla pietra lucida. Non c'era più alcuna traccia del danno. I nani avevano fatto un lavoro splendido ed erano riusciti a cancellare le cicatrici lasciate dalla battaglia del Farthen Dûr, ma Eragon sperava che avrebbero commemorato l'evento con un cippo o una lapide, perché credeva importante che le generazioni future non dimenticassero il sanguinoso prezzo pagato dai nani e dai Varden nella lotta contro Galbatorix. Mentre camminava verso l'impalcatura, fece un cenno del capo a un nano smilzo dalle dita agili in piedi sopra una piattaforma affacciata sullo Zaffiro Stellato. Lo conosceva: era Skeg. Apparteneva al Dûrgrimst Gedthrall, ed era a lui che re Rothgar aveva affidato il restauro del tesoro più prezioso del suo popolo. Skeg gli fece segno di raggiungerlo. Mentre si arrampicava sulle assi grezze, Eragon si ritrovò di fronte una scintillante gamma di spire oblique e appuntite quanto aghi, di bordi luccicanti e sottili come carta e di superfici increspate. La parte superiore dello Zaffiro Stellato gli ricordava la patina ghiacciata del fiume Anora nella Valle Palancar alla fine dell'inverno, quando si era già sciolta e riformata diverse volte ed era pericoloso calpestarla a causa dei dossi e dei crepacci provocati dagli sbalzi di temperatura. L'unica differenza era che i resti dello zaffiro non erano bianchi, azzurri o trasparenti, ma di un delicato rosa screziato di arancio scuro. «Come va?» chiese Eragon. Skeg si strinse nelle spalle e sventolò in aria le mani come se fossero due farfalle. «Va come deve andare, Argetlam. Per ottenere la perfezione ci vuole tempo.» «A me sembra che stiate facendo grossi progressi, e in fretta, anche.» Con l'indice ossuto, Skeg si tamburellò il naso largo e piatto. «La parte superiore di Isidar Mithrim, che adesso vedi al contrario, si è rotta in pezzi grossi, dunque è facile rimetterli insieme. Ma il fondo...» Skeg scosse il capo; il suo viso rugoso era addolorato. «La forza dell'impatto, i pezzi che spingevano contro la faccia della gemma, che schizzavano via da Arya e dalla dragonessa Saphira, che cadevano su di te e su quello Spettro dal cuore nero... i petali si sono frantumati in schegge ancora più piccole. E proprio la rosa, Argetlam, è il fulcro della gemma. È la parte più complessa e più bella di Isidar Mithrim. Ed è ridotta in mille pezzi. Se non riusciamo a rimettere ogni minuscolo frammento al suo posto, tanto vale dare tutte le briciole a qualche gioielliere perché siano montati sugli anelli delle nostre madri.» Le parole gli sgorgavano di bocca come acqua da un boccale troppo colmo. Gridò qualcosa nella sua lingua a un nano che stava trasportando una scatola, poi si tirò la barba bianca e chiese a Eragon: «Ti hanno mai raccontato come fu tagliato Isidar Mithrim nell'Età di Herran?» Eragon esitò e ripensò alle lezioni di storia di quando era a Ellesméra. «So che è stato Dûrok.» «Sì, proprio Dûrok Ornthrond, Occhio di Lince, come direste nella vostra lingua. Non fu lui a scoprire lo zaffiro, però; lui si limitò a estrarlo dalla roccia, tagliarlo e lucidarlo. Trascorse cinquantasette anni a lavorare sulla Rosa Stellata. La gemma lo ammaliava più di qualsiasi altra cosa. Ogni notte si chinava su Isidar Mithrim e lavorava fino al mattino, poiché era deciso a creare non solo un'opera d'arte ma qualcosa che avrebbe toccato il cuore di chiunque l'avesse ammirata e che gli avrebbe garantito un posto d'onore al tavolo degli dei. Tale era la sua devozione che, dopo trentadue anni, quando sua moglie gli disse che l'avrebbe lasciato se non avesse condiviso l'impegno con i suoi apprendisti, Dûrok non disse una parola, le voltò le spalle e continuò a modellare i contorni di un petalo che aveva cominciato all'inizio dell'anno. «Dûrok tagliò Isidar Mithrim finché non fu soddisfatto di ogni linea e curva. Alla fine posò il panno con cui l'aveva lucidato, fece un passo indietro e disse: "Che Gûntera mi protegga, ho finito." E cadde a terra, senza vita.» Skeg si colpì il petto con un tonfo cupo. «Il suo cuore cedette. E comunque non avrebbe avuto motivo di vivere. Ecco che cosa stiamo cercando di ricostruire, Argetlam: cinquantasette anni di ininterrotta dedizione di uno dei più abili artisti che il nostro popolo abbia mai generato. Se non riusciamo a ricomporre Isidar Mithrim esattamente com'era, l'impresa di Dûrok risulterà sminuita agli occhi di chi ancora non ha ammirato la Rosa Stellata.» Si colpì la coscia con un pugno per dare più enfasi al concetto. Eragon si appoggiò alla balaustra davanti a sé, che gli arrivava ai fianchi, e osservò cinque nani dalla parte opposta della gemma calare a pochi piedi dai bordi affilati dello zaffiro un sesto nano legato a un'imbracatura di corda, che rovistò nella tunica, estrasse una scheggia di Isidar Mithrim da una bustina di pelle e, prendendola con minuscole pinze, la depositò in una piccola fessura sotto di sé. «Se l'incoronazione si tenesse fra tre giorni, Isidar Mithrim sarebbe pronto?» chiese Eragon. Skeg tamburellò con le dieci dita sulla balaustra una melodia che Eragon non riuscì a riconoscere. Poi rispose: «Se non fosse stato per l'offerta della tua dragonessa, non saremmo mai andati così spediti. Questa fretta ci è estranea, Argetlam. A differenza di voi umani, non è nella nostra natura correre a destra e a manca come formiche agitate. Tuttavia faremo del nostro meglio perché sia pronto in tempo per l'incoronazione. Fra tre giorni, hai detto? Be', se così fosse non mi farei troppe illusioni. Ma se si riuscisse a posticiparla alla fine della settimana, credo che potremmo farcela.» Eragon lo ringraziò per la sua previsione, poi si congedò. Seguito dalle guardie, andò verso uno dei tanti refettori della città-montagna, una stanza lunga e bassa con tavoli di pietra su un lato, e sull'altro forni di steatite presi d'assalto da nani affaccendati. Eragon consumò un lauto pasto a base di pane, pesce dei laghi sotterranei, funghi e una specie di purea di tubero che aveva già assaggiato a Tronjheim ma di cui ignorava la provenienza. Prima di cominciare a mangiare, però, servendosi degli incantesimi che gli aveva insegnato Oromis, controllò che il cibo non fosse avvelenato. Mentre inghiottiva l'ultima crosta di pane accompagnandola con un sorso di birra leggera e allungata con acqua, entrò Orik con un contingente di dieci guerrieri, che si disposero in modo da sorvegliare entrambi gli ingressi. Orik invece si sedette con un sospiro esausto sulla panca di pietra di fronte a Eragon. Puntò i gomiti sul tavolo e si strofinò il viso con le mani. Eragon pronunciò parecchi incantesimi per impedire che qualcuno origliasse, poi gli chiese: «Un'altra battuta d'arresto?» «No, no, niente affatto. È solo che queste consulte sono molto faticose.» «L'ho notato.» «E tutti hanno notato la tua delusione» rispose Orik. «D'ora in avanti devi controllarti di più, Eragon. Se riveli le tue debolezze non fai che avvalorare la loro causa. Io...» Tacque non appena un nano corpulento si avvicinò ciondolando e gli servì un piatto fumante. Eragon si accigliò. «Ma sei un po' più vicino al trono? Abbiamo guadagnato terreno dopo tutte queste chiacchiere estenuanti?» Masticando il pane, Orik alzò un dito. «E anche tanto, direi. Non essere così triste! Dopo che te ne sei andato, Havard ha acconsentito ad abbassare la tassa sul sale che il Dûrgrimst Fanghur vende all'Ingeitum in cambio dell'accesso estivo al nostro tunnel che porta a Nalsvrid-mérna, così potranno cacciare i cervi rossi che si radunano intorno al lago nei mesi più caldi dell'anno. Avresti dovuto vedere come ha digrignato i denti Nado quando Havard ha accettato la mia offerta!» «Bah!» sbottò Eragon. «Tasse, cervi... Che c'entra tutto questo con il successore di Rothgar? Sii sincero con me, Orik. Qual è la tua posizione rispetto agli altri capiclan? E fino a quanto si trascinerà questa storia? Ogni giorno che passa diventa sempre più probabile che l'Impero scopra la nostra messinscena e che Galbatorix attacchi i Varden mentre io non sono là a respingere Murtagh e Castigo.» Orik si pulì la bocca in un angolo della tovaglia. «La mia posizione è abbastanza salda. Nessun grimstborithn gode del sostegno necessario per chiedere il voto, ma io e Nado abbiamo il maggior seguito. Se uno di noi riuscirà a conquistarsi altri due o tre clan, la bilancia penderà subito a suo favore. Havard ha già molti dubbi. Non sarà così difficile convincerlo a passare dalla nostra parte. Stasera spezzeremo il pane insieme a lui e vedrò che cosa posso fare per incoraggiarlo.» Orik divorò un boccone di fungo arrosto, poi continuò: «Quanto alla fine della consulta, se siamo fortunati ci vorrà ancora una settimana, altrimenti due.» Eragon imprecò a fior di labbra. Era così teso che aveva lo stomaco sottosopra, che brontolava e minacciava di rigettare il pasto che aveva appena consumato. Orik tese un braccio e lo afferrò per un polso. «Non c'è niente che tu o io possiamo fare per accelerare la decisione, dunque non turbarti. Concentrati sulle cose che puoi cambiare e lascia che il resto faccia il suo corso, eh?» Poi lo lasciò andare. Eragon espirò lentamente e appoggiò gli avambracci sul tavolo. «Lo so. È che abbiamo pochissimo tempo, e se dovessimo fallire...» «Quel che sarà, sarà» rispose Orik, poi sorrise, ma aveva lo sguardo triste e vuoto. «Nessuno può sfuggire al fato.» «Non puoi prendere il trono con la forza? So che non ci sono abbastanza truppe a Tronjheim, ma con il mio aiuto chi potrebbe fermarti?» Orik si bloccò con il coltello a mezz'aria tra il piatto e la bocca, poi scosse il capo e riprese a mangiare. Tra un morso e l'altro disse: «Una manovra simile si rivelerebbe disastrosa.» «Perché?» «C'è davvero bisogno che te lo spieghi? Tutto il popolo ci si rivolterebbe contro e così, invece di assumere il controllo della nazione, erediterei un titolo senza valore. Se ciò dovesse accadere, non scommetterei nemmeno una spada sbeccata che arriveremmo a vedere il volgere dell'anno.» «Ah.» Orik non aggiunse altro finché non ebbe terminato il cibo che aveva nel piatto. Poi scolò una lunga sorsata di birra, ruttò e riprese: «Siamo in bilico su un ventoso sentiero di montagna, su entrambi i lati del quale si apre un dirupo profondo un miglio. Tra noi sono in molti a odiare e temere i Cavalieri dei Draghi a causa dei crimini che Galbatorix, i Rinnegati e ora anche Murtagh hanno commesso contro il nostro popolo. E sono in molti a temere il mondo oltre le montagne, i tunnel e le grotte in cui ci nascondiamo.» Fece ruotare il boccale sul tavolo. «Nado e l'Az Sweldn rak Anhûin non fanno che peggiorare la situazione. Giocano sulla paura dei loro affiliati e ne avvelenano la mente contro di te, i Varden e re Orrin... L'Az Sweldn rak Anhûin è l'incarnazione di tutto ciò che bisognerà eliminare se dovessi diventare re. In un modo o nell'altro dobbiamo trovare un sistema per dissipare le preoccupazioni loro e di quelli come loro: anche una volta sul trono dovrò ascoltarli per non perdere l'appoggio dei clan. Per quanto forte, un re o una regina è sempre alla mercé dei clan, così come i grimstborithn sono alle mercé delle famiglie appartenenti al loro clan.» Orik rovesciò indietro la testa e scolò la birra, poi posò la tazza sul tavolo con uno schiocco sonoro. «C'è qualcosa che potrei fare, qualche tradizione da onorare o qualche cerimonia da officiare per placare le ire di Vermûnd e dei suoi seguaci?» chiese Eragon, riferendosi al capo dell'Az Sweldn rak Anhûin. «Ci Orik rise e si alzò. «Potresti morire.» L'indomani mattina presto, Eragon si sedette contro la parete ricurva della stanza circolare sotto il centro di Tronjheim insieme a un gruppo scelto di guerrieri, consiglieri, servitori e membri delle famiglie dei capiclan che avevano il privilegio di assistere alla consulta. I capiclan erano seduti su scranni intarsiati di legno massiccio intorno a un tavolo circolare che, come la maggior parte degli oggetti pregiati nei livelli più bassi della cittàmontagna, recava l'insegna di Korgan e dell'Ingeitum. Al momento aveva la parola Gàldhiem, il grimstborith del Drûmgrimst Feldûnost. Era basso, perfino per un nano - non superava i due piedi di altezza - e indossava una veste ricamata d'oro, rosso scuro e blu notte. A differenza dei membri dell'Ingeitum, non si tagliava né si intrecciava la barba, che gli penzolava sul petto come un intrico di rovi. In piedi sulla sedia, picchiò il pugno guantato sul tavolo lustro e ruggì: «Eta! Narho ûdim etal os isû vond! Narho ûdim etal os formvn mendûnost brakn, az Varden, hrestvog dûr grimstnzhadn! Az Jurgenvren qathrid né dômar oen etal...» «No» sussurrò nell'orecchio a Eragon il suo interprete, un certo Hûndfast. «Non permetterò che accada. Non lascerò che quegli sciocchi imberbi dei Varden distruggano il nostro paese. La Guerra dei Draghi ci ha indeboliti e non...» Annoiato, Eragon trattenne a stento uno sbadiglio. Passò in rassegna uno per uno i nani seduti al tavolo di granito. Si soffermò su Nado, che aveva il volto tondo e i capelli biondo chiaro e annuiva in segno di approvazione al discorso tonante di Gàldhiem; poi su Havard, che si puliva con la punta di un pugnale le unghie delle due dita rimastegli nella mano destra; su Vermûnd, imperscrutabile dietro il velo viola, a parte la fronte corrucciata; su Gannel e Ûndin, che bisbigliavano tra loro mentre Hadfala, una nana di una certa età a capo del Dûrgrimst Ebardac, il terzo membro dell'alleanza di Gannel, guardava accigliata la pergamena fitta di rune che portava con sé a ogni incontro; infine su Manndraâth, il capo del Dûrgrimst Ledwonnû, seduto di profilo, il lungo naso adunco in bella mostra; su Thordris, la grimstcarvlorss del Drûmgrist Nagra, di cui vedeva solo gli ondulati capelli rossicci, raccolti in una treccia lunga due volte lei che le scendeva oltre le spalle e si raccoglieva sul pavimento; sul retro della testa di Orik, seduto di lato; su Freowin, grimstborith del Dûrgrimst Gedthrall, un nano molto corpulento con gli occhi fissi sul ceppo di legno che stava intagliando a forma di corvo ingobbito; poi su Reidamar, capo del Dûrgrimst Urzhad che rispetto a Freowin era asciutto e in ottima forma, aveva gli avambracci muscolosi e indossava usbergo di maglia ed elmo a ogni riunione; infine su Íorûnn, che possedeva una bella carnagione nocciola scuro sciupata da una sottile cicatrice a forma di mezzaluna sopra lo zigomo sinistro; che aveva i capelli setosi e lucenti raccolti sotto un elmo d'argento cesellato a forma di testa di lupo ringhioso; che indossava una veste vermiglia e una collana di scintillanti smeraldi incastonati in quadrati d'oro su cui erano incisi i tratti di arcane rune. Íorûnn si accorse che Eragon la stava guardando e subito le si dipinse sulle labbra un sorriso pigro. Con voluttuosa naturalezza ammiccò verso di lui, chiudendo uno degli occhi a mandorla per un paio di istanti. Eragon arrossì; si sentiva pizzicare le guance e gli scottava la punta delle orecchie. Distolse lo sguardo e lo posò di nuovo su Gàldhiem, ancora impegnato a pontificare, il petto in fuori simile a quello di un piccione impettito. Come gli aveva chiesto Orik, rimase impassibile per tutta la durata dell'incontro, nascondendo le proprie reazioni ai presenti. Quando la riunione si interruppe per il pasto, raggiunse di corsa Orik e gli sussurrò all'orecchio, così che nessuno potesse sentire: «Non aspettarmi al tuo tavolo. Ne ho abbastanza di stare seduto a sentire fandonie. Vado a esplorare i tunnel sotterranei.» Orik annuì, distratto, poi gli disse: «Fa' come vuoi. Cerca solo di essere qui alla ripresa dei lavori; per quanto possano essere noiose queste discussioni, non sarebbe conveniente se le perdessi.» «Come vuoi.» Eragon scivolò fuori dalla sala insieme alla calca di nani ansiosi di pranzare e si riunì alle quattro guardie in corridoio, che stavano giocando a dadi con alcuni guerrieri oziosi appartenenti ad altri clan. Con le guardie al seguito, Eragon prese una direzione a caso e si lasciò guidare dai piedi; intanto architettava diversi metodi per unire le varie fazioni avversarie in una sola contro Galbatorix. Esasperato, arrivò alla conclusione che erano tutti troppo forzati: era assurdo credere che avrebbero funzionato. Eragon prestò ben poca attenzione ai nani che incontrava nei tunnel, a parte bofonchiare qualche saluto di tanto in tanto, come richiedevano le minime regole di cortesia, fiducioso che Kvîstor avrebbe saputo riportarlo nella sala della consulta. Pur non osservando l'ambiente circostante nei minimi dettagli, seguì ogni creatura vivente che riusciva a sentire nel raggio di parecchie centinaia di piedi, fino al più minuscolo ragno dietro la ragnatela nell'angolo di una stanza, per non farsi sorprendere. Quando finalmente si fermò, fu stupito di ritrovarsi nella stessa stanza polverosa che aveva scoperto nei vagabondaggi del giorno prima. A sinistra c'erano gli stessi cinque archi neri che conducevano a caverne sconosciute, a destra il bassorilievo che ritraeva la testa e le spalle di un orso inferocito. Divertito da quella coincidenza, si avvicinò alla scultura di bronzo e guardò le fauci scintillanti dell'animale, chiedendosi che cosa l'avesse riportato proprio lì. Un momento dopo sbirciò nel corridoio che si apriva oltre l'arco centrale. L'angusto passaggio era privo di lanterne e sprofondava nel dolce oblio dell'oscurità. Espandendo la mente, Eragon ispezionò tutto quel tunnel e parecchie altre sale abbandonate su cui si apriva. Gli unici abitanti erano cinque o sei ragni e una moltitudine di falene, millepiedi e grilli ciechi. «C'è nessuno?» gridò Eragon, poi tese l'orecchio mentre il corridoio gli restituiva l'eco della sua voce via via più bassa. «Kvîstor, in quest'ala antica non vive nessuno?» chiese alla guardia. Il nano rispose: «Sì, qualcuno c'è. Qualche bizzarro knurlan, per esempio, che preferisce la solitudine al tocco della mano di una moglie o al suono di una voce amica. Se ti ricordi, Argetlam, fu proprio uno di loro ad avvisarci dell'arrivo degli Urgali. Inoltre, benché non ne parliamo spesso, qui sotto vive chi ha infranto le leggi della nostra terra ed è stato bandito dal proprio capoclan, a rischio di pena di morte per un anno o, se l'offesa è grave, per il resto della vita. Per noi sono come morti viventi; se li incrociamo fuori dalle nostre terre, li evitiamo, e se li scopriamo entro i nostri confini, li impicchiamo.» Quando Kvîstor ebbe finito di parlare, Eragon gli fece capire che era pronto per andarsene. La guardia si mise alla testa del gruppo e il Cavaliere la seguì oltre la porta dalla quale erano entrati, con gli altri tre alle loro spalle. Non avevano percorso più di venti piedi quando Eragon sentì dietro di sé un flebile rumore di passi strascicati, così sommesso che Kvîstor non parve nemmeno sentirlo. Si voltò. Alla luce ambrata delle lanterne senza fiamma montate su entrambi i lati del corridoio vide correre verso di loro sette nani vestiti di nero, il viso coperto da maschere anch'esse nere e i piedi avvolti in stracci, a una velocità che pensava fosse di dominio esclusivo degli elfi, degli Spettri e di altre creature nel cui sangue scorre la magia. Nella destra tenevano lunghi pugnali affilati con pallide lame che scintillavano multicolori, come prismi, e nella sinistra scudi di metallo dalla cui borchia si levavano punte aguzze. Le loro menti, come quelle dei Ra'zac, erano inaccessibili. fu il suo primo pensiero; poi si ricordò che era solo. Voltandosi per fronteggiare i nani vestiti di nero, Eragon portò la mano all'elsa del falcione e fece per avvisare i suoi compagni. Troppo tardi. Mentre la prima parola gli risuonava ancora in gola, tre di quegli strani nani afferrarono l'ultima delle guardie e la colpirono con i pugnali scintillanti. Più veloce di ogni discorso o pensiero consapevole, Eragon si immerse nel flusso della magia con tutto se stesso e senza affidarsi all'antica lingua per dare forma al suo incantesimo modificò la trama del mondo in uno schema a lui più gradito. Le tre guardie tra lui e gli assalitori, quasi attirate da fili invisibili, gli precipitarono ai piedi, incolumi ma disorientate. Eragon sussultò per l'improvviso calo di forza. Due nani vestiti di nero gli si avventarono contro e cercarono di colpirlo al ventre con i loro pugnali assetati di sangue. Brandendo il falcione, schivò entrambi i colpi, sbalordito dalla rapidità e dalla ferocia degli aggressori. Una delle sue guardie balzò in avanti, gridando e facendo roteare l'ascia contro i potenziali assassini. Prima che Eragon potesse afferrarla per l'usbergo di maglia e metterla al sicuro, una lama bianca, che si contorceva come una fiamma spettrale, le trapassò il collo muscoloso. Mentre il nano cadeva, Eragon scorse il suo viso e rimase sconvolto nello scoprire che si trattava di Kvîstor; la gola, squarciata dal pugnale, brillava di un liquido rosso. Infuriato per la morte di Kvîstor, colpì l'assassino così in fretta che non ebbe nemmeno il tempo di scansarsi e gli crollò ai piedi senza vita. «Restate dietro di me!» gridò Eragon con tutta la sua forza alle altre guardie. Via via che la sua voce riverberava lungo il corridoio, sul pavimento e sulle pareti si aprirono sottili crepe e dal soffitto caddero scaglie di pietra. I nani all'attacco esitarono di fronte al potere sconfinato della sua voce; poi ripresero l'offensiva. Eragon indietreggiò di parecchie iarde in modo da avere abbastanza spazio per reagire senza essere intralciato dai cadaveri, poi si accucciò e brandì il falcione facendolo oscillare avanti e indietro, come un serpente pronto ad attaccare. Il cuore gli batteva al doppio della velocità e nonostante il combattimento fosse appena cominciato già gli mancava il respiro. Il corridoio era largo otto piedi, abbastanza perché i sei nemici che restavano lo potessero attaccare tutti insieme. Si separarono: due tentarono di colpirlo ai fianchi, uno a destra e l'altro a sinistra, mentre il terzo si lanciò alla carica, colpendolo alle braccia e alle gambe a velocità frenetica. Non volendo affrontare quei nani come avrebbe fatto se avessero brandito normali spade, Eragon si chinò per prendere lo slancio e balzò in avanti, poi fece una mezza giravolta e colpì il soffitto con i piedi. Con un'altra mezza giravolta atterrò carponi una iarda dietro di loro. Mentre gli si scagliavano contro, Eragon avanzò di un passo e li decapitò con un solo colpo di rovescio. I pugnali caddero a terra tintinnando un istante prima delle teste. Superando con un salto i corpi mutilati, Eragon si volse mentre era ancora in volo e atterrò nel punto da cui era partito. Appena in tempo. Un soffio di vento gli solleticò il collo quando la punta di un pugnale gli sfiorò la gola. Un'altra lama gli lacerò il risvolto dei pantaloni. Eragon trasalì e fece roteare il falcione, cercando di guadagnare spazio per combattere. Posò il piede in una pozza di sangue vischioso e scivolò, cadendo di schiena e lasciandosi sfuggire un grido. Batté la testa sul pavimento di pietra e il colpo gli diede subito la nausea. Lucine azzurre presero a balenargli davanti agli occhi. Si sentì mancare il respiro. Le tre guardie sopravvissute balzarono sopra di lui e insieme fecero roteare le asce per proteggerlo ed evitare il morso dei pugnali luccicanti. Eragon non impiegò molto a riprendersi. Balzò in piedi e rimproverandosi per non averci pensato prima gridò un incantesimo intessuto con nove delle dodici parole di morte che Oromis gli aveva insegnato. Tuttavia dovette abbandonare la magia subito dopo averla liberata, perché i nani vestiti di nero erano protetti da numerose difese. Se avesse avuto qualche minuto in più, forse sarebbe riuscito ad aggirarle o a sconfiggerle, ma in quella battaglia dove ogni istante sembrava durare un'ora ci sarebbero voluti giorni. Avendo fallito con la magia, concentrò i pensieri in una lancia solida come il ferro e la scagliò dove avrebbe dovuto trovarsi la coscienza di uno dei nani, ma la sua energia fu respinta da una sorta di armatura mentale diversa da tutte quelle che il Cavaliere aveva visto prima di allora: liscia e senza giunture, immune dalle preoccupazioni tipiche di una creatura mortale impegnata in una lotta all'ultimo sangue. Puntando un piede, scattò in avanti e con il falcione trafisse il primo in un ginocchio, che prese a sanguinare. Il nano barcollò e le guardie di Eragon puntarono su di lui, afferrandolo per le braccia, così che non potesse brandire la malefica lama, poi lo abbatterono con le asce. Il più vicino degli ultimi due assalitori alzò lo scudo per parare il colpo che Eragon stava per assestargli. Facendo appello a tutte le sue forze, il Cavaliere cercò di spezzare in due lo scudo e il braccio che lo reggeva, come aveva fatto spesso con Zar'roc, ma nella concitazione del momento non aveva tenuto conto dell'inesplicabile rapidità dei nani. Vedendo il falcione avvicinarsi al bersaglio, il nano inclinò lo scudo di lato in modo da deviare il colpo. Il falcione rimbalzò sulla superficie e poi sulla punta d'acciaio dello scudo, sollevando due sbuffi di scintille. Il contraccolpo fu più forte del previsto e il falcione andò a conficcarsi nella parete, trascinando con sé il braccio di Eragon. Con un suono cristallino, la lama si frantumò in una decina di pezzi. Dall'elsa spuntava ormai solo un punteruolo di metallo sbeccato lungo sei pollici. Sgomento, Eragon lasciò cadere l'arma ormai inutilizzabile, afferrò il bordo dello scudo del nano e lo strattonò avanti e indietro, cercando con ogni mezzo di frapporlo tra sé e il pugnale impreziosito da un alone di colori traslucidi. Il nano era incredibilmente forte; rispondeva colpo su colpo a tutti gli affondi di Eragon e riuscì perfino a farlo indietreggiare di un passo. Liberando la mano destra ma tenendo ancora lo scudo con la sinistra, Eragon caricò il braccio libero e lo colpì con più forza possibile, perforando l'acciaio temprato come se fosse di legno marcio. Grazie ai calli sulle nocche, non provò alcun dolore. La forza del colpo scaraventò il nano contro la parete opposta. La testa ciondolante sull'osso del collo rotto, cadde al suolo come una marionetta a cui siano stati tagliati i fili. Eragon estrasse la mano dal foro irregolare nello scudo, graffiandosi con il metallo ritorto, e sfoderò il coltello da caccia. Un attimo dopo l'ultimo dei nani vestiti di nero gli si avventò addosso. Eragon schivò il suo pugnale due, tre volte, e infine gli trapassò la manica imbottita, provocandogli un taglio dal gomito al polso. Il nano sibilò di dolore, gli occhi azzurri inferociti sotto la maschera di tessuto. Gli assestò una serie di affondi: il suo pugnale fischiava nel vuoto così veloce da essere quasi invisibile, e infatti Eragon dovette balzare via per evitare quella lama mortale. Il nano non si arrese. Eragon riuscì a schivarlo per diverse iarde, poi nel tentativo di aggirare un cadavere inciampò, finì contro una parete ferendosi la spalla e cadde. Con una risata malvagia, il nano balzò, abbassando il pugnale verso il petto indifeso di Eragon che, levando un braccio nel futile tentativo di proteggersi, rotolò lungo il corridoio. Sapeva bene di avere esaurito le sue riserve di fortuna e di non poter più fuggire. Fatto un giro su se stesso, si ritrovò faccia a faccia con il nano e scorse il pallido pugnale abbattersi su di lui come un fulmine dal cielo. Poi, con suo grande stupore, la punta della lama sfregò contro una delle lanterne senza fiamma montate alle pareti. Eragon si voltò e fuggì prima di vedere che cosa sarebbe accaduto, ma un istante dopo gli parve che una mano incandescente lo colpisse da dietro, scaraventandolo per una ventina di piedi lungo il corridoio, contro lo spigolo di un arco. L'urto gli provocò una nuova serie di tagli e ferite. Un boato lo assordò; come se qualcuno gli infilasse delle schegge nei timpani. Eragon si coprì le orecchie con le mani, si rannicchiò e prese a ululare. Quando il frastuono e il dolore furono cessati, abbassò le mani e si rimise in piedi barcollando, stringendo i denti via via che le ferite si destavano con una miriade di sensazioni poco piacevoli. Stordito e confuso, osservò il luogo dov'era avvenuta l'esplosione. Il corridoio era annerito di fuliggine per un tratto di almeno dieci piedi. Morbidi fiocchi di cenere fluttuavano nell'aria, calda come all'interno di una forgia accesa. Il nano che aveva tentato di colpirlo giaceva a terra tra gli spasmi, il corpo ricoperto di ustioni. Una convulsione, un'altra ancora, e poi giacque immobile. Le tre guardie di Eragon erano state scaraventate fin dove arrivava la fuliggine. Le vide alzarsi a tentoni, le orecchie e le bocche spalancate che sanguinavano, le barbe bruciacchiate e scompigliate. L'orlo delle cotte era incandescente, ma a quanto pareva il rivestimento di pelle sotto l'armatura li aveva protetti dal calore. Eragon fece un passo avanti, poi si fermò e gemette per una lancinante fitta di dolore in mezzo alle scapole. Cercò di ruotare il braccio all'indietro per verificare l'entità della ferita, ma più la pelle si tendeva più il dolore diventava insopportabile. Sul punto di perdere i sensi, si appoggiò alla parete. Guardò di nuovo il nano carbonizzato. Si sforzò di concentrarsi e recitò due degli incantesimi per guarire le bruciature che gli aveva insegnato Brom durante il loro viaggio. Quando cominciarono a fare effetto, fu come se dell'acqua fredda gli scorresse sulla schiena, alleviando il bruciore. Trasse un sospiro di sollievo e si raddrizzò. «Siete feriti?» chiese ai soldati che avanzavano verso di lui zoppicando. Il primo nano si incupì, si toccò l'orecchio destro e scosse la testa. Eragon imprecò a fior di labbra e solo allora si accorse che non poteva sentirlo. Attingendo di nuovo alle scorte di energia del suo corpo, pronunciò un incantesimo per restituire l'udito a tutti. Mentre la magia volgeva al termine, un prurito irritante gli si insinuò nelle orecchie per poi svanire insieme all'incantesimo. «Siete feriti?» Il nano sulla destra, un soldato corpulento con la barba biforcuta, tossì e sputò un grumo di sangue rappreso, poi grugnì: «Niente che il tempo non possa curare. E tu, Ammazzaspettri?» «Sopravviverò.» Tastando il terreno a ogni passo, Eragon si avventurò nell'area annerita e si inginocchiò accanto a Kvîstor, sperando di poter salvare il nano dalla stretta della morte, ma dopo aver contemplato di nuovo le sue ferite capì che era impossibile. Chinò il capo, amareggiato dal ricordo del recente spargimento di sangue. Si rialzò. «Perché la lanterna è esplosa?» «Sono piene di calore e di luce, Argetlam, e se si rompono tutto fuoriesce all'istante. Quando succede è meglio non farsi trovare nei paraggi» rispose una delle guardie. Indicando i cadaveri degli assalitori, Eragon chiese: «Sapete a quale clan appartengono?» Il nano con la barba biforcuta rovistò tra i vestiti e poi esclamò: «Barzûl! Non portano insegne riconoscibili, Argetlam, ma indossano questo.» Mostrò un braccialetto di crini di cavallo intrecciato e luccicanti gemme lisce di ametista. «Che cosa significa?» «Questa particolare varietà di ametista» spiegò il nano, picchiettando su una delle gemme con un'unghia sporca di fuliggine «si trova solo in quattro punti dei Monti Beor, tre dei quali appartengono all'Az Sweldn rak Anhûin.» Eragon si accigliò. «È stato Grimstborith Vermûnd a ordinare questo attacco?» «Non posso dirlo con certezza, Argetlam. Forse questi braccialetti sono stati lasciati da un altro clan per far ricadere la colpa dell'aggressione su Vermûnd. Ma... se dovessi, scommetterei un carico d'oro che i responsabili sono gli Az Sweldn rak Anhûin.» «Che siano maledetti, chiunque siano» mormorò Eragon. Per far cessare il tremore alle mani strinse i pugni. Con lo stivale scostò uno dei pugnali multicolori degli assassini. «Gli incantesimi che proteggevano queste armi e quegli... quegli uomini...» - li indicò con un cenno del capo - «... sì, insomma, uomini, nani, qualunque cosa siano, devono aver richiesto un'enorme quantità di energia, e non riesco nemmeno a immaginare quanto debba essere complessa la formula magica. Pronunciarla dev'essere stato difficile e pericoloso...» Eragon fissò le guardie a una a una e poi disse: «Non lascerò che questo attacco e la morte di Kvîstor rimangano impuniti, lo giuro davanti a voi. Quando scoprirò quale - o quali - clan hanno assoldato questi assassini dalla faccia di sterco, quando avrò appreso i loro nomi, i colpevoli rimpiangeranno di aver solo pensato di colpire me e di conseguenza il Dûrgrimst Ingeitum. Ve lo giuro come Cavaliere dei Draghi e membro effettivo del clan, e se qualcuno ve lo chiede, ripeterò il mio giuramento davanti a chiunque.» I nani si inchinarono e quello con la barba forcuta ribatté: «Ai tuoi ordini, Argetlam. Onori la memoria di Rothgar con le tue parole.» Poi un altro aggiunse: «Qualunque clan sia stato, ha violato le leggi dell'ospitalità; ha attaccato un ospite. Definirli sorci sarebbe un complimento; sono Eragon camminò fino ai resti del suo falcione. Si inginocchiò nella fuliggine e con la punta di un dito toccò uno dei pezzi di metallo, seguendone il profilo sbeccato. E poi: ♦ ♦ ♦ UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA Il caldo vento del mattino che soffiava sulla pianura, del tutto diverso da quello che soffiava sulle colline, cambiò. Saphira aggiustò l'angolazione delle ali per compensare il cambio di velocità e di pressione dell'aria che sosteneva il suo peso, migliaia di piedi sopra la terra bagnata dal sole. Chiuse le doppie palpebre per un momento, crogiolandosi nel soffice letto del vento e nel calore dei raggi mattutini che cadevano sul suo lungo corpo sinuoso. Immaginò come la luce facesse scintillare le sue squame, e la meraviglia di quanti la vedevano volare in circolo nel cielo, e canticchiò di piacere, felice, perché sapeva di essere la creatura più bella di tutta Alagaësia. Chi poteva sperare di eguagliare la magnificenza delle sue squame, della sua lunga coda affusolata, delle sue ali, così eleganti e ben fatte, degli artigli ricurvi e delle lunghe zanne bianche con cui poteva spezzare il collo di un bue selvatico in un solo morso? Certo non Glaedr dalle squame d'oro, che aveva perso una zampa in occasione della caduta dei Cavalieri. E nemmeno Castigo o Shruikan, perché erano entrambi schiavi di Galbatorix e la servitù forzata ne aveva distorto la mente. Un drago che non è libero di fare ciò che vuole non è più un drago. E poi erano maschi e per quanto un maschio potesse essere maestoso, non sarebbe mai riuscito a incarnare lo stesso ideale di bellezza. No, era la creatura più meravigliosa di tutta Alagaësia, e così doveva essere. Saphira si scrollò per l'eccitazione dalla base del collo fino alla punta della coda. Era un giorno perfetto. Il calore del sole la faceva sentire avvolta in un nido di braci. Aveva la pancia piena, il cielo era terso e non doveva occuparsi di null'altro se non di stare in guardia da eventuali nemici desiderosi di combattere, ma lo faceva comunque, per abitudine. Tanta felicità aveva solo un difetto, ma era un difetto vistoso, e più ci rifletteva più la sua insoddisfazione cresceva; avrebbe voluto che Eragon fosse lì a condividere quella giornata con lei. Grugnì e lanciò a fauci strette una breve fiammata azzurra, riscaldando l'aria davanti a sé, poi serrò la gola, tranciando di netto la corrente di fuoco liquido. Le pizzicava la lingua per via delle fiamme. Quando Eragon, il suo compagno di mente e di cuore, si sarebbe messo in contatto con Nasuada da Tronjheim? Quando le avrebbe chiesto di raggiungerlo? Lei aveva insistito perché obbedisse alla regina e andasse tra quelle montagne, così alte che nemmeno lei riusciva a raggiungerne la vetta, ma era trascorso troppo tempo e ora provava un senso di freddo e vuoto allo stomaco. Saphira grugnì di nuovo e tentò di azzannare un passerotto tanto folle da volare troppo vicino a lei. Lo mancò, e il pennuto schizzò via e continuò per la sua strada indisturbato, inasprendo l'umore già pessimo della dragonessa. Per un momento considerò l'idea di inseguirlo, poi decise che non valeva la pena di affannarsi tanto per quell'insignificante mucchietto di ossa e piume. Non era un granché nemmeno come spuntino. Seguendo la direzione del vento e piegando la coda dalla parte opposta per facilitare la virata, fece un giro su se stessa ed esaminò il terreno sottostante e le piccole creature che correvano a nascondersi alla sua vista aguzza da cacciatrice. Perfino da quell'altezza - migliaia di piedi - riuscì a contare quante penne aveva sul dorso un piccolo di falco che volava rasente ai campi di grano a ovest del fiume Jiet. Vide l'ammasso sfuocato di pelo marrone di un coniglio che correva a mettersi in salvo nella tana. Distinse il piccolo branco di cervi accucciati sotto i rami dei cespugli di ribes lungo un emissario del fiume Jiet. E udì i versi acuti degli animali spaventati che allertavano i propri simili della sua presenza. Quelle grida incerte la gratificavano; era giusto che il suo cibo avesse paura di lei. Se mai fosse stato il contrario, avrebbe capito che era giunta l'ora di morire. Una lega più in là, risalendo la corrente, i Varden erano ammassati a ridosso del fiume come un branco di cervi rossi sul ciglio di una scogliera. Erano arrivati al guado il giorno prima e da allora forse un terzo degli uomini e degli Urgali - che erano amici - e dei cavalli - che non poteva mangiare - l'aveva già attraversato. L'esercito si muoveva così a rilento che a volte Saphira si chiedeva se gli umani trovassero il tempo di fare altre cose oltre a viaggiare, considerata la brevità delle loro vite. Un fugace movimento a nord-est catturò la sua attenzione, così virò, incuriosita. Vide una fila di quarantacinque cavalli esausti avanzare a fatica verso i Varden. La maggior parte era senza cavaliere, dunque passò un'altra mezz'ora prima che le venisse in mente che si poteva trattare del gruppo di Roran di ritorno dall'incursione, e a quel punto ormai i volti dei cavalieri erano ben visibili. Si domandò che cosa fosse successo per ridurre in quel modo il numero dei soldati e provò una momentanea fitta di inquietudine. Non era legata a Roran, ma Eragon gli voleva bene e tanto bastava perché anche lei se ne preoccupasse. Espandendo la propria coscienza verso il gruppo scompaginato di Varden, cercò la musica della mente di Arya, e non appena l'elfa si accorse della sua presenza e le concesse di accedere ai suoi pensieri, le disse: Non appena si fu allontanata dalla mente di Arya, sentì il tocco indagatore di Blödhgarm, l'elfo con la pelliccia da lupo. Inarcò le ali, che si fecero più tese a mano a mano che il vento premeva con immensa forza contro le membrane. Rallentò fin quasi a fermarsi, poi accelerò di nuovo, galleggiando un centinaio di piedi sopra l'acqua marrone. Battendo le ali di tanto in tanto per restare in quota, risalì il fiume, attenta a eventuali sbalzi di pressione dell'aria fresca che avrebbero potuto sospingerla in una direzione inaspettata o, peggio ancora, contro gli alberi aguzzi o il duro suolo. Sorvolò i Varden radunati accanto al fiume, abbastanza in alto perché il suo arrivo non spaventasse i loro stupidi cavalli. Poi, planando, atterrò in uno spiazzo vuoto tra le tende che Nasuada aveva ordinato di ricavare apposta per lei e attraversò l'accampamento fino alla tenda di Eragon, dove Blödhgarm e gli altri undici elfi al suo comando la stavano aspettando. Li salutò strizzando l'occhio e schioccando la lingua, poi si accoccolò davanti alla tenda, rassegnata ad appisolarsi in attesa che facesse buio, proprio come avrebbe fatto se lei ed Eragon fossero dovuti partire per una delle solite missioni notturne. Stare lì distesa giorno dopo giorno era noioso, ma anche indispensabile per far credere a tutti che Eragon era ancora tra i Varden; dunque non si lamentava, anche se dopo dodici o più ore passate sulla dura terra a inzaccherarsi le squame si sentiva come se avesse combattuto contro un migliaio di soldati, distrutto una foresta a colpi di zanne, artigli e fiamme, volato fino alla nausea o raggiunto i confini di terra, acqua e aria. Borbottando tra sé, raspò con gli artigli per rendere un po' più soffice il giaciglio, infine appoggiò il muso sulle zampe distese e chiuse le palpebre interne per riposare e insieme tenere d'occhio chi si avvicinava. Una libellula le ronzò sopra la testa e per l'ennesima volta Saphira si domandò chi fosse stato così folle da dare a quegli stupidi insetti alati un nome tanto leggiadro. Quando sentì gli schiamazzi e le grida di benvenuto, da cui dedusse che Roran e i suoi compagni avevano raggiunto l'accampamento, il grande disco infuocato del sole era prossimo all'orizzonte. Si alzò. Come già in precedenza, Blödhgarm per metà cantò e per metà sussurrò un incantesimo con cui creò un sosia immateriale di Eragon, che poi fece uscire dalla tenda e salire sul dorso della dragonessa, un'imitazione perfetta che pareva dotata di vita propria. A prima vista l'apparizione era impeccabile, ma non aveva una sua coscienza, e se qualcuno degli agenti di Galbatorix avesse cercato di ascoltarne i pensieri avrebbe scoperto l'inganno all'istante. Il successo della messinscena dipendeva dunque da Saphira, che doveva trasportare il fasullo Eragon per tutto l'accampamento e farlo sparire il più in fretta possibile, e dalla speranza che la reputazione del Cavaliere fosse così formidabile da scoraggiare eventuali spioni clandestini intenzionati a carpirgli informazioni sui Varden. Saphira si avviò a grandi falcate per l'accampamento, con i dodici elfi che correvano stretti attorno a lei. Al suo passaggio, gli uomini si facevano da parte e gridavano: «Salute a te, Ammazzaspettri!» e «Salute a te, Saphira!», e lei sentì accendersi nella pancia un tiepido calore. Quando arrivò al padiglione di Nasuada, rosso come la crisalide di una farfalla, si accovacciò e infilò la testa nella solita fessura. Blödhgarm riattaccò con il suo dolce canto e il sosia di Eragon scese dalla dragonessa, entrò e non appena fu al sicuro dalla vista dei curiosi che sbirciavano si dissolse nel nulla. «Credi che ci abbiano scoperti?» gli chiese Nasuada dal suo alto scranno. L'elfo fece un elegante inchino. «Non ne sono sicuro, Lady Nasuada. Prima di poter rispondere alla tua domanda, dobbiamo aspettare di vedere se l'Impero fa qualche mossa per sfruttare l'assenza di Eragon.» «Grazie, Blödhgarm. È tutto.» Con un altro inchino l'elfo si ritirò e prese posizione diverse iarde dietro Saphira, proteggendole il fianco. Saphira si accoccolò sulla pancia e cominciò a leccarsi le squame intorno al terzo artiglio della zampa davanti, dove si erano accumulate orrende strisce bianche: l'argilla secca in cui ricordava di essersi impantanata mentre mangiava l'ultima preda. Meno di un minuto dopo, Martland Barbarossa, Roran e un altro uomo che non riconobbe entrarono nel padiglione rosso e si inchinarono a Nasuada. Saphira interruppe le pulizie per saggiare l'aria con la lingua e colse l'odore aspro del sangue rappreso e quello acre del sudore, il puzzo dei cavalli misto all'aroma del cuoio e, debole ma inequivocabile, l'intenso, pungente afrore della paura. Riesaminò il terzetto e vide che l'uomo con la lunga barba rossa aveva perso la mano destra, poi tornò a staccarsi l'argilla dalle squame. Mentre Saphira riportava ogni squama all'originaria brillantezza, prima Martland, poi l'altro uomo, Ulhart, e infine Roran narrarono una storia di sangue e armi e uomini che ridevano e si rifiutavano di morire quando giungeva la loro ora ma insistevano nel voler combattere perfino dopo che Angvard li aveva richiamati a sé. Com'era sua abitudine, Saphira rimase in silenzio mentre Nasuada e Jörmundur, il suo consigliere alto e magro, domandavano ai guerrieri i dettagli di quella missione sventurata. Sapeva che a volte Eragon si stupiva che non partecipasse più attivamente alle conversazioni. I motivi del suo silenzio erano semplici: prima di tutto si sentiva a suo agio solo quando comunicava con Eragon, Arya o Glaedr, e poi secondo lei la maggior parte delle discussioni non erano altro che inutili perdite di tempo. Che avessero le orecchie rotonde o a punta, le corna o fossero bassi, i bipedi le sembravano dei perditempo senza speranza. Brom non aveva mai esitato: ecco perché le piaceva tanto. Per lei le scelte erano facili: se c'era qualcosa che poteva fare per migliorare la situazione, lo faceva, altrimenti no, e ogni altra parola spesa sull'argomento era inutile rumore. Non si preoccupava mai del futuro, tranne quando si trattava di Eragon. Concluse le domande, Nasuada espresse il proprio dispiacere a Martland per l'incidente alla mano, poi congedò lui e Ulhart, ma non Roran, a cui disse: «Hai dimostrato ancora una volta il tuo valore, Fortemartello. Sono molto fiera di te.» «Grazie, mia signora.» «I nostri migliori guaritori si occuperanno di lui, però Martland avrà comunque bisogno di molto tempo per riprendersi. E non può comandare incursioni simili con una mano sola. Da questo momento dovrà servire i Varden dalle retrovie, non più in prima linea. Potrei fargli avere una promozione e nominarlo mio consigliere militare. Jörmundur, che cosa ne pensi?» «Un'idea eccellente, mia signora.» Nasuada annuì soddisfatta. «Ciò significa che devo trovare un altro capitano al servizio del quale dovrai combattere, Roran.» «Mia signora, perché non scegli me? Le ultime due missioni e i risultati ottenuti non sono forse stati di tuo gradimento?» «Se continuerai a distinguerti come hai fatto finora, Fortemartello, l'incarico sarà presto tuo. Ma devi essere paziente e aspettare ancora. Due sole missioni, per quanto sbalorditive, non possono rivelare appieno il carattere di un uomo. Quando c'è di mezzo il mio popolo, preferisco agire con estrema cautela. Ti devi adeguare al mio volere.» Roran strinse l'impugnatura del martello infilato nella cintura, le vene e i tendini della mano in rilievo, però mantenne un tono educato. «Ma certo, Lady Nasuada.» «Molto bene. Più tardi manderò un paggio a informarti sulla tua prossima destinazione. E cerca di consumare un lauto pasto non appena tu e Katrina avrete finito di festeggiare il tuo ritorno. È un ordine, Fortemartello. Hai l'aria di uno che sta per svenire.» «Come desideri, mia signora.» Roran fece per andarsene, ma Nasuada alzò una mano e lo richiamò. «Ora che hai combattuto contro questi uomini che non provano dolore fisico, credi che sarebbe più facile sconfiggerli se potessimo contare anche noi sulla stessa resistenza?» Roran esitò, poi scosse la testa. «La loro forza è la loro debolezza. Non si difendono come farebbero se temessero il morso di una spada o la punta di una freccia, e così non badano alla propria vita. Sì, è vero, continuano a combattere anche dopo che un uomo normale sarebbe a terra morto stecchito, e non è un vantaggio da poco in battaglia, ma è anche vero che ne muoiono molti di più proprio perché non si proteggono il corpo in maniera adeguata. Nella loro insensibile sicurezza, cadono in trappole e pericoli che noi invece faremmo di tutto per evitare. L'importante è che il morale dei Varden rimanga alto; sono sicuro che con la tattica giusta riusciremo a prevalere su questi mostri che ridono. Se fossimo come loro, ci massacreremmo a vicenda senza accorgercene né preoccuparcene, perché il nostro spirito di sopravvivenza verrebbe meno. Io la penso così.» «Grazie, Roran.» Quando se ne fu andato, Saphira chiese: Nasuada scosse il capo. «No, ancora nulla, e il suo silenzio comincia a preoccuparmi. Se non ci avrà cercato entro dopodomani, chiederò ad Arya di mandare un messaggio a uno degli stregoni di Orik per avere sue notizie. Se Eragon non riesce ad accelerare la fine della consulta tra i clan, temo che non potremo più contare sull'alleanza dei nani per le battaglie future. L'unica cosa positiva di un risultato così disastroso sarebbe che Eragon tornasse da noi senza indugio.» Quando Saphira fu pronta a lasciare il padiglione rosso crisalide, Blödhgarm evocò di nuovo il sosia di Eragon e glielo sistemò sul dorso. La dragonessa ritrasse la testa e, come aveva già fatto prima, attraversò l'accampamento a grandi falcate, seguita a ruota dagli agili elfi. Raggiunta la tenda di Eragon, l'ombra colorata del Cavaliere vi entrò e poi svanì. Saphira si accucciò e si rassegnò ad aspettare la fine della giornata nella più totale monotonia. Prima di riprendere il suo sonnellino, pur con riluttanza, espanse la mente verso la tenda di Roran e Katrina e insisté finché lui non ebbe abbassato le barriere attorno alla propria coscienza. Esaminò il colore delle sue emozioni e di quelle di Katrina e la conclusione a cui giunse la divertì. I pensieri di Roran si fecero d'improvviso confusi, da caldi che erano divennero gelidi, e parve in difficoltà a formulare una risposta coerente. Alla fine disse: Soddisfatta di aver dato il benvenuto a Roran e di avere obbedito alle fondamentali regole di cortesia in vigore tra i bipedi con le orecchie rotonde, e rincuorata nel sapere che l'indomani sarebbe stata una giornata un po' meno noiosa del solito, perché era impensabile che qualcuno osasse ignorare la richiesta di un drago, Saphira si sistemò come meglio poté sulla nuda terra. Come spesso le capitava, avrebbe tanto voluto trovarsi ancora nel soffice nido dell'alloggio di Eragon a Ellesméra, dentro l'albero sferzato dal vento. Sospirò, si lasciò sfuggire uno sbuffo di fumo, poi si addormentò e sognò di volare più in alto che mai. Eragon, dove sei? ♦ ♦ ♦ BACIAMI DOLCEMENTE Al risveglio, Roran si liberò dalle morbide braccia di Katrina e si sedette a torso nudo sul bordo della branda che condividevano. Sbadigliò e si stropicciò gli occhi, poi guardò la pallida striscia di luce del fuoco che filtrava tra i due lembi di stoffa all'ingresso e si sentì ottuso e stordito per la stanchezza accumulata. Avvertì un brivido di freddo, ma rimase dov'era, immobile. «Roran» lo chiamò Katrina con voce assonnata, poi si sollevò appoggiandosi a un braccio e con l'altro lo cercò. Quando gli passò la mano sulla schiena e gli accarezzò il collo, lui non reagì. «Dormi. Hai bisogno di riposare. Fra non molto dovrai ripartire.» Roran scosse il capo senza guardarla. «Che c'è?» gli chiese Katrina. Si mise a sedere, gli coprì le spalle con una coperta, poi si appoggiò a lui, la guancia calda contro il suo braccio. «Sei preoccupato per il nuovo capitano o per la destinazione che ti assegnerà Nasuada?» «No.» Katrina rimase in silenzio un istante. «Ogni volta che te ne vai, mi sembra che a ritornare sia una parte sempre più piccola di te. Sei diventato così cupo e silenzioso... Sai che puoi dirmi che cosa ti turba, per quanto terribile. Lo sai, vero? Sono la figlia di un macellaio, e ho visto anch'io molti uomini cadere in battaglia.» «Che cosa mi turba?» esclamò Roran, e le parole gli si strozzarono in gola. «Non ci voglio pensare mai più.» Serrò i pugni, il respiro incerto. «Un vero guerriero non si sentirebbe così.» «Un vero guerriero non combatte perché «Sì.» «E tuttavia era considerato il più grande guerriero della sua epoca.» Katrina gli prese le guance tra le mani e gli volse il viso verso di sé, in modo che fosse costretto a guardarla negli occhi severi. «E tu sei il più grande guerriero che conosca, qui e in qualunque altra parte del mondo.» Con la bocca asciutta, Roran rispose: «Ed Eragon, o...?» «No. Eragon, Murtagh, Galbatorix, gli elfi... non valgono nemmeno la metà di te, perché loro marciano in battaglia forti di incantesimi sulle labbra e di un potere che eccede di gran lunga il nostro. Ma tu...» - e lo baciò sul naso - «... tu sei solo un uomo. Affronti i tuoi nemici contando solo sulle tue gambe. Non sei un mago, eppure hai sconfitto i Gemelli. Sei veloce e forte quanto può esserlo un uomo, tuttavia non hai rinunciato ad attaccare i Ra'zac nel loro covo e a liberarmi dal loro sotterraneo.» Roran deglutì. «Sì, ma c'erano gli incantesimi di Eragon a proteggermi.» «Ora non più. E poi a Carvahall non avevi difese, ma sei forse fuggito davanti ai Ra'zac?» Vedendo che il marito non rispondeva, Katrina proseguì: «Tu sei solo un uomo, ma hai fatto cose che nemmeno Eragon o Murtagh sarebbero mai riusciti a eguagliare. Ai miei occhi questo ti rende il più grande guerriero di Alagaësia... Non conosco nessun altro a Carvahall che avrebbe viaggiato per mari e monti pur di salvarmi.» «Tuo padre.» La sentì rabbrividire. «Sì, è vero» sussurrò. «Ma non sarebbe mai stato capace di convincere altri a seguirlo come hai fatto tu.» Lo abbracciò forte. «Qualunque cosa tu abbia visto o fatto, io sarò sempre con te.» «È tutto ciò di cui ho bisogno» disse Roran, poi la prese tra le braccia e la tenne stretta a sé. Infine sospirò. «Ma vorrei che questa guerra finisse. Vorrei tornare ad arare i campi, a seminare e a mietere il raccolto quand'è maturo. A mandare avanti una fattoria c'è da spaccarsi la schiena, ma almeno è un lavoro onesto. Uccidere non è onesto. È come rubare... sì, rubiamo la vita di altri uomini, e nessuno nel pieno delle proprie facoltà dovrebbe aspirare a tanto.» «Come ho detto io.» «Sì, infatti.» Per quanto fosse difficile, si sforzò di sorridere. «Me n'ero dimenticato. Sto qui a gettarti addosso i miei problemi quando tu ne hai già abbastanza.» E le posò una mano sul ventre. «I tuoi problemi sono anche i miei, almeno finché saremo sposati» mormorò Katrina, strofinandogli il viso contro il braccio. «Certi problemi non si dovrebbero condividere con nessuno, soprattutto non con le persone che ami.» Katrina si ritrasse di un paio di pollici e Roran si accorse che lo sguardo le si faceva cupo e assente, come capitava sempre quando rimuginava sul periodo di prigionia trascorso nell'Helgrind. «No, certi problemi non si dovrebbero condividere con nessuno.» «Ah, non essere triste.» La strinse ancor più forte e la cullò. Desiderava con tutte le sue forze che Eragon non avesse trovato l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale. Dopo un po', quando Katrina si fu calmata e anche lui non fu più tanto teso, le accarezzò la curva del collo. «Su, baciami dolcemente e torniamo a letto, perché sono stanco e voglio dormire.» Allora lei rise e lo baciò con tutta la tenerezza di cui era capace, poi si distesero sulla branda. Fuori dalla tenda era tutto calmo e silenzioso, tranne il fiume Jiet, che scorreva oltre l'accampamento senza mai rallentare, senza mai fermarsi, e si riversava nei sogni di Roran, che si immaginava in piedi sulla prua di una nave, con Katrina al fianco, e fissava l'Occhio del Cinghiale, il gigantesco vortice. ♦ ♦ ♦ GLÛMRA Centinaia di piedi sotto Tronjheim la roccia si apriva in una grotta lunghissima. Da un lato c'era un immobile lago nero dalle profondità insondabili e dall'altro una sponda di marmo. Stalattiti marrone e avorio pendevano gocciolanti dal soffitto, mentre dal fondo si ergevano stalagmiti simili a pugnali; in alcuni punti si univano a formare gonfi pilastri più imponenti dei tronchi secolari della Du Weldenvarden. Sparsi tra i pilastri c'erano mucchi di concime costellati di funghi e ventitré basse casupole di pietra. Una lanterna senza fiamma brillava incandescente accanto a ogni porta. Fatta eccezione per quella luce, regnava l'oscurità. Dentro una di quelle casupole, Eragon prese posto su una sedia troppo piccola per lui davanti a un tavolo di granito che gli arrivava appena alle ginocchia. Il profumo di formaggio di capra morbido, funghi a fette, lievito, stufato, uova di piccione e brace pervadeva la stanza. Di fronte a lui la madre di Kvîstor, Glûmra, della Famiglia di Mord, piangeva e si strappava i capelli e si colpiva il petto. Sul viso tondo si vedevano ancora i solchi luccicanti lasciati dalle lacrime. Erano soli. Le quattro guardie - al gruppo si era aggiunto Thrand, un guerriero della scorta di Orik - aspettavano fuori insieme a Hûndfast, l'interprete, che Eragon aveva congedato non appena aveva saputo che la nana parlava la sua lingua. Dopo l'aggressione, Eragon aveva cercato Orik con la mente e il capoclan aveva insistito perché corresse più veloce possibile negli alloggi dell'Ingeitum, dove sarebbe stato al sicuro. Eragon aveva obbedito, mentre Orik chiedeva ai clan di riaggiornarsi l'indomani mattina poiché si era verificata un'emergenza che richiedeva la sua immediata attenzione. Poi aveva marciato con i suoi guerrieri più baldi e gli stregoni più fidati fino al luogo dell'imboscata e insieme avevano esaminato la scena sia con la magia sia con mezzi più artigianali. Soddisfatto delle informazioni raccolte, Orik era tornato di corsa nelle sue stanze e aveva detto a Eragon: "Abbiamo un sacco di cose da fare, e in pochissimo tempo, per giunta. Prima che la consulta riprenda domani alla terza ora del mattino dobbiamo tentare di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio chi ha ordinato l'attacco. Così avremo qualcosa su cui far leva contro gli altri clan. Altrimenti, senza sapere chi sono i nostri nemici, brancoleremo nel buio. Possiamo mantenere il riserbo sulla vicenda fino a domani mattina, ma non oltre. Di sicuro i knurlan avranno sentito l'eco del combattimento nei tunnel sotto Tronjheim e so che già adesso staranno cercando la causa di tanto rumore per paura di un crollo che potrebbe minare la città in superficie." Orik aveva pestato i piedi e maledetto gli antenati dei mandanti, chiunque fossero, poi si era portato le mani ai fianchi e aveva detto: "Se prima la minaccia di una guerra tra clan era solo nell'aria, adesso è alle porte. Dobbiamo muoverci in fretta se vogliamo evitare quell'infausto destino. Abbiamo knurlan da trovare, domande da fare, minacce da lanciare, nani da corrompere e pergamene da rubare... e tutto prima di domattina." "E io?" aveva chiesto Eragon. "Tu devi restare qui finché non sapremo se l'Az Sweldn rak Anhûin o qualche altro clan ha un contingente più grande radunato altrove, pronto a ucciderti. Più a lungo riusciremo a tenere nascosto ai tuoi assalitori se sei vivo, morto o ferito, più dovranno guardare le rocce dove posano i piedi." Sulle prime Eragon fu d'accordo con la proposta di Orik, ma osservando il nano indaffarato a dare ordini a destra e a manca si sentì sempre più a disagio e inutile. Alla fine l'aveva preso per un braccio e gli aveva detto: "Se devo starmene qui a fissare il muro mentre tu cerchi i colpevoli, digrignerò i denti fino a ridurli a spuntoni. Ci dev'essere qualcosa che posso fare per aiutarti. Che mi dici di Kvîstor? Qualcuno della sua famiglia abita a Tronjheim? Sono già stati avvisati della sua morte? In caso contrario, andrò io a portare loro la notizia, perché è per difendere me che è morto." Orik aveva chiesto alle sue guardie: in effetti la famiglia di Kvîstor viveva a Tronjheim, anzi, più precisamente "Ti dispiace se vado a trovare la sua famiglia? Tra queste stanze ci sono delle scale che conducono di sotto, o mi sbaglio? Potrei andarci senza che nessuno lo venga a sapere." Orik aveva riflettuto un momento, poi aveva annuito. "Hai ragione. Il percorso è abbastanza sicuro e a nessuno verrebbe mai in mente di cercarti tra gli abitanti del sottosuolo. Il primo posto in cui verrebbero a controllare è qui, e ti troverebbero. Va', e non tornare finché non ti mando un messaggero, nemmeno se la Famiglia di Mord ti mette alla porta e devi startene seduto su una stalagmite fino a domani mattina. Però attento, Eragon; quella è gente solitaria, ed estremamente suscettibile se ferita nell'onore; inoltre ha strane abitudini. Procedi cauto, mi raccomando, come se stessi camminando su una lastra di scisto marcio, eh?" E così, dopo che Thrand fu aggiunto alla sua scorta, accompagnato da Hûndfast, con uno spadino da nano legato in vita, Eragon si era avviato alla più vicina scalinata che conduceva di sotto ed era sceso nelle viscere della terra, più giù di quanto non avesse mai fatto prima. A tempo debito aveva trovato Glûmra e l'aveva informata della morte di Kvîstor, ed eccolo lì seduto ad ascoltarla piangere il figlio trucidato, con gemiti, grida e poi frammenti di parole nella lingua dei nani, cantati in una tonalità ossessiva e dissonante. Sconcertato dall'intensità del suo dolore, Eragon distolse lo sguardo. Fissò la stufa di steatite verde appoggiata e le consunte incisioni geometriche che ne adornavano i profili. Esaminò il tappeto verde e marrone davanti al focolare, la zangola in un cantuccio e le provviste appese alle travi del soffitto. Guardò il pesante telaio di legno sotto una finestra rotonda con pannelli di vetro color lavanda. Poi, al culmine della disperazione, Glûmra incrociò lo sguardo di Eragon, si alzò dal tavolo, andò al piano di lavoro della cucina e posò la mano sinistra sul tagliere. Prima che lui potesse fermarla, prese un coltello e si mozzò la prima falange del mignolo, poi gemette e si piegò in due. Eragon si alzò, lasciandosi sfuggire un grido involontario. Si domandò quale follia avesse sopraffatto la nana e se doveva tentare di fermarla prima che si facesse ancora del male. Aprì la bocca per chiederle se voleva che le curasse la ferita, ma poi ci ripensò, ricordando l'ammonimento di Orik sulle strane abitudini e il profondo senso dell'onore degli abitanti del sottosuolo. Un minuto dopo Glûmra si raddrizzò, trasse un profondo respiro e poi, tranquilla, in silenzio lavò l'estremità infiammata del dito con il brandy, gli strofinò sopra un balsamo giallo e fasciò la ferita. Con il volto di luna ancora pallido per il forte dolore, si accasciò sulla sedia di fronte a Eragon. «Ti ringrazio per avermi portato di persona la notizia della morte di mio figlio, Ammazzaspettri. Sono felice di sapere che è morto con valore, come si conviene a un guerriero.» «È stato davvero coraggioso» rispose Eragon. «Aveva capito che i nostri nemici erano veloci come elfi, tuttavia si è scagliato nella mischia per proteggermi. Il suo sacrificio mi ha dato il tempo di schivare le loro spade e anche di intuire che erano protette da pericolosi incantesimi. Se non fosse stato per il suo gesto, dubito che sarei qui adesso.» Glûmra annuì piano, gli occhi fissi sul pavimento, e si lisciò il vestito. «Sai chi è responsabile di questo attacco contro il tuo clan, Ammazzaspettri?» «Abbiamo solo dei sospetti. Mentre noi due parliamo, il grimstborith Orik sta cercando di scoprire la verità sull'accaduto.» «Sono stati quelli dell'Az Sweldn rak Anhûin?» gli domandò la nana, e quell'astuta domanda sorprese Eragon, che cercò di dissimulare la propria reazione. In risposta al suo silenzio, la nana aggiunse: «Tutti sappiamo della faida in corso tra voi, Argetlam; ogni knurla tra queste montagne lo sa. Alcuni di noi hanno visto con favore la loro opposizione nei tuoi confronti, ma se davvero hanno pensato di ucciderti, allora hanno agito male e hanno firmato la loro condanna.» Eragon inarcò un sopracciglio, interessato. «Condanna? In che senso?» «Sei stato tu, Ammazzaspettri, a uccidere Durza e a permetterci così di salvare Tronjheim e i cunicoli sotterranei dalle grinfie di Galbatorix. La nostra razza non lo dimenticherà mai, almeno finché Tronjheim resterà in piedi. E poi qui sotto corre voce che il tuo drago riparerà l'Isidar Mithrim... è vero?» Eragon annuì. «È gentile da parte tua, Ammazzaspettri. Hai fatto molto per il nostro popolo, e qualunque sia il clan che ti ha attaccato, ci ribelleremo e ci vendicheremo.» «L'ho giurato di fronte a tre testimoni e lo ripeto anche qui davanti a te: punirò chi ha assoldato quegli assassini codardi che ci hanno attaccato alle spalle e farò loro rimpiangere di aver anche solo preso in considerazione l'idea di compiere un gesto così malvagio. Tuttavia...» «Grazie, Ammazzaspettri.» Eragon esitò, poi inclinò il capo. «Tuttavia non dobbiamo fare niente che possa scatenare una guerra tra clan. Non adesso. Se ci sarà da usare la forza, sarà il grimstborith Orik a decidere quando e dove sguainare le spade, non sei d'accordo?» «Penserò a quello che hai detto, Ammazzaspettri» rispose Glûmra. «Orik è...» Qualunque cosa stesse per dire, la frase rimase in sospeso. La nana chiuse le pesanti palpebre e si piegò in due per un istante, premendo la mano mutilata contro l'addome. Quando la fitta fu passata, si raddrizzò e avvicinò il dorso della mano alla guancia, poi prese a dondolarsi e a gemere: «Oh, il mio povero figlio... il mio bellissimo figlio.» Si alzò e girò barcollando intorno al tavolo, diretta verso una piccola collezione di spade e asce appese alla parete dietro Eragon, accanto a una nicchia chiusa da un drappo di seta rossa. Per paura che potesse farsi ancora del male, Eragon balzò in piedi, rovesciando la sedia di quercia nella fretta. Poi le si avvicinò, ma a quel punto si rese conto che la nana si stava incamminando verso la nicchia, non verso le armi, e per fortuna riuscì a ritrarre il braccio prima di offenderla. Quando Glûmra aprì la tenda, gli anelli di ottone cuciti lungo il bordo in alto tintinnarono. Apparve una mensola profonda e buia su cui erano incise rune e forme dai dettagli così fantastici che Eragon non sarebbe riuscito a capirle tutte neppure se fosse rimasto a studiarle per ore. Sul ripiano in basso c'erano le statue delle sei principali divinità dei nani e di altre nove entità che però lui non conosceva, tutte con lineamenti e posture esasperati perché non ci fossero dubbi sul soggetto ritratto. Glûmra prese dal corpetto un amuleto d'oro e d'argento, poi lo baciò e lo portò alla gola inginocchiandosi davanti alla nicchia. Cominciò a intonare un lamento funebre nella sua lingua; la voce si alzava e si abbassava seguendo gli strani disegni della musica dei nani. La melodia fece venire le lacrime agli occhi a Eragon. Glûmra cantò per diversi minuti, poi tacque con lo sguardo ancora fisso sulle statuine; nel frattempo i lineamenti trasfigurati dal dolore si addolcirono, e dove prima Eragon aveva percepito solo rabbia, pena e sconforto, trovò quieta accettazione, pace e sublime superiorità. Dal viso della nana sembrava emanare un fioco bagliore. La trasformazione di Glûmra fu così completa che Eragon quasi non la riconosceva. «Stasera Kvîstor cenerà nel palazzo di Morgothal, lo so» disse la nana, poi baciò di nuovo l'amuleto. «Vorrei tanto poter spezzare il pane insieme a lui e a mio marito Bauden, ma non è ancora arrivato per me il momento di dormire nelle catacombe di Tronjheim, e Morgothal rifiuta l'ingresso nel suo palazzo a chi vuole accelerare il proprio arrivo. Ma a tempo debito la nostra famiglia sarà riunita, tutti i nostri antenati da quando Gûntera creò il mondo dalle tenebre. Ne sono sicura.» Eragon le si inginocchiò accanto e con voce roca le chiese: «Come fai a saperlo?» «Perché è così.» Con gesti lenti e rispettosi, Glûmra sfiorò i piedi cesellati di ogni divinità con la punta delle dita. «E come potrebbe essere altrimenti? Il mondo non può essersi creato da solo, così come una spada o un elmo hanno bisogno di qualcuno che li forgi, e poiché gli unici esseri capaci di plasmare i cieli e la terra sono quelli dotati di potere divino, è negli dei che dobbiamo trovare le risposte alle nostre domande. Ho fiducia nel fatto che garantiranno la giustizia in questo mondo, e grazie alla mia fede io mi libero del fardello delle sofferenze terrene.» Parlava con tanta convinzione che Eragon provò l'improvviso desiderio di condividerne i pensieri. Sarebbe stato bello allontanare i dubbi e le paure e sapere che, per quanto orribile potesse sembrare il mondo a volte, la vita non era solo mera confusione. Avrebbe voluto essere certo che la sua vera essenza non sarebbe svanita nel nulla se anche una spada gli avesse mozzato la testa e che prima o poi avrebbe incontrato di nuovo Brom, Garrow e tutti quelli a cui aveva voluto bene e che aveva perduto. Sentì crescere dentro di sé un disperato desiderio di speranza e conforto, che lo disorientò e gli fece tremare le gambe. Eppure... Una parte di lui era riluttante ad abbracciare le divinità dei nani e a far dipendere la propria identità e il proprio benessere da qualcosa che non capiva. Faticava anche ad accettare che, se esistevano delle divinità, quelle dei nani fossero le uniche. Era sicuro che se avesse chiesto a Nar Garzhvog o a un membro delle tribù nomadi o anche ai sacerdoti neri dell'Helgrind se i loro dei esistevano davvero, ciascuno avrebbe sostenuto la supremazia della propria fede con lo stesso vigore con cui Glûmra difendeva la sua. Con un lungo sospiro, Glûmra mormorò una frase nella lingua dei nani, poi si alzò e richiuse il drappo di seta della nicchia. Anche Eragon si alzò e sussultò stirando i muscoli ancora doloranti dopo lo scontro, poi la seguì al tavolo e tornò a sedersi. Da una credenza di pietra incassata nella parete, la nana prese due tazze di peltro, poi staccò dal soffitto una bisaccia piena di vino e versò da bere. Alzò la tazza e pronunciò un brindisi nella lingua dei nani che Eragon si sforzò di imitare, poi bevvero. «È bello sapere che Kvîstor continua a vivere, che indossa vesti degne di un re e si gode il banchetto nel palazzo di Morgothal. Che possa farsi onore al servizio degli dei!» esclamò Glûmra, e bevve altro vino. Dopo aver vuotato la sua tazza, Eragon fece per congedarsi, ma la nana lo fermò con un gesto della mano. «Hai un posto dove stare, al sicuro da chi ti vuole morto, Ammazzaspettri?» gli chiese, ed Eragon le rispose che sarebbe dovuto restare nascosto sotto Tronjheim finché Orik non gli avesse mandato un messaggero. Glûmra annuì con un breve e risoluto cenno del mento, poi disse: «Allora tu e i tuoi compagni dovete aspettarlo qui. Insisto.» Eragon tentò di protestare, ma lei scosse il capo. «Non permetterò agli uomini che hanno combattuto con mio figlio di languire in queste buie e umide grotte, almeno non finché avrò fiato in corpo. Raduna i tuoi compagni, così mangeremo insieme e rallegreremo questa triste serata.» Eragon capì che andandosene avrebbe indispettito Glûmra, così chiamò le guardie e l'interprete. La aiutarono a preparare una cena a base di pane, carne e pasticci, e quando fu tutto pronto mangiarono e brindarono e parlarono fino a tarda sera. Glûmra era particolarmente vivace; bevve e rise più degli altri, ed era sempre la prima a fare un commento arguto. Sulle prime Eragon rimase sconvolto dal comportamento della nana, poi si accorse che il sorriso non le arrivava mai fino agli occhi, e che quando pensava che nessuno la stesse guardando la gioia le svaniva dal viso per lasciare il posto a una sobria pacatezza. Concluse che intrattenerli era il suo modo di celebrare la memoria del figlio e di allontanare il dolore per la morte di Kvîstor. La mezzanotte era passata da un pezzo quando qualcuno bussò alla porta della casupola. Hûndfast fece entrare un nano in armatura che sembrava nervoso e a disagio; continuava a guardare la porta, le finestre e gli angoli bui. Con una serie di frasi nell'antica lingua, spiegò a Eragon che era il messaggero di Orik e poi disse: «Sono Fam, figlio di Flosi... Argetlam, Orik vuole che tu torni al più presto. Ha notizie importanti sugli eventi di oggi.» Sulla soglia, Glûmra afferrò il braccio sinistro di Eragon con dita d'acciaio e mentre lui chinava il capo per guardarla negli occhi duri, gli disse: «Ricorda il tuo giuramento, Ammazzaspettri, e non lasciare che gli assassini di mio figlio restino impuniti!» «Non accadrà, te lo prometto.» RADUNO DI CLAN Vedendo Eragon avanzare verso di loro, i nani di guardia fuori dall'alloggio di Orik spalancarono i due battenti della porta. L'ingresso era lungo e finemente decorato, e al centro della stanza erano disposte una in fila all'altra tre sedute circolari imbottite di stoffa rossa. Arazzi ricamati impreziosivano le pareti insieme alle onnipresenti lanterne senza fiamma, mentre sul soffitto era stata scolpita una battaglia molto famosa nella storia dei nani. Orik stava confabulando con un gruppo di suoi guerrieri e parecchi altri nani dalla barba grigia appartenenti al Dûrgrimst Ingeitum. Mentre Eragon si avvicinava, si voltò verso di lui, cupo in volto. «Bene, non ci hai messo molto! Hûndfast, adesso puoi tornare nei tuoi appartamenti. Dobbiamo parlare in privato.» L'interprete fece un inchino e sparì sotto un arco sulla sinistra; l'eco dei suoi passi risuonò sul lustro pavimento di agata. Non appena fu sicuro che non avrebbe potuto sentirlo, Eragon chiese: «Non ti fidi di lui?» Orik si strinse nelle spalle. «Al momento non so più di chi fidarmi; meno gente sa ciò che abbiamo scoperto, meglio è. Non possiamo rischiare che la notizia giunga a un altro clan prima di domani. In quel caso la guerra sarebbe inevitabile.» I nani dietro di lui borbottarono qualcosa tra loro; avevano l'aria sconcertata. «Allora, di che si tratta?» domandò Eragon, preoccupato. Orik fece un cenno ai suoi guerrieri, che si fecero da parte, rivelando tre nani legati e insanguinati, ammucchiati uno sopra l'altro nell'angolo. Quello in basso gemeva e scalciava, ma non riusciva a districarsi dagli altri due compagni di prigionia. «Chi sono?» «Ho chiesto a molti dei nostri fabbri di esaminare i pugnali dei tuoi assalitori» replicò Orik. «In base alla fattura delle armi, sono risaliti a Kiefna il Nasone, un forgiatore di spade del nostro clan che si è guadagnato un'ottima reputazione tra il nostro popolo.» «Lui potrà dirci chi ha comprato i pugnali e chi sono i nostri nemici?» Una brusca risata scosse il petto di Orik. «Non credo, ma siamo riusciti a scoprire che da Kiefna i pugnali sono arrivati a un armaiolo di Dalgon, una città a molte leghe da qui, il quale poi li ha venduti a una knurlaf con...» «Una... Orik si accigliò. «Sì, vuol dire nana. A quanto pare, due mesi fa una nana con sette dita per ogni mano ha comprato quei pugnali.» «E l'avete trovata? Non ci saranno tante nane che rispondono a quella descrizione.» «Invece tra noi è una caratteristica molto diffusa» disse Orik. «Comunque, dopo mille peripezie siamo riusciti a rintracciarla a Dalgon. I miei guerrieri l'hanno interrogata a lungo. Appartiene al Dûrgrimst Nagra, ma per quanto ne sappiamo ha agito spontaneamente e non per ordine dei leader del suo clan. Da lei abbiamo appreso che un nano l'aveva incaricata di comprare i pugnali e poi di consegnarli a un mercante di vini che li avrebbe portati a Dalgon. La destinazione finale le era sconosciuta, ma facendo qualche domanda abbiamo scoperto che il vinaio si è trasferito in una delle città controllate dal Dûrgrimst Az Sweldn rak Anhûin.» «Dunque sono stati loro!» esclamò Eragon. «O loro, o qualcuno che voleva farcelo credere. Per affermare con assoluta certezza che i colpevoli sono gli Az Sweldn ci servivano altre prove.» Poi gli comparve uno strano brillio negli occhi e alzò un dito. «E così, per mezzo di un incantesimo molto, molto astuto, abbiamo seguito a ritroso gli spostamenti degli assassini attraverso i tunnel e le grotte sotto Tronjheim fino a un'area desertica al dodicesimo livello, accanto al palazzo ausiliare dell'ala meridionale nel quadrante ovest, lungo il... ah, be', non importa. Anche se prima o poi dovrò spiegarti com'è fatta Tronjheim, così, se mai ti capitasse di dover cercare un posto in particolare, lo troveresti anche da solo. Comunque siamo risaliti a un magazzino abbandonato e vi abbiamo trovato quei tre» disse indicando i nani legati. «Non si aspettavano di vederci, così siamo riusciti a catturarli vivi, anche se hanno cercato di uccidersi. Non è stato facile, ma siamo penetrati nella mente di due di loro - il terzo l'abbiamo lasciato agli altri capiclan, che potranno interrogarlo a loro piacere - e abbiamo carpito tutto ciò che sapevano su questa faccenda.» Orik indicò di nuovo i prigionieri. «Sono stati questi tre a fornire i pugnali e gli abiti neri agli assassini e a dare loro vitto e alloggio ieri sera.» «Chi sono?» chiese Eragon. «Bah!» esclamò Orik e sputò per terra. «Sono Vargrimstn, guerrieri caduti in disgrazia per gravi demeriti, ormai esclusi da ogni clan. Solo una persona coinvolta direttamente in qualche atto criminale, interessata a mantenerlo segreto, può accettare di confondersi con certa feccia. Questi tre hanno preso ordini dal Grimstborith Vermûnd dell'Az Sweldn rak Anhûin.» «Non ci sono dubbi?» Orik scosse la testa. «No. Sono stati gli Az Sweldn rak Anhûin che hanno cercato di ucciderti, Eragon. Probabilmente non sapremo mai se sono implicati altri clan, ma se riveliamo questo tradimento, chiunque sia coinvolto nel complotto sarà costretto a disconoscere gli ex alleati, a rinunciare, o quanto meno a posticipare altri attacchi contro l'Ingeitum e, se amministriamo la cosa nel modo migliore, a dare a me il suo voto.» Nella mente di Eragon balenò l'immagine della lama multicolore che spuntava dal collo di Kvîstor e dell'espressione di dolore del nano che cadeva a terra morente. «Come puniremo gli Az Sweldn rak Anhûin per questo crimine? Uccideremo Vermûnd?» «Ah, lascia fare a me» rispose Orik, e si picchiettò il naso. «Ho un piano. Ma dobbiamo procedere con cautela, perché è una situazione molto delicata. Erano anni che non assistevamo a un tradimento di tale portata. Dato che non sei cresciuto tra i nani, non puoi capire quanto ci disgusta che uno di noi abbia attaccato un ospite. E che tu sia l'unico Cavaliere rimasto in grado di ostacolare Galbatorix non fa che peggiorare la gravità dell'affronto. Forse sarebbe necessario spargere altro sangue, ma al momento ciò porterebbe solo a una seconda guerra tra clan.» «Però potrebbe essere l'unico modo per affrontare gli Az Sweldn rak Anhûin» gli fece notare Eragon. «Non credo, ma se mi sbaglio e la guerra sarà inevitabile, dobbiamo assicurarci che siano da soli a combatterla, che perdano tutti gli alleati. Non sarebbe poi tanto male, no? Insieme, noi e gli altri clan potremmo schiacciarli nel giro di una settimana. Tuttavia combattere una guerra divisi in due o tre fazioni porterebbe il nostro paese alla rovina. Prima di sguainare le spade, dunque, è di cruciale importanza convincere gli altri clan di ciò che hanno fatto gli Az Sweldn rak Anhûin. Permetterai ai maghi degli altri clan di esaminare i tuoi ricordi dell'attacco, in modo da verificare che tutto sia andato come diciamo noi e che non sia stata una farsa inscenata a nostro vantaggio?» Eragon esitò, riluttante all'idea di aprire la propria mente a sconosciuti, poi indicò con un cenno del capo i tre nani ammassati uno sopra l'altro. «E quelli? Non bastano i loro ricordi a convincere gli altri clan della colpevolezza degli Az Sweldn rak Anhûin?» Orik fece una smorfia. «In teoria sì, ma per esserne del tutto sicuri i capiclan insisteranno per confrontare i loro ricordi con i tuoi, e se ti rifiuti l'Az Sweldn rak Anhûin sosterrà che stiamo nascondendo qualcosa e che le nostre accuse non sono altro che falsità e calunnie.» «Benissimo» rispose Eragon. «Se devo, lo farò. Ma se qualche mago si insinua dove non dovrebbe, fosse anche per sbaglio, non avrò altra scelta se non estirpare dalle loro menti ciò che hanno visto. Non posso permettere che certe cose diventino di dominio pubblico.» Orik annuì e disse: «Sì, mi viene in mente almeno un'informazione che ci danneggerebbe se fosse diffusa ai quattro venti, eh? Sono sicuro che i capiclan accetteranno le tue condizioni, perché tutti abbiamo segreti che non vogliamo vengano sbandierati, e sono altrettanto sicuro che ordineranno ai loro maghi di procedere noncuranti del pericolo. Questo attacco può scatenare un tale disordine nel nostro popolo che i grimstborithn si sentiranno costretti a stabilire la verità sull'accaduto, anche se così facendo rischiano di perdere i loro più rinomati stregoni.» Ergendosi in tutta la sua pur minima altezza, Orik ordinò che i prigionieri fossero allontanati dall'ingresso e congedò tutti i suoi vassalli, tranne Eragon e un contingente di ventisei guerrieri tra i più abili. Poi con un gesto aggraziato afferrò Eragon per il gomito sinistro e lo condusse verso le stanze più interne. «Stanotte devi restare qui con me, dove l'Az Sweldn rak Anhûin non oserà colpire.» «Se hai intenzione di dormire, ti metto in guardia subito: io proprio non ci riuscirò, non stanotte. Mi ribolle ancora il sangue dopo il tumulto del combattimento, e la mia testa è altrettanto inquieta.» «Fa' come vuoi; tanto non mi disturberai, perché mi calerò sugli occhi uno spesso berretto di lana. Tuttavia dovresti provare a cercare di calmarti, magari sfruttando qualcuna delle tecniche che ti hanno insegnato gli elfi, e di recuperare il più possibile le forze. È quasi giorno e tra poche ore i clan si riuniranno di nuovo. Dobbiamo essere freschi per affrontare ciò che ci aspetta. Quello che faremo e diremo determinerà il destino del mio popolo, del mio paese e del resto di Alagaësia... Ah, via quella faccia triste! Pensa a questo, piuttosto: che abbiamo successo o no, e naturalmente spero nella prima ipotesi, i nostri nomi saranno ricordati fino alla notte dei tempi per come ci comporteremo domani. Questo almeno ti riempirà la pancia d'orgoglio! Gli dei sono volubili e l'unica immortalità su cui possiamo contare è quella che ci conquistiamo grazie alle nostre gesta. Che sia per fama o per infamia, è comunque meglio che essere dimenticati una volta abbandonato questo mondo.» Più tardi, quella notte, nelle ore morte prima dell'alba, avvolto nell'abbraccio del divano imbottito su cui si era lasciato cadere, Eragon lasciò vagare i pensieri e l'impalcatura razionale della sua coscienza si dissolse nella disordinata fantasia dei sogni a occhi aperti. Mentre guardava il mosaico di pietre colorate sulla parete davanti a lui, ebbe l'impressione che vi scorressero, come su un velo luccicante, le scene della sua vita nella Valle Palancar, prima che il fato e sanguinoso irrompesse nella sua esistenza. Tuttavia ben presto quelle scene deviarono dal quotidiano ed Eragon si ritrovò immerso in situazioni immaginarie, costruite pezzo per pezzo da frammenti di fatti realmente accaduti. Pochi istanti prima che si riavesse dal torpore, la visione tremolò e le immagini si fecero via via più reali. "Mi serve la spada di un Cavaliere dei Draghi." Con un grido strozzato, Eragon balzò dal divano e si ritrovò in piedi, lo sguardo fisso sul pavimento, i pugni serrati, il respiro affannoso. Le guardie di Orik gli lanciarono occhiate indagatrici, ma lui le ignorò, troppo turbato per spiegare quello scatto. Era ancora presto, così tornò a sedersi sul divano, ma rimase all'erta e non consentì a se stesso di sprofondare ancora nel mondo dei sogni, temendo che chissà quali altri fantasmi arrivassero a tormentarlo. Eragon era in piedi, la schiena rivolta alla parete, la mano sul pomolo dello spadino da nano, mentre osservava i capiclan sfilare nella sala riunioni circolare sepolta sotto Tronjheim. Tenne d'occhio soprattutto Vermûnd, il grimstborith dell'Az Sweldn rak Anhûin, ma se anche il nano coperto dal lungo velo viola era sorpreso di vederlo vivo e vegeto, non lo diede a vedere. Eragon sentì lo stivale di Orik contro il suo. Senza distogliere lo sguardo, si chinò verso di lui. «Ricordati, a sinistra; la terza porta» gli sussurrò, alludendo al punto in cui aveva fatto schierare un centinaio di guerrieri all'insaputa degli altri capiclan. «Se si arriva al sangue, devo cogliere l'occasione e uccidere quella serpe di Vermûnd?» chiese Eragon, anche lui a fior di labbra. «No, ti prego, a meno che non sia lui a fare la prima mossa contro uno di noi.» A Orik sfuggì un risolino sommesso. «Difficilmente ti conquisteresti il favore degli altri grimstborith... Adesso devo andare. Prega Sindri di avere fortuna, d'accordo? Stiamo per avventurarci in un mare di lava che non ho mai osato attraversare prima d'ora.» Eragon obbedì e pregò. Quando tutti i capiclan si furono seduti attorno al tavolo in mezzo alla stanza, gli osservatori, compreso Eragon, presero posto sulle sedie disposte contro la parete ricurva. Tuttavia, a differenza di molti nani, lui non si rilassò: anzi, rimase seduto sul bordo della sedia, pronto a scattare al minimo segnale di pericolo. Non appena Gannel, il sacerdote-guerriero dagli occhi neri del Dûrgrimst Quan, si alzò e cominciò a parlare nell'antica lingua dei nani, Hûndfast si avvicinò furtivo a Eragon e gli tradusse tutto sottovoce, senza mai fermarsi: «Di nuovo ben trovati, miei compagni capiclan. Ma che sia un'occasione piacevole o meno non saprei dirlo, perché mi sono giunte all'orecchio alcune voci allarmanti, anzi, in verità voci di voci. Non ho altre informazioni al di là di queste chiacchiere vaghe e preoccupanti, né prove sulle quali fondare un'accusa. Tuttavia, poiché oggi spetta a me presiedere il raduno, propongo di posticipare i nostri dibattiti più seri: se siete d'accordo, vorrei porvi qualche domanda.» I capiclan borbottarono tra loro e poi prese la parola Íorûnn, vivace e sorridente come sempre: «Io non ho obiezioni, Grimstborith Gannel. Hai risvegliato la mia curiosità con queste misteriose insinuazioni. Sentiamo le tue domande.» «Sì, sentiamole» intervenne Nado. «Sentiamole» convennero Manndrâth e gli altri capiclan, compreso Vermûnd. Ottenuto il permesso richiesto, Gannel si appoggiò con le nocche sul tavolo e rimase in silenzio per un istante, conquistando l'attenzione dei presenti. Poi parlò. «Ieri, mentre stavamo pranzando, ognuno nel punto di ristoro prescelto, alcuni knurlan hanno sentito un rumore provenire dai tunnel sotto il quadrante meridionale di Tronjheim. Le dichiarazioni sull'intensità di questo rumore sono discordi, ma che l'abbiano notato in tanti prova che doveva trattarsi di un suono di una certa entità. Come voi, ho ricevuto il solito avvertimento di un possibile crollo. Ciò di cui forse non siete a conoscenza, tuttavia, è che appena due ore dopo alcuni...» Hûndfast esitò e poi si affrettò a sussurrare: «È una parola difficile da rendere nella tua lingua. Direi qualcosa tipo: "abitanti dei tunnel".» E poi riprese a tradurre. «... alcuni abitanti dei tunnel hanno scoperto tracce di un feroce combattimento in uno degli antichi cunicoli scavati dal nostro celebre progenitore, Korgan Barbalunga. Il pavimento era un lago di sangue, le pareti annerite di fuliggine poiché un guerriero poco accorto aveva colpito e rotto una lanterna con la spada, la roccia tutto intorno era spaccata e a terra c'erano sette corpi carbonizzati e mutilati; forse portavano insegne, ma qualcuno le ha rimosse. Di sicuro non erano i resti di qualche oscura scaramuccia risalente alla battaglia del Farthen Dûr. No! Il sangue era ancora fresco, la fuliggine soffice, le crepe recenti e, almeno così mi è stato detto, si distinguevano ancora le tracce di potenti magie. Perfino ora molti dei nostri più abili stregoni stanno tentando di ricostruire un'immagine fedele di ciò che è accaduto, ma hanno poche speranze di successo, poiché gli individui coinvolti erano protetti da subdoli incantesimi. Allora, la mia prima domanda è: qualcuno di voi è al corrente di questa azione misteriosa?» Quando Gannel ebbe concluso il suo discorso, Eragon piegò le gambe, pronto a balzare in piedi se i nani ammantati di viola dell'Az Sweldn rak Anhûin avessero messo mano alle spade. Orik si schiarì la voce e rispose: «Credo di poter soddisfare in parte la tua curiosità su questo punto, Gannel. Tuttavia, poiché la mia risposta sarà lunga, suggerisco che tu prosegua con le altre domande.» Gannel corrugò la fronte, rabbuiato. Battendo le nocche sul tavolo, replicò: «Molto bene... Cosa che senza dubbio è da ricollegarsi allo scontro armato avvenuto nei tunnel di Korgan, mi sono stati riportati numerosi movimenti di knurlan che si starebbero organizzando in bande armate per tutta Tronjheim, benché i loro scopi siano ancora sconosciuti. I miei agenti non sono riusciti a scoprire il clan di appartenenza dei guerrieri, ma che un qualsiasi clan presente a questo concilio stia tentando di schierare furtivamente le proprie forze mentre siamo radunati per decidere il successore di re Rothgar suggerisce motivazioni della più fosca natura. Dunque la mia seconda domanda è: chi è il responsabile di questa manovra scorretta? E se nessuno è disposto ad ammettere la propria condotta indegna, propongo con forza che tutti i guerrieri, quale che sia il loro clan, siano espulsi da Tronjheim per la durata del raduno e che si nomini subito un esperto in materia legale per indagare su tali fatti e stabilire chi sia il colpevole.» La rivelazione, la domanda e la conseguente proposta di Gannel sollevarono un animato brusio tra i capiclan, che presero a lanciarsi accuse, negarle e ribattere con crescente animosità, finché, mentre un infuriato Thordris stava gridando contro un paonazzo Gàldhiem, Orik si schiarì di nuovo la voce. Tutti tacquero e si voltarono a fissarlo. «Credo di poterti spiegare anche questo, Gannel, almeno in parte» disse in tono calmo Orik. «Non posso parlare anche a nome degli altri clan, ma ammetto che tra i guerrieri che correvano per le sale della servitù a Tronjheim diverse centinaia appartenevano al Dûrgrimst Ingeitum.» Calò il silenzio, finché non intervenne Íorûnn: «E che spiegazione hai per questo comportamento bellicoso, Orik, figlio di Thrifk?» «Come ho detto prima, leggiadra Íorûnn, la mia risposta non può che essere lunga; dunque, se Gannel ha altre domande da porre, gli suggerisco di procedere.» Gannel arricciò ancora di più la fronte, finché le cespugliose sopracciglia non arrivarono quasi a toccarsi. «Per il momento le terrò per me, perché comunque sono legate a quelle di prima e a quanto pare dobbiamo aspettare i tuoi comodi per saperne di più sull'accaduto. Tuttavia, poiché sei immerso fino al collo in queste ambigue attività, mi è venuta in mente una nuova domanda che voglio porre a te in particolare, Grimstborith Orik. Per quale ragione hai disertato il raduno di ieri? Voglio metterti in guardia: non tollererò risposte evasive. Hai già dichiarato di essere a conoscenza di certe cose. Bene, è giunto il momento che tu dia un resoconto completo dei tuoi spostamenti di ieri.» Senza nemmeno aspettare che Gannel si sedesse, Orik si alzò e rispose: «Con piacere.» Chinando il mento barbuto fino al petto, fece una breve pausa e poi prese a parlare con voce sonora, ma non cominciò dal punto che si aspettava Eragon, e forse anche il resto dei presenti. Invece di descrivere l'attentato contro il fratello adottivo e spiegare così perché aveva abbandonato la consulta, cominciò a raccontare che agli albori della storia il popolo dei nani era emigrato dal Deserto di Hadarac, un tempo verdeggiante, fino ai Monti Beor, dove aveva scavato infinite miglia di tunnel e costruito maestose città sopra e sotto la superficie terrestre. Poi parlò delle grandi guerre tra le varie fazioni e contro i draghi, che per migliaia di anni i nani avevano trattato con un misto di odio, paura e riluttante soggezione. E infine narrò dell'arrivo degli elfi in Alagaësia, di come avevano combattuto contro i draghi fin quasi a sterminarsi a vicenda e della conseguente alleanza tra le due razze, che avevano fondato i Cavalieri dei Draghi per mantenere la pace. «E quale fu la nostra risposta quando apprendemmo le loro intenzioni?» domandò Orik con voce tonante. «Chiedemmo loro di essere inclusi nel patto? Aspirammo a condividere il potere dei Cavalieri dei Draghi? No! Fedeli alle nostre abitudini e all'antico odio verso i draghi, rifiutammo anche il solo pensiero di allearci con loro o di permettere a chiunque fosse estraneo al nostro regno di vegliare su di noi. Per preservare la nostra autorità, sacrificammo il nostro futuro, perché sono convinto che se ci fosse stato un Cavaliere knurlan, Galbatorix non sarebbe mai salito al potere. Se anche mi sbagliassi - e badate bene, non voglio sminuire Eragon, che si è dimostrato un ottimo Cavaliere - forse l'uovo della dragonessa Saphira si sarebbe dischiuso tra le mani di uno di noi e non di un umano. Riuscite a immaginare quale gloria avremmo potuto ricavarne? «Invece, da quando la regina Tarmunora e l'omonimo di Eragon siglarono la pace con i draghi, la nostra importanza in Alagaësia si è ridotta. All'inizio essere sminuiti non fu un boccone poi così amaro da ingoiare, e spesso fu più facile negarlo che accettarlo. Ma poi arrivarono gli Urgali, e poi gli umani, e gli elfi modificarono i loro incantesimi così che anche gli umani potessero diventare Cavalieri. Allora cercammo forse di essere inclusi nel loro accordo, come avremmo potuto, anzi, com'era nostro diritto?» Orik scosse il capo. «Il nostro orgoglio non ce lo consentì. Perché noi, la razza più antica della terra, avremmo dovuto implorare gli elfi per godere dei benefici della loro magia? Noi non avevamo bisogno di assoggettare il nostro destino a quello dei draghi per salvare la nostra razza dalla distruzione, come invece fecero gli elfi e gli umani. Ovviamente non consideravamo le battaglie tra di noi. A nostro parere erano questioni private e di scarso interesse per chiunque altro.» I capiclan in ascolto si agitarono sulle sedie. Alla critica di Orik molti aggrottarono la fronte, mentre altri, più sensibili ai suoi commenti, si fecero pensosi. Orik continuò: «Mentre i Cavalieri vegliavano su Alagaësia, noi vivemmo il periodo di più grande benessere mai registrato negli annali del nostro regno. Prosperammo come mai prima di allora, e tuttavia non avemmo alcuna parte nel processo che diede vita a quell'era fortunata, e non aiutammo i suoi artefici: i Cavalieri dei Draghi. Quando i Cavalieri furono sconfitti, la nostra fortuna vacillò, ma ancora una volta noi non intervenimmo, non facemmo nulla per cambiare le cose. A mio parere, nessuna delle due situazioni si conviene a una razza del nostro calibro. Non siamo un paese di vassalli soggetti ai capricci di padroni stranieri. E chi non discende da Odgar o da Hlordis non dovrebbe dettare il nostro destino.» Il ragionamento di Orik cominciava a risultare più gradito ai capiclan, che annuirono e sorrisero. All'ultima frase Havard batté le mani. «Ora, prendiamo in esame la nostra epoca» proseguì Orik. «Galbatorix è in ascesa e tutte le razze combattono per la libertà. Il re è diventato così potente che l'unica ragione per cui non siamo ancora diventati suoi schiavi è che finora non ha scelto di montare in sella al suo drago nero e di attaccarci direttamente. Se lo facesse, cadremmo ai suoi piedi come arbusti travolti da una valanga. Per fortuna pare che si accontenti di aspettare che ci distruggiamo con le nostre mani oltrepassando i cancelli della sua cittadella a Urû'baen. Ora, vi ricordo che prima che Eragon e Saphira si presentassero bagnati e infangati sulla nostra soglia, con un centinaio di Kull ululanti alle calcagna, la nostra unica speranza di sconfiggere Galbatorix era che prima o poi, da qualche parte, l'uovo di Saphira si schiudesse tra le mani del Cavaliere prescelto e che magari, per un colpo di fortuna, questo sconosciuto fosse anche in grado di detronizzarlo. Speranza? Ah! Non ce l'avevamo nemmeno, una speranza; speravamo di avere una speranza. Quando Eragon si presentò a noi la prima volta, molti restarono sgomenti davanti al suo aspetto, me compreso. "Ma è solo un ragazzo" dicevamo. "Non sarebbe stato meglio un elfo?" E invece si è rivelato l'incarnazione di tutte le nostre speranze! Ha ucciso Durza, consentendoci di salvare la nostra città più amata, Tronjheim. La sua dragonessa, Saphira, ha promesso di riportare lo Zaffiro Stellato allo splendore originario. E durante la battaglia delle Pianure Ardenti Eragon ha messo in fuga Murtagh e Castigo, regalandoci la vittoria. Guardatelo! Ora ha assunto le sembianze di un elfo e grazie alla loro strana magia ne ha anche acquisito la velocità e la forza.» Orik alzò un dito per dare enfasi alle sue parole. «Inoltre re Rothgar, nella sua immensa saggezza, fece ciò che nessun altro re o grimstborith aveva mai fatto; si offrì di adottare Eragon nel Dûrgrimst Ingeitum e di accettarlo come membro della famiglia. Eragon non era costretto ad accettare l'offerta. Anzi, sapeva che molte delle famiglie appartenenti all'Ingeitum erano contrarie e che molti knurlan non l'avrebbero visto di buon occhio. Tuttavia, nonostante la disapprovazione generale e il suo vincolo di fedeltà a Nasuada, Eragon accettò il dono di Rothgar, pur sapendo che la sua vita si sarebbe complicata. Come mi disse lui stesso, prestò giuramento sul Cuore di Pietra per l'obbligo che sentiva nei confronti di tutte le razze di Alagaësia e soprattutto verso la nostra, perché noi, grazie al gesto di Rothgar, avevamo dimostrato a lui e a Saphira tanta gentilezza. Grazie al genio del nostro re, l'ultimo Cavaliere libero di Alagaësia e la nostra unica speranza contro Galbatorix ha scelto spontaneamente di diventare un knurla in tutto e per tutto, tranne che nel sangue. Da allora Eragon ha rispettato tutte le nostre leggi e tradizioni come meglio poteva e ha cercato di apprendere ancora meglio la nostra cultura per poter onorare il vero significato del suo giuramento. Quando Rothgar morì, colpito dal traditore Murtagh, Eragon mi giurò su tutte le pietre di Alagaësia e in qualità di membro dell'Ingeitum che avrebbe fatto di tutto per vendicarne la morte. Mi ha tributato il rispetto e l'obbedienza che mi spettavano in qualità di grimstborith, e sono orgoglioso di considerarlo mio fratello adottivo.» Eragon chinò il capo, le guance e la punta delle orecchie in fiamme. Avrebbe preferito che Orik non fosse stato così generoso nel tessere le sue lodi, perché d'ora in avanti avrebbe fatto più fatica a mantenere la propria posizione. Facendo un ampio gesto con le braccia, come se volesse includere gli altri capiclan, Orik esclamò: «Tutto ciò che avremmo mai potuto desiderare in un Cavaliere dei Draghi l'abbiamo trovato in Eragon! Lui esiste davvero! Lui è forte! E ha abbracciato la causa del nostro popolo come nessun altro Cavaliere!» Poi abbassò le braccia e anche il volume della voce, finché Eragon dovette sforzarsi per sentirlo. «E noi come abbiamo risposto alla sua amicizia? Perlopiù con sarcasmo, offese e scontroso risentimento. Siamo una razza di ingrati, lasciatemelo dire, e purtroppo per noi abbiamo una memoria di ferro... C'è anche chi trabocca d'odio al punto da ricorrere alla violenza per placare la propria rabbia. Forse questi individui credono ancora di fare ciò che è meglio per il nostro popolo, ma in tal caso le loro menti sono ammuffite come un pezzo di formaggio dell'anno passato. Altrimenti perché avrebbero tentato di uccidere Eragon?» I capiclan in ascolto rimasero perfettamente immobili, gli sguardi inchiodati sul viso di Orik. E così concentrati che il grimstborith più corpulento, Freowin, aveva messo da parte la scultura lignea del corvo e aveva intrecciato le mani sull'ampia pancia: sembrava in tutto e per tutto una delle statue dei nani. Mentre i presenti lo fissavano senza battere ciglio, Orik disse loro dei sette nani vestiti di nero che avevano attaccato Eragon e le sue guardie mentre girovagavano nei cunicoli sotto Tronjheim. Poi raccontò del braccialetto di crini di cavallo intrecciato con perle di ametista che le guardie avevano trovato su uno dei cadaveri. «Non penserai di incolpare il mio clan sulla base di prove così insignificanti!» esclamò Vermûnd, scattando in piedi. «Quelle carabattole si possono comprare in quasi tutti i mercatini del regno!» «È vero» rispose Orik, chinando il capo verso di lui. Poi, con voce neutra e a ritmo sostenuto, procedette con il racconto che aveva già tratteggiato a Eragon la sera prima. Spiegò che i suoi sottoposti a Dalgon gli avevano confermato che gli strani pugnali scintillanti utilizzati dagli assassini erano stati forgiati dal fabbro Kiefna, e avevano scoperto che il nano che aveva acquistato le armi aveva fatto in modo che fossero trasportate da Dalgon in una delle città controllate dall'Az Sweldn rak Anhûin. Borbottando un'imprecazione a fior di labbra, Vermûnd balzò di nuovo in piedi. «Quei pugnali potrebbero anche non aver mai raggiunto la nostra città, e comunque non puoi trarre le tue conclusioni basandoti solo su questo fatto! Entro quelle mura risiedono knurlan di molti clan, come qui alla Roccaforte di Bregan, per esempio. Non significa niente. Attento a quello che stai per dire, Grimstborith Orik, perché non hai niente a cui aggrapparti per lanciare accuse contro il mio clan.» «Anch'io ero della tua stessa opinione, Grimstborith Vermûnd» disse Orik. «Così ieri sera, dopo aver chiesto ai miei stregoni di ricostruire a ritroso gli ultimi spostamenti degli assassini fino al punto di partenza, abbiamo catturato tre knurlan nascosti in un polveroso magazzino al dodicesimo livello di Tronjheim. Siamo penetrati nella mente di due di loro e abbiamo scoperto che avevano fornito agli assassini tutto l'equipaggiamento necessario per l'attacco. E infine» continuò, la voce sempre più roca e terribile «abbiamo appreso l'identità del loro padrone. Tu, Grimstborith Vermûnd! Io dichiaro che sei un assassino e uno spergiuro! Ti dichiaro nemico del Dûrgrimst Ingeitum e ti accuso di tradimento davanti alla tua gente, perché siete stati tu e il tuo clan a cercare di uccidere Eragon!» Tutti i capiclan tranne Orik e Vermûnd presero a gridare, ad agitare le mani e a cercare in ogni modo possibile di monopolizzare la conversazione, e il raduno scivolò nel caos. Eragon si alzò e allentò la fibbia del fodero della spada presa in prestito, sfilandola di mezzo pollice per poter rispondere in fretta se Vermûnd o uno dei suoi nani avessero scelto quel momento per attaccare. Tuttavia Vermûnd non si mosse, e nemmeno Orik; si fissavano come lupi rivali, noncuranti del trambusto intorno a loro. Alla fine, quando Gannel riuscì a ristabilire l'ordine, disse: «Grimstborith Vermûnd, sei in grado di confutare queste accuse?» Con voce piatta e priva di emozione, il capoclan rispose: «Le respingo con ogni osso che ho in corpo e sfido chiunque a provarle con il benestare di un esperto nelle nostre leggi.» Gannel si rivolse a Orik. «Presenta le tue prove, dunque, così che possiamo giudicare se sono valide oppure no. Ci sono cinque esperti qui riuniti oggi, se non mi sbaglio.» Fece un cenno verso la parete, e cinque nani dalla barba bianca si alzarono e si inchinarono. «Garantiranno che nel corso della nostra indagine non oltrepassiamo i confini della legge. Siamo tutti d'accordo?» «Sì» rispose Ûndin. «Sì» gli fecero eco Hadfala e gli altri capiclan, tranne Vermûnd. Per prima cosa, Orik posò il braccialetto di ametista sul tavolo. Ogni capoclan lo fece esaminare dai suoi stregoni, ma convennero tutti che non si trattava di una prova schiacciante. Poi fece portare da un aiutante uno specchio montato su un treppiede di bronzo. Uno dei maghi del suo seguito pronunciò un incantesimo e sulla superficie lucida dello specchio apparve l'immagine di una stanzetta piena di libri. Trascorse un istante e poi videro entrare di corsa un nano che si inchinò verso i capiclan. Senza fiato, disse di chiamarsi Rimmar, e dopo aver prestato giuramento nell'antica lingua a garanzia della propria onestà raccontò al raduno che lui e i suoi assistenti avevano scoperto cose interessanti sui pugnali degli assassini di Eragon. Quando i capiclan ebbero finito di interrogare Rimmar, Orik chiese ai suoi guerrieri di portare i tre nani catturati dall'Ingeitum. Gannel ordinò loro di prestare giuramento nell'antica lingua, ma loro lo maledissero, sputarono per terra e si rifiutarono. Poi i maghi di tutti i clan unirono i loro pensieri, invasero le menti dei prigionieri e carpirono loro le informazioni desiderate. Senza eccezioni, confermarono la versione di Orik. Infine Orik chiamò a testimoniare Eragon. Il giovane si sentiva nervoso mentre avanzava verso il tavolo sotto lo sguardo dei tredici capiclan incupiti. Fissò una piccola spirale di colore su un pilastro di marmo davanti a sé e cercò di reprimere il disagio. Ripeté il giuramento così come lo pronunciò uno dei maghi e poi, limitandosi allo stretto necessario, raccontò dell'attacco. Infine rispose alle inevitabili domande dei nani e permise a due maghi, scelti a caso da Gannel tra i presenti, di esaminare i ricordi che serbava dell'evento. Via via che abbassava le barriere attorno alla sua mente, Eragon notò che cresceva l'apprensione dei due maghi, e lo trovò confortante. Con suo grande sollievo, l'ispezione procedette senza incidenti e i maghi confermarono la sostanza del suo racconto ai capiclan. Gannel si alzò e si rivolse agli esperti di legge: «Siete soddisfatti delle prove che Grimstborith Orik ed Eragon Ammazzaspettri vi hanno portato?» I cinque nani dalla barba bianca si inchinarono e quello al centro rispose: «Sì, Grimstborith Gannel.» Gannel grugnì; non sembrava molto sorpreso. «Grimstborith Vermûnd, sei responsabile della morte di Kvîstor, figlio di Bauden. Per di più hai tentato di uccidere un ospite, gettando la vergogna sull'intera razza. Che cos'hai da dire a riguardo?» Il capoclan dell'Az Sweldn rak Anhûin premette le mani sul tavolo, le vene in rilievo sotto la pelle abbronzata. «Se questo Cavaliere dei Draghi è un knurla in tutto e per tutto tranne che nel sangue, allora non è un ospite, e dunque possiamo trattarlo come se fosse un qualunque nemico di un clan diverso.» «Oh, ma è assurdo!» esclamò Orik, quasi sputacchiando tanto era infuriato. «Non puoi sostenere che Era...» «Per cortesia, Orik, tieni a freno la lingua» intervenne Gannel. «Gridare non servirà a chiarire questo punto. Orik, Nado, Íorûnn, venite con me.» Eragon si sentì attanagliare dalla preoccupazione mentre i quattro nani conferivano con gli esperti giuristi. Tornata al tavolo, Íorûnn disse: «Gli esperti giuristi hanno espresso un giudizio unanime. Oltre a essere un membro effettivo del Dûrgrimst Ingeitum, Eragon riveste posizioni di prestigio al di fuori del nostro regno: prima di tutto è un Cavaliere dei Draghi, ma è anche un inviato ufficiale dei Varden, mandato da Nasuada per assistere all'incoronazione del nostro prossimo sovrano, e un amico molto influente della regina Islanzadi e del suo popolo. Per questi motivi gli è dovuta la stessa ospitalità che concederemmo a ogni altro ambasciatore, principe, monarca o autorità in visita.» La donna gli scoccò un'occhiata, gli occhi scuri e luccicanti sfacciatamente puntati sul suo corpo. «In breve, è un ospite d'onore, e noi dobbiamo trattarlo come tale... ogni knurla con un po' di buonsenso dovrebbe saperlo.» «Sì, è nostro ospite» convenne Nado. Aveva le labbra esangui e screpolate e le guance tese, come se avesse appena dato un morso a una mela scoprendo che non era ancora matura. «Che cos'hai da dire ora, Vermûnd?» gli chiese Gannel. Alzatosi, il nano coperto dal lungo velo viola passò in rassegna i presenti seduti al tavolo, guardando un capoclan dopo l'altro. «Sentite bene cos'ho da dire, grimstborithn: se uno dei vostri clan rivolge l'ascia contro l'Az Sweldn rak Anhûin a causa di queste false accuse, lo giudicheremo un atto di guerra e risponderemo nel modo più appropriato. Se mi imprigionate, lo giudicheremo un atto di guerra e risponderemo nel modo più appropriato.» Eragon vide il velo di Vermûnd fremere e immaginò che il nano stesse sorridendo. «Se ci colpirete, che sia con l'acciaio o con le parole, per quanto blanda sia la vostra accusa, lo giudicheremo un atto di guerra e risponderemo nel modo più appropriato. A meno che non siate ansiosi di mandare il nostro paese in mille sanguinosi pezzi, vi suggerisco di lasciare che il vento spazzi via la discussione di stamattina e di concentrarvi invece su chi salirà sul trono di granito per governarci.» I capiclan rimasero seduti a lungo in silenzio. Eragon dovette mordersi la lingua per trattenersi dal balzare sul tavolo e scagliarsi contro Vermûnd almeno finché i nani non avessero acconsentito a impiccarlo per i crimini commessi. Ricordò a se stesso che aveva promesso a Orik di assecondarlo durante la consulta. Freowin sciolse le mani e picchiò sul tavolo un palmo carnoso. Con la sua roca voce da baritono, che si diffuse per tutta la stanza benché non sembrasse più forte di un sussurro, il nano corpulento disse: «Hai gettato la vergogna sulla nostra razza, Vermûnd. Non possiamo mettere da parte il nostro onore di knurlan e ignorare la tua violazione.» Hadfala fece frusciare il fascio di pagine ricoperte di rune e disse: «Che cosa credevi di ottenere uccidendo Eragon, se non la nostra rovina? Anche se i Varden riuscissero a detronizzare Galbatorix senza di lui, hai mai pensato al dolore che ci riverserebbe addosso la dragonessa Saphira se uccidessimo il suo Cavaliere? Colmerebbe il Farthen Dûr di un mare di sangue. Il nostro.» Vermûnd non proferì parola. Una risata squarciò il silenzio. Il suono fu così inaspettato che all'inizio Eragon non si accorse che proveniva da Orik. Quando quello scatto d'ilarità si fu placato, Orik disse: «Se prendiamo provvedimenti contro l'Az Sweldn rak Anhûin lo giudicherai un atto di guerra, Vermûnd? Benissimo: allora non dobbiamo farlo, niente affatto.» Vermûnd sporse in avanti la fronte. «E allora dove sta il divertimento?» Orik ridacchiò di nuovo. «Ho pensato a una cosa che evidentemente ti è sfuggita. Vuoi che lasciamo in pace te e i tuoi? Allora propongo ai clan qui presenti di esaudire la tua richiesta. Se Vermûnd ha agito da solo e non in qualità di grimstborith, sarà bandito per le sue offese sotto pena di morte. E tratteremo il suo clan alla stessa stregua: bandiremo l'Az Sweldn rak Anhûin dai nostri cuori e dalle nostre menti finché non sceglieranno di sostituire Vermûnd con un capoclan di temperamento più moderato e finché non riconosceranno il loro crimine e non se ne pentiranno davanti a questo raduno, dovessimo anche aspettare un migliaio di anni.» La pelle rugosa attorno agli occhi di Vermûnd impallidì. «Non oseresti mai.» Orik sorrise. «Così non toccheremmo né te né il tuo clan, nemmeno con un dito. Ci limiteremo a ignorarti e a rifiutarci di commerciare con l'Az Sweldn rak Anhûin. Ci dichiarerai guerra perché non facciamo niente, Vermûnd? Se gli altri capiclan sono d'accordo con me, questo è precisamente ciò che faremo: I capiclan non impiegarono molto a decidere. Uno dopo l'altro, si alzarono e votarono per bandire l'Az Sweldn rak Anhûin. Perfino Nado, Gàldhiem e Havard, prima alleati di Vermûnd, sostennero la proposta di Orik. A ogni voto a favore, il lembo di pelle visibile sotto il velo di Vermûnd diventava sempre più bianco, finché non parve un fantasma ancora avvolto negli abiti della vita precedente. Quando la votazione fu conclusa, Gannel indicò la porta e disse: «Vattene, Vargrimstn Vermûnd. Lascia Tronjheim oggi stesso, e che nessun altro membro dell'Az Sweldn rak Anhûin osi interrompere questo raduno finché non saranno rispettate le condizioni stabilite. Fino a quel momento, chiunque di loro sarà escluso. Sappi una cosa, tuttavia, Vermûnd: mentre quelli del tuo clan potranno essere assolti dal loro disonore, tu rimarrai un Vargrimstn fino al giorno della tua morte. Questo è il volere dei capiclan qui riuniti.» Conclusa la sua dichiarazione, Gannel sedette. Vermûnd rimase dov'era, le spalle scosse da un'emozione che Eragon non riuscì a identificare. «Siete voi che avete infangato e tradito la nostra razza» borbottò. «I Cavalieri dei Draghi hanno ucciso tutti i componenti del nostro clan, tranne Anhûin e le sue guardie. Vi aspettate che possiamo dimenticarlo? Vi aspettate che possiamo perdonare? Bah! Io sputo sulle tombe dei vostri antenati. Noi almeno non abbiamo perso la barba. Non staremo qui a gingillarci con questo burattino degli elfi mentre i membri defunti della nostra famiglia gridano ancora vendetta.» Dato che nessuno degli altri capiclan replicava, Eragon si infuriò, e stava per rispondere all'invettiva di Vermûnd con parole dure quando Orik gli scoccò un'occhiata e scosse il capo in modo quasi impercettibile. Eragon tenne a freno la rabbia con difficoltà, pur chiedendosi perché Orik permetteva che insulti così gravi venissero ignorati. Allontanata la sedia dal tavolo, Vermûnd si alzò, le mani strette a pugno, le spalle diritte. Riprese a parlare, rimproverando e denigrando i capiclan con crescente veemenza, finché non si ritrovò a gridare a squarciagola. Per quanto oltraggiose fossero le sue imprecazioni, i capiclan non risposero. Fissavano un punto in lontananza, come se stessero ponderando complessi dilemmi, e il loro sguardo scivolava su Vermûnd senza soffermarsi. Nella concitazione del momento, quando il traditore afferrò Reidamar per la cotta di maglia, tre delle guardie del capo del Dûrgrimst Urzhad balzarono su di lui e lo allontanarono, ma Eragon notò che mantenevano un'espressione mite e serafica, come se stessero solo aiutando il loro capo ad aggiustarsi l'usbergo. Quando ebbero lasciato andare Vermûnd, non lo degnarono più di alcuna attenzione. Eragon sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena. I nani si comportavano come se Vermûnd avesse cessato di esistere. Concluso il suo discorso con un'imprecazione, Vermûnd uscì a grandi falcate dalla stanza, seguito dai membri del suo clan che l'avevano accompagnato al raduno. Non appena le porte si furono chiuse alle sue spalle, l'atmosfera del raduno si distese. I nani si guardarono intorno liberamente e ripresero a parlare ad alta voce, discutendo di altri provvedimenti possibili da prendere nei confronti dell'Az Sweldn rak Anhûin. Poi Orik batté il pomolo del suo pugnale sul tavolo e tutti si volsero ad ascoltarlo. «Ora che Vermûnd è stato sistemato, c'è un altro argomento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Lo scopo di questo raduno è eleggere il successore di Rothgar. Abbiamo avuto tutti molto da dire a riguardo, ma ora credo che i tempi siano maturi per mettere da parte le parole e lasciar parlare i fatti. Dunque vi chiedo di decidere se siamo pronti - e secondo me lo siamo - a procedere alla votazione finale in capo a tre giorni, come previsto dalla nostra legge. Io voto sì.» Freowin guardò Hadfala, che guardò Gannel, che guardò Manndrâth, che si toccò il naso adunco e guardò Nado, sprofondato nella sedia e intento a mordersi l'interno di una guancia. «Sì» disse Íorûnn. «Sì» le fece eco Ûndin. «... Sì» confermò Nado, e così fecero anche gli altri otto capiclan. Ore dopo, durante la pausa per il pranzo, Orik e Eragon tornarono nell'alloggio del nano per mangiare. Nessuno dei due parlò finché non furono nelle sue stanze, al sicuro da orecchie indiscrete. Solo allora Eragon si concesse un sorriso. «Hai sempre avuto in mente di bandire l'Az Sweldn rak Anhûin, vero?» Con espressione soddisfatta, anche Orik sorrise e si diede una pacca sulla pancia. «Già. Era l'unica azione che potevo intraprendere per non arrivare alla guerra. Forse scoppierà comunque, ma non sarà per causa nostra. Dubito che una tale calamità si abbatta su di noi, comunque. Per quanto ti detestino, gli Az Sweldn rak Anhûin rimarranno inorriditi da ciò che ha fatto Vermûnd a nome di tutto il clan. Non resterà il loro grimstborith a lungo, credo.» «E adesso ti sei assicurato che la votazione per eleggere il nuovo re...» «O la nuova regina.» «... o la nuova regina abbia luogo fra tre giorni.» Eragon esitò, riluttante all'idea di incrinare la gioia di Orik, ma poi gli chiese: «Hai davvero tutto il sostegno che ti serve per ottenere il trono?» Orik si strinse nelle spalle. «Prima di stamattina non ce l'aveva nessuno. Adesso gli equilibri si sono modificati e per il momento le simpatie degli altri clan sono per noi. Bisognerà cogliere l'occasione; non avremo mai un'opportunità migliore di questa. E comunque non possiamo permettere che la consulta si protragga oltre. Se non torni presto dai Varden, potrebbe essere tutto perduto.» «Che cosa facciamo in attesa del voto?» «Prima di tutto dobbiamo festeggiare il nostro successo con un banchetto» dichiarò Orik. «Poi, quando saremo sazi, riprenderemo le nostre attività: cercheremo di ottenere altri voti e nel contempo difenderemo quelli che ci siamo già conquistati.» Poi Orik sorrise di nuovo e i denti candidi brillarono sotto la barba. «Ma prima di tracannare anche un solo sorso di idromele, devi occuparti di una cosa di cui ti sei dimenticato.» «Ossia?» chiese Eragon, confuso dalla gioia di Orik. «Be', devi invitare Saphira a Tronjheim, naturalmente! Che io diventi re oppure no, fra tre giorni il nuovo sovrano sarà incoronato. Se Saphira deve essere dei nostri, dovrà volare veloce per arrivare in tempo.» Con una muta imprecazione, Eragon corse a cercare uno specchio. ♦ ♦ ♦ INSUBORDINAZIONE Roran s'inginocchiò per toccare il terriccio nero. Era freddo. Staccò una piccola zolla e la sbriciolò fra le dita, notando compiaciuto come era umida e ricca di foglie in decomposizione, di steli, di muschio e di altro materiale organico, eccellente concime per le colture. La premette contro le labbra e la lingua. La zolla sapeva di vita, satura di centinaia di aromi: montagne polverizzate e scarafaggi e legno marcio e tenera erbetta. «Ehi, Fortemartello!» gridò il capitano Edric in sella al cavallo, facendogli un cenno. «Non startene lì con le mani in mano, altrimenti cambio idea e ti lascio di guardia con gli arcieri.» Roran si scrollò la polvere dai pantaloni di pelle e si rialzò. «Signorsì! Agli ordini, signore!» disse, mascherando l'antipatia che provava per il capitano. Da quando si era unito alla compagnia di Edric, Roran aveva cercato di apprendere il più possibile sul suo conto. E in base alle voci che circolavano aveva concluso che Edric era un condottiero competente - Nasuada altrimenti non gli avrebbe mai affidato una missione così importante - ma dai modi aspri, e puniva i suoi guerrieri alla minima violazione delle regole da lui imposte, come Roran aveva imparato a proprie spese in tre diverse occasioni già il primo giorno nella sua compagnia. Secondo lui era uno stile di comando che minava il morale dei sottoposti, scoraggiandone la creatività e l'inventiva. Risalito in groppa a Fiammabianca, Roran cavalcò fino alla testa della colonna di duecentocinquanta uomini. La loro missione era semplice: poiché Nasuada e re Orrin avevano ritirato il grosso delle forze dal Surda, Galbatorix aveva deciso di approfittare della loro assenza per portare morte e distruzione nel paese indifeso, saccheggiando cittadine e villaggi, e bruciando i campi che fornivano le colture necessarie a sostenere l'invasione dell'Impero. La maniera più semplice per sbarazzarsi dei soldati sarebbe stata mandare Saphira allo scoperto per farli a pezzi, ma a meno che non dovesse raggiungere Eragon per qualche motivo, erano tutti d'accordo nel ritenere troppo pericoloso per i Varden privarsi di lei. Così Nasuada aveva inviato la compagnia di Edric a respingere i soldati, che secondo le spie dovevano essere circa trecento. Tuttavia, due giorni prima, Roran e il resto dei guerrieri avevano scoperto con sgomento una serie di impronte che indicavano che le forze di Galbatorix si assestavano piuttosto sulle settecento unità. Tenendo Fiammabianca per le redini, Roran affiancò Carn sulla sua giumenta pomellata e, grattandosi il mento, studiò il terreno. Davanti a loro c'era una vasta distesa d'erba ondulata, punteggiata da qualche sporadico boschetto di salici o pioppi. In alto i falchi volavano in circolo, a caccia di topi, conigli, piccoli roditori e altri animali selvatici che si nascondevano fra l'erba. L'unica prova del passaggio degli uomini era la striscia di vegetazione calpestata che puntava verso l'orizzonte a est, indicando la direzione presa dal contingente. Carn alzò lo sguardo verso il sole di mezzogiorno. Una ragnatela di rughe gli si formò intorno agli occhi socchiusi. «Dovremo superarli prima che le nostre ombre si allunghino.» «E allora scopriremo se siamo abbastanza per scacciarli» borbottò Roran «o per essere massacrati. Una volta tanto, mi piacerebbe che fossimo più numerosi dei nostri nemici.» Un sorriso sinistro apparve sul volto di Carn. «È sempre così con i Varden.» «Allineatevi!» urlò Edric, e spronò il cavallo per lanciarsi lungo la pista di erba calpestata. Roran serrò la mascella e diede un colpetto di talloni nei fianchi di Fiammabianca, mentre la compagnia seguiva il capitano. Sei ore più tardi, Roran era in groppa a Fiammabianca, nascosto in un boschetto di betulle che crescevano lungo la sponda di un fiumiciattolo stagnante, soffocato da giunchi e viluppi di alghe. Attraverso l'intrico di rami davanti a sé, osservava un villaggio grigio e cadente, composto da non più di una ventina di case. Aveva schiumato di rabbia quando aveva visto i villici che, appena scorti i soldati avanzare da ovest, si erano affrettati a raccogliere i loro pochi averi per fuggire a sud, verso il cuore del Surda. Fosse dipeso da lui, Roran avrebbe svelato la presenza della compagnia agli abitanti del villaggio e avrebbe garantito loro che non rischiavano di perdere le case, non se lui e i suoi compagni erano lì a impedirlo, perché ricordava fin troppo bene il dolore, la disperazione e l'amarezza che aveva provato nell'abbandonare Carvahall. Se avesse potuto, avrebbe risparmiato ai villici quelle angosce e avrebbe chiesto agli uomini di combattere insieme a loro. Dieci o venti uomini armati in più avrebbero potuto fare la differenza fra la vittoria e la sconfitta, e Roran conosceva meglio di chiunque altro il fervore con cui la gente combatte quando si tratta di difendere la propria casa. Purtroppo Edric aveva respinto la sua idea e insistito affinché i Varden rimanessero nascosti fra le colline a sud-est del villaggio. «Siamo stati fortunati, sono a piedi» mormorò Carn indicando la colonna rossa di soldati che marciava verso il villaggio. «Altrimenti non ce l'avremmo fatta ad arrivare qui per primi.» Roran scoccò un'occhiata alle sue spalle, verso gli uomini radunati dietro di loro. Edric gli aveva affidato il comando temporaneo di ottantuno guerrieri, fra spadaccini, lancieri e cinque o sei arcieri. Uno dei parenti di Edric, Sand, guidava altri ottantuno uomini della compagnia, mentre il resto era sotto il comando dello stesso Edric. Tutti e tre i gruppi erano ammassati nel boschetto di betulle, un grave errore, secondo Roran: il tempo necessario a schierarsi una volta usciti allo scoperto sarebbe stato un prezioso regalo per i soldati nemici, che così avrebbero potuto organizzare le proprie difese. Roran si sporse verso Carn e disse: «Non vedo nessuno di loro monco o storpio o ferito, ma questo non prova nulla. Sai dirmi se fra di loro ci sono uomini che non sentono il dolore?» Carn sospirò. «Vorrei poterlo fare. Tuo cugino potrebbe, perché gli unici stregoni che Eragon deve temere sono Murtagh e Galbatorix, ma io sono un mago mediocre e non oso sondare la mente dei soldati. Se ci fossero degli stregoni nascosti fra di loro, sentirebbero subito che ci sono io a spiarli, e probabilmente non riuscirei nemmeno a entrare nella loro mente prima che avvertano i compagni che ci troviamo qui.» «A quanto pare, ogni volta che stiamo per combattere ci ritroviamo ad affrontare questa stessa discussione» osservò Roran. Nel frattempo studiava gli armamenti dei soldati, cercando di decidere come meglio schierare i suoi uomini. Con una risata amara, Carn disse: «Proprio così. Spero solo di continuare a farlo, perché altrimenti...» «Uno di noi sarebbe morto, se non entrambi...» «Oppure vorrebbe dire che Nasuada ci ha assegnati a capitani diversi...» «E allora tanto varrebbe essere morti, perché nessuno ci guarderebbe le spalle altrettanto bene» concluse Roran. Un sorriso gli sfiorò le labbra. Si scambiavano sempre quella battuta prima di combattere. Estrasse il martello dalla cintura e trasalì sentendo una fitta alla gamba destra, là dove il bue gli aveva lacerato la carne con il corno. Accigliato, tese la mano e si massaggiò la ferita. Carn se ne accorse e gli domandò: «Stai bene?» «Non morirò» rispose Roran, poi riconsiderò le parole dette. «O forse sì, ma che mi venga un colpo se resto qui ad aspettare mentre tu vai laggiù a massacrare quegli zotici.» Raggiunto il villaggio, i soldati lo attraversarono a passo di marcia e, fermandosi davanti a ogni casa, abbatterono le porte per irrompere nelle stanze e controllare che non ci fosse nessuno nascosto. Un cane sbucò di corsa da dietro un barile per raccogliere l'acqua piovana e, con i peli del collo gonfi e arruffati, cominciò ad abbaiare contro i soldati. Uno degli uomini fece un passo avanti e gli scagliò addosso una lancia, uccidendolo sul colpo. Non appena il primo dei soldati ebbe raggiunto l'estremità opposta del villaggio, Roran serrò la mano intorno al manico del martello preparandosi alla carica, ma poi udì una serie di strilli acuti e fu preso dal terrore. Uno squadrone di soldati emerse dalla penultima casa trascinando fuori tre persone che si divincolavano: un uomo allampanato dai capelli bianchi, una giovane donna con la blusa strappata e un ragazzino di non più di undici anni. La fronte di Roran s'imperlò di sudore. Cominciò a imprecare piano, sottovoce, maledicendo i tre prigionieri per non essere fuggiti con gli altri, maledicendo i soldati per quanto avevano fatto e stavano per fare, maledicendo Galbatorix e maledicendo i capricci del fato responsabile della situazione. Sentiva gli uomini alle sue spalle agitarsi e mugugnare, impazienti di punire i soldati per la loro brutalità. Dopo aver setacciato tutte le case, i soldati tornarono sui propri passi fino al centro del villaggio e formarono un rozzo semicerchio intorno ai prigionieri. L'ufficiale in capo dei soldati, l'unico a cavallo, smontò dal suo destriero e scambiò qualche parola incomprensibile con l'uomo dai capelli bianchi. Poi, senza alcun preavviso, sguainò la spada e decapitò il vecchio, facendo un balzo indietro per evitare lo spruzzo di sangue. La giovane donna urlò ancora più forte di prima. «Carica» disse Edric. Roran impiegò mezzo secondo per capire che la parola pronunciata da Edric con tanta calma era il comando atteso. «Carica!» gridò Sand dall'altro lato di Edric, e un istante dopo si lanciò al galoppo con i suoi uomini fuori dal boschetto di betulle. «Carica!» gridò Roran, e affondò i talloni nei fianchi di Fiammabianca. Mentre il cavallo si gettava nel groviglio di rami, Roran alzò lo scudo per proteggersi, poi lo abbassò di nuovo quando uscirono allo scoperto per galoppare giù dal fianco della collina in un fragore di zoccoli scalpitanti. Nella speranza di riuscire a salvare almeno la donna e il bambino, Roran spronò il cavallo al limite delle sue possibilità. Guardandosi indietro, fu contento di vedere che il suo contingente si era staccato dal resto dei Varden senza difficoltà; tranne pochi ritardatari, la maggior parte avanzava in un gruppo compatto a meno di trenta piedi da lui. Scorse Carn cavalcare nell'avanguardia di Edric, il mantello grigio che svolazzava nel vento. Ancora una volta rimpianse che Edric non gli avesse permesso di restare nello stesso gruppo. Secondo gli ordini, Roran non entrò direttamente nel villaggio, ma deviò a sinistra per aggirare le case e fiancheggiare i soldati, per poterli attaccare da un'altra direzione. Sand fece lo stesso a destra, mentre Edric e i suoi guerrieri puntarono dritti sul villaggio. Anche se una fila di case gli impedì di vedere l'impatto iniziale, Roran udì un coro di urla concitate, poi una serie di strani schiocchi metallici, e ancora grida di uomini e nitriti di cavalli. Preoccupato, si sentì torcere le budella. Quando oltrepassò l'ultima casa, tirò forte le redini di Fiammabianca e lo guidò verso il centro del villaggio. Alle sue spalle, i suoi uomini lo imitarono. Quasi duecento iarde di fronte a sé vide una tripla fila di soldati schierati fra due case, a bloccare il passaggio. I soldati sembravano non aver alcun timore dei cavalli che correvano verso di loro. Roran esitò. Gli ordini erano chiari: lui e i suoi uomini dovevano caricare il lato ovest e farsi strada fra le truppe di Galbatorix fino a ricongiungersi con Sand ed Edric. D'altro canto, Edric non gli aveva detto che cosa fare se, una volta raggiunta la posizione, avesse scoperto che cavalcare dritti verso i soldati non era più una tattica efficace. Roran sapeva che disobbedire agli ordini, anche per evitare di far massacrare i suoi uomini, gli sarebbe costato l'accusa d'insubordinazione e una punizione esemplare da parte di Edric. In quel momento i soldati scostarono i voluminosi mantelli e sollevarono le balestre già cariche. E fu sempre in quel momento che Roran decise che avrebbe fatto il possibile per garantire ai Varden la vittoria. Non avrebbe permesso ai soldati di annientare il suo gruppo con un'unica pioggia di frecce solo per evitare le spiacevoli conseguenze di un atto di disobbedienza agli ordini del suo capitano. «Al riparo!» urlò, e tirò con forza le redini di Fiammabianca, obbligando l'animale a compiere una brusca sterzata dietro una casa. Un istante dopo, una decina di dardi si conficcarono nel lato dell'edificio. Guardandosi attorno, Roran vide che tutti i suoi guerrieri, tranne uno, erano riusciti a mettersi al riparo dietro le case vicine prima che il nemico lanciasse la salva di dardi. L'unico troppo lento giaceva sanguinante nella polvere, con una coppia di dardi affondati nel petto: gli avevano trapassato la cotta di maglia come se fosse stata un foglio di carta. Terrorizzato dall'odore del sangue, il cavallo dell'uomo ucciso scalciò e fuggì dal villaggio, in una scia di polvere. Roran tese un braccio e afferrò il bordo di una trave sul lato della casa, tenendo fermo Fiammabianca mentre cercava un modo per uscire da quella situazione disperata. I soldati lo avevano intrappolato insieme ai suoi uomini; non potevano tornare allo scoperto senza essere trafitti da così tanti dardi che avrebbero finito per somigliare a porcospini. Un gruppo di suoi guerrieri uscì dal riparo dietro una casa vicina all'edificio che nascondeva Roran e lo raggiunse. «Che cosa dobbiamo fare, Fortemartello?» gli domandarono. Non sembravano turbati dal fatto che avesse disobbedito agli ordini; anzi, lo fissavano con rinnovata fiducia. Roran si guardò intorno, cercando di ragionare il più in fretta possibile. Per caso, i suoi occhi si posarono sull'arco e sulla faretra legati alla sella di uno degli uomini. Sorrise. Soltanto pochi di quei guerrieri combattevano da arcieri, ma tutti avevano arco e frecce per poter cacciare e contribuire al sostentamento della compagnia quando si trovavano da soli in luoghi selvaggi senza l'appoggio del resto dei Varden. Roran indicò la casa contro cui era appoggiato e disse: «Prendete gli archi e arrampicatevi sul tetto, e appostatevi lì, quanti più riuscite; se tenete alla vita, però, state giù fino a nuovo ordine. Al mio segnale, cominciate a colpire il nemico e continuate finché non resterete a corto di frecce o finché anche l'ultimo soldato non sarà morto. Chiaro?» «Signorsì!» «Andate, allora. Quelli che non riusciranno a salire su questo tetto ne trovino altri da dove colpire i soldati. Harald, passa parola a tutti, trova dieci dei nostri migliori lancieri e dei nostri migliori spadaccini e portali qui più veloce che puoi.» «Signorsì!» In un turbine di movimento, i guerrieri si affrettarono a obbedire. Quelli che si trovavano più vicini a Roran recuperarono gli archi e le faretre dalle selle, poi, salendo sul dorso dei cavalli, si issarono sul tetto di paglia della casa. Qualche minuto dopo quasi tutti gli uomini di Roran erano appostati sui tetti di sette diverse case - otto uomini circa per tetto - e Harald era tornato seguito dagli spadaccini e dai lancieri. Ai guerrieri radunati intorno a lui Roran disse: «Bene, ora statemi a sentire. Quando darò l'ordine, gli uomini sui tetti cominceranno a tirare. Non appena il primo sciame di frecce colpirà i soldati, noi usciremo allo scoperto e cercheremo di salvare il capitano Edric. Se non ci riusciamo, prepariamoci a dare alle tuniche rosse un assaggio di freddo metallo. Gli arcieri dovrebbero creare abbastanza confusione da permetterci di assalire i soldati prima che riescano a usare le balestre. Tutto chiaro?» «Signorsì!» «E allora... tirate!» gridò Roran. Urlando a squarciagola, i guerrieri appostati sui tetti si alzarono e, come un sol uomo, scaricarono gli archi sui soldati nemici. Le frecce sibilarono come uno stormo di averle assetate di sangue che si tuffasse in picchiata sulle prede. Un istante dopo, mentre si levavano i gemiti di agonia dei soldati feriti a morte, Roran disse: «E ora In gruppo compatto, lui e i suoi uomini galopparono intorno alla casa, obbligando i destrieri a compiere una curva così stretta che rischiarono di rovesciarsi. Affidandosi alla propria velocità e all'abilità degli arcieri sui tetti, Roran schivò i soldati che correvano in preda al panico e giunse sul luogo del disastroso attacco di Edric. Lì il terreno era viscido di sangue, e fra una casa e l'altra giacevano i cadaveri di molti uomini valorosi e le carcasse dei loro cavalli. Le forze residue di Edric erano impegnate in un combattimento corpo a corpo con i soldati. Con stupore, Roran vide che il capitano era ancora vivo e combatteva schiena a schiena con cinque dei suoi uomini. «Serrate i ranghi!» urlò Roran ai compagni mentre si gettavano nella mischia. Fiammabianca colpì due soldati con gli zoccoli e li gettò a terra, spezzando le braccia con cui impugnavano le spade e calpestando loro le costole. Roran diede una pacca compiaciuta sul collo dello stallone, poi fece roteare il martello, ringhiando di gioia sanguinaria mentre abbatteva un soldato dopo l'altro senza che nessuno riuscisse a sostenere la ferocia del suo assalto. «A me!» urlò, affiancandosi a Edric e agli altri sopravvissuti. «A me!» Di fronte a lui, le frecce continuavano a piovere sulla massa dei soldati, costringendoli a coprirsi con gli scudi mentre cercavano di parare i colpi delle spade e delle lance dei Varden. Quando lui e i suoi guerrieri ebbero circondato i Varden appiedati, Roran urlò: «Indietro! Indietro! Alle case!» Passo dopo passo, indietreggiarono tutti fino a portarsi fuori del raggio delle lame nemiche, poi si voltarono e corsero fino alla casa più vicina. I soldati scagliarono i dardi e uccisero tre dei Varden lungo il tragitto, ma il resto arrivò illeso all'edificio. Edric si accasciò contro il muro, ansimando per riprendere fiato. Quando fu di nuovo in grado di parlare, fece un cenno verso gli uomini di Roran e disse: «Il vostro intervento è stato tempestivo e gradito, Fortemartello, ma perché vi vedo qui, e non a cavalcare in mezzo agli altri soldati nemici, come mi aspettavo?» Allora Roran spiegò che cosa aveva fatto e indicò gli arcieri sui tetti. Una cupa ruga solcò la fronte di Edric mentre ascoltava il resoconto di Roran. Tuttavia non lo punì per la sua disobbedienza, ma si limitò a dirgli: «Fa' subito scendere quegli uomini. Sono riusciti a rompere le fila dei soldati. Adesso dobbiamo affidarci all'onesto lavoro di spada per sconfiggerli.» «Siamo troppo pochi per attaccare direttamente i soldati!» protestò Roran. «Non siamo neppure uno contro tre.» «Dove mancano i numeri, si fa avanti il valore!» tuonò Edric. «Mi avevano detto che eri un uomo coraggioso, Fortemartello, ma a quanto pare era una menzogna, e sei pavido come un coniglio spaurito. Ora ubbidisci agli ordini e non osare contraddirmi di nuovo!» Il capitano fece un cenno a uno dei guerrieri di Roran. «Tu, laggiù, prestami il tuo stallone.» Dopo che l'uomo fu smontato, Edric balzò in sella e disse: «La metà di voi a cavallo mi segua; portiamo rinforzi a Sand. Gli altri rimangano qui con Roran.» Scalciando nei fianchi del cavallo, si allontanò al galoppo con gli uomini che avevano scelto di seguirlo, sfilando di fianco alle case per aggirare i soldati ammassati al centro del villaggio. Mentre li guardava allontanarsi, Roran ebbe un fremito di rabbia. Non aveva mai permesso a nessuno prima di allora di mettere in dubbio il suo coraggio senza rispondere alla critica con le parole o con i pugni. Finché la battaglia era in corso, però, non sarebbe stato opportuno sfidare Edric. Roran si volse e ispezionò gli uomini che Edric gli aveva lasciato. Fra quelli che avevano salvato, fu felice di vedere Carn, graffiato e sporco di sangue, ma vivo. Si scambiarono un cenno, poi Roran si rivolse al gruppo. «Avete sentito quello che ha detto Edric. Io non sono d'accordo. Se facciamo come vuole, saremo una catasta di cadaveri prima del tramonto. Possiamo ancora vincere questa battaglia, ma non gettandoci fra le braccia della morte! Dove mancano i numeri, si fa avanti l'astuzia. Tutti voi sapete come mi sono unito ai Varden. Sapete che ho già combattuto e sconfitto l'Impero una volta, e proprio in un villaggio come questo! Posso farcela, ve lo giuro. Ma non da solo. Siete con me? Pensateci bene. Io mi assumerò la responsabilità di aver ignorato gli ordini di Edric, ma lui e Nasuada potrebbero punire lo stesso chiunque sia coinvolto.» «E sarebbero degli sciocchi» grugnì Carn. «Preferirebbero che morissimo qui? Non credo proprio. Puoi contare su di me, Roran.» A quelle parole, Roran vide gli altri uomini drizzare le spalle e serrare le mascelle. I loro occhi ardevano di rinnovata determinazione, e il giovane capì che avevano deciso di restare al suo fianco, fosse solo per non separarsi dall'unico mago della compagnia. Molti erano i guerrieri dei Varden che dovevano la vita a un membro del Du Vrangr Gata, e gli uomini d'armi che Roran conosceva si sarebbero tagliati un piede piuttosto che andare in battaglia senza uno stregone a portata di mano. «Sì, Fortemartello» disse Harald. «Puoi contare anche su di noi.» «Allora seguitemi!» disse Roran. Si chinò per issare Carn in sella dietro di sé, poi insieme al gruppo si lanciò al galoppo lungo il perimetro del villaggio per tornare là dove gli arcieri sui tetti continuavano a scagliare frecce sui soldati. Mentre saettavano da una casa all'altra, i dardi ronzavano tutto attorno come giganteschi insetti arrabbiati; uno si conficcò nello scudo di Harald. Raggiunto il riparo, Roran ordinò che gli uomini a cavallo consegnassero archi e frecce a quelli a piedi, che poi mandò sui tetti delle case insieme agli altri arcieri. Mentre tutti si affrettavano a obbedirgli, Roran richiamò con un cenno Carn, che era balzato giù da Fiammabianca non appena si erano fermati, e disse: «Mi serve un incantesimo di difesa. Puoi proteggere me e altri dieci da questi dardi?» Carn esitò. «Per quanto tempo?» «Un minuto? Un'ora? Chi può saperlo.» «Proteggere così tanta gente insieme da un tale numero di dardi esaurirebbe in poco tempo tutta la mia forza... però, se per te fa lo stesso, posso deviare ogni singolo dardo e...» «Perfetto.» «Chi vuoi che protegga?» Roran indicò gli uomini che aveva scelto e Carn chiese a ciascuno il nome. Poi, con le spalle curve, cominciò a borbottare nell'antica lingua, il volto pallido e tirato. Per tre volte cercò di evocare l'incantesimo e per tre volte fallì. «Mi dispiace» sospirò avvilito. «Non riesco a concentrarmi.» «Maledizione, non ti scusare» ringhiò Roran. «Fallo e basta!» Saltando giù da Fiammabianca, afferrò con le mani la testa di Carn tenendola ferma. «Guardami! Guardami dritto negli occhi. Ecco, continua a fissarmi... Bene. Adesso evoca questo dannato incantesimo!» I lineamenti del mago si spianarono, le spalle si sciolsero; poi, con voce sicura, Carn formulò l'incantesimo. Non appena ebbe pronunciato l'ultima parola, si abbandonò alla stretta di Roran, poi si riebbe. «Fatto» disse. Roran gli diede una pacca sulla spalla e tornò in groppa a Fiammabianca. Facendo scorrere lo sguardo sui dieci cavalieri, disse: «Guardatemi i fianchi e le spalle, ma tenetevi abbastanza lontani da permettermi di manovrare il martello.» «Signorsì!» «Ricordatevi che i dardi non possono farvi niente, adesso. Carn, tu resta qui. Risparmia le forze. Se ti accorgi di non riuscire più a mantenere l'incantesimo, avvertici prima di troncarlo. D'accordo?» Carn sedette sul gradino della casa e annuì. «D'accordo.» Stringendo con più forza scudo e martello, Roran trasse un profondo respiro nel tentativo di calmarsi. «Pronti» disse, e fece schioccare la lingua per incitare Fiammabianca. Con i dieci cavalieri al seguito, Roran uscì allo scoperto in mezzo alla strada polverosa per affrontare ancora una volta i soldati. Al centro del villaggio restavano all'incirca cinquecento soldati di Galbatorix, per gran parte inginocchiati dietro gli scudi e impegnati a ricaricare le balestre. Di tanto in tanto, un soldato si alzava e scagliava un dardo contro uno degli arcieri sui tetti prima di rituffarsi dietro lo scudo, mentre una pioggia di frecce fendeva l'aria nel punto in cui si era alzato. Nello spiazzo disseminato di cadaveri, fasci di frecce costellavano il terreno come giunchi che emergono da una palude di sangue. A diverse centinaia di piedi di distanza, dall'altro lato dei soldati, Roran scorse un groviglio di corpi che si agitavano furiosamente, e dedusse che era lì che Sand, Edric e gli altri superstiti stavano combattendo. Se la giovane donna e il ragazzino si trovavano ancora nello spiazzo, non riusciva a vederli. Un dardo sfrecciò ronzando verso Roran. Quando era a meno di una iarda dal suo petto, deviò bruscamente e mancò' sia lui che i suoi uomini. Roran ebbe un brivido, ma il dardo ormai era passato. La gola gli si serrò e il cuore cominciò a battergli all'impazzata. Guardandosi intorno, vide un carro rotto addossato a un muro. Lo indicò e ordinò: «Portatelo qui e capovolgetelo. Cercate di bloccare la strada.» Agli arcieri urlò: «Non lasciate che i soldati ci attacchino ai lati! Quando ci vengono addosso, sfoltite i loro ranghi più che potete, e non appena finite le frecce, raggiungeteci.» «Signorsì!» «Attenti a non colpirci per sbaglio, o giuro che verrò a infestare le vostre case per l'eternità!» «Signorsì!» Altri dardi sfrecciarono lungo la strada, diretti contro Roran e i suoi uomini, ma ogni volta furono intercettati dall'incantesimo di Carn e deviarono conficcandosi in un muro, nel terreno o schizzando verso il cielo. Roran osservò i suoi uomini trascinare il carro al centro della strada. Poco prima che finissero di sistemarlo, alzò la testa, si riempì i polmoni e ruggì ai soldati con quanto fiato aveva in gola: «Voi laggiù, dico a voi, bastardi rognosi! Guardate come solo undici di noi vi sbarrano il passo. Superateci e conquisterete la libertà. Fatevi sotto, se ne avete il coraggio. Cosa? Esitate? Dov'è la vostra virilità, vermi schifosi, sacchi di bile, porci assassini? I vostri padri erano mentecatti bavosi che avrebbero dovuto essere annegati alla nascita! Già, e le vostre madri erano sgualdrine vaiolose che si accoppiavano con gli Urgali!» Roran sorrise soddisfatto quando i soldati ulularono offesi e cominciarono a loro volta a insultarlo. Tuttavia uno dei soldati parve perdere la voglia di combattere, perché scattò in piedi e si slanciò verso nord, riparandosi con lo scudo e correndo a zigzag nel disperato tentativo di evitare gli arcieri. Malgrado i suoi sforzi, i Varden lo uccisero prima che avesse percorso più di un centinaio di piedi. «Ah!» esclamò Roran. «Non c'è uno fra di voi che non sia un vigliacco, luridi topi di fogna! Se serve a darvi un po' di nerbo, allora sappiate che il mio nome è Roran Fortemartello, ed Eragon Ammazzaspettri è mio cugino! Uccidetemi, e quel pazzo infame che avete per re vi ricompenserà con un contado, o anche di più. Ma dovrete uccidermi con una lama, perché con me le vostre balestre sono inutili. Fatevi sotto lumaconi, sanguisughe, viscidi parassiti morti di fame! Fatevi sotto e provate a sconfiggermi, se ne siete capaci!» Lanciando un feroce grido di battaglia, una trentina di soldati lasciarono cadere le balestre, sguainarono le spade scintillanti e con gli scudi levati corsero incontro a Roran e ai suoi uomini. Alla sua destra, Roran sentì Harald dire: «Signore, sono molti più di noi.» «Già» rispose Roran, gli occhi fissi sui soldati che si avvicinavano. Quattro di loro barcollarono e stramazzarono a terra, senza più muoversi, trafitti da numerose frecce. «Se ci caricano tutti insieme non ce la faremo.» «Sì, ma non lo faranno. Guarda: sono confusi e disorganizzati. Il loro comandante deve essere morto. Finché manteniamo l'ordine, non riusciranno a sopraffarci.» «Ma Fortemartello, non possiamo uccidere così tanti uomini da soli!» protestò Harald. Roran lo fulminò con un'occhiata. «Certo che possiamo! Noi combattiamo per proteggere le nostre famiglie e per riprenderci le nostre case e le nostre terre. Loro combattono perché Galbatorix li costringe a farlo. Non ci mettono il cuore, in questa battaglia. Perciò pensate alle vostre famiglie, pensate alle vostre case, e ricordate che è questo che state difendendo. Un uomo che combatte per qualcosa di più importante di lui è capace di uccidere cento nemici senza alcuna difficoltà!» Con lo sguardo della mente Roran rivide Katrina nel suo azzurro abito nuziale, sentì il profumo della sua pelle, udì i toni smorzati della sua voce mentre parlavano a tarda notte. Poi i soldati gli furono addosso, e per un po' Roran non sentì altro che il clangore delle spade che cozzavano sul suo scudo, i tonfi del suo martello che si abbatteva sugli elmi e le urla dei soldati che crollavano sotto i suoi colpi. I soldati gli si scagliavano contro guidati dalla forza della disperazione, ma non potevano competere con lui e i suoi uomini. Quando ebbe ucciso l'ultimo degli aggressori, Roran scoppiò a ridere euforico. Che gioia, aver sbaragliato coloro che avrebbero potuto fare del male a sua moglie e a suo figlio non ancora nato! Fu contento di vedere che nessuno dei suoi guerrieri era rimasto ferito in modo grave. Si accorse anche che durante lo scontro diversi arcieri erano scesi dai tetti per combattere a cavallo con loro. Roran sorrise e disse: «Benvenuti sul campo di battaglia!» «Davvero un caloroso benvenuto!» rispose uno degli arcieri. Indicando con il martello sporco di sangue il lato della strada, Roran disse: «Tu, tu, e tu, ammassate i corpi laggiù. Usateli insieme al carro per formare una barricata, in modo che solo due o tre soldati alla volta possano venirci addosso.» «Signorsì!» risposero i guerrieri, smontando di sella. Un dardo sibilò verso Roran. Lui lo ignorò e si concentrò sul gruppo principale dei nemici, dove un centinaio di soldati si stavano preparando per un secondo assalto. «Svelti!» urlò agli uomini che trascinavano i cadaveri. «Ci sono quasi addosso. Harald, vai ad aiutarli!» Roran si inumidì le labbra, guardando nervoso i suoi uomini all'opera mentre i soldati avanzavano. Con suo grande sollievo, i quattro Varden sistemarono l'ultimo cadavere e balzarono in groppa ai loro destrieri molto prima che l'ondata di soldati li travolgesse. Il carro capovolto e la raccapricciante barriera di resti umani, che sbarravano quasi completamente la strada, rallentarono e compressero il flusso di soldati tanto che quando raggiunsero Roran riuscivano ad avanzare a malapena. I soldati erano così ammassati che non riuscirono a sfuggire alle frecce scoccate dai tetti. Le prime due file di soldati erano armate di lance, con cui minacciavano Roran e gli altri Varden. Roran parò tre diversi affondi, imprecando fra i denti quando si rese conto che le lance gli impedivano di avvicinarsi abbastanza ai nemici per colpirli con il martello. Poi un soldato trafisse una spalla di Fiammabianca, e Roran si chinò in avanti per evitare di essere disarcionato, mentre lo stallone nitriva e s'impennava. Quando Fiammabianca toccò di nuovo il terreno con gli anteriori, Roran scivolò giù dalla sella tenendo lo stallone fra sé e la selva di lance. Fiammabianca s'impennò quando una seconda lancia lo colpì al fianco. Prima che i soldati potessero ferirlo ancora, Roran tirò le redini costringendolo a indietreggiare, finché non ci fu abbastanza spazio fra gli altri cavalli per farlo girare. «Yah!» gridò, e gli diede una pacca sulla groppa per farlo allontanare dal villaggio. «Fate largo!» urlò Roran ai Varden. I guerrieri gli aprirono un varco fra i destrieri e lui balzò di nuovo in prima linea, infilando il martello nella cintura mentre correva. Un soldato cercò di colpirlo al petto con la lancia. Roran la bloccò con il polso, e anche se si ferì con il duro legno dell'asta riuscì a strapparla dalle mani del soldato. L'uomo cadde a faccia avanti. Con una torsione del braccio, Roran lo trafisse con la sua stessa arma, poi si avventò contro altri due soldati e li uccise. Si fermò a gambe divaricate, piantando i piedi nel terreno fertile che un tempo avrebbe cercato di coltivare, e agitò la lancia contro i nemici, urlando: «Avanti, bastardi farabutti! Provate a uccidermi se ci riuscite! Io sono Roran Fortemartello e non temo nessun uomo vivo!» I soldati arrancarono nella strettoia; tre di loro salirono sui corpi dei loro compagni caduti in duello con Roran. Scartando di lato, Roran conficcò la lancia nella mascella del soldato all'estrema destra, frantumandogli i denti. Ritirò la lancia, tracciando un arco di sangue nell'aria, e poi s'inginocchiò di colpo per trafiggere il soldato al centro dell'ascella. Poi sentì qualcosa colpirlo alla spalla sinistra. Lo scudo si fece più pesante. Rialzandosi, vide una lancia conficcata nelle assi di legno di quercia, mentre il terzo soldato gli si avventava contro con la spada sguainata. Roran sollevò la lancia sopra la testa, come se volesse scagliarla, poi, quando il soldato esitò, gli sferrò un calcio in mezzo alle gambe. Gli bastò un solo colpo per sbarazzarsi di lui. Nel breve intervallo che seguì, Roran si liberò dello scudo ormai inutile e lo scaraventò fra i piedi dei nemici con la lancia ancora conficcata, con l'intenzione di farli inciampare. Altri soldati si fecero avanti sulle gambe malferme, intimoriti dal ghigno ferale di Roran e dalla sua lancia. La collinetta di cadaveri davanti a lui crebbe; quando gli arrivò alla cintola, Roran balzò in cima alla catasta insanguinata, dove sfruttò il vantaggio dell'altezza malgrado l'appoggio instabile. Dato che i soldati dovevano scalare una montagna di corpi per raggiungerlo, Roran riuscì a ucciderne molti altri che inciampavano in un braccio, o in una gamba, o affondavano il piede nel collo morbido di uno di quelli che li avevano preceduti, o scivolavano su uno scudo. Grazie alla posizione elevata, Roran riuscì a vedere che il resto dei soldati aveva deciso di unirsi all'assalto, eccetto una ventina che continuava a combattere dall'altra parte del villaggio con i guerrieri di Sand ed Edric. E capì che non avrebbe più avuto tregua se non a battaglia conclusa. Nel corso della giornata, Roran riportò decine di ferite. La maggior parte era di poco conto - un taglio all'interno dell'avambraccio, un dito rotto, un graffio sul costato dove una spada gli aveva lacerato la cotta di maglia - ma alcune erano piuttosto gravi. Un soldato caduto sulla pila di cadaveri gli trafisse il polpaccio destro, azzoppandolo. Subito dopo, un omone che puzzava di cipolle e formaggio gli cadde addosso e, con una zaffata di alito pestilenziale, gli conficcò il dardo di una balestra nella spalla sinistra, impedendogli da quel momento in poi di sollevare il braccio sopra la testa. Roran lasciò il dardo dov'era, sapendo che se lo avesse estratto sarebbe morto dissanguato. Il dolore divenne la sensazione predominante: ogni movimento gli procurava nuove fitte, ma fermarsi significava morire, perciò continuò a infliggere i suoi colpi mortali, incurante delle ferite e della stanchezza. In certi momenti, avvertiva la presenza dei Varden alle spalle o al fianco, come quando lo sorvolava una lancia scagliata da dietro o la lama di una spada compariva di lato per trapassare un soldato sul punto di colpirlo, ma perlopiù affrontava i soldati da solo, perché lo spazio di manovra consentito dalla pila di corpi, dai muri delle case e dal carro rovesciato era esiguo. Gli arcieri sui tetti che ancora avevano frecce a disposizione continuavano la loro mortifera opera di sbarramento; le aste dall'impennaggio d'oca selvatica trapassavano ossa e tendini senza distinzione. Più avanti nel corso della battaglia, Roran affondò la lancia contro un soldato, ma quando la punta colpì l'armatura dell'uomo, l'asta si spezzò in due per il lungo. L'uomo parve meravigliarsi di essere ancora vivo, perché aspettò un istante prima di rispondere con la spada. Quell'istante di esitazione permise a Roran di abbassarsi sotto la spada d'acciaio e di afferrare un'altra lancia, con cui uccise il soldato. Con un misto di sgomento e disgusto, Roran si vide spezzare fra le mani anche la seconda lancia. Scagliando i resti contro i soldati, Roran sfilò lo scudo a uno dei cadaveri ed estrasse il martello dalla cintura. Il suo martello almeno non lo aveva mai tradito. La stanchezza si dimostrò la sua più formidabile avversaria, mentre gli ultimi soldati si avvicinavano alla spicciolata e ciascuno aspettava il proprio turno per sfidarlo. Roran si sentiva le membra pesanti e intorpidite, aveva la vista offuscata e respirava con difficoltà; malgrado ciò, riusciva sempre a trovare l'energia per sconfiggere l'avversario successivo. Via via che i suoi riflessi rallentavano, i soldati gli inflissero parecchie ferite con affondi che prima avrebbe evitato con agio. Quando fra i soldati cominciarono ad aprirsi dei varchi e Roran riuscì a vedere di nuovo al di là, si rese conto che quel terribile cimento stava per concludersi. Non offrì agli ultimi dodici uomini alcuna pietà, né quelli gliela chiesero, anche se non potevano sperare di sconfiggere Roran e i Varden alle sue spalle. Non tentarono nemmeno di fuggire. Gli corsero incontro ringhiando, imprecando, con l'unico desiderio di uccidere l'uomo che aveva massacrato tanti compagni prima di loro. In un certo senso Roran ne ammirava il coraggio. Quattro uomini stramazzarono al suolo, il petto trafitto dalle frecce. Una lancia scagliata da qualcuno alle spalle di Roran trapassò un quinto soldato sotto la clavicola, e anche lui si accasciò sul mucchio di cadaveri. Altre due lance reclamarono le loro vittime, poi il resto dei soldati raggiunse Roran. Il soldato in testa gli si avventò contro con un'ascia dentata. Pur sentendo la punta del dardo graffiargli l'osso, Roran sollevò il braccio e bloccò l'ascia con lo scudo. Spinto dal dolore e dalla rabbia, come anche dal desiderio che la battaglia finisse al più presto, fece mulinare il martello e uccise il soldato con una mazzata alla testa. Senza fermarsi, balzò in avanti dandosi lo slancio con la gamba intatta e colpì il secondo soldato due volte al torace prima che quello riuscisse a difendersi, incrinandogli le costole. Il terzo parò due assalti, ma Roran lo ingannò con una finta e lo uccise. Gli ultimi due soldati lo strinsero da entrambi i lati, cercando di colpirlo alle caviglie mentre si arrampicavano sulla montagna di cadaveri. Ormai allo stremo, Roran duellò con tutti e due per alcuni logoranti, interminabili attimi, finché non uccise il primo sfondandogli l'elmo e l'altro spezzandogli il collo con un colpo ben assestato. Poi vacillò e svenne. Si sentì sollevare di peso e aprì gli occhi. Vide Harald che gli avvicinava una borraccia alle labbra. «Bevi» gli disse Harald. «Ti sentirai meglio.» Ancora ansante, Roran bevve qualche sorso fra un rantolo e l'altro. Il vino scaldato dal sole gli bruciò la gola riarsa. Quando sentì che le gambe lo avrebbero retto di nuovo, disse: «Sto bene, puoi lasciarmi, adesso.» Si appoggiò al martello e contemplò il campo di battaglia. Con soddisfazione notò quanto era cresciuta la collina di cadaveri: lui e i suoi compagni si trovavano a circa venti piedi dal suolo, quasi all'altezza del tetto delle case lì intorno. La maggior parte dei soldati erano stati uccisi dalle frecce, ma Roran sapeva di aver contribuito non poco a sfoltire i ranghi nemici. «Qua... quanti?» chiese a Harald. Il guerriero imbrattato di sangue scosse il capo. «Ho perso il conto a trentadue. Forse te lo può dire qualcun altro. Quello che hai fatto, Fortemartello... non ho mai visto compiere un'impresa simile, non da parte di un essere dotato di normali capacità umane. La dragonessa Saphira ha scelto bene: gli uomini della tua famiglia sanno combattere come nessun altro. Il tuo valore non ha pari fra gli umani, Fortemartello. Quale che sia il numero preciso di soldati che hai ucciso oggi, io...» «Centonovantatré!» gridò Carn, arrampicandosi sui cadaveri. «Sei sicuro?» chiese Roran, incredulo. Carn annuì mentre li raggiungeva. «Sissignore! Io sì che ho tenuto il conto. Centonovantatré... centonovantaquattro se consideri il soldato che hai ferito al ventre prima che gli arcieri lo finissero.» Roran rimase sbalordito davanti a quella cifra. Non avrebbe mai sospettato che fosse così esorbitante. Gli sfuggì una risatina rauca. «Peccato che non ce ne fossero altri. Altri sette, e sarei arrivato a duecento.» Anche gli altri si misero a ridere. Con il volto minuto adombrato di preoccupazione, Carn tese una mano verso il dardo conficcato nella spalla sinistra di Roran, dicendo: «Su, lascia che mi occupi delle tue ferite.» «No!» esclamò Roran, e lo respinse. «Potrebbero esserci altri feriti più gravi. Pensa prima a loro.» «Roran, molte di quelle ferite potrebbero rivelarsi fatali se non arresto l'emorragia. Non mi ci vorrà che...» «Sto bene» grugnì Roran. «Lasciami in pace.» «Roran, guarda le tue ferite!» Roran ubbidì e subito distolse lo sguardo. «Allora sbrigati.» Fissò il cielo limpido, con la mente sgombra, mentre Carn gli estraeva il dardo dalla spalla e mormorava una serie di incantesimi. Dove arrivava la magia, Roran si sentiva prudere e formicolare la pelle, una sensazione seguita da un immediato sollievo. Quando Carn ebbe finito, Roran era ancora tutto indolenzito, ma non soffriva più tanto e la sua mente era di nuovo lucida. L'opera di guarigione lasciò Carn pallido e tremante. Lo stregone si piegò sulle ginocchia finché i tremori non cessarono. «Vado...» S'interruppe per prendere fiato. «Vado ad aiutare gli altri feriti.» Si rialzò e scese dall'orrido cumulo, barcollando come ubriaco. Roran lo seguì con lo sguardo, preoccupato. All'improvviso si chiese che fine avesse fatto il resto della spedizione. Scrutò in fondo al villaggio e non vide altro che corpi riversi, alcuni vestiti del rosso dell'Impero, altri della lana bruna dei Varden. «Che ne è stato di Edric e Sand?» chiese a Harald. «Mi dispiace, Fortemartello, non vedevo nulla oltre la punta della mia spada.» Rivolto ai pochi uomini che ancora restavano sui tetti delle case, Roran gridò: «Che ne è stato di Edric e Sand?» «Non lo sappiamo, Fortemartello!» risposero. Appoggiandosi al martello per tenersi in equilibrio, Roran scese piano piano dal cumulo di cadaveri. Lui, Harald e altri tre uomini attraversarono lo spiazzo al centro del villaggio, dando il colpo di grazia a ogni soldato che trovavano ancora in vita. Quando arrivarono in fondo allo spiazzo, dove il numero dei Varden caduti superava quello dei soldati, Harald batté la spada sullo scudo e gridò: «C'è qualcuno ancora vivo?» Dopo un istante, una voce rispose fra le case: «Fatevi riconoscere!» «Harald e Roran Fortemartello, e altri Varden. Se sei un soldato imperiale, arrenditi, perché i tuoi compagni sono morti e non puoi fare più niente.» Da dietro le case provennero i tonfi metallici delle armi gettate a terra; poi, uno o due alla volta, alcuni guerrieri Varden emersero dai nascondigli e arrancarono verso lo spiazzo, molti reggendo un compagno ferito. Avevano l'aria frastornata, e alcuni erano così coperti di sangue che lì per lì Roran li scambiò per prigionieri. Contò ventiquattro uomini. Nell'ultimo gruppetto di superstiti c'era Edric, intento ad aiutare un uomo che aveva perduto il braccio destro nella battaglia. Roran fece un cenno, e due dei suoi uomini si affrettarono a sollevare Edric dal quel peso. Il capitano raddrizzò le spalle e lentamente si avvicinò a Roran, guardandolo dritto negli occhi, con un'espressione indecifrabile. Né lui né Roran si mossero. Roran si accorse che sullo spiazzo era calato un silenzio innaturale. Edric fu il primo a parlare. «Quanti dei tuoi uomini sono sopravvissuti?» «La maggior parte. Non tutti, ma la maggior parte.» Edric annuì. «E Carn?» «È vivo... E Sand?» «Un soldato lo ha colpito durante la carica. È spirato pochi minuti fa.» Lo sguardo di Edric oltrepassò Roran, fermandosi sull'ammasso di corpi. «Hai disobbedito ai miei ordini, Fortemartello.» «Sì.» Edric tese un braccio verso di lui, la mano aperta. «Capitano, no!» esclamò Harald, facendo un passo avanti. «Se non fosse stato per Roran, nessuno di noi sarebbe qui. E avresti dovuto vedere che cos'ha fatto. Ha ucciso quasi duecento uomini da solo!» La protesta di Harald non suscitò alcuna reazione in Edric, che continuò a tenere la mano tesa. Anche Roran rimase impassibile. Allora Harald si rivolse a lui. «Roran, sai che gli uomini sono con te. Una sola parola, e noi...» Roran lo fulminò con lo sguardo. «Non dire idiozie.» «Almeno ti è rimasto un po' di buonsenso» disse Edric a denti stretti. «Harald, tu sta' zitto, se non vuoi guidare i muli con le vettovaglie per tutta la strada del ritorno.» Roran sollevò il martello e lo porse a Edric. Poi si slacciò la cintura, da dove pendevano la spada e il pugnale, e consegnò a Edric anche quella. «Non ho altre armi» dichiarò. Edric annuì, scuro in volto, poi si gettò il cinturone su una spalla. «Roran Fortemartello, con questo ti sollevo dal comando. Ho la tua parola d'onore che non cercherai di fuggire?» «Sì.» «Allora ti renderai utile dove ci sarà bisogno di te, ma per il resto considerati un prigioniero.» Edric si guardò intorno e indicò un altro guerriero. «Fuller, assumerai tu l'incarico di Roran fino a quando non ci congiungeremo con il resto dei Varden e Nasuada deciderà sul da farsi.» «Signorsì» disse Fuller. Per molte ore Roran lavorò insieme agli altri guerrieri per sollevare i loro morti e trasportarli alla periferia del villaggio, dove li seppellirono. Fu così che scoprì che soltanto nove dei suoi ottantuno guerrieri erano morti in battaglia, mentre Edric e Sand avevano perso in tutto quasi centocinquanta uomini, ed Edric ne avrebbe persi ancora di più se un manipolo di suoi guerrieri non fosse rimasto con Roran dopo che questi li aveva salvati. Quando ebbero finito di seppellire i loro caduti, i Varden recuperarono le frecce, poi innalzarono una pira al centro del villaggio, spogliarono i soldati nemici delle loro armature, li trascinarono sulla pira e appiccarono il fuoco. I corpi cremati produssero una colonna di fumo nero che sembrava innalzarsi all'infinito. Attraverso la densa cortina scura, il sole appariva come un piatto disco rosso. Della giovane donna e del bambino che i soldati avevano catturato non c'era traccia. Dato che i loro corpi non erano fra i morti, Roran pensò che dovevano essere fuggiti dal villaggio all'inizio della battaglia, probabilmente la cosa migliore che potevano fare. Augurò loro buona fortuna, ovunque fossero andati. Fu una piacevole sorpresa per Roran vedere tornare Fiammabianca al villaggio poco prima che i Varden si mettessero in marcia. All'inizio lo stallone si mostrò schivo e ombroso, e non permise a nessuno di avvicinarlo, ma Roran lo calmò sussurrandogli nell'orecchio, e alla fine riuscì a pulirgli e fasciargli le ferite. Sarebbe stato poco prudente cavalcarlo finché non fosse guarito del tutto, così Roran lo legò insieme ai muli da soma. Fiammabianca dimostrò subito il suo scontento appiattendo le orecchie, frustando l'aria con la coda e scoprendo i denti. «Fa' il bravo» disse Roran, accarezzandogli il collo. Fiammabianca ruotò l'occhio verso di lui e nitrì, rilassando un poco le orecchie. Roran montò su un castrone appartenuto a uno dei Varden morti e si accodò alla fila di uomini sulla strada. Ignorò le occhiate che gli venivano rivolte, anche se lo rincuorò sentire parecchi guerrieri mormorare: «Ben fatto.» Aspettando che Edric desse l'ordine di partire, Roran pensò a Nasuada, a Katrina e a Eragon, e si sentì soffocare da una cappa di terrore quando si domandò quali sarebbero state le loro reazioni una volta che avessero appreso del suo atto di insubordinazione. Subito dopo, però, accantonò ogni timore. «In marcia!» gridò Edric, in testa alla colonna. Roran spronò il cavallo al piccolo trotto, e i Varden uscirono dal villaggio avviandosi compatti verso ovest, lasciandosi alle spalle la pira di soldati che continuava a bruciare. ♦ ♦ ♦ MESSAGGIO ALLO SPECCHIO Il sole mattutino avvolgeva Saphira in un piacevole tepore. La dragonessa si crogiolava distesa su una sporgenza di roccia liscia che si affacciava sulla vuota tenda a cupola di Eragon. Le attività notturne, che l'avevano vista impegnata in un volo di ricognizione per individuare gli accampamenti dell'Impero - come aveva fatto ogni notte da quando Nasuada aveva mandato Eragon nel Farthen Dûr, la grande montagna cava - l'avevano lasciata insonnolita. I voli servivano a nascondere l'assenza di Eragon, ma le pesavano, perché pur non avendo paura del buio, non era una creatura notturna e non le piaceva fare sempre le stesse cose. Per giunta, dato che i Varden impiegavano parecchio tempo per spostarsi da un luogo all'altro, trascorreva le notti a sorvolare più o meno lo stesso panorama. L'unico motivo recente di eccitazione era stato quando, la mattina del giorno prima, aveva scorto Castigo, il drago rosso dalla mente mal cresciuta, che volava basso sull'orizzonte. Il drago non aveva virato per affrontarla, ma aveva proseguito per la sua strada inoltrandosi sempre di più nell'Impero. Quando Saphira aveva riferito dell'avvistamento, Nasuada, Arya, e gli elfi che proteggevano la dragonessa avevano reagito come uno stormo di ghiandaie terrorizzate, schiamazzando e cicalando fra di loro, disperdendosi in ogni direzione. Avevano perfino insistito perché Blödhgarm, l'elfo dalla scura pelliccia lupesca, volasse con lei fingendosi Eragon, ma lei si era opposta categoricamente. Una cosa era permettere all'elfo di creare un'immagine fantasma di Eragon che la cavalcava ogni volta che spiccava il volo o atterrava fra i Varden; ma non avrebbe mai consentito a qualcuno che non fosse Eragon di montarle in groppa, a meno che non ci fosse una battaglia imminente, e forse nemmeno in quel caso. Saphira sbadigliò e stiracchiò una zampa, sfoderando gli artigli. Poi si rilassò di nuovo, con la coda avvolta intorno al corpo e la testa poggiata sulle zampe, e si lasciò andare a fantasticherie di cervi e altre prede. Poco dopo udì uno scalpiccio di passi affrettati che attraversavano l'accampamento diretti verso la grande tenda rossa di Nasuada. Saphira non ci badò: c'erano sempre messaggeri che correvano avanti e indietro. Stava per addormentarsi quando sentì sfrecciare un altro corriere e poi, dopo un breve intervallo, altri due. Senza aprire gli occhi, estrasse la punta della lingua e assaggiò l'aria. Non rilevò alcun odore inconsueto. Dopo aver deciso che non valeva la pena di indagare, scivolò nel mondo dei sogni, dove si tuffò in un fresco lago verde per pescare. Fu svegliata da una serie di urla furibonde. Non si mosse, e continuò ad ascoltare un gran numero di bipedi dalle orecchie rotonde che discutevano fra di loro. Erano troppo lontani perché riuscisse a distinguere che cosa dicevano, ma dal tono delle voci intuì che erano così arrabbiati che avrebbero potuto arrivare a uccidere. A volte scoppiavano liti fra i Varden - come in qualsiasi altro branco - ma Saphira non aveva mai sentito tanti bipedi accapigliarsi così a lungo e con tanta foga. Saphira provò un fastidioso dolore pulsante alla base del cranio quando le grida dei bipedi si fecero più acute. Graffiò la roccia sotto di sé, sollevando piccole scie di quarzo scheggiato con gli artigli. Quando arrivò a ventisette, i bipedi tacquero. Risuonò un tintinnio metallico, accompagnato da un fruscio di vesti, da uno scalpiccio di piedi umani e dall'inconfondibile odore della guerriera dalla pelle scura. Aprì un solo occhio, e vide arrivare Nasuada e le sue sei guardie del corpo. Giunta ai piedi del lastrone di roccia, Nasuada ordinò ai suoi di restare sul prato insieme a Blödhgarm e agli altri elfi - impegnati in un addestramento - e si arrampicò da sola. «Salute a te, Saphira» disse Nasuada. Indossava un abito rosso che spiccava in modo quasi innaturale contro il verde delle foglie dei meli alle sue spalle. Il sole riflesso dalle squame di Saphira le chiazzava il volto di una miriade di puntini luminosi. Saphira batté le palpebre una volta, dato che non aveva alcuna voglia di rispondere a parole. Dopo essersi guardata attorno, Nasuada si avvicinò alla sua testa e sussurrò: «Saphira, devo parlarti in privato. Tu puoi entrare nella mia mente, ma io non posso entrare nella tua. Puoi farlo adesso per sentire che cosa ho da dirti?» Penetrando nella mente affaticata e tesa della donna, Saphira le riversò addosso la propria irritazione per essere stata svegliata, poi disse: Saphira batté di nuovo le palpebre. Nasuada strinse le labbra e abbassò lo sguardo, incrociando le braccia ferite. Il colore della sua mente si fece nero come una nube temporalesca, gravida di minacce di morte e violenza. Dopo una pausa insolitamente lunga, disse: Nasuada scosse il capo. Nasuada guardò di nuovo Saphira con occhi colmi di profonda tristezza. Nasuada posò la fronte contro la mascella della dragonessa e disse: Divertita, la dragonessa sollevò la testa dalle zampe e con la punta del muso toccò la fronte di Nasuada. Inarcando il collo, Saphira ruggì verso il cielo, sprigionando il fuoco delle viscere in una vampa fiammeggiante che le guizzò dalla bocca. Nasuada indietreggiò di qualche passo, mentre tutti quelli che si trovavano lì intorno s'impietrirono e rimasero a fissare la dragonessa. Alzandosi sulle quattro zampe, Saphira si scrollò dalla testa alla coda, dimentica della stanchezza, e dispiegò le ali, pronta a spiccare il volo. Le guardie si precipitarono verso Nasuada, ma lei le fermò con un gesto della mano. Investita da una nuvola di fumo, si coprì il naso con una manica, tossendo. Saphira rimase immobile mentre Nasuada le riferiva quanto le aveva detto Eragon. Alla fine, la dragonessa scoprì i denti. Con un lieve sorriso, Nasuada disse: Nasuada si congedò e scese dal lastrone di roccia. Blödhgarm e gli altri elfi corsero da Saphira e le legarono addosso quello scomodo aggeggio di cuoio che era la sella di Eragon, con le bisacce piene di viveri e di tutte le altre cianfrusaglie che portava quando viaggiava con il Cavaliere. A lei non servivano le provviste - non avrebbe nemmeno potuto prenderle - ma le toccava portarle per salvare le apparenze. Quando fu pronta, Blödhgarm si portò la mano al petto, nel gesto di rispetto degli elfi, e disse nell'antica lingua: «Arrivederci, Saphira Squamediluce. Che tu ed Eragon possiate tornare sani e salvi.» Saphira aspettò che l'elfo dalla scura pelliccia lupesca creasse lo spettro di Eragon e questo uscisse dalla tenda per montarle in groppa. Non sentì niente quando il simulacro immateriale le si arrampicò dalla zampa sulla spalla. Non appena Blödhgarm le fece cenno che il non-Eragon era in sella, la dragonessa levò le ali oltre la testa fino a farle toccare, poi spiccò un balzo in avanti e saltò giù dal lastrone di roccia. Dopo qualche attimo di caduta libera verso le grigie tende sottostanti, con un deciso colpo d'ali riprese quota, allontanandosi dal duro terreno. Virò in direzione del Farthen Dûr e cominciò a salire verso lo strato d'aria fredda e sottile, dove sperava di trovare una corrente d'aria costante che l'aiutasse a volare più in fretta. Sorvolò la riva boscosa in cui i Varden avevano deciso di fermarsi per la notte e fu percorsa da un brivido di gioia selvaggia. Non avrebbe più dovuto passare le giornate ad aspettare Eragon che vagava rischiando la vita senza di lei! Non avrebbe più dovuto trascorrere le notti a perlustrare sempre le stesse zone! Ora coloro che volevano ferire il compagno della sua mente e del suo cuore non sarebbero più sfuggiti alla sua ira! Spalancando le fauci, Saphira ruggì al mondo la sua gioia e la sua sicurezza, sfidando gli dei, se esistevano, ad affrontare Quando ebbe raggiunto una quota di oltre un miglio, dove trovò un forte vento da sud-ovest, Saphira si allineò alla corrente d'aria e si lasciò sospingere, volando sulla terra bagnata di sole. Proiettò i pensieri davanti a sé e disse: ♦ ♦ ♦ QUATTRO COLPI DI TAMBURO Eragon si protese in avanti, ogni muscolo del corpo in tensione, quando Hadfala, la nana dai capelli bianchi a capo del Dûrgrimst Ebardac, si alzò dal tavolo dove si svolgeva il raduno dei clan e pronunciò una breve frase nella sua lingua nativa. Mormorandogli nell'orecchio, Hûndfast tradusse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.» Eragon liberò il fiato trattenuto. Che Hadfala, la prima a votare, avesse espresso il suo favore per Orik era di buon auspicio. Hadfala, come Eragon sapeva bene, aveva sostenuto Gannel del Dûrgrimst Quan prima dell'attentato alla sua vita. Se la lealtà di Hadfala aveva cambiato oggetto, era possibile che anche l'altro membro dello schieramento di Gannel - ovvero Grimstborith Ûndin - desse il suo voto ad Orik. Poi fu il turno di Gàldhiem del Dûrgrimst Feldûnost. Il nano si alzò dal tavolo, anche se era così basso da risultare più alto da seduto che in piedi. «A nome del mio clan» dichiarò «io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.» Inclinando la testa da un lato, Orik ricambiò lo sguardo di Eragon e gli disse sottovoce: «Be', ce lo aspettavamo.» Eragon annuì e scoccò un'occhiata a Nado. Il nano dalla faccia tonda si accarezzava la punta della barba gialla con aria soddisfatta. Poi Manndrâth del Dûrgrimst Ledwonnû disse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.» Orik lo ringraziò con un cenno del capo, e Manndrâth ricambiò con un buffo movimento del naso adunco. Quando Manndrâth tornò a sedersi, Eragon e il resto dei presenti si voltarono verso Gannel, e la sala divenne così silenziosa che Eragon non sentiva nemmeno i nani respirare. In qualità di capoclan del Quan - il clan religioso - e di sommo sacerdote di Gûntera, re degli dei dei nani, Gannel esercitava una grande influenza sulla sua razza: la sua scelta avrebbe potuto determinare l'esito della votazione. «A nome del mio clan» disse Gannel «io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.» Un'ondata di esclamazioni smorzate si levò dagli spettatori disposti lungo tutta la circonferenza della sala. Il sorriso soddisfatto di Nado si fece ancora più ampio. Stringendosi le mani sotto il tavolo, Eragon imprecò in silenzio. «Non perdere le speranze, ragazzo» mormorò Orik. «Possiamo ancora farcela. È già successo che il Grimstborith del Quan abbia perso il voto.» «Ma quante volte?» sussurrò Eragon. «Abbastanza spesso.» «Sì, ma quando è stata Orik si dondolò a disagio sulla sedia e distolse lo sguardo. «Ottocentoventiquattro anni fa, quando la regina...» S'interruppe quando Ûndin del Dûrgrimst Ragni Hefthyn proclamò: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.» Orik incrociò le braccia. Eragon riusciva a vederlo soltanto di profilo, ma era ovvio che il nano era nervoso. Mordendosi l'interno della guancia, Eragon abbassò lo sguardo sul pavimento a mosaico e contando i voti che erano stati dati e quelli che ancora restavano cercò di calcolare se Orik avesse ancora la possibilità di vincere le elezioni. Sarebbe stata comunque una vittoria di misura. Strinse ancora più forte le mani, conficcandosi le unghie nella carne. Thordris del Dûrgrimst Nagra si alzò e si avvolse la lunga e folta treccia sul braccio. «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.» «Così siamo tre a tre» bisbigliò Eragon. Orik annuì. Era il turno di Nado. Lisciandosi la barba con la mano, il capo del Dûrgrimst Knurlcarathn rivolse un sorriso all'assemblea, con un luccichio da predatore negli occhi. «A nome del mio clan voto me stesso come nostro nuovo re. Se sceglierete me, prometto di liberare il nostro paese dagli stranieri che lo hanno inquinato, e prometto di usare il nostro oro e i nostri guerrieri per proteggere la nostra gente, e non la vita di elfi, umani e «Quattro a tre» commentò Eragon. «Già» disse Orik. «Immagino sarebbe stato troppo chiedere a Nado di votare per un altro.» Posando il coltello e il pezzo di legno che stava intagliando, Freowin del Dûrgrimst Gedthrall riuscì appena a liberare la sua mole dalla sedia e, tenendo lo sguardo basso, dichiarò con la sua voce baritonale: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Nado come nostro nuovo re.» Poi si risedette di schianto e riprese a intagliare il corvo di legno, ignorando i mormorii di sorpresa che percorsero la stanza. L'espressione di Nado passò da un pacato compiacimento a una gongolante soddisfazione. «Barzûl» borbottò Orik, con la faccia sempre più torva. La sedia scricchiolò quando calcò i gomiti sui braccioli, i tendini delle mani in rilievo per la tensione. «Quel traditore dalla doppia faccia. Mi aveva promesso il suo voto.» Eragon sentì contorcersi lo stomaco. «Perché tradirti?» «Va al tempio di Sindri due volte al giorno. Avrei dovuto immaginare che non si sarebbe messo contro Gannel. Bah! Gannel lavora contro di me da sempre. Io...» In quel momento l'attenzione di tutti i presenti si concentrò su di lui. Nascondendo la rabbia, Orik si alzò in piedi e fece scorrere lo sguardo su ciascuno dei capiclan seduti intorno al tavolo. Poi, nella sua lingua nativa, disse: «A nome del mio clan, voto me stesso come nostro nuovo re. Se sceglierete me, prometto di portare alla nostra gente gloria e oro e la libertà di vivere sopra la terra e non più sotto, senza timore che Galbatorix distrugga le nostre case. Lo giuro sull'onore della mia famiglia.» «Cinque a quattro» mormorò Eragon a Orik quando il nano tornò a sedersi. «E non a nostro favore.» Orik grugnì. «So contare, Eragon.» Eragon appoggiò i gomiti sulle ginocchia, gli occhi che correvano da un nano all'altro. La smania di agire lo divorava come un tarlo. Non sapeva che fare, ma con una posta in gioco così alta, avvertiva l'urgenza di trovare un modo per garantire a Orik la vittoria, e di conseguenza assicurare ai Varden l'aiuto dei nani nella lotta contro l'Impero. Malgrado i suoi sforzi, però, non riuscì a pensare a niente di meglio che starsene seduto ad aspettare. Poi toccò a Havard del Dûrgrimst Fanghur. Il mento sul petto, Havard spinse in fuori le labbra, tamburellando sul tavolo con le due dita che gli restavano nella mano destra, con aria pensierosa. Eragon si protese appena di un soffio dalla sedia, col cuore che gli batteva. Havard tamburellò sul tavolo ancora una volta, poi lo colpì con il palmo della mano e, alzando il mento, disse: «A nome del mio clan, io voto Grimstborith Orik come nostro nuovo re.» Per Eragon fu una grande soddisfazione vedere Nado sgranare gli occhi e digrignare i denti, un muscolo della guancia contratto in uno spasmo involontario. «Ha!» mormorò Orik. «Questo sì che gli ha fatto annodare la barba!» Gli unici due capi clan che dovevano ancora votare erano Reidamar e Íorûnn. Reidamar, il massiccio, muscoloso grimstborith degli Urzhad, sembrava a disagio, mentre Íorûnn - la nana a capo del Dûrgrimst Vrenshrrgn, i Lupi da Guerra - si accarezzò la cicatrice a mezzaluna sullo zigomo sinistro con la punta di un'unghia affilata e sorrise, sorniona come una gatta. Eragon trattenne il fiato mentre aspettava di sentire che cosa avrebbero detto. Eragon sentì un groppo in gola. Le labbra rosse arricciate in una smorfia divertita, Íorûnn si alzò dalla sedia con un movimento sinuoso e a voce bassa e roca disse: «A quanto pare, toccherà a me decidere l'esito dell'incontro odierno. Ho ascoltato con molta attenzione le tue argomentazioni, Nado, e anche le tue, Orik. Anche se condivido la maggior parte degli argomenti espressi da entrambi, il problema principale resta decidere se vogliamo impegnarci nella battaglia dei Varden contro l'Impero. Se la loro fosse soltanto una guerra fra due clan rivali, non m'importerebbe chi vince o chi perde, e di certo non metterei a repentaglio la vita dei nostri guerrieri per il bene degli stranieri. Ma non è così. Anzi, le cose sono molto diverse. Se Galbatorix esce trionfante da questa guerra, nemmeno i Monti Beor ci proteggeranno dalla sua collera. Se il nostro regno vuole sopravvivere, dobbiamo vedere la sconfitta di Galbatorix. E mi sembra indecente che una razza antica e potente come la nostra resti nascosta nelle sue grotte e gallerie mentre altri decidono il destino di Alagaësia. Quando saranno scritte le cronache di questa era, si dirà che abbiamo combattuto a fianco degli umani e degli elfi, come gli eroi di un tempo, o che ci siamo rintanati nelle nostre case al pari di contadini spauriti mentre la battaglia infuriava fuori delle nostre porte? Per conto mio, conosco la risposta.» Íorûnn gettò indietro i capelli e disse: «A nome del mio clan, voto Grimstborith Orik come nostro nuove re!» Il più anziano dei cinque magistrati disposti lungo la parete circolare si fece avanti e, battendo il bastone levigato sul pavimento di pietra, proclamò: «Salutiamo tutti re Orik, quarantatreesimo re di Tronjheim, del Farthen Dûr, e di ogni knurla sopra e sotto i Monti Beor!» «Evviva re Orik!» ruggirono i presenti. I capiclan si alzarono dal tavolo in un sonoro fruscio di vesti e clangore di armature. Inebetito, Eragon imitò gli altri, conscio di trovarsi al cospetto di un re. Scoccò un'occhiata a Nado, ma il volto del nano era una maschera impenetrabile. Il magistrato dalla barba bianca batté di nuovo il bastone sul pavimento. «Che gli scribi annotino subito la decisione presa in questo raduno, e che la notizia raggiunga ogni angolo del regno. Araldi! Informate i maghi con i loro specchi divinatori di quanto è accaduto qui oggi e poi andate dai guardiani della montagna e dite loro: "Quattro colpi di tamburo. Quattro colpi, e fate roteare le mazze come mai prima d'ora, perché abbiamo un nuovo re. Quattro colpi di una tale forza che tutto il Farthen Dûr dovrà riecheggiare della notizia." Dite loro così, questo è il mio incarico per voi. Andate!» Dopo che gli araldi si furono allontanati, Orik si alzò e rimase in piedi a guardare i nani che lo circondavano. A Eragon parve in qualche modo stupito, come se non si fosse davvero aspettato di vincere la votazione. «Per questa grande responsabilità» disse «vi ringrazio.» Fece una pausa, poi riprese. «Il mio unico pensiero sarà il progresso della nostra nazione, e perseguirò questo scopo senza esitare, fino al giorno che tornerò alla pietra.» I capiclan si fecero avanti, uno alla volta, e s'inginocchiarono davanti a Orik per giurargli lealtà come sudditi fedeli. Quando venne il turno di Nado, il nano non lasciò trapelare alcuna emozione, ma recitò le frasi del giuramento senza inflessioni, le parole che gli cadevano dalla bocca come barre di piombo. Quando ebbe finito, un palpabile senso di sollievo si sparse fra i membri dell'assemblea. Conclusi i giuramenti, Orik decretò che la sua incoronazione avrebbe avuto luogo il mattino dopo, e poi lui e il suo seguito si ritirarono in una stanza adiacente. Una volta lì, Eragon guardò Orik, e Orik guardò Eragon, ma nessuno dei due aprì bocca finché un ampio sorriso non comparve sul viso di Orik, che scoppiò a ridere, con le guance rosse. Ridendo con lui, Eragon lo tirò per la manica e lo abbracciò forte. Le guardie e i consiglieri di Orik gli si strinsero intorno, dandogli pacche sulle spalle ed esprimendo sincere congratulazioni. Eragon lo lasciò andare dicendo: «Non pensavo che Íorûnn ci avrebbe appoggiati.» «Già. Sono felice che l'abbia fatto, ma questo complica le cose.» Orik fece una smorfia. «Immagino che dovrò ricompensarla, almeno dandole un posto nel mio consiglio.» «Sarà un'ottima scelta!» esclamò Eragon ad alta voce per superare il frastuono. «Se i Vrenshrrgn sono all'altezza del loro nome, ci saranno molto utili sulla strada che ci porterà alle porte di Urû'baen.» Orik stava per rispondere, ma poi una nota bassa d'inaudita potenza riverberò dal pavimento al soffitto della sala, facendo tremare le ossa di Eragon. «Ascoltate!» gridò Orik alzando una mano. Il gruppo tacque. La bassa nota risuonò quattro volte, e ogni volta scosse la stanza come se un gigante stesse battendo il pugno contro le mura di Tronjheim. Alla fine Orik disse: «Non avrei mai creduto di poter sentire i Tamburi di Derva annunciare la mia investitura.» «Quanto sono grandi i tamburi?» chiese Eragon, ammirato. «Circa cinquanta piedi, se la memoria non m'inganna.» Eragon pensò che i nani, pur essendo la razza più piccola di Alagaësia, curiosamente costruivano le strutture più grandi. Gli assistenti di Orik si assieparono attorno a lui e cominciarono a consultarsi nella lingua dei nani, le voci concitate che si sovrapponevano. Eragon, che stava per rivolgere un'altra domanda a Orik, si trovò relegato in un angolo. Aspettò paziente una pausa nella conversazione, ma dopo qualche minuto capì che i nani non avrebbero smesso tanto presto di assillare Orik con domande e consigli, dato che questa gli sembrava la natura dei loro discorsi. Allora disse: «Orik Könungr» e pronunciò la parola Negli occhi di Orik brillò un lampo di comprensione. «Ma sicuro, sbrigati! A ogni modo, non c'è bisogno che mi chiami «È vero, maestà» rispose Eragon «ma per il momento credo sia più giusto da parte mia dimostrarti lo stesso ossequio degli altri. Sei il re della tua razza, adesso, e anche il mio re, dato che sono un membro del Dûrgrimst Ingeitum, un fatto che non posso ignorare.» Orik lo studiò per un momento, come se lo guardasse da molto lontano, e disse: «Come desideri, Ammazzaspettri.» Eragon s'inchinò e lasciò la stanza. Accompagnato dalle sue quattro guardie, attraversò le gallerie e salì le scale che conducevano al pianterreno di Tronjheim. Una volta arrivato nel ramo meridionale dei quattro corridoi principali che dividevano la città-montagna, Eragon si rivolse a Thrand, il capitano delle guardie e disse: «Ho intenzione di fare il resto della strada di corsa. Siccome non sareste in grado di stare al mio passo, vi suggerisco di fermarvi quando raggiungerete il cancello sud della città e di aspettare lì il mio ritorno.» «Argetlam, ti prego» disse Thrand, «non dovresti andare da solo. Posso convincerti a rallentare in modo che possiamo accompagnarti? Non siamo veloci come gli elfi, certo, ma siamo capaci di correre dall'alba al tramonto anche con l'armatura addosso.» «Apprezzo la tua premura» disse Eragon «ma non voglio perdere nemmeno un minuto, anche se sapessi che c'è un sicario appostato dietro ciascun pilastro. Arrivederci!» Detto questo, si precipitò lungo l'ampio corridoio, aggirando i nani che gli sbarravano il passo. DI NUOVO INSIEME Quando Eragon cominciò a correre, quasi un miglio lo separava dal cancello sud di Tronjheim. Coprì la distanza in pochi minuti, i passi che rimbombavano sul pavimento di pietra. Mentre correva, colse immagini fugaci dei ricchi arazzi appesi sugli archi che immettevano nei corridoi laterali e delle statue grottesche di bestie e mostri annidate fra i pilastri di diaspro rosso sangue che costeggiavano il viale dalla volta a botte. La strada, fiancheggiata da quattro ordini di archi, era così larga che Eragon non faticò a evitare i nani che la popolavano, anche se a un certo punto, una fila di Knurlacarathn gli si parò davanti e dovette superarli con un salto. I nani abbassarono la testa, lanciando esclamazioni sorprese. Eragon si divertì nell'incrociare i loro sguardi stupiti. A fluide, ampie falcate corse sotto il cancello di legno massiccio che proteggeva l'entrata meridionale della città-montagna e sentì le guardie gridare: «Salute a te, Argetlam!» Dopo una ventina di iarde, dato che il cancello era incassato nella base di Tronjheim passò fra i due giganteschi grifoni d'oro che fissavano con occhi vacui l'orizzonte e sbucò all'aperto. L'aria fresca e umida profumava di pioggia appena caduta. Era mattina, ma un grigio crepuscolo avvolgeva la piatta distesa di terra che circondava Tronjheim, dove non cresceva erba, ma solo muschi, licheni e qualche sporadico fungo velenoso dall'odore pungente. In alto, il Farthen Dûr s'innalzava per oltre dieci miglia fino alla stretta apertura da dove filtrava una pallida luce indiretta nell'immenso cratere. Eragon provava un po' di soggezione davanti all'imponenza della montagna ogni volta che guardava in alto. Mentre correva, sentiva il suono monotono del suo respiro e dei suoi rapidi passi leggeri. Era solo, tranne che per un pipistrello curioso che gli svolazzò sopra la testa, emettendo acuti squittii. L'atmosfera tranquilla che permeava la montagna cava lo confortò, liberandolo dalle consuete preoccupazioni. Seguì il sentiero lastricato che dal cancello sud di Tronjheim conduceva fino alla nera porta, alta trenta piedi, incassata nella parete meridionale del Farthen Dûr. Quando si fermò, due nani spuntarono dalle garitte nascoste e si affrettarono ad aprirgli i battenti, rivelando una galleria che sembrava senza fine. Eragon si avviò. Pilastri di marmo tempestati di rubini e ametiste fiancheggiavano i primi cinquanta piedi del tunnel; poi la galleria si faceva spoglia e desolata, le pareti lisce intervallate ogni venti iarde da una lanterna senza fiamma, e da qualche porta o cancello sbarrati. A metà strada, la sentì. Accelerando ancora di più il passo, Eragon spalancò la mente a Saphira e rimosse ogni barriera perché potessero ricongiungersi senza riserve. Come una corrente d'acqua tiepida, la coscienza di lei si riversò in lui, e quella di lui scorse dentro di lei. Eragon ansimò, inciampò, per poco non cadde. Si lasciarono avvolgere dalle morbide pieghe dei reciproci pensieri, stringendosi con un'intimità che nessun abbraccio fisico avrebbe potuto replicare, permettendo alle proprie identità di fondersi ancora una volta. Il loro più grande conforto era semplice: non erano più soli. Sapere di avere qualcuno che ti vuole bene, che capisce ogni fibra del tuo essere e che non ti abbandonerà mai, nemmeno nella più disperata delle circostanze, dovrebbe rappresentare l'essenza di ogni vero legame, ed Eragon e Saphira godevano di quel privilegio. Passarono solo pochi istanti prima che Eragon la scorgesse affrettarsi verso di lui, veloce ma non troppo, per evitare di urtare la testa sul soffitto o di graffiarsi le ali contro le pareti. Gli artigli della dragonessa stridettero sul pavimento di pietra quando frenò fino a fermarsi davanti a Eragon, fiera, splendente, magnifica. Con un grido di gioia, Eragon fece un salto e, incurante delle squame taglienti, le cinse il collo con le braccia, tenendola stretta mentre i piedi gli penzolavano nel vuoto. Il mugolio gutturale della dragonessa riempì la galleria. Lei batté le palpebre, nascondendo per un momento i brillanti occhi color zaffiro. Se non fossero stati separati per tanto tempo, Eragon l'avrebbe rimproverata per la sua imprudenza, ma in quel momento non provò altro che commozione e gratitudine davanti a tanta devozione. Il sorriso di Eragon si allargò. E Un pennacchio di fumo si levò dalle fauci di Saphira. Per qualche ragione Saphira trovò la sua ultima dichiarazione molto divertente; la risata le sgorgò dal profondo del petto, scuotendola tutta, e ben presto anche Eragon si unì a lei. Nessuno dei due riuscì a fermarsi finché Eragon non si ritrovò boccheggiante a pancia all'aria, mentre Saphira cercava di trattenere le fiammate che le guizzavano dalle narici. Poi Saphira fece un verso che Eragon non aveva mai sentito prima, una specie di grugnito spezzato, e attraverso il loro legame provò una stranissima sensazione. Saphira fece di nuovo quel verso, poi scrollò la testa, come se cercasse di sbarazzarsi di uno sciame di mosche. Eragon rimase impalato, a bocca aperta. Un istante dopo riprese a ridere ancora più forte, piegato in due, con le lacrime che gli rigavano il volto. Ogni volta che stava per riprendersi, Saphira faceva ancora un singhiozzo, con uno scatto in avanti della testa che la faceva somigliare a una cicogna, e lui ricominciava a ridere come un matto. Alla fine Eragon si tappò le orecchie con le dita e fissò il soffitto, recitando i veri nomi di ogni metallo e ogni pietra che ricordava. Quando ebbe finito, trasse un profondo respiro e si alzò. Eragon si morse la lingua. Saphira tese la zampa per invitarlo a salire. Eragon si arrampicò in fretta sulla sua schiena e prese posto sulla sella legata alla base del collo della dragonessa. Insieme ripercorsero la galleria verso Tronjheim, felici e partecipi della rispettiva felicità. L'INCORONAZIONE I Tamburi di Derva suonarono, chiamando a raccolta i nani di Tronjheim per assistere all'incoronazione del nuovo re. "In circostanze normali" aveva detto Orik a Eragon la notte prima "quando il raduno dei clan elegge un re o una regina il knurla inizia a governare da subito, ma la cerimonia d'incoronazione si svolge solo dopo tre mesi, in modo da permettere a tutti coloro che vogliono prendervi parte di sistemare i loro affari e raggiungere il Farthen Dûr anche dalle regioni più remote del regno. Non ci succede spesso d'incoronare un re, perciò quando lo facciamo è nostra usanza renderlo un grande evento, con settimane di banchetti e musica, e sfide di ingegno e di forza, e gare di abilità nel forgiare, nell'intagliare e nelle altre forme d'arte... ma questi non sono tempi ordinari." Eragon ascoltava i giganteschi tamburi, ritto in piedi accanto a Saphira, appena fuori della sala centrale di Tronjheim. Su entrambi i lati del viale lungo un miglio, centinaia di nani affollavano le arcate di ogni livello, spiando Eragon e Saphira con gli scuri occhi luccicanti. La ruvida lingua di Saphira raspava contro le squame della bocca mentre si leccava le labbra, cosa che faceva da quando aveva finito di divorare cinque grosse pecore. Poi sollevò la zampa sinistra e si strofinò il muso. Le aleggiava intorno un odore di lana bruciata. Saphira emise un debole ringhio. S'interruppe appena sentì la nota finale dei tamburi spegnersi nel silenzio. Si udiva solo qualche debole fruscio di vesti e un paio di frasi mormorate nella lingua dei nani. Risuonarono gli squilli di una fanfara di dodici trombe che riempirono la città-montagna col loro richiamo trionfale, e da qualche parte si levò un coro di nani. Al suono di quella musica Eragon si sentì formicolare il cuoio capelluto e il sangue prese a scorrergli più in fretta, come se stesse per andare a caccia. Saphira frustò l'aria con la coda, ed Eragon capì che anche lei provava la stessa cosa. Insieme, Eragon e Saphira avanzarono nella torreggiante sala centrale della città-montagna e presero posto nell'anello formato dai capiclan, dai capi delle gilde e dalle altre autorità. Al centro della vasta sala giaceva ricostruito lo Zaffiro Stellato, incorniciato da una grossa intelaiatura di legno. Un'ora prima dell'incoronazione, Skeg aveva mandato un messaggio a Eragon e Saphira per avvertirli che lui e la sua squadra di artigiani avevano appena finito di rimettere insieme gli ultimi frammenti della gemma e che Isidar Mithrim era pronto perché Saphira lo facesse tornare integro come un tempo. Il trono di granito nero dei nani era stato trasferito dalla sua collocazione abituale sotto Tronjheim e sistemato su una pedana rialzata accanto allo Zaffiro Stellato, rivolto verso il ramo orientale dei quattro corridoi principali che dividevano Tronjheim. L'est è il punto in cui sorge il sole, e la gemma simboleggiava l'alba di una nuova era. Migliaia di guerrieri nani con le armature di maglia brunita aspettavano sull'attenti in due vaste formazioni di fronte al trono, oppure schierati lungo i lati del corridoio orientale fino al cancello est di Tronjheim, a un miglio di distanza. Molti guerrieri impugnavano lance sormontate da vessilli dai curiosi disegni. Vedra, la moglie di Orik, era in prima fila, davanti al resto dell'assemblea: dopo che il raduno dei clan aveva bandito Grimstborith Vermûnd, Orik l'aveva mandata a chiamare, nel caso che fosse diventato re. Era arrivata a Tronjheim solo quella mattina. Per mezz'ora le trombe suonarono e il coro invisibile continuò a cantare, mentre Orik incedeva a passi studiati dal cancello est fino al centro di Tronjheim. Aveva la barba spazzolata e arricciata, portava stivaloni lucidi della pelle migliore con speroni d'argento fissati ai talloni, pantaloni di lana grigia, una camicia di seta viola che brillava alla luce delle lanterne, e, sopra la camicia, la cotta di maglia: ogni anello era di puro oro bianco. Il ricco mantello bordato di ermellino, ricamato con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum, ricadeva morbido dalle sue spalle fluttuando in un lungo strascico. Volund, il martello da guerra forgiato da Korgan, il primo re dei nani, gli pendeva da un'alta cintura tempestata di rubini. Con quel sontuoso abbigliamento e la magnifica armatura, Orik sembrava risplendere di luce propria. Eragon rimase abbagliato. Dietro Orik venivano dodici bambini nani, sei maschi e sei femmine, o almeno così dedusse Eragon dal taglio di capelli. I bambini indossavano tuniche marroni, rosse e dorate, e ognuno di loro teneva fra le mani a coppa una sfera levigata larga sei pollici, ciascuna ricavata da una gemma diversa. Non appena Orik ebbe raggiunto il centro della città-montagna, la sala si oscurò e tante piccole ombre macchiarono ogni cosa al suo interno. Confuso, Eragon alzò lo sguardo e con sua sorpresa vide una pioggia di petali di rosa cadere dalla cima di Tronjheim. Come morbidi, densi fiocchi di neve, i petali vellutati si posavano sulle teste e sulle spalle dei presenti e sul pavimento, spandendo nell'aria la loro dolce fragranza. Le trombe e il coro tacquero di colpo quando Orik si piegò su un ginocchio davanti al trono nero e chinò la testa. Alle sue spalle, i dodici bambini si fermarono e rimasero immobili. Eragon posò una mano sul fianco caldo di Saphira, condividendo con lei un misto di inquietudine ed eccitazione. Non aveva idea di ciò che stava per succedere, perché Orik si era rifiutato di descrivergli la cerimonia da quel punto in poi. Gannel, capoclan del Dûrgrimst Quan, fece un passo avanti, spezzando l'anello di persone che circondava la sala, e si avvicinò al trono, fermandosi sul lato destro. Il nano dalle grandi spalle indossava una sfarzosa tonaca rossa, dagli orli luccicanti di rune ricamate con filo metallico. In una mano stringeva un lungo bastone sormontato da un puro cristallo appuntito. Dopo aver sollevato il bastone sopra la testa con entrambe le mani, Gannel lo batté sul pavimento di pietra con un tonfo che riecheggiò per tutta la sala. «Hwatum il skilfz gerdûmn!» esclamò. Continuò a parlare nella lingua dei nani per qualche minuto, ed Eragon ascoltò senza comprendere, dato che il suo traduttore non era con lui. Ma poi la voce di Gannel cambiò registro, ed Eragon riconobbe l'antica lingua. Gannel stava evocando un incantesimo, anche se era molto diverso da tutti quelli che Eragon conosceva. Invece di dirigerlo verso un oggetto o un elemento del mondo circostante, il sacerdote disse, nella lingua del mistero e del potere: «Gûntera, creatore del cielo e della terra e del mare sconfinato, ascolta il grido del tuo fedele servitore! Ti ringraziamo per la tua magnanimità. La nostra razza è florida. Quest'anno, come facciamo sempre, ti abbiamo offerto i migliori montoni delle nostre greggi, fiaschi d'idromele speziato e una parte dei nostri raccolti di frutta, verdura e grano. I tuoi templi sono i più ricchi sulla nostra terra e nessuno può sperare di competere con la tua gloria. O potente Gûntera, re degli dei, ascolta la mia preghiera e concedimi questa grazia. È giunta l'ora di nominare un mortale che governi i nostri affari terreni. Vuoi degnarti d'impartire la tua benedizione su Orik, figlio di Thrifk, e d'incoronarlo secondo la tradizione dei suoi predecessori?» Lì per lì Eragon pensò che la preghiera di Gannel sarebbe caduta nel nulla, perché quando il nano ebbe finito di parlare non avvertì alcun flusso di magia provenire dal sacerdote. Poi Saphira gli diede un colpetto col muso e disse: Eragon seguì il suo sguardo e, a trenta piedi da terra, notò un'interferenza nella pioggia di petali, una zona vuota, come se un oggetto invisibile occupasse lo spazio. L'interferenza si allargò, arrivando fino al pavimento, e il vuoto circondato di petali assunse la forma di una creatura dotata di braccia e gambe, come un nano o un uomo o un elfo o un Urgali, ma con proporzioni diverse da quelle di ogni altra razza mai vista; la testa era larga quasi quanto le spalle, le braccia massicce arrivavano fin sotto le ginocchia, e se il torace era ampio, le gambe erano corte e storte. Sottilissimi raggi di luce tremolante si sprigionarono dalla forma, e un attimo dopo apparve l'immagine nebulosa di una gigantesca figura maschile dai capelli arruffati. Il dio, se di un dio si trattava, non indossava nulla a parte un perizoma. La sua faccia scura, dai lineamenti marcati, sembrava esprimere crudeltà e gentilezza in egual misura, come se potesse passare da un estremo all'altro senza alcun preavviso. Mentre notava quei dettagli, Eragon divenne anche consapevole della presenza di una strana, penetrante coscienza nella sala. Una coscienza dai pensieri arcani e dagli abissi insondabili, una coscienza che lampeggiava e tuonava e ondeggiava cambiando direzione all'improvviso come una nube temporalesca. Eragon si affrettò a sottrarre la mente da quel contatto. Gli formicolò la pelle e fu percorso da un brivido freddo. Non sapeva che cosa aveva sentito, ma ebbe paura e guardò Saphira in cerca di conforto. Lei stava fissando la figura, gli occhi blu da gatta che scintillavano con insolita intensità. Come un sol uomo, i nani caddero in ginocchio. Il dio parlò e la sua voce parve una frana di massi, il ruggito del vento sopra i picchi brulli delle montagne, il fragore delle onde contro una scogliera. Parlò nella lingua dei nani, e sebbene Eragon non capisse che cosa stava dicendo, si sentì soggiogato dalla potenza emanata dal discorso. Per tre volte il dio interrogò Orik e per tre volte Orik rispose, con voce fievole a confronto di quella del dio. Soddisfatta delle risposte, l'apparizione tese le braccia risplendenti e posò gli indici sulle tempie di Orik. L'aria fra le dita del dio tremolò e sulla fronte di Orik si materializzò l'elmo d'oro tempestato di gemme che un tempo portava Rothgar. Il dio batté una mano sulla pancia, emise una risata tonante e poi si dissolse. I petali di rosa ricominciarono a cadere. «Ûn qroth Gûntera!» proclamò Gannel. Risuonarono gli squilli potenti delle trombe. Dopo essersi alzato, Orik salì sulla pedana, si voltò verso la folla e poi si sedette sul duro trono nero. «Nal, Grimstnzborith Orik!» gridarono i nani, battendo sugli scudi con le asce e con le lance, e pestando i piedi sul pavimento. «Nal, Grimstnzborith Orik! Nal, Grimstnzborith Orik!» «Evviva re Orik!» gridò Eragon. Inarcando il collo, Saphira ruggì il suo omaggio e sputò una vampa di fuoco sopra le teste dei nani, che incenerì una manciata di petali di rosa. A Eragon lacrimarono gli occhi quando fu investito dall'ondata di calore. Gannel s'inginocchiò davanti a Orik e gli disse ancora qualcosa nella lingua dei nani. Quando ebbe finito, Orik gli toccò la testa e Gannel tornò al proprio posto ai margini della sala. Nado si avvicinò al trono e disse più o meno le stesse cose, e dopo di lui fecero altrettanto Manndrâth e Hadfala e tutti gli altri capiclan, con l'unica eccezione di Grimstborith Vermûnd, che era stato bandito dall'incoronazione. Quando l'ultimo capoclan ebbe finito di tributare omaggio a Orik, toccò ai capi delle gilde presentarsi al suo cospetto, e poi Orik fece un cenno a Eragon. Con lenti passi misurati, Eragon avanzò tra le file di guerrieri nani fino a raggiungere la base del trono, dove s'inginocchiò. In quanto membro del Dûrgrimst Ingeitum, riconobbe Orik come proprio re e giurò di servirlo e di proteggerlo; in qualità di emissario di Nasuada, si congratulò con Orik per conto di Nasuada e dei Varden e gli promise la loro amicizia. Quando Eragon si fu ritirato, molti altri nani si fecero avanti per parlare con Orik, in una processione che parve interminabile. Erano tutti desiderosi di dimostrare la propria lealtà al nuovo re. La processione durò ore, poi cominciò la presentazione dei regali. Ogni nano offrì in dono a Orik un simbolo del proprio clan o della propria gilda: un calice d'oro traboccante di rubini e diamanti, una cotta di maglia stregata che nessuna lancia avrebbe potuto trapassare, un arazzo di venti piedi intessuto con la morbida lana tosata dalle barbe delle capre Feldûnost, una tavoletta d'agata su cui erano incisi i nomi di tutti gli antenati di Orik, un pugnale ricurvo ricavato dalla zanna di un drago, e molti altri tesori. In cambio, come segno della sua gratitudine, Orik offrì ai nani degli anelli. Eragon e Saphira furono gli ultimi a presentarsi a Orik. Inginocchiandosi ancora una volta alla base della pedana, Eragon estrasse dalla tunica il bracciale d'oro che la sera prima aveva chiesto ai nani. Lo porse a Orik dicendo: «Ecco il mio regalo, re Orik. Non l'ho fatto io, ma gli ho imposto degli incantesimi per proteggerti. Finché lo porterai non dovrai temere alcun veleno. Se un sicario tenta di ucciderti o di pugnalarti o di lanciare contro di te un oggetto qualunque, l'arma non ti colpirà. Il bracciale ti proteggerà da gran parte degli incantesimi ostili. E possiede anche altre proprietà, che potrebbero tornarti utili quando la tua vita sarà in pericolo.» Con un cenno del capo, Orik accettò il bracciale e disse: «Ti ringrazio molto per il tuo prezioso regalo, Eragon Ammazzaspettri.» E facendo in modo che tutti vedessero s'infilò la fascia d'oro sul braccio sinistro. Poi venne il turno di Saphira, che proiettò i suoi pensieri verso tutti i presenti, dichiarando: I nani la osservavano rapiti, con gli occhi sgranati e il fiato sospeso. Una voce solitaria, bassa e limpida, si levò nella sala, cantando una melodia lenta e malinconica. Uno alla volta, gli altri membri del coro invisibile si unirono al canto, colmando Tronjheim con la triste bellezza della loro musica. Eragon stava per chiedere loro di tacere, ma Saphira disse: Anche se non capiva le parole della canzone, Eragon intuì dal tono della melodia che si trattava di una lamentazione per le cose di un tempo che non c'erano più, come lo Zaffiro Stellato. Mentre il canto volgeva al termine, Eragon si ritrovò a pensare alla vita perduta nella Valle Palancar e gli si riempirono gli occhi di lacrime. Con sorpresa notò un analogo flusso di pensieri malinconici scorrere in Saphira. La tristezza e il rimpianto non erano tratti caratteristici della sua personalità, perciò Eragon rimase colpito, e le avrebbe chiesto spiegazioni se non avesse percepito in lei qualcosa di più profondo, come se una parte antica del suo essere si fosse risvegliata. La canzone si concluse con una lunga nota vibrante. In quell'istante Saphira fu attraversata da una corrente di energia così ricca e impetuosa che Eragon trasalì, e la dragonessa abbassò la testa a sfiorare lo Zaffiro Stellato con la punta del muso. La ragnatela di crepe che si diramava sulla gemma gigantesca s'illuminò di lampi sfolgoranti, poi l'intelaiatura si spezzò e cadde a terra, rivelando Isidar Mithrim di nuovo integro e perfetto. Ma c'era qualcosa di diverso. Il colore della pietra era di una tonalità di rosso più profonda, più ricca di sfumature, e i petali interni della rosa erano striati da venature d'oro scuro. I nani contemplarono Isidar Mithrim per qualche istante di muto stupore. Poi balzarono in piedi entusiasti, con acclamazioni e applausi così fragorosi da ricordare lo scroscio tonante di una cascata. Saphira chinò il capo verso la folla e tornò da Eragon, sbriciolando i petali di rosa sotto le zampe. Alzando le braccia, Orik fece tacere la folla e disse: «A nome della nostra razza, ti ringrazio per il tuo regalo, Saphira. Oggi hai risanato l'orgoglio del nostro regno, e noi non dimenticheremo il tuo gesto. Che non si dica che i knurlan sono degli ingrati; da questo istante fino alla fine dei tempi il tuo nome sarà citato nelle festività invernali insieme agli elenchi dei Mastri Artigiani, e quando Isidar Mithrim sarà ricollocato nella sua posizione in cima a Tronjheim, il tuo nome verrà inciso nel castone dello Zaffiro Stellato insieme a quello di Dûrok Ornthrond, che per primo scolpì la gemma a forma di rosa.» Rivolto a Eragon e Saphira, Orik disse: «Ancora una volta avete dimostrato la vostra amicizia verso la mia gente. Sono contento che le vostre azioni abbiano confermato che il mio padre adottivo aveva deciso per il meglio quando vi ha accolto nel Dûrgrimsth Ingeitum.» Dopo la conclusione dei numerosi riti che seguirono l'incoronazione, e dopo che Eragon ebbe aiutato Saphira a togliersi la lana dai denti - un compito viscido, bagnaticcio e odoroso che lo costrinse a lavarsi di nuovo - i due si presentarono al banchetto in onore di Orik. La festa fu allegra e chiassosa, e durò tutta la notte. Giocolieri e acrobati intrattennero gli ospiti, insieme a una compagnia di attori che recitarono un'opera intitolata Mentre l'euforia dei festeggiamenti scemava e le teste dei nani ubriachi ciondolavano sui calici, Eragon si chinò verso Orik, seduto a capotavola, e disse: «Maestà.» Orik agitò la mano. «Non voglio che mi chiami sempre Con un sorriso, Eragon disse: «Orik, volevo chiederti, è stato davvero Gûntera a incoronarti?» Orik affondò il mento nel petto, la sua espressione all'improvviso seria mentre sfiorava l'orlo del calice con un dito. «Era quanto di più simile a Gûntera si possa vedere sulla faccia della terra. Questo risponde alla tua domanda, Eragon?» «Io... credo di sì. Compare sempre quando viene chiamato? Si è mai rifiutato d'incoronare uno dei vostri sovrani?» Orik aggrottò le sopracciglia. «Hai mai sentito parlare dei Re Eretici e delle Regine Eretiche?» Eragon fece di no con la testa. «Erano knurlan che non ottennero la benedizione di Gûntera, eppure si ostinarono a voler salire al trono.» Orik fece una smorfia. «Tutti, nessuno escluso, ebbero regni brevi e infelici.» Eragon si sentì stringere il petto. «In buona sostanza, sebbene fossi stato eletto dal raduno dei clan, se Gûntera non ti avesse incoronato adesso tu non saresti re?» «Già. Oppure sarei re di una nazione straziata dalla guerra civile.» Orik si strinse nelle spalle. «Ma non temevo troppo questa possibilità. Con i Varden in procinto d'invadere l'Impero, soltanto un pazzo avrebbe rischiato di spaccare il nostro paese negandomi il trono, e anche se Gûntera è molte cose, di sicuro non è un pazzo.» «Ma non ne eri certo» osservò Eragon. Orik scosse il capo. «Non finché non mi ha posato l'elmo in testa.» PAROLE DI SAGGEZZA «Scusa» disse Eragon, urtando il catino. Nasuada aggrottò le sopracciglia, il volto deformato da una serie di piccole onde che incresparono l'acqua. «Di cosa?» chiese lei. «Credo di doverti fare le mie congratulazioni. Hai portato a termine ogni fase della missione che ti avevo affidato, e anche di più.» «No, è che...» Eragon s'interruppe quando si rese conto che lei non poteva notare l'ondulazione dell'acqua. Lo specchio magico di Nasuada aveva lo scopo di mostrarle un'immagine nitida di Eragon e Saphira, non degli oggetti che loro guardavano. «Ho urtato il catino con la mano, tutto qui.» «Oh. Bene, in tal caso, lascia che ti faccia i miei complimenti, Eragon. Garantendo l'ascesa al trono di Orik...» «Anche se ho dovuto rischiare di farmi uccidere?» Nasuada sorrise. «Sì, anche se hai dovuto rischiare di farti uccidere. Sei riuscito a preservare la nostra alleanza con i nani, e questo potrebbe fare la differenza fra la vittoria e la sconfitta. Ora la domanda è: quanto ci vorrà prima che il resto dell'esercito dei nani ci raggiunga?» «Orik ha già ordinato ai guerrieri di prepararsi a partire» disse Eragon. «I clan impiegheranno qualche giorno per radunare le forze, ma poi si metteranno subito in marcia.» «Bene. Il loro aiuto ci serve appena possibile. E tu quando tornerai? Fra tre giorni? Quattro?» Saphira arruffò le penne delle ali; il suo fiato era caldo sul collo di Eragon. Lui la guardò, poi, scegliendo le parole con cura, disse: «Dipende. Ricordi di cosa abbiamo parlato prima che partissi?» Nasuada strinse le labbra. «Certo che lo ricordo, Eragon. Io...» Il suo sguardo si spostò di lato mentre ascoltava un uomo che le parlava, ma la sua voce era solo un mormorio incomprensibile per Eragon e Saphira. Riportando lo sguardo su di loro, Nasuada disse: «La compagnia del capitano Edric è appena tornata. Mi dicono che abbiamo subito gravi perdite, ma Roran è vivo.» «È ferito?» s'informò Eragon. «Te lo farò sapere non appena avrò notizie. Fossi in te non mi preoccuperei troppo, visto che Roran ha la fortuna di...» Ancora una volta, la voce di una persona che non potevano vedere distrasse Nasuada e lei sparì dal campo visivo. Eragon aspettò, inquieto. «Scusami» disse Nasuada, comparendo di nuovo nel catino. «Stiamo per cingere d'assedio Feinster e dobbiamo respingere le scorrerie di soldati ordinate da Lady Lorana... Eragon, Saphira, abbiamo bisogno di voi per questa battaglia. Se gli abitanti di Feinster vedono solo uomini, nani e Urgali schierati davanti alle loro mura, potrebbero convincersi di avere ancora una possibilità di salvare la città e combatteranno fino allo stremo. Non possono riuscirci, è chiaro, ma devono ancora convincersene. Se invece vedono un drago e un Cavaliere a guidare l'attacco contro di loro, perderanno ogni desiderio di resistere.» «Ma...» Nasuada alzò la mano per interromperlo. «Ci sono altri motivi per cui dovete tornare. A causa delle ferite che ho riportato nella Prova dei Lunghi Coltelli, non posso cavalcare in battaglia con i Varden come ho sempre fatto. Ho bisogno che Stringendo il bordo freddo del tavolo di pietra dov'era posato il catino, Eragon disse: «Nasuada, per favore. Se non adesso, quando?» «Presto. Dovete essere pazienti.» «Presto.» Eragon trasse un profondo respiro, stringendo ancora di più il bordo del tavolo. «Quanto presto, esattamente?» Nasuada lo guardò accigliata. «Come faccio a saperlo? Per prima cosa dobbiamo conquistare Feinster, poi dobbiamo rendere sicura la campagna circostante e poi...» «E poi vorrai marciare su Belatona o Dras-Leona, e poi fino a Urû'baen» la interruppe Eragon. Nasuada provò a ribattere, ma lui non la lasciò parlare. «E più vi avvicinerete a Galbatorix, più aumenteranno le probabilità di essere attaccati da Murtagh e Castigo, o anche dal re in persona, e tu sarai ancora più restia a lasciarci andare... Nasuada, io e Saphira non abbiamo le capacità, le conoscenze o la forza per uccidere Galbatorix. E tu lo sai! Galbatorix potrebbe mettere fine a questa guerra quando vuole, se decidesse di uscire dal suo castello per affrontare i Varden in campo aperto. Io e Saphira Nasuada abbassò lo sguardo, studiandosi le mani. «Castigo e Murtagh potrebbero distruggerci mentre voi siete lontani.» «Ma se non andiamo, Galbatorix ci distruggerà quando raggiungeremo Urû'baen... Non potete aspettare qualche giorno prima di attaccare Feinster?» «Possiamo, ma ogni giorno che restiamo accampati davanti alle mura della città ci costerà delle vite umane.» Nasuada si massaggiò le tempie con la base dei palmi. «Mi stai chiedendo molto in cambio di una ricompensa incerta, Eragon.» «La ricompensa sarà anche incerta» osservò lui, «ma la nostra rovina è inevitabile se non facciamo almeno un tentativo.» «Dici? Io non ne sono così sicura. Comunque...» Per un lungo, inquietante minuto, Nasuada rimase in silenzio, lo sguardo perso oltre lo specchio. Poi annuì, come per confermare qualcosa a se stessa, e disse: «Posso ritardare l'arrivo a Feinster di due o tre giorni. Ci sono diversi villaggi che possiamo conquistare prima. Una volta raggiunta la città, posso darti altri due o tre giorni mentre i Varden costruiscono le macchine d'assedio e preparano le fortificazioni. Nessuno sospetterà niente di strano, ma dopo dovrò attaccare Feinster, non fosse altro perché ci servono i loro viveri. Un esercito che indugia nel territorio nemico è un esercito che muore di fame. Nella migliore delle ipotesi, posso concederti sei giorni, o forse soltanto quattro.» Mentre Nasuada parlava, Eragon aveva fatto qualche rapido calcolo. «Quattro giorni non bastano» disse. «E probabilmente nemmeno sei. Saphira ha impiegato tre giorni per volare qui nel Farthen Dûr, e questo senza mai fermarsi e senza portare il mio peso. Se le mappe che ho studiato sono precise, c'è la stessa distanza fra qui ed Ellesméra, forse anche di più. E la stessa fra Ellesméra e Feinster. E con me in groppa, Saphira non sarà in grado di coprire la distanza nello stesso tempo.» Eragon continuò. «Nella migliore delle ipotesi ci metteremmo una settimana per raggiungervi a Feinster, e anche così non potremmo restare a Ellesméra che per una manciata di minuti.» Un'espressione di profonda stanchezza solcò il volto di Nasuada. «Dovete per forza volare fino a Ellesméra? Non basterebbe divinare i vostri maestri una volta oltrepassate le barriere magiche che proteggono i confini della Du Weldenvarden? Il tempo risparmiato sarebbe fondamentale.» «Non lo so, possiamo provarci.» Nasuada chiuse gli occhi per un istante, poi, con la voce arrochita dalla stanchezza, disse: «Cercherò di ritardare il nostro arrivo a Feinster di quattro giorni... Voi potete andare a Ellesméra oppure no: lascio a voi la decisione. Se andate, allora restate il tempo necessario. Hai ragione, Eragon, a meno che non troviate un modo per sconfiggere Galbatorix non c'è alcuna speranza di vittoria. Ma non dimenticare il tremendo rischio che corriamo, le vite dei Varden che sacrificherò per darvi il tempo che vi serve, e quanti altri Varden moriranno se cingeremo d'assedio Feinster senza di voi.» Eragon annuì, serio. «Non lo dimenticherò.» «Lo spero. Ora andate! Non perdete tempo! Volate. Volate! Saphira, vola più veloce di un falco in picchiata e non lasciare che niente ti rallenti.» Nasuada avvicinò la punta delle dita alle labbra e poi le premette sull'invisibile superficie dello specchio. «Buon viaggio, e che la fortuna vi assista, Eragon, Saphira. Se ci rivedremo, temo che sarà sul campo di battaglia.» Con un fruscio di stoffe, Nasuada scomparve dalla loro vista. Eragon sciolse l'incantesimo e l'acqua nel catino tornò limpida. ♦ ♦ ♦ LA FUSTIGAZIONE Roran sedeva con la schiena rigida e lo sguardo perso oltre le spalle di Nasuada, fisso su una piega nella parete di tessuto cremisi del padiglione. Sentiva gli occhi di Nasuada su di sé, ma si rifiutava d'incontrarli. Mentre il silenzio si faceva sempre più opprimente, pensò alle cose terribili che avrebbero potuto succedergli. Le tempie gli pulsavano con un'intensità febbrile. Quanto avrebbe voluto poter lasciare l'atmosfera pesante della tenda e respirare l'aria fresca là fuori. Alla fine Nasuada disse: «Cosa devo fare con te, Roran?» Lui raddrizzò ancora di più la schiena. «Ciò che desideri, mia signora.» «Una risposta ammirevole, Fortemartello, ma non risolve in alcun modo il mio imbarazzo.» Nasuada bevve un sorso di vino da un calice. «Per due volte hai disobbedito a un ordine diretto del capitano Edric. E tuttavia, se non lo avessi fatto, né tu, né lui, né il resto della compagnia sareste sopravvissuti per raccontarlo. D'altro canto il tuo successo non cambia il fatto che hai disobbedito. Tu stesso hai ammesso di aver compiuto consapevolmente un atto d'insubordinazione, e io «Sì, mia signora.» Nasuada si rabbuiò. «Dannazione, Fortemartello! Se non fossi il cugino di Eragon, e se la tua mossa fosse stata anche solo un briciolo meno efficace, ti farei impiccare per cattiva condotta.» Roran deglutì, immaginando il cappio che gli stringeva il collo. Nasuada tamburellò sul bracciolo dello scranno, accelerando via via il ritmo. Poi s'interruppe di colpo e disse: «Desideri continuare a combattere con i Varden?» «Sì, mia signora» rispose lui senza esitazione. «Che cosa sei disposto a sopportare per rimanere nel mio esercito?» Roran non si soffermò a riflettere sulle implicazioni di quella domanda e rispose di getto: «Qualunque cosa, mia signora.» La tensione sul volto di Nasuada si allentò. La regina annuì, con aria soddisfatta. «Speravo che dicessi così. La tradizione e i precedenti mi lasciano solo tre alternative. Uno, posso impiccarti, ma non lo farò... per svariate ragioni. Due, posso infliggerti trenta frustate e poi espellerti dalle file dei Varden. Tre, posso infliggerti cinquanta frustate e tenerti nel mio esercito.» Le sopracciglia di Nasuada si inarcarono appena. «Non c'è posto qui per il tuo orgoglio, Fortemartello. La punizione dev'essere dura per scoraggiare eventuali emuli del tuo gesto, e dev'essere pubblica perché tutti i Varden comprendano il messaggio. Se sei intelligente anche solo la metà di quanto sembri, quando hai disobbedito a Edric sapevi che la tua decisione avrebbe avuto delle conseguenze e che quelle conseguenze non sarebbero state affatto piacevoli. La scelta che devi fare adesso è semplice: vuoi restare coi Varden o abbandonare i tuoi amici e la tua famiglia per andartene per la tua strada?» Roran alzò il mento di scatto, offeso dal fatto che lei mettesse in dubbio la sua parola. «Non me ne andrò, Lady Nasuada. Per quante frustate tu mi possa infliggere, non potranno mai essere tanto dolorose quanto lo è stato perdere la mia casa e mio padre.» «Già» disse Nasuada in tono sommesso. «Non potranno... Uno degli stregoni del Du Vrangr Gata assisterà alla fustigazione e dopo si prenderà cura di te, per evitare che i colpi ti causino danni permanenti. Ma non ti guarirà completamente e tu non potrai ricorrere a nessun altro mago perché lo faccia.» «Capisco.» «La tua punizione avrà luogo non appena Jörmundur avrà radunato le truppe. Fino ad allora, resterai sotto sorveglianza in una tenda vicina al palo delle fustigazioni.» Roran fu contento di sapere che non avrebbe dovuto aspettare troppo a lungo: non voleva essere costretto a tormentarsi per giorni al pensiero di ciò che lo aspettava. «Mia signora» disse, e lei lo congedò con un cenno del dito. Girando sui tacchi, Roran uscì dal padiglione. Non appena emerse all'aria aperta, due guardie lo affiancarono. Senza rivolgergli uno sguardo né una parola, lo scortarono fino a una piccola tenda vuota, non troppo lontana dall'annerito palo delle fustigazioni, piantato sopra una leggera altura ai margini dell'accampamento. Il palo era alto sei piedi e mezzo, e nella parte alta era inchiodata una grossa traversa dove venivano legati i polsi dei prigionieri. La traversa era solcata dalle unghiate degli uomini che erano stati fustigati prima di lui. Roran si costrinse a distogliere lo sguardo, poi chinò il capo per entrare nella tenda. Dentro c'era soltanto uno sgabello di legno consunto. Si sedette e si concentrò sulla respirazione, deciso a mantenere la calma. Col passare dei minuti cominciò a sentire il rimbombo degli stivali e il tintinnio delle cotte di maglia dei Varden che si radunavano intorno al palo delle fustigazioni. Roran immaginò migliaia di uomini e donne che lo fissavano, compresi gli abitanti di Carvahall. Il suo cuore accelerò; un velo di sudore gli coprì la fronte. Mezz'ora dopo, la maga Trianna entrò nella tenda e lo costrinse a spogliarsi per restare solo in pantaloni. Roran provò un forte imbarazzo, anche se la donna rimase impassibile. Trianna lo esaminò da capo a piedi, ed evocò perfino un incantesimo di guarigione per la sua spalla sinistra, dove il soldato gli aveva conficcato il dardo della balestra. Poi lo dichiarò idoneo a sostenere la punizione e gli diede una camicia di tela grezza da indossare al posto della sua. Roran aveva appena infilato la testa nella camicia quando Katrina entrò nella tenda. Quando la vide, Roran fu pervaso da un misto di gioia e di terrore. Katrina lo guardò, poi, facendo un inchino, si rivolse a Trianna. «Per favore, posso parlare con mio marito da sola?» «Certo, aspetterò qui fuori.» Una volta uscita Trianna, Katrina corse da Roran e gli gettò le braccia al collo. Lui ricambiò il suo abbraccio con la stessa intensità, dato che non l'aveva ancora vista da quando era rientrato all'accampamento. «Oh, quanto mi sei mancato» gli sussurrò Katrina all'orecchio. «Anche tu» mormorò lui. Si separarono quel tanto da potersi guardare negli occhi. Katrina si accigliò. «Non è giusto! Sono andata da Nasuada e l'ho implorata di perdonarti, o almeno di ridurre il numero di frustate, ma lei non ha voluto concedermelo.» Facendo scorrere le mani lungo la schiena di Katrina, Roran disse: «Avrei preferito che non l'avessi fatto.» «Perché?» «Perché ho detto che sarei rimasto con i Varden e non mi rimangerò la parola data.» «Ma non è giusto!» esclamò Katrina, afferrandolo per le spalle. «Carn mi ha detto che cosa hai fatto: hai ucciso quasi duecento soldati da solo, e se non fosse stato per il tuo eroismo nessuno degli uomini con te sarebbe sopravvissuto. Nasuada dovrebbe ricompensarti con regali ed elogi, non farti frustare come un criminale comune!» «Non importa se è giusto o sbagliato» disse Roran. «È necessario. Se mi trovassi nella posizione di Nasuada, avrei dato lo stesso ordine.» Katrina rabbrividì. «Ma cinquanta frustate... Perché devono essere così tante? C'è chi è morto per essere stato frustato così tanto.» «Doveva avere il cuore debole. Non preoccuparti; ci vorrà ben altro per uccidermi.» Un sorriso forzato affiorò sulle labbra di Katrina, poi le sfuggì un singhiozzo e premette il volto contro il petto di lui. Roran la cullò fra le braccia, accarezzandole i capelli e rassicurandola come poteva, anche se non si sentiva meglio di lei. Dopo qualche minuto udì lo squillo di un corno fuori della tenda e capì che gli restava poco tempo. Sciogliendosi dall'abbraccio di Katrina, disse: «C'è una cosa che voglio tu faccia per me.» «Cosa?» chiese lei asciugandosi gli occhi. «Torna nella nostra tenda e non uscire finché non avranno finito di frustarmi.» Katrina parve sconvolta da quella richiesta. «No! Non ti lascerò... non adesso.» «Ti prego» disse lui. «Non devi guardare.» «E tu non dovresti essere frustato» ribatté lei. «Ora basta. So che vorresti starmi accanto, ma riuscirò a sopportare meglio tutto quanto sapendo che tu non sei lì a guardarmi... me la sono cercata, Katrina, e non voglio che anche tu soffra.» L'espressione di lei si fece tesa. «Sapere che cosa ti succederà mi farà soffrire ovunque io sia. Però... farò come mi chiedi, ma solo perché ti aiuterà a sopportare questa prova terribile... Sai che mi farei frustare al tuo posto, se potessi.» «E tu sai» disse lui, baciandola sulle guance «che io non lo permetterei mai.» Le lacrime ricomparvero negli occhi di Katrina. Attirò Roran a sé, stringendolo con tanta forza da soffocarlo. Erano ancora stretti nell'abbraccio quando entrò Jörmundur insieme a due Falchineri. Katrina si separò da Roran e, dopo aver rivolto un inchino a Jörmundur, senza dire una parola scivolò fuori della tenda. Jörmundur fece un cenno al prigioniero. «È ora.» Roran annuì e si alzò. Jörmundur e le guardie lo scortarono fino al palo delle fustigazioni. Passarono fra la folla di Varden, dove ogni uomo, donna, nano e Urgali aspettava con la schiena rigida e le spalle dritte. Data un'occhiata all'esercito riunito, Roran prese a fissare l'orizzonte e fece del suo meglio per ignorare gli spettatori. Le due guardie gli alzarono le braccia sopra la testa e gli legarono i polsi alla traversa. Nel frattempo Jörmundur si piazzò davanti al palo ed estrasse un cavicchio di legno foderato di cuoio. «Tieni, mordi questo» disse a bassa voce. «Ti aiuterà.» Riconoscente, Roran aprì la bocca e gli permise di sistemargli il morso fra i denti. La pelle conciata aveva un sapore amaro, come di ghiande verdi. Poi il suono di un corno e un rullo di tamburo squarciarono l'aria. Jörmundur lesse ad alta voce le accuse e le guardie tagliarono la camicia di tela di Roran. Roran rabbrividì quando l'aria fredda gli sferzò il torso nudo. Un istante prima che lo colpisse, sentì la frusta sibilare nell'aria. Fu come se gli avessero posato una sbarra di metallo incandescente sulla carne. Inarcò la schiena stringendo il morso fra i denti. Gli sfuggì un gemito involontario, anche se il morso attutì il suono e nessuno lo udì. «Uno» disse l'uomo che impugnava la frusta. Il secondo colpo gli strappò un altro lamento, ma poi rimase in silenzio, deciso a non mostrarsi debole davanti a tutti i Varden. Le frustate erano dolorose quanto una delle tante ferite riportate nei mesi precedenti, ma dopo una decina di colpi smise di tentare di combattere il dolore e si arrese, entrando in uno stato di sospensione. Il suo campo visivo si restrinse finché l'unica cosa che riuscì a vedere fu il legno graffiato che aveva davanti a sé; talvolta la vista gli si annebbiava e tutto diventava nero, mentre scivolava in brevi sprazzi d'incoscienza. Dopo un tempo che gli parve infinito, sentì una voce fievole e distante dire: «Trenta!» e fu preso dalla disperazione, chiedendosi: Roran si svegliò sulla branda nella tenda che condivideva con la moglie, disteso sul ventre. Katrina era inginocchiata accanto a lui e gli accarezzava i capelli, mormorandogli nell'orecchio, mentre qualcuno gli tamponava i solchi sulla schiena con una sostanza fredda e appiccicosa. Trasalì e s'irrigidì quando la persona toccò un punto particolarmente sensibile. «Io «Se hai curato tutti i tuoi pazienti come stavi curando Roran» replicò un'altra donna «mi meraviglio che siano sopravvissuti.» Dopo un istante, Roran riconobbe la voce: apparteneva ad Angela, la stravagante erborista dagli occhi scintillanti. «Insomma!» esclamò Trianna. «Non ho intenzione di starmene qui in piedi a farmi insultare da una mediocre «Allora siediti, se ti fa piacere, ma in un caso o nell'altro continuerò a insultarti finché non ammetterai che il muscolo della sua schiena si attacca «Oh!» sbuffò Trianna, e uscì dalla tenda. Katrina sorrise a Roran, e in quel momento lui si accorse delle lacrime che le rigavano il volto. «Roran, mi senti?» chiese lei. «Sei sveglio?» «Io... credo di sì» rispose lui con voce roca. Aveva stretto il morso così a lungo e tanto forte che gli faceva male la mascella. Tossì, poi fece una smorfia quando tutti e cinquanta gli sfregi pulsarono all'unisono. «Ecco fatto» disse Angela. «Tutto finito.» «È sorprendente. Non mi aspettavo che tu e Trianna avreste fatto tanto» disse Katrina. «Ordine di Nasuada.» «Nasuada? E perché avrebbe...» «Dovresti chiederlo a lei. Di' a Roran di non mettersi sulla schiena. E di stare attento quando si gira sul fianco, altrimenti si potrebbero rompere le croste.» «Grazie» mormorò Roran. Dietro di lui, Angela rise. «Non ci pensare, Roran, o meglio, pensaci, ma non dargli troppo peso. E poi mi diverte l'idea di aver curato entrambe le vostre schiene, la tua e quella di Eragon. Bene, allora, io me ne vado. Occhio alle spie!» Quando l'erborista se ne fu andata, Roran chiuse di nuovo gli occhi. Le morbide dita di Katrina gli accarezzarono la fronte. «Sei stato molto coraggioso» disse. «Davvero?» «Sì. Jörmundur e tutti quelli con cui ho parlato mi hanno detto che non hai mai urlato né implorato che smettessero di frustarti.» «Bene.» Roran avrebbe voluto conoscere la gravità delle sue ferite, ma non voleva costringerla a descrivergli le condizioni pietose della sua schiena. Tuttavia Katrina parve percepire il suo desiderio, perché disse: «Angela ritiene che con un po' di fortuna le tue ferite cicatrizzeranno abbastanza bene. In ogni caso, una volta che sarai completamente guarito, Eragon o un altro mago potrà rimuoverti le cicatrici dalla schiena: non si vedrà neppure che sei stato frustato.» «Mmh.» «Vuoi qualcosa da bere?» chiese lei. «Ho messo a bollire un infuso di achillea millefoglie.» «Sì, grazie.» Quando Katrina si alzò, Roran sentì un'altra persona entrare nella tenda. Aprì un occhio e rimase sorpreso nel vedere Nasuada accanto al palo d'ingresso. «Mia signora» disse Katrina, la voce tagliente come un rasoio. Malgrado le fitte lancinanti alla schiena, Roran si sollevò sui gomiti e, con l'aiuto di Katrina, si voltò per mettersi a sedere. Appoggiandosi a lei, fece per alzarsi, ma Nasuada lo fermò con un gesto della mano. «No, resta seduto. Non voglio farti soffrire più di quanto non abbia già fatto.» «Perché sei qui, Lady Nasuada?» chiese Katrina. «Roran ha bisogno di riposare e di riprendersi, non di passare il tempo a parlare quando non deve.» Roran mise la mano sulla spalla sinistra di Katrina. «Posso parlare, se devo» mormorò. Spostandosi verso il centro della tenda, Nasuada sollevò l'orlo del vestito verde e sedette sul piccolo baule che Katrina si era portata da Carvahall. Dopo essersi sistemata le pieghe della gonna, disse: «Ho un'altra missione per te, Roran, una breve incursione simile a quella a cui hai già partecipato.» «Quando devo partire?» chiese lui, sorpreso che Nasuada si fosse presa il disturbo d'informarlo di persona di un incarico così semplice. «Domani.» Katrina sgranò gli occhi. «Sei impazzita?» esclamò. «Katrina...» mormorò Roran, cercando di rabbonirla, ma lei si liberò della sua mano con una scrollata di spalle e continuò: «Per poco non moriva nell'ultima missione, e lo hai appena fatto frustare a sangue! Non puoi ordinargli di tornare a combattere così presto, non resisterebbe nemmeno un minuto contro i soldati di Galbatorix!» «Posso, e devo!» esclamò Nasuada con un piglio così autoritario che Katrina tenne a freno la lingua, in attesa di ascoltare il seguito, anche se Roran intuì che la sua collera non era affatto sbollita. Fissandolo dritto negli occhi, Nasuada disse: «Roran, non so se lo sai, ma la nostra alleanza con gli Urgali è sul punto di spezzarsi. Uno dei nostri ha assassinato tre Urgali mentre eri in missione agli ordini del capitano Edric, il quale, forse ti farà piacere saperlo, non è più capitano. A ogni modo, ho fatto impiccare il miserabile disgraziato che ha ucciso gli Urgali, ma da allora i nostri rapporti con gli arieti di Garzhvog si sono pericolosamente incrinati.» «E questo cosa c'entra con Roran?» intervenne Katrina. Nasuada serrò le labbra, poi disse: «Ho bisogno di convincere i Varden ad accettare la presenza degli Urgali senza altri spargimenti di sangue, e il modo migliore per farlo è di «Ma questo ancora non...» iniziò a dire Katrina. «E li metterò tutti sotto il tuo comando, Fortemartello.» «Il mio comando?» gracchiò Roran, stupefatto. «Perché?» Con un sorriso ironico Nasuada disse: «Perché tu farai qualunque cosa pur di proteggere i tuoi amici e la tua famiglia. In questo sei come me, anche se la mia famiglia è molto più numerosa della tua, visto che considero tutti i Varden miei parenti. Inoltre, dato che sei il cugino di Eragon, non posso permettermi di rischiare un altro tuo atto d'insubordinazione, perché a quel punto non avrei altra scelta se non giustiziarti o espellerti dai Varden. E non voglio fare nessuna delle due cose. «Per questo ti affido il comando, in modo che non ci sia nessuno sopra di te, a parte me, a cui potresti disobbedire. Se ignorerai i Roran guardò Katrina. Sapeva che lei desiderava con tutte le sue forze che dicesse a Nasuada di non essere in grado di guidare l'incursione. Abbassando gli occhi per non guardare il suo dolore, pensò all'immenso esercito contro cui combattevano i Varden. Poi, con un rauco sussurro, disse: «Puoi contare su di me, Lady Nasuada.» ♦ ♦ ♦ FRA LE NUVOLE Da Tronjheim, Saphira volò per cinque miglia fino alla parete interna del Farthen Dûr, poi lei ed Eragon entrarono nella galleria che attraversava la base della montagna cava per numerose miglia verso est. Eragon avrebbe potuto attraversare la galleria di corsa in una decina di minuti, ma poiché il soffitto impediva a Saphira di volare o di saltare, la dragonessa non sarebbe stata in grado di stargli dietro, perciò Eragon si limitò a tenere un passo veloce. Un'ora dopo sbucarono nella Valle Odred, che correva da nord a sud. Annidato fra le colline all'imboccatura della stretta vallata ricoperta di felci si trovava il Fernoth-mérna, un lago perfettamente rotondo, come una goccia d'inchiostro nero fra le vette torreggianti dei Monti Beor. Dal punto più settentrionale del Fernoth-mérna scorreva il Ragni Darmn, che serpeggiava nella valle fino a confluire nell'Az Ragni, alle pendici di Moldûn il Fiero, il monte più a nord della catena dei Beor. Erano partiti da Tronjheim molto prima dell'alba, e nonostante la galleria li avesse rallentati era ancora mattino presto. Lo squarcio di cielo sopra le loro teste, là dove il sole filtrava fra le vette dei monti giganteschi, era solcato da pallidi raggi dorati. Nella valle, densi brandelli di nuvole si aggrappavano alle pendici dei monti come grossi serpenti grigi. Bianche volute di nebbia si levavano dalla superficie vitrea del lago. Eragon e Saphira si fermarono sulle rive del Fernoth-mérna per bere e riempire le borracce per il viaggio. L'acqua proveniva dalla neve e dal ghiaccio che si scioglievano dalle montagne. Era così fredda che a Eragon fecero male i denti. Strizzò gli occhi e batté i piedi per terra gemendo mentre una fitta provocata dal freddo gli trapassava il cranio. Quando la sensazione pulsante scemò, guardò oltre il lago. Fra le cortine fluttuanti di nebbia, scorse le rovine di un castello dalla forma irregolare, costruito su uno sperone di nuda roccia. Fitti tralci d'edera strangolavano i muri cadenti, ma a parte questo, la struttura pareva senza vita. Eragon rabbrividì. L'edificio abbandonato emanava un'aura cupa e sinistra, come la carcassa putrescente di qualche orrenda bestia. gli chiese Saphira. rispose lui, e montò in sella. Dal Fernoth-mérna, Saphira volò verso nord, seguendo la valle Odred per uscire dai Monti Beor. La valle non portava direttamente a Ellesméra, situata molto più a ovest, ma non c'era altra scelta che percorrerla, dato che i valichi fra le montagne si trovavano a oltre cinque miglia di altezza. Saphira volava alla massima quota che Eragon era in grado di sopportare; le era più semplice coprire lunghe distanze nell'atmosfera rarefatta piuttosto che nell'aria densa e umida più vicina al suolo. Per proteggersi dalle temperature glaciali, Eragon aveva indossato diversi strati d'indumenti e si schermava dal vento con un incantesimo che divideva in due la corrente d'aria gelata in modo che gli passasse accanto senza investirlo. Cavalcare Saphira era tutt'altro che riposante, ma dato che la dragonessa volava a un ritmo costante e fluido, Eragon non doveva concentrarsi per mantenere l'equilibrio come quando lei virava o si tuffava in picchiata o eseguiva una delle sue tante manovre acrobatiche. Il giovane passò il tempo parlando con lei, ripensando a ciò che era accaduto nelle settimane precedenti, e studiando il paesaggio mutevole che scorreva sotto di loro. Il sole arancione era a una spanna sopra l'orizzonte quando Saphira oltrepassò l'imboccatura della valle e sbucò sulle desolate praterie che lambivano i Monti Beor. Raddrizzandosi sulla sella, Eragon si guardò attorno e scosse il capo, meravigliato da quanta strada avevano fatto. La dragonessa continuò a volare finché il sole non tramontò, il cielo si riempì di stelle e le montagne divennero una scura macchia viola alle loro spalle. Avrebbe continuato fino al mattino dopo ma Eragon insistette perché si fermassero a riposare. Anche se a Saphira la sua proposta non piacque, acconsentì e atterrò vicino a un boschetto di salici sulla sponda di un torrente. Quando smontò, Eragon scoprì di avere le gambe così rigide che stava in piedi a stento. Tolse la sella a Saphira, poi srotolò il sacco da notte sul terreno accanto a lei e si raggomitolò con la schiena contro il suo corpo caldo. Non gli serviva una tenda: Saphira lo riparava con un'ala come una mamma falco che protegge la sua covata. Ben presto i due scivolarono nei rispettivi sogni, che si mescolarono in strani modi meravigliosi, poiché le loro menti restavano unite anche nel sonno. Non appena il primo raggio di luce comparve a est, Eragon e Saphira si rimisero in viaggio, volando alti sopra le pianure verdeggianti. A metà mattina cominciò a soffiare un feroce vento contrario che li rallentò di molto. Malgrado i suoi sforzi, Saphira non riusciva a innalzarsi al di sopra del vento e per tutto il giorno fu costretta a lottare contro la corrente d'aria avversa. Era una fatica immane, e sebbene Eragon le avesse infuso tutta l'energia che poteva senza rischiare troppo, nel pomeriggio era così provata dalla stanchezza che scese e atterrò su un piccolo poggio isolato nella prateria. Sedette immobile, con le ali distese per terra, ansante, scossa dai brividi. Eragon sentì l'umido raspare della sua lingua mentre si leccava le labbra, poi l'ansito dei suoi polmoni che lavoravano come mantici. Un debole ringhio sfuggì dalle fauci di Saphira. Mentre il giorno volgeva al termine e il vento ancora ululava intorno a loro, opponendosi a Saphira come se il destino avesse deciso di non farli mai arrivare alla Du Weldenvarden, Eragon pensò alla nana Glûmra e alla sua fede nelle divinità dei nani, e per la prima volta in vita sua provò il desiderio di pregare. Ritirandosi dal contatto mentale con Saphira - che era così stanca e preoccupata che non ci fece caso - mormorò: «Gûntera, re degli dei, se esisti, e se puoi sentirmi, e se ne hai il potere, allora ti prego, ferma questo vento. So che non sono un nano, ma re Rothgar mi ha adottato nel suo clan e credo che questo mi dia il diritto di pregarti. Gûntera, ti prego, dobbiamo raggiungere la Du Weldenvarden al più presto, non solo per il bene dei Varden, ma anche per il bene del tuo popolo, i knurlan. Ti prego, ti supplico, ferma questo vento. Saphira non può resistere ancora a lungo.» Poi, sentendosi un po' sciocco, Eragon toccò la coscienza di Saphira e trasalì sentendo il bruciore dei suoi muscoli affaticati. Più tardi, quella notte, quando tutto era freddo e buio, il vento si calmò. Tornò a farsi vivo di tanto in tanto con qualche sporadica folata. Quando si fece di nuovo mattina, Eragon guardò in basso e vide la dura, arida terra del deserto di Hadarac. Eragon borbottò, contrariato. Atterrarono solo due volte quel giorno. Mentre erano a terra, Saphira divorò un paio di anatre che aveva ucciso con una vampata di fuoco, ma a parte quello non mangiò altro. Per risparmiare tempo, Eragon mangiò la propria razione in sella. Come aveva predetto Saphira, la Du Weldenvarden comparve in lontananza proprio mentre il sole stava per tramontare: un'immensa distesa verde dove all'esterno predominavano alberi dalle foglie decidue - querce, faggi e aceri - che, procedendo via via verso l'interno, cedevano il posto ai maestosi pini che erano l'anima della foresta. Il crepuscolo era sceso sul paesaggio quando arrivarono al limitare della Du Weldenvarden e Saphira scivolò in un dolce atterraggio sotto i rami distesi di un'imponente quercia. Ripiegò le ali e rimase seduta, troppo stanca per proseguire. La lingua cremisi le penzolava dalla bocca. Mentre lei riposava, Eragon prese ad ascoltare il fruscio delle foglie sopra la sua testa e il bubbolio dei gufi e lo stridio degli insetti serali. Quando si fu ripresa, Saphira s'incamminò e passò fra due gigantesche querce coperte di muschio, entrando a piedi nella Du Weldenvarden. Gli elfi avevano reso impossibile per qualunque essere vivente o inanimato entrare nella foresta con mezzi magici, e poiché i draghi non si affidavano solo al proprio corpo per volare, Saphira non poteva entrare in volo, altrimenti le sue ali avrebbero ceduto e sarebbe precipitata. Eragon slegò le cinghie che gli serravano le gambe e scivolò lungo il fianco di Saphira. Setacciò il prato finché non trovò una zolla di terra nuda. Con le mani scavò una buca profonda un piede e larga la metà. Richiamò in superficie dell'acqua perché riempisse la buca, poi pronunciò un incantesimo di divinazione. L'acqua tremolò e acquistò un morbido bagliore dorato, poi sulla superficie apparve l'interno della capanna di Oromis. L'elfo dai capelli d'argento sedeva al tavolo della cucina, intento a leggere una pergamena. Oromis levò gli occhi verso Eragon e annuì, senza tradire alcuna sorpresa. «Maestro» disse Eragon, e voltò la mano per portarsela al petto. «Salute a te, Eragon! Vi stavo aspettando. Dove siete?» «Io e Saphira abbiamo appena raggiunto la Du Weldenvarden... Maestro, so che abbiamo promesso di tornare a Ellesméra, ma i Varden distano solo un paio di giorni dalla città di Feinster e sono vulnerabili senza di noi. Non abbiamo il tempo di volare fino a Ellesméra. Puoi rispondere alle nostre domande adesso, attraverso la pozza d'acqua magica?» Oromis si appoggiò alla sedia, il volto spigoloso segnato da un'espressione seria e pensierosa. Poi disse: «Non ti posso istruire a distanza, Eragon. Intuisco alcune delle cose che vorresti chiedermi, e sono argomenti che dobbiamo affrontare di persona.» «Maestro, ti prego. Se Murtagh e Castigo...» «No, Eragon. Capisco le ragioni della tua fretta, ma i tuoi studi sono importanti quanto proteggere i Varden, se non di più. Se non possiamo farlo in modo appropriato, tanto vale che non lo facciamo affatto.» Eragon sospirò e incurvò le spalle. «Sì, maestro.» Oromis annuì. «Glaedr e io vi aspetteremo. Volate veloci e sicuri. Abbiamo molte cose di cui parlare.» «Sì, maestro.» Stordito ed esausto, Eragon spezzò l'incantesimo. L'acqua fu riassorbita dalla nera terra. Il giovane si prese la testa fra le mani, fissando la macchia di terra umida fra i suoi piedi. Il respiro di Saphira risuonava forte e affannato al suo fianco. Il respiro di lei s'interruppe per un momento mentre si leccava le labbra. Eragon alzò lo sguardo su di lei. A malincuore, Eragon si alzò e si arrampicò sul dorso della dragonessa. Quando Eragon aveva incontrato Solembum per la prima volta a Teirm, il gatto mannaro gli aveva detto: Saphira spostò un albero caduto che le intralciava il cammino, poi si accovacciò e dispiegò le ali vellutate, i possenti muscoli delle spalle che si contraevano. Eragon lanciò un grido strozzato e si afferrò al pomolo della sella quando lei spiccò un balzo vertiginoso d'inaudita potenza, librandosi sulle chiome degli alberi. Virando sul mare di rami ondeggianti, la dragonessa puntò a nord-ovest e cominciò a volare verso la capitale degli elfi con un battito d'ali lento e possente. ♦ ♦ ♦ SCONTRO DI ARIETI L'assalto alla carovana degli approvvigionamenti si svolse come aveva pianificato Roran: tre giorni dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, lui e i suoi compagni a cavallo piombarono dal ciglio di un dirupo e attaccarono sul fianco il convoglio di carri. Nel frattempo, gli Urgali balzarono fuori da dietro i massi sparpagliati sul fondovalle e attaccarono l'avanguardia del convoglio, obbligandolo a fermarsi. I soldati e i conducenti dei carri reagirono con coraggio, ma l'imboscata li aveva colti ancora insonnoliti e disorganizzati, e ben presto le forze di Roran ebbero la meglio. Nell'attacco non morirono né umani né Urgali, e ci furono soltanto tre feriti: due umani e un Urgali. Roran uccise diversi soldati, ma perlopiù restò in disparte, concentrato a impartire ordini come era suo compito. Era ancora rigido e dolorante per le frustate, e non voleva sforzarsi più del necessario nel timore che le croste che gli ricoprivano la schiena si riaprissero. Fino a quel momento non aveva avuto difficoltà a mantenere la disciplina fra i venti umani e i venti Urgali. Anche se era evidente che nessuno dei due gruppi si fidava dell'altro - un atteggiamento che lui condivideva, perché guardava gli Urgali con lo stesso sospetto e disgusto di ogni uomo cresciuto dalle parti della Grande Dorsale - erano riusciti a lavorare insieme per tre giorni senza che nessuno alzasse mai nemmeno la voce. Roran sapeva che il fatto che i due gruppi fossero riusciti a collaborare aveva poco a che vedere con il suo valore di capitano. Nasuada e Nar Garzhvog avevano scelto con gran cura i guerrieri che dovevano viaggiare con lui, selezionando solo i più veloci con le armi, quelli dotati di buonsenso e soprattutto di un carattere saldo e pacato. Tuttavia, dopo l'attacco al convoglio, mentre i suoi uomini erano impegnati ad accatastare i corpi dei soldati e dei conducenti, cavalcando su e giù lungo la linea dei carri per controllare il lavoro Roran sentì dei gemiti provenire dalla coda della carovana. Pensando che un altro contingente di soldati li avesse colti di sorpresa, urlò a Carn e ad altri uomini di raggiungerlo, poi diede di sprone nei fianchi di Fiammabianca e galoppò verso la retroguardia dei carri. Quattro Urgali avevano legato un soldato nemico al tronco nodoso di un salice e si stavano divertendo a colpirlo e a punzecchiarlo con le spade. Lanciando un'imprecazione, Roran saltò giù da Fiammabianca e con un solo colpo di martello pose fine all'agonia dell'uomo. Una nuvola di polvere investì il gruppo quando Carn e altri quattro guerrieri sopraggiunsero al galoppo. Tirarono le redini dei loro destrieri e si schierarono ai lati di Roran, tenendo le armi pronte. L'Urgali più grosso, un ariete di nome Yarbog, si fece avanti. «Fortemartello, perché hai interrotto il nostro divertimento? Lo avremmo fatto ballare ancora per un po'.» A denti stretti Roran rispose: «Finché siete sotto il mio comando non torturerete i prigionieri senza motivo. Mi avete capito? Molti di questi soldati sono stati costretti con la forza a servire Galbatorix. Molti di loro sono nostri amici, o familiari, o vicini, e anche se dobbiamo combatterli, non vi permetterò di trattarli con inutile crudeltà. Se non fosse per un capriccio del fato, ciascuno di noi umani potrebbe trovarsi al loro posto. Non sono loro il nostro nemico; Galbatorix lo è, ed è anche il vostro.» L'Urgali corrugò la fronte sporgente, oscurando i gialli occhi infossati. «Ma voi li uccidereste comunque, no? E allora perché noi non possiamo divertirci a vederli contorcersi e ballare prima?» Roran si domandò se il cranio dell'Urgali fosse troppo spesso per spezzarlo con una martellata. Sforzandosi di contenere la rabbia, disse: «Perché è sbagliato!» Poi indicò il soldato morto. «E se «Certo» disse Yarbog. «Uno dei nostri avrebbe voluto essere tormentato dalle nostre spade in modo da provare il proprio coraggio prima di morire. Non è lo stesso per voi umani senza corna, o non sapete sopportare il dolore?» Roran non sapeva quanto potesse essere grave fra gli Urgali chiamare qualcuno Senza aspettare replica, Roran si volse e, afferrando le redini di Fiammabianca, si preparò a montargli in sella. «No» grugnì Yarbog. Roran si bloccò con un piede nella staffa e imprecò fra i denti. Aveva sperato fino all'ultimo che durante la missione non si verificasse mai una situazione del genere. Si voltò e disse: «No? Ti rifiuti di obbedire ai miei ordini?» Arricciando le labbra per mostrare le corte zanne, Yarbog disse: «No. Ti sfido per il comando di questa tribù, Fortemartello.» L'Urgali gettò indietro la testa massiccia e ululò così forte che tutti gli Urgali e gli umani lasciarono le loro occupazioni e corsero verso il salice, finché tutti e quaranta non si furono ammassati intorno a Yarbog e Roran. «Vuoi che ci occupiamo noi di questa creatura per te?» chiese Carn ad alta voce. Roran avrebbe preferito che non ci fossero tanti spettatori. Scosse il capo. «No, me ne occuperò personalmente.» Malgrado le sue parole, era contento di avere accanto i suoi uomini, contrapposti alla fila dei grossi Urgali dalla pelle grigia. Gli umani erano più piccoli degli Urgali, ma tutti, tranne Roran, erano a cavallo, il che avrebbe dato loro un piccolo vantaggio se fosse scoppiata una battaglia fra i due gruppi. D'altro canto la magia di Carn sarebbe servita ben poco, perché gli Urgali avevano un loro stregone, uno sciamano di nome Dazhgra, e da quanto Roran aveva visto fra i due era Dazhgra il mago più potente, anche se non era altrettanto esperto nelle varie sfumature delle arti arcane. Rivolto a Yarbog, Roran disse: «Non è usanza dei Varden assegnare il comando in base a un duello. Se vuoi combattere, combatterò, ma non ci guadagnerai nulla. Se io perdo, Carn assumerà il comando e tu dovrai rispondere a lui.» «Bah!» esclamò Yarbog. «Non ti sfido per il diritto di comandare la tua stessa razza, ti sfido per il diritto di guidare Roran valutò la situazione prima di accettare l'inevitabile. Anche a costo della vita, doveva cercare di mantenere l'autorità sugli Urgali, o i Varden li avrebbero persi come alleati. Trasse un profondo respiro e disse: «L'usanza fra quelli della mia razza è che sia la persona sfidata a scegliere l'ora e il luogo del duello, così come le armi da usare.» Con una risata gutturale, Yarbog replicò: «L'ora è adesso, Fortemartello. E il luogo è questo. E fra quelli della mia razza si combatte con un perizoma e disarmati.» «Questo non è giusto, perché io non ho le corna» sottolineò Roran. «Accetti di farmi usare il martello per compensare alla mancanza?» Yarbog ci pensò, poi disse: «Potrai tenere l'elmo e lo scudo, ma niente martello. Le armi non sono ammesse quando si combatte per il comando.» «Capisco... Bene, se non posso avere il martello, allora farò a meno anche dell'elmo e dello scudo. Quali sono le regole e come si decreta il vincitore?» «C'è soltanto una regola, Fortemartello: se fuggi, perdi il duello e sei bandito dalla tua tribù. Si vince obbligando l'avversario ad arrendersi, ma visto che io non mi arrenderò mai, combatteremo fino alla morte.» Roran annuì. Dietro sue indicazioni, gli uomini e gli Urgali sgombrarono uno spazio al centro della gola e delimitarono un quadrato di dodici passi per dodici con dei paletti. Roran e Yarbog si spogliarono e due Urgali spalmarono del grasso d'orso sul corpo di Yarbog, mentre Carn e Loften, un altro umano, facevano lo stesso con Roran. «Mettetene parecchio sulla schiena» mormorò Roran. Voleva ammorbidire il più possibile le croste per evitare che si riaprissero le ferite. Avvicinandosi al suo orecchio, Carn gli chiese: «Perché hai rifiutato lo scudo e l'elmo?» «Mi rallenterebbero. Dovrò essere veloce come un coniglio spaurito se non voglio essere incornato.» Mentre Carn e Loften gli ungevano le membra, Roran studiò l'avversario in cerca di un punto debole che lo aiutasse a sconfiggere l'Urgali. Yarbog superava i sei piedi d'altezza. Aveva le spalle larghe, il torace ampio, gli arti gonfi di muscoli. Il collo era grosso quanto quello di un toro per poter sostenere il peso della testa e delle corna ricurve. Il fianco sinistro era segnato da tre cicatrici oblique, là dov'era stato artigliato da un animale. Su tutta la pelle gli crescevano rade setole nere. I suoi occhi tornarono a posarsi sulle immense corna, perché sapeva che quelle erano le parti più pericolose dell'Urgali. Yarbog le poteva usare per colpirlo e sventrarlo senza correre rischi, e gli avrebbero protetto la testa dai suoi colpi a mani nude, anche se restringevano il campo visivo dell'Urgali. In quel momento Roran capì che le corna, pur essendo il più grande dono naturale di Yarbog, avrebbero potuto anche costituire il suo punto debole. Si sciolse le spalle e saltellò sugli avampiedi, smanioso di concludere al più presto il duello, in un modo o nell'altro. I secondi si ritirarono dopo averli completamente ricoperti di grasso d'orso, e Roran e Yarbog entrarono nel quadrato disegnato sul terreno. Roran teneva le ginocchia leggermente flesse, pronto a saltare in qualsiasi direzione al minimo accenno di movimento da parte di Yarbog. Il suolo roccioso sotto i suoi piedi nudi era freddo, duro e scabro. Un leggero vento smuoveva i rami del salice. Uno dei buoi legati ai carri smosse una zolla d'erba con una zampa, e la sua bardatura scricchiolò. Con un ululato belluino, Yarbog caricò Roran coprendo la distanza fra di loro con appena tre passi tonanti. Roran aspettò che gli fosse quasi addosso, poi saltò a destra. Aveva però sottovalutato la velocità dell'Urgali. Abbassando la testa, Yarbog gli assestò una cornata alla spalla sinistra, facendolo volare dall'altra parte del quadrato. Roran finì a terra, e pietre aguzze gli si conficcarono nel fianco. Fitte lancinanti gli percorsero la schiena, seguendo i sentieri tracciati dalle ferite non ancora del tutto guarite. Con un grugnito si rimise in piedi, sentendo che diverse croste si aprivano, esponendo la carne viva all'aria pungente. Terra, polvere e sassolini gli erano rimasti appiccicati allo strato di grasso spalmato sul corpo. Senza mai staccare lo sguardo dall'Urgali ringhiante, divaricò le gambe, piazzandosi ben saldo sui piedi. Ancora una volta Yarbog lo caricò e ancora una volta Roran saltò di lato. Stavolta la manovra gli riuscì, e l'Urgali gli passò a un palmo di distanza. Girandosi di scatto, Yarbog si avventò su di lui per la terza volta e di nuovo Roran riuscì a evitarlo. Allora Yarbog cambiò tattica. Avanzando di lato come un granchio, allungò le grosse mani adunche per abbrancarlo e trascinarlo nel suo abbraccio mortale. Roran rabbrividì e indietreggiò. Doveva evitare a tutti i costi di cadere nella morsa di Yarbog; con la sua immensa forza, l'Urgali lo avrebbe ucciso in pochi istanti. Gli uomini e gli Urgali assiepati lungo i lati del quadrato assistevano silenziosi, i volti impassibili, gli occhi fissi su Roran e Yarbog che duellavano nella polvere. Per alcuni minuti i due si scambiarono qualche rapido colpo di striscio. Roran cercava di non avvicinarsi troppo all'Urgali, nel tentativo di sfiancarlo a distanza, ma via via che il combattimento proseguiva, vedendo che Yarbog non sembrava più stanco di quando avevano iniziato, si rese conto che il tempo non gli era amico. Se voleva vincere, doveva concludere il duello senza indugio. Sperando di provocarlo in modo che Yarbog lo caricasse di nuovo - dato che la sua strategia si fondava proprio su questo - Roran si ritirò in un angolo del quadrato e cominciò a provocarlo. «Ah! Sei lento e grasso come una mucca da latte! Riesci a prendermi, Yarbog, o hai le gambe fatte di lardo? Dovresti tagliarti le corna per la vergogna, perché hai lasciato che un uomo si facesse beffe di te. Cosa penseranno le tue future compagne quando verranno a saperlo? Dirai che...» Il ruggito di Yarbog soffocò il resto della frase. L'Urgali scattò in avanti, mettendosi di fianco per colpirlo con tutto il suo peso. Saltando di lato, Roran tese una mano per afferrare la punta del corno destro di Yarbog, però mancò il bersaglio e cadde rotolando al centro del quadrato, sbucciandosi le ginocchia. Imprecò e si rialzò. Frenando un istante prima che lo slancio lo facesse uscire dal quadrato, Yarbog si voltò, gli occhietti gialli che guizzavano in cerca di Roran. «Yuhuu!» gridò Roran. Tirò fuori la lingua e fece tutti i gesti più volgari che gli vennero in mente. «Non sapresti colpire un albero nemmeno se ce lo avessi davanti.» «Muori, piccolo umano insignificante!» ringhiò Yarbog, e si avventò su Roran con le braccia tese. Le unghie di Yarbog gli tracciarono due solchi sanguinanti lungo il costato mentre scartava a sinistra, ma Roran riuscì lo stesso ad afferrare saldamente un corno dell'Urgali; agguantò anche l'altro prima che l'Urgali riuscisse a liberarsi con una scrollata. Usando le corna come un manubrio, torse la testa di Yarbog da un lato e, contraendo ogni muscolo, riuscì ad atterrarlo. La schiena esplose in una protesta rabbiosa. Non appena il torace di Yarbog toccò terra, Roran gli piantò un ginocchio sulla spalla destra, immobilizzandolo. Yarbog sbuffò e scalciò, cercando di divincolarsi dalla stretta, ma Roran non mollava. Puntellò i piedi contro una roccia e torse la testa dell'Urgali il più possibile, con una forza che avrebbe spezzato il collo di qualsiasi umano. Per via del grasso che aveva sulle mani, rischiava di perdere la presa. Yarbog si rilassò per un istante, poi di scatto si alzò da terra facendo leva sul braccio sinistro, sollevando anche Roran, agitando le gambe nella polvere nel tentativo di portarle sotto il corpo. Con una smorfia, Roran si protese in avanti e spinse con tutto il peso sul collo e la spalla di Yarbog. Dopo una manciata di secondi, il braccio sinistro dell'Urgali cedette e Yarbog ricadde di schianto sul ventre. Entrambi ansimavano per lo sforzo, i corpi ricoperti di polvere. Laddove toccavano la pelle di Roran, le setole dell'Urgali sembravano punte di filo spinato. Sottili rivoli di sangue gli scorrevano sui fianchi e lungo la schiena dolorante. Non appena ebbe recuperato il fiato, Yarbog ricominciò a scalciare e a dimenarsi, contorcendosi nella polvere come un pesce arpionato. Roran fece appello a tutte le sue forze e non mollò, cercando d'ignorare i sassi appuntiti che gli tagliavano i piedi e le gambe. Visto che quel metodo non funzionava, Yarbog rilassò le membra e cominciò a flettere il collo nel tentativo di stancare le braccia di Roran. Continuarono a lottare in quella posizione, senza che nessuno dei due si spostasse di più di un paio di pollici. Una mosca ronzò sulle loro teste e si posò su una caviglia di Roran. I buoi muggirono. Dopo una decina di minuti, Roran aveva il volto madido di sudore e gli pareva di non riuscire più a inspirare abbastanza. Le braccia gli bruciavano per il dolore. Le ferite sulla schiena sembravano sul punto di riaprirsi tutte insieme; il costato pulsava dove Yarbog lo aveva artigliato. Roran capì che non poteva resistere ancora per molto. Proprio in quel momento, la testa di Yarbog fu scossa da un tremito, mentre un muscolo del collo si contraeva per un crampo. L'Urgali grugnì, il primo verso che emetteva da oltre un minuto, e sottovoce borbottò: «Uccidimi, Fortemartello. Non posso batterti.» Aggiustando la presa sulle corna di Yarbog, Roran ringhiò a voce altrettanto bassa: «No. Se vuoi morire trova qualcun altro che ti uccida. Ho combattuto secondo le tue regole; ora tu accetterai la sconfitta secondo le mie. Di' a tutti che ti arrendi. Di' che hai sbagliato a sfidarmi. Fallo, e ti lascerò andare. Altrimenti ti terrò inchiodato qui finché non cambierai idea; non importa quanto ci vorrà.» La testa di Yarbog scattò fra le sue mani quando l'Urgali cercò per l'ultima volta di liberarsi. Sbuffò, sollevando una piccola nuvola di polvere, poi mormorò: «La vergogna sarebbe troppo grande, Fortemartello. Uccidimi.» «Non appartengo alla tua razza e non rispetterò i vostri costumi» disse Roran. «Se ti preoccupa tanto il tuo onore, di' a chi te lo chiede che sei stato sconfitto dal cugino di Eragon Ammazzaspettri. In questo non c'è alcuna vergogna.» Quando furono passati diversi minuti senza che Yarbog avesse risposto, Roran gli diede uno strattone alle corna e ringhiò: «Allora?» Alzando la voce in modo che tutti gli umani e gli Urgali lo sentissero, Yarbog dichiarò: «Gar! Che Svarvok mi maledica: mi arrendo! Non avrei dovuto sfidarti, Fortemartello. Tu sei degno di essere il capo e io no.» Gli uomini esultarono e gridarono, battendo i pomelli delle spade contro gli scudi. Gli Urgali si mossero appena, senza dire una parola. Soddisfatto, Roran lasciò andare le corna di Yarbog e rotolò su un fianco per scendere dal corpo grigio dell'Urgali. Con la sensazione di aver subito un'altra fustigazione, si alzò a fatica e si trascinò fuori del quadrato, dove Carn lo stava aspettando. Trasalì quando Carn gli gettò una coperta sulle spalle e il tessuto gli irritò la pelle ferita. Con un sogghigno, Carn gli porse un otre di vino. «Quando ti ha steso, ho pensato che ti avrebbe ucciso. Ma ormai dovrei sapere che non devo mai darti per sconfitto, eh, Roran? Ha! Credo che questo sia il miglior combattimento a cui ho mai assistito. Potresti essere l'unico uomo della storia ad aver lottato contro un Urgali.» «Forse no» rispose Roran, fra un sorso di vino e l'altro. «Ma è probabile che sia l'unico sopravvissuto.» Sorrise, mentre Carn rideva. Roran scoccò un'occhiata agli Urgali che si erano stretti intorno a Yarbog e gli parlavano con bassi grugniti, mentre due gli pulivano il corpo dal grasso e dallo sporco. Anche se gli Urgali avevano l'aria avvilita, per quello che Roran poteva giudicare non gli sembravano arrabbiati o risentiti, così sperò che non gli avrebbero più creato problemi. Malgrado il dolore, Roran era felice del risultato. Dopo aver bevuto l'ultimo sorso, Roran richiuse l'otre di vino e lo restituì a Carn, poi gridò: «Non state lì a belare come pecore e finite di fare l'elenco di quello che c'è in quei carri! Loften, raduna i cavalli dei soldati, se non si sono già allontanati troppo! Dazhgra, occupati dei buoi. Svelti! Castigo e Murtagh potrebbero essere già diretti qui. Forza, muovetevi! «Carn, dove diamine sono finiti i miei vestiti?» ♦ ♦ ♦ GENEALOGIA Il quarto giorno dopo aver lasciato il Farthen Dûr, Eragon e Saphira arrivarono a Ellesméra. Il sole splendeva alto su di loro quando apparve il primo degli edifici della città - una stretta torre a spirale dalle finestre luccicanti che si ergeva fra tre pini ed era stata ricavata dai loro rami intrecciati. Al di là della torre rivestita di corteccia, Eragon individuò le diverse radure sparse che indicavano il luogo dove sorgeva la capitale degli elfi. Mentre Saphira planava sulla superficie irregolare della foresta, Eragon cercò la coscienza di Gilderien il Saggio che, in qualità di depositario della Bianca Fiamma di Vàndil, proteggeva gli elfi di Ellesméra dai nemici da oltre due millenni e mezzo. Proiettando i propri pensieri nell'antica lingua verso la città, chiese: Una voce calma e profonda risuonò nella sua mente. I suoi artigli sfiorarono le nere chiome degli alberi alti trecento piedi mentre scivolava sopra la città di pini diretta verso il pendio dall'altro lato di Ellesméra. Nella filigrana di rami, Eragon colse sprazzi di edifici di legno vivente, aiuole variopinte di fiori in boccio, ruscelli d'argento, il bagliore ramato di una lanterna senza fiamma e, una o due volte, il pallido volto di un elfo che guardava in su. Inclinando le ali, Saphira volò rasente al pendio fino a raggiungere la rupe di Tel'naeír. Il bianco promontorio di nuda roccia si ergeva a mille piedi di altezza sulla foresta e aveva un raggio di una lega. Saphira virò a destra e volò verso nord lungo il crinale di pietra, battendo le ali due volte per mantenere la velocità e l'altitudine. Una radura erbosa comparve ai margini della rupe. Sullo sfondo di alberi spiccava una modesta casetta a un solo piano, ricavata da quattro pini. Un allegro, gorgogliante ruscello scorreva dalla foresta muscosa, lambendo le radici di uno dei pini prima di scomparire nuovamente nella Du Weldenvarden. E raggomitolato accanto alla casa c'era il drago dorato, Glaedr: imponente, sfolgorante, le zanne d'avorio grandi quanto il petto di Eragon, gli artigli taglienti come falci, le ali ripiegate morbide come pelle di daino, la coda muscolosa lunga quasi quanto l'intera Saphira, e l'occhio visibile che scintillava come uno zaffiro stellato. Il moncherino della zampa davanti era dall'altra parte, nascosto dal corpo. Davanti a Glaedr era stato sistemato un tavolino rotondo con due sedie. Oromis sedeva sulla sedia più vicina al drago, i capelli argentei che luccicavano come metallo al sole. Eragon si chinò sulla sella mentre Saphira s'impennava per rallentare. La dragonessa atterrò con un sobbalzo sulla verde distesa erbosa e fece qualche altro passo, le ali tirate all'indietro, prima di fermarsi. Con le dita intorpidite dalla stanchezza, Eragon si affannò a sciogliere le cinghie che gli stringevano le gambe, poi si sporse per scendere dalla zampa di Saphira, ma prima che riuscisse a posare un piede a terra, le ginocchia gli cedettero e scivolò. Alzò le mani per proteggersi il volto e cadde bocconi, graffiandosi lo stinco su un sasso nascosto nell'erba. Con un grugnito di dolore e le membra anchilosate come quelle di un vecchio fece per rialzarsi. Una mano gli apparve davanti. Eragon alzò lo sguardo e vide Oromis che lo sovrastava, il volto senza tempo illuminato da un debole sorriso. Nell'antica lingua, il vecchio elfo disse: «Bentornato a Ellesméra, Eragon-finiarel. E anche a te, Saphira Squamediluce, ben tornata. Bentornati tutti e due.» Eragon gli prese la mano e Oromis lo trasse in piedi senza il minimo sforzo. Sulle prime Eragon non riuscì a parlare: non aveva pronunciato una sola parola da quando avevano lasciato il Farthen Dûr e la stanchezza gli offuscava la mente. Poi si portò le prime due dita della mano destra alle labbra e, sempre nell'antica lingua, disse: «Che la fortuna ti assista, Oromis-elda.» Infine portò la mano girata al petto nel gesto di cortesia e rispetto che usavano gli elfi. «Che le stelle ti proteggano, Eragon» replicò Oromis. Eragon ripeté la cerimonia con Glaedr. Come al solito, il tocco della coscienza sanguigna del drago intimidì Eragon, facendolo subito sentire in soggezione. Saphira non salutò né Oromis né Glaedr. Rimase dov'era, con il collo così afflosciato che il muso toccava terra, e le spalle e i fianchi che tremavano come se avesse freddo. Gli angoli della bocca aperta erano incrostati di schiuma secca e gialla. La lingua ruvida le ciondolava fra le zanne. Per spiegare il loro stato, Eragon disse: «Ci siamo imbattuti in un vento contrario il giorno dopo aver lasciato il Farthen Dûr e...» S'interruppe quando Glaedr sollevò la testa gigantesca e l'allungò dall'altro lato della radura, fino a portarla al di sopra di Saphira, che però continuò a non reagire. Allora Glaedr le soffiò addosso; spirali di fiamma ardevano all'interno delle sue narici. Eragon fu pervaso da un immenso sollievo nel sentire l'energia fluire in Saphira, ridando vigore alle sue membra. Le fiamme nelle narici di Glaedr si spensero in uno sbuffo di fumo. Saphira emanò la sua silenziosa gratitudine. Trascinando sull'erba la coda inerte, arrancò fino all'albero che Glaedr le aveva indicato, poi si accovacciò e cominciò a sbranare la carcassa di un cervo. «Accomodati» disse Oromis, indicando il tavolo e le sedie. Sul tavolo c'era un vassoio con qualche scodella di frutta e noci, mezza forma di formaggio, un filone di pane, un fiasco di vino e due calici di cristallo. Mentre Eragon si sedeva, Oromis indicò il fiasco e gli chiese: «Ti va un goccio per sciacquarti la gola dalla polvere?» «Sì, grazie» rispose Eragon. Con un movimento elegante, Oromis stappò il fiasco e riempì i due calici. Ne porse uno a Eragon e poi si abbandonò contro lo schienale, lisciandosi la bianca tunica con le lunghe dita. Eragon sorseggiò il vino. Era dolce e sapeva di ciliegie e di prugne. «Maestro, io...» Oromis lo interruppe. «A meno che non sia qualcosa di terribilmente urgente, preferirei aspettare che Saphira ci raggiunga prima di discutere di ciò che vi ha portati qui. Sei d'accordo?» Dopo un attimo di esitazione, Eragon annuì e si concentrò sul cibo, assaporando il gusto della frutta fresca. Oromis si limitò a stargli seduto accanto in silenzio, bevendo il vino, lo sguardo perso oltre la rupe di Tel'naeír. Alle sue spalle, Glaedr osservava la scena come una statua d'oro vivente. Passò quasi un'ora prima che Saphira finisse di mangiare. La dragonessa si trascinò al ruscello e bevve per altri dieci minuti. Con le fauci ancora gocciolanti, tornò dal ruscello e, dopo un grande sospiro, si accovacciò accanto a Eragon, le palpebre pesanti. Sbadigliò, con uno scintillio di zanne, poi scambiò i saluti con Oromis e Glaedr. «Altro vino?» chiese Oromis, sollevando il fiasco. Quando Eragon scosse la testa, lo rimise sul tavolo, poi congiunse le dita, le unghie arrotondate simili a lucidi opali, e disse: «Non hai bisogno di dirmi che cosa ti è successo in queste settimane, Eragon. Da quando Islanzadi ha lasciato la foresta, Arya la tiene informata di tutto, e ogni tre giorni Islanzadi manda un messaggero del nostro esercito nella Du Weldenvarden. Perciò so del tuo duello con Murtagh e Castigo sulle Pianure Ardenti. So della tua impresa nell'Helgrind e di come hai punito il macellaio del tuo villaggio. E so che hai preso parte al raduno dei clan dei nani nel Farthen Dûr e del suo esito. Quindi, qualunque cosa desideri dirmi, dilla pure senza preoccuparti di dovermi delle spiegazioni.» Eragon fece rotolare un mirtillo maturo sul palmo della mano. «Sai anche di Elva e di ciò che è successo quando ho cercato di liberarla dalla mia maledizione?» «Sì, anche quello. Può anche darsi che tu non sia riuscito a rimuovere del tutto l'incantesimo, ma hai pagato il tuo debito nei suoi confronti, e questo è ciò che un Cavaliere dei Draghi dovrebbe fare: portare a compimento i propri obblighi, semplici o difficili che siano.» «Sente ancora il dolore di chi le sta intorno.» «Sì, ma adesso è per sua scelta» osservò Oromis. «Non è più la tua magia che glielo impone. Ma tu non sei venuto qui per ascoltare il mio parere su Elva. Cosa ti pesa sul cuore, Eragon? Chiedi ciò che vuoi e ti prometto che risponderò a tutte le tue domande come meglio potrò.» «E se non sapessi quali sono le domande giuste?» chiese Eragon. Un breve luccichio brillò nei grigi occhi di Oromis. «Ah, cominci a pensare come un elfo. Devi fidarti di noi come tuoi maestri, che insegnano a te e a Saphira le cose che non sapete. E devi fidarti di noi quando decidiamo qual è il momento più indicato per affrontare certi argomenti, perché ci sono diversi elementi del tuo addestramento di cui non si dovrebbe parlare nel momento sbagliato.» Eragon posò il mirtillo al centro preciso del vassoio, poi con voce bassa ma risoluta disse: «A quanto pare, ci sono Per un momento, gli unici rumori furono lo stormire delle fronde, il gorgoglio del ruscello e lo squittio distante di qualche scoiattolo. Saphira si agitò, e a Eragon parve di sentirla ringhiare. Le scoccò un'occhiata, poi, sforzandosi di controllare il tumulto di emozioni, chiese: «L'ultima volta che sono stato qui, sapevate chi era mio padre?» Oromis annuì. «Sì.» «E sapevate che Murtagh era mio fratello?» Oromis annuì ancora una volta. «Lo sapevamo, ma...» «E allora perché non me lo avete detto?» esclamò Eragon, balzando in piedi e rovesciando la sedia. Batté un pugno sulla coscia e si allontanò di qualche passo, lo sguardo perso fra le ombre della foresta intricata. Quando si volse, la sua rabbia crebbe nel vedere che Oromis non sembrava affatto turbato. «Me lo avreste mai detto? Mi tenevate nascosta la verità sulla mia famiglia per timore che mi distraesse dall'addestramento? O avevate paura che sarei diventato come mio padre?» D'un tratto, lo folgorò un pensiero ancora peggiore. «O pensavate che non valesse nemmeno la pena di dirmelo? E Brom, lo sapeva? Aveva scelto di nascondersi a Carvahall per me? Perché ero figlio del suo nemico? Non potete aspettarvi che io creda che sia una coincidenza, il fatto che lui e io vivevamo a poche miglia l'uno dall'altro, e che Arya mi abbia mandato per «Quello di Arya «Per questo tu e Brom mi avete addestrato, per essere un'arma contro Galbatorix in modo che potessi pagare per la malvagità di mio padre? È questo che sono per voi? Un pareggio di conti?» Prima che Oromis potesse rispondere, Eragon imprecò e disse: «Tutta la mia vita è stata una bugia! Dal momento in cui sono nato, nessuno, tranne Saphira, mi ha voluto con sé: non mi ha voluto con sé mia madre, Garrow, la zia Marian, e nemmeno Brom. Brom era interessato a me solo per Morzan e Saphira. Sono sempre stato solo e soltanto una seccatura. Ma qualunque cosa voi pensiate di me, io La terra e l'aria furono scosse dal ringhio di Glaedr, che sollevò il labbro di sopra, scoprendo completamente le zanne. Poi, con sua grande sorpresa, Eragon sentì che Saphira si rivolgeva a Oromis e Glaedr. Lei lo ignorò. Oromis inarcò un sopracciglio. «Lo sai?» «Sa cosa?» urlò Eragon, sul punto di sguainare la spada e minacciarli tutti finché non si fossero spiegati. Con un dito affusolato, Oromis indicò la sedia rovesciata. «Siediti.» Quando Eragon restò in piedi, troppo colmo di rabbia e di risentimento per obbedire, Oromis sospirò. «Capisco che per te sia difficile, Eragon, ma se insisti nel fare domande e poi ti rifiuti di ascoltare le risposte, la frustrazione sarà la tua unica ricompensa. Ora, per favore, siediti, così che possiamo parlare di tutto questo in maniera civile.» Fulminandolo con un'occhiata, Eragon raddrizzò la sedia e si sedette di schianto. «Perché?» chiese. «Perché non mi avete detto che mio padre era Morzan, il primo dei Rinnegati?» «In primo luogo» disse Oromis «dovremmo ritenerci fortunati se assomiglierai a tuo padre, e io credo che davvero gli somigli, oltretutto. E come stavo per dirti prima che m'interrompessi, Murtagh non è tuo fratello, ma il tuo fratellastro.» Il mondo prese a vorticare intorno a Eragon. La sensazione di vertigine era così intensa che dovette afferrare il bordo del tavolo per tenersi fermo. «Il mio fratellastro... Ma allora chi...?» Oromis prese un mirtillo da una delle scodelle, lo contemplò per un momento, poi lo mangiò. «Glaedr e io non volevamo tenertelo nascosto, ma non abbiamo avuto scelta. Avevamo entrambi promesso, con il più vincolante dei giuramenti, che non ti avremmo mai rivelato l'identità di tuo padre o del tuo fratellastro, né avremmo discusso della tua famiglia, a meno che tu stesso non avessi scoperto la verità, o se l'identità dei tuoi parenti ti avesse messo in pericolo. Quello che Murtagh ti ha rivelato durante la battaglia delle Pianure Ardenti soddisfa entrambe le condizioni, tanto che adesso possiamo parlarne liberamente.» Tremando per lo sforzo di contenere l'emozione, con un filo di voce Eragon chiese: «Oromis-elda, se Murtagh è mio fratello soltanto a metà, allora chi è mio padre?» Eragon scosse il capo. «Non lo so! Non lo so! Vi prego...» Uno sbuffo di fumo e fiamme uscì dalle narici di Glaedr. DESTINO DI AMANTI Eragon fissò il drago dorato a bocca aperta. «Ma come...?» esclamò. Prima che Oromis o Glaedr avessero modo di rispondergli, si voltò verso Saphira e sia con la mente che con la voce disse: «Lo sapevi? E mi hai lasciato credere per tutto questo tempo che Morzan fosse mio padre? Anche se questo... anche se io...» Ansimando forte, Eragon balbettò e lasciò la frase in sospeso, incapace di parlare in modo coerente. Fu travolto da una marea di ricordi di Brom che spazzò via ogni altro pensiero. Riconsiderò il significato di ogni parola ed espressione di Brom, e in quell'istante tutto gli fu chiaro. Voleva ancora delle spiegazioni, ma non gli servivano per confermare la rivelazione di Glaedr, perché fin dentro al midollo sapeva che quello che aveva detto il drago era vero. Sussultò quando Oromis gli toccò la spalla. «Eragon, devi calmarti» disse l'elfo con voce serena e rassicurante. «Ricorda le tecniche di meditazione che ti ho insegnato. Controlla il respiro, concentrati, lascia fluire la tensione dalle membra nel terreno sotto di te... Ecco, così. Ancora. E respira profondamente.» Le mani di Eragon smisero di tremare e il suo cuore rallentò mentre seguiva le istruzioni di Oromis. Quando ebbe di nuovo la mente limpida e sgombra, guardò ancora Saphira e le chiese in tono sommesso: «Tu lo sapevi?» Saphira sollevò la testa dal terreno. «Qu-quando te l'ha detto?» disse Eragon, così turbato che continuava a parlare ad alta voce. «Fu allora che ti disse come contattare i Varden a Gil'ead?» «Ti disse altro?» domandò Eragon, in preda a una nuova rabbia. «Altri segreti che dovrei sapere, tipo che Murtagh non è il mio unico fratello, o magari come sconfiggere Galbatorix?» Un regalo? «Prima che Saphira condivida questo ricordo con te» disse Oromis, ed Eragon capì che la dragonessa aveva permesso all'elfo di ascoltare le sue parole, «credo sia meglio che tu sappia come si sono svolti gli eventi. Vuoi ascoltarmi un momento, Eragon?» Eragon esitò, senza sapere che cosa voleva, poi annuì. Levando il calice di cristallo, Oromis bevve un sorso di vino, poi lo riappoggiò sul tavolo e disse: «Come sai, sia Brom che Morzan erano miei apprendisti. Brom, più giovane di tre anni, aveva una così alta considerazione di Morzan che gli permetteva di umiliarlo, di comandarlo a bacchetta e di trattarlo dall'alto in basso.» Con voce rauca, Eragon disse: «È difficile immaginare Brom che si lascia comandare da qualcuno.» Oromis annui con un rapidissimo movimento della testa, come un uccello. «Già, eppure era così. Brom amava Morzan come un fratello nonostante il suo comportamento. Fu solo quando Morzan tradì i Cavalieri consegnandoli a Galbatorix, e i Rinnegati uccisero la sua Saphira, che Brom si accorse della vera natura di Morzan. Per quanto fosse forte il suo affetto per lui, quel sentimento parve una candela rispetto a un incendio, paragonato all'odio che lo sostituì. Brom giurò di opporsi a Morzan comunque e dovunque, di annullare i suoi risultati e di soffocare le sue ambizioni nell'amaro rimpianto. Tentai di dissuaderlo dall'intraprendere un sentiero così pieno di odio e di violenza, ma lui era impazzito di dolore per la morte di Saphira e non volle ascoltarmi. «Nel corso dei decenni successivi, l'odio di Brom non si affievolì, né lui pensò mai di rinunciare a deporre Galbatorix, uccidere i Rinnegati e, sopra ogni altra cosa, ripagare Morzan di tutte le sofferenze che gli aveva inflitto. Brom era l'ostinazione incarnata, il suo nome un incubo per i Rinnegati e un faro di speranza per coloro che avevano ancora il coraggio di resistere all'Impero.» Oromis guardò verso la bianca linea dell'orizzonte e bevve un altro sorso di vino. «Sono fiero di quello che riuscì a fare da solo, senza l'aiuto del suo drago. È sempre rincuorante per un maestro veder eccellere uno dei suoi allievi, anche se... Ma sto divagando. Accadde poi, una ventina d'anni fa, che i Varden cominciarono a ricevere dalle loro spie all'interno dell'Impero rapporti riguardanti le attività di una misteriosa donna nota come la Mano Nera.» «Mia madre» mormorò Eragon. «La tua e di Murtagh» disse Oromis. «In un primo momento, i Varden non sapevano niente di lei, tranne il fatto che era estremamente pericolosa e fedele all'Impero. Col tempo, e dopo grandi spargimenti di sangue, capirono che lei serviva solo e soltanto Morzan, che la usava per portare i suoi ordini in ogni angolo dell'Impero. Quando lo venne a sapere, Brom decise di uccidere la Mano Nera per colpire Morzan. Siccome i Varden non potevano predire dove tua madre sarebbe apparsa ogni volta, Brom raggiunse il castello di Morzan e lo tenne d'occhio finché non fu in grado di escogitare un modo per infiltrarsi nella fortezza.» «Dov'era il castello di Morzan?» «È, non Eragon disse: «Jeod mi ha raccontato che Brom s'introdusse nel castello fingendosi uno dei servitori.» «Proprio così, e non fu un'impresa facile. Morzan aveva cinto la fortezza con centinaia d'incantesimi per proteggerla dai nemici. Obbligava tutti quelli che lo servivano a pronunciare giuramenti di fedeltà, e spesso con il loro vero nome. Tuttavia, dopo molti esperimenti, Brom riuscì a trovare una breccia nelle difese di Morzan che gli permise di procurarsi un posto da giardiniere nella sua proprietà, e fu allora che incontrò per la prima volta tua madre.» Guardandosi le mani, Eragon disse: «E poi la sedusse per ferire Morzan, immagino.» «Nient'affatto» rispose Oromis. «Può darsi che quella fosse la sua intenzione all'inizio. Ma poi accadde qualcosa che né lui né tua madre avevano previsto: s'innamorarono. Qualunque affetto tua madre avesse provato per Morzan all'epoca era già svanito, cancellato dal crudele trattamento che lui riservava a lei e al loro figlio appena nato, Murtagh. Non conosco l'esatta sequenza degli avvenimenti, ma a un certo punto Brom rivelò a tua madre la sua vera identità. Invece di tradirlo, lei cominciò a passare ai Varden informazioni su Galbatorix, Morzan e il resto dell'Impero.» «Ma Morzan non le aveva fatto giurare fedeltà nell'antica lingua?» obiettò Eragon. «Come ha potuto rivoltarsi contro di lui?» Un sorriso affiorò sulle sottili labbra di Oromis. «Ha potuto perché Morzan le aveva concesso maggiori libertà rispetto ai suoi servitori, affinché lei usasse la propria astuzia e il proprio spirito d'iniziativa per svolgere i compiti che lui le assegnava. Nella sua arroganza, Morzan credeva che il suo amore gli avrebbe garantito la sua lealtà più di qualsiasi giuramento. E poi non era più la stessa donna che si era legata a Morzan; diventare madre e conoscere Brom le avevano mutato il carattere al punto che il suo vero nome cambiò, cosa che la liberò dai vincoli precedenti. Se Morzan fosse stato più accorto... avrebbe potuto evocare un incantesimo che lo avvertisse nel caso in cui lei avesse mancato alle promesse... così avrebbe capito di aver perso il controllo su di lei. Ma questo è sempre stato un difetto di Morzan: era capace d'inventare astuti incantesimi, che però spesso fallivano perché, nella fretta, dimenticava qualche dettaglio cruciale.» Eragon si accigliò. «Perché mia madre non lasciò Morzan quando ne ebbe l'occasione?» «Dopo tutto quello che aveva fatto per conto di Morzan, sentiva che era suo dovere aiutare i Varden. Ma, cosa più importante, non poteva abbandonare Murtagh con suo padre.» «E perché non l'ha portato con sé?» «Se fosse stato in suo potere, sono sicuro che l'avrebbe fatto. Morzan capì che il bambino gli dava un enorme controllo su tua madre. La costrinse a lasciare Murtagh alle cure di una balia e le permise di fargli visita solo di tanto in tanto. Quello che Morzan non sapeva è che durante quelle visite lei andava a trovare anche Brom.» Oromis si volse a guardare una coppia di rondini che volteggiavano nel cielo azzurro. Di profilo, i suoi lineamenti fini e angolosi ricordarono a Eragon l'espressione di un falco o di un gatto. Continuando a fissare le rondini, Oromis disse: «Nemmeno tua madre poteva sapere in anticipo dove Morzan l'avrebbe mandata di volta in volta, né quando sarebbe ritornata al castello. Perciò Brom doveva restare nella proprietà per lunghi periodi, se voleva rivederla. Per circa tre anni restò a servizio nel castello come giardiniere. Di tanto in tanto, sgattaiolava fuori per mandare un messaggio ai Varden o per comunicare con le sue spie in tutto l'Impero, ma altrimenti non lasciava mai le terre di Morzan.» «Tre anni! Non aveva paura che Morzan potesse vederlo e riconoscerlo?» Oromis distolse gli occhi dal cielo e tornò a guardare Eragon. «Brom era bravissimo nei travestimenti, ed erano passati molti anni da quando lui e Morzan si erano trovati faccia a faccia l'ultima volta.» «Capisco.» Eragon si rigirò il calice fra le mani, osservando come la luce si rifrangeva attraverso il cristallo. «E poi cosa accadde?» «Poi» disse Oromis «accadde che uno degli agenti di Brom a Teirm prese contatto con un giovane studioso di nome Jeod che desiderava unirsi ai Varden e che sosteneva di avere prova dell'esistenza di un tunnel segreto che conduceva alla parte del castello di Urû'baen costruita dagli elfi. Brom pensò a ragione che la scoperta di Jeod era troppo importante per trascurarla, così fece i bagagli, salutò gli altri servitori e partì alla volta di Teirm il più in fretta possibile.» «E mia madre?» «Era partita un mese prima per una nuova missione per conto di Morzan.» Sforzandosi di unire in una visione d'insieme tutti i racconti frammentari ascoltati da persone diverse, Eragon disse: «E così... Brom s'incontrò con Jeod e quando si fu convinto che il tunnel c'era davvero, fece in modo che uno dei Varden cercasse di rubare le tre uova di drago che Galbatorix teneva a Urû'baen.» Il volto di Oromis si adombrò. «Purtroppo, per ragioni che non sono mai state chiarite del tutto, l'uomo che scelsero per il compito, un certo Hefring di Furnost, riuscì a rubare un solo uovo, quello di Saphira, dal tesoro di Galbatorix. Però, una volta messe le mani sull'uovo, fuggì sia dai Varden che dai servi di Galbatorix. Vistosi tradito, Brom fu costretto a passare sette mesi in cerca di Hefring, battendo il paese in lungo e in largo nel disperato tentativo di recuperare Saphira.» «In quell'arco di tempo mia madre andò in segreto a Carvahall dove mi diede alla luce cinque mesi dopo?» Oromis annuì. «Tu eri stato concepito poco prima che tua madre partisse per la sua ultima missione. Quindi Brom non sapeva niente delle sue condizioni mentre inseguiva Hefring e l'uovo di Saphira. Quando alla fine Brom e Morzan si affrontarono a Gil'ead, Morzan chiese a Brom se fosse lui il responsabile della scomparsa della Mano Nera. È comprensibile che Morzan sospettasse il coinvolgimento di Brom, visto che a lui si doveva la morte di diversi Rinnegati. Dal canto suo, Brom dedusse che era successo qualcosa di terribile a tua madre. In seguito mi raccontò che fu proprio quella convinzione a dargli la forza e il coraggio necessari a uccidere Morzan e il suo drago. Una volta che li ebbe sconfitti, Brom prese dal cadavere di Morzan l'uovo di Saphira - perché Morzan aveva trovato Hefring e gli aveva sottratto l'uovo - e poi lasciò la città, fermandosi solo per nascondere Saphira dove sapeva che i Varden l'avrebbero trovata.» «Allora è per questo che Jeod pensava che Brom fosse morto a Gil'ead» disse Eragon. Ancora una volta Oromis annuì. «Pieno di paura, Brom non osò aspettare i compagni. Anche nell'ipotesi che tua madre fosse viva e stesse bene, Brom temeva che Galbatorix decidesse di fare di Selena la propria Mano Nera, e a quei punto lei non avrebbe mai più avuto la possibilità di sfuggire all'Impero.» Eragon sentì salire le lacrime agli occhi. «Da Gil'ead, Brom cavalcò fino al castello di Morzan, fermandosi solo per dormire. Ma per quanto spingesse il cavallo al galoppo sfrenato, fu comunque troppo lento. Quando arrivò al castello, scoprì che tua madre era tornata due settimane prima, malata e indebolita dal suo misterioso viaggio. I guaritori di Morzan avevano cercato di salvarla, ma nonostante i loro sforzi, lei era morta solo un paio d'ore prima che Brom arrivasse.» «Così non la rivide?» chiese Eragon, con un nodo alla gola. «No, mai più.» Oromis fece una pausa e la sua espressione si addolcì. «Credo che perderla sia stato per Brom un dolore immenso, paragonabile solo a quello che provò alla morte del suo drago. Un dolore che spense gran parte del fuoco che gli ardeva nell'anima. Tuttavia non si arrese, né impazzì di rabbia come gli era capitato dopo che i Rinnegati avevano ucciso l'omonima di Saphira. Decise invece di scoprire la ragione della morte di tua madre e di punire, se possibile, i responsabili. Interrogò i guaritori di Morzan e li obbligò a descrivere i disturbi di tua madre. Dai loro racconti, e dai pettegolezzi che circolavano fra la servitù del castello, Brom arguì la verità sulla gravidanza di tua madre. Animato dalla speranza, cavalcò fino all'unico posto dove sapeva di dover cercare: la casa di tua madre a Carvahall. E lì ti trovò, affidato alle cure dei tuoi zii. «Tuttavia Brom non rimase a Carvahall. Non appena si fu assicurato che nessuno a Carvahall sapesse che tua madre era stata la Mano Nera e che tu non eri in imminente pericolo di vita, tornò in segreto nel Farthen Dûr, dove si rivelò a Deynor, all'epoca capo dei Varden. Deynor fu sorpreso di vederlo perché fino a quel momento tutti avevano creduto che fosse morto a Gil'ead. Brom lo convinse a tenere nascosta la sua esistenza, tranne che a poche persone scelte, e poi...» Eragon alzò un dito. «Ma perché? Perché fingere di essere morto?» «Brom voleva vivere abbastanza per istruire il nuovo Cavaliere, e sapeva che l'unico modo per evitare di essere assassinato per aver ucciso Morzan era che Galbatorix lo credesse già morto e sepolto. Per giunta, Brom non voleva attirare l'attenzione su Carvahall. Intendeva stabilirsi lì per starti vicino, come appunto fece, ma non voleva che l'Impero venisse a sapere della tua esistenza. «Mentre si trovava nel Farthen Dûr, Brom aiutò i Varden a negoziare l'accordo con la regina Islanzadi per la spartizione fra elfi e umani della custodia dell'uovo, e per l'addestramento del nuovo Cavaliere se e quando l'uovo si fosse schiuso. Poi accompagnò Arya nel suo viaggio dal Farthen Dûr a Ellesméra con l'uovo. Quando arrivò, raccontò a Glaedr e a me quello che io ti sto dicendo adesso, affinché non andasse perduta la verità sul vostro legame di parentela nel caso che lui fosse morto. Quella fu l'ultima volta che lo vidi. Da Ellesméra, Brom tornò a Carvahall dove si presentò come bardo e cantastorie. Tu sai meglio di me che cosa accadde in seguito.» Oromis tacque e per un momento nessuno parlò. Lo sguardo fisso a terra, Eragon ripensò a tutto quello che Oromis aveva detto e cercò di capire i propri sentimenti. Alla fine disse: «Ed è davvero Brom mio padre, non Morzan? Voglio dire, se mia madre era la compagna di Morzan, allora...» Lasciò la frase in sospeso, troppo imbarazzato per continuare. «Tu sei figlio di tuo padre» disse Oromis «e tuo padre è Brom. Su questo non c'è ombra di dubbio.» «Nessuno?» Oromis scosse il capo. «Nessuno.» Eragon si sentì girare la testa e si accorse che stava trattenendo il fiato. Con un lungo respiro, disse: «Credo di capire perché...» S'interruppe per riempire i polmoni. «... perché Brom non mi ha detto niente prima che trovassi l'uovo di Saphira. Ma perché non mi ha detto niente nemmeno dopo? E perché costrinse voi e Saphira al segreto? Non mi voleva come figlio? Si vergognava di me?» «Non posso fingere di sapere le ragioni di tutto quello che ha fatto Brom, Eragon. Ma di una cosa sono sicuro: Brom non avrebbe desiderato altro che chiamarti figlio e allevarti, ma non osò rivelare la vostra parentela nel timore che l'Impero lo scoprisse e cercasse di ferirlo attraverso di te. E tutto considerato la sua prudenza fu più che motivata. Guarda come Galbatorix ha cercato di catturare tuo cugino Roran per costringerti alla resa.» «Però avrebbe potuto dirlo a mio zio» protestò Eragon. «Garrow non lo avrebbe mai venduto all'Impero.» «Riflettici, Eragon. Se tu fossi cresciuto con Brom e voci sulla sua sopravvivenza avessero raggiunto le orecchie delle spie di Galbatorix, sareste dovuti fuggire entrambi da Carvahall per salvarvi la vita. Tenendoti nascosta la verità, Brom sperava di proteggerti da questi pericoli.» «Però non c'è riuscito, e siamo comunque dovuti fuggire da Carvahall.» «Già» disse Oromis. «L'errore di Brom, se vogliamo considerarlo tale, anche se io credo abbia portato più bene che male, è stato di non riuscire a separarsi del tutto da suo figlio. Se avesse avuto la forza di resistere all'impulso di tornare a Carvahall, tu non avresti mai trovato l'uovo di Saphira e i Ra'zac non avrebbero ucciso tuo zio; molte cose che non sono successe sarebbero successe, e molte cose che sono successe non sarebbero successe. Ma Brom non ha potuto estirparti dal suo cuore.» Eragon serrò la mascella, scosso dai brividi. «E quando seppe che Saphira si era schiusa per me?» Oromis esitò e la sua espressione serafica in qualche modo s'incrinò. «Non ne sono sicuro, Eragon. Può darsi che Brom volesse ancora proteggerti dai suoi nemici, e che non te l'abbia rivelato per la stessa ragione per cui non ti ha portato direttamente dai Varden: perché sarebbe stato troppo per te. Forse aveva intenzione di dirtelo poco prima di raggiungere i Varden. Se vuoi la mia opinione, però, credo che Brom abbia tenuto la bocca chiusa non perché si vergognava di te, ma perché si era abituato a vivere con i suoi segreti ed era restio a separarsene. E perché, ma questa non è che una congettura, non era sicuro di come avresti reagito alle sue parole. Secondo quanto dici tu stesso, non vi conoscevate molto bene prima di fuggire insieme da Carvahall. È possibile che avesse paura che tu lo avresti odiato se ti avesse rivelato di essere tuo padre.» «Odiato?» esclamò Eragon. «Non lo avrei mai odiato, anche se... forse non gli avrei creduto.» «E ti saresti fidato di lui dopo una simile rivelazione?» Eragon si morse l'interno della guancia. Oromis proseguì. «Brom fece del suo meglio, date le circostanze più che difficili. Prima di tutto doveva tenervi entrambi in vita, e istruirti e consigliarti perché non usassi i tuoi poteri per scopi egoistici come Galbatorix. In questo Brom se l'è cavata egregiamente. Può darsi che non sia stato il padre che volevi che fosse, ma ti ha lasciato un'eredità quale nessun figlio ha mai ricevuto.» «Non ha fatto niente più di quanto avrebbe fatto per chiunque fosse diventato il nuovo Cavaliere.» «Questo non ne sminuisce il valore» osservò Oromis. «Ma ti sbagli: Brom ha fatto per te più di quanto avrebbe fatto per chiunque altro. Per convincerti, ti basti pensare a come si è sacrificato per salvarti la vita.» Con l'unghia dell'indice destro Eragon giocherellò col bordo del tavolo, seguendo un piccolo rilievo formato da uno degli anelli del legno. «È stato davvero un caso che Arya mi abbia mandato Saphira?» «Sì» confermò Oromis. «Un caso, ma non una coincidenza. Invece di mandare l'uovo al padre, Arya l'ha fatto comparire davanti al figlio.» «Com'è possibile, se non sapeva della mia esistenza?» Oromis si strinse nelle spalle ossute. «Nonostante migliaia di anni di studio, ancora non sappiamo predire o spiegare tutti gli effetti della magia.» Eragon continuò a passare il dito sul piccolo rilievo nel tavolo. «So perché lo chiedi, Eragon, e non so se la mia risposta ti soddisferà. Il matrimonio non è un'usanza elfica, e le sue sottigliezze spesso mi sfuggono. Nessuno ha unito le mani di Brom e Selena in matrimonio, ma so che loro si consideravano marito e moglie. Se sei saggio, non devi temere che gli altri della tua razza ti chiamino bastardo, ma devi essere contento di sapere che sei figlio dei tuoi genitori, e che entrambi hanno dato la vita perché tu potessi vivere.» Eragon fu sorpreso dalla propria calma. Per tutta la vita aveva fatto ipotesi sull'identità di suo padre. Quando Murtagh gli aveva detto che era Morzan, la rivelazione lo aveva sconvolto quanto la morte di Garrow. Anche quando Glaedr aveva dichiarato che suo padre invece era Brom, Eragon era rimasto colpito allo stesso modo, ma il trauma non era durato a lungo, forse perché questa volta la notizia non era così terribile. Nella sua strana calma, pensò che avrebbe potuto impiegare anni prima di essere certo dei propri sentimenti verso i genitori. «Potrò dirlo a Nasuada?» chiese. Oromis aprì le mani. «Dillo a chi vuoi; puoi fare quello che ti pare col tuo segreto. Dubito che correresti più rischi di quanti già non ne corri adesso, se anche tutto il mondo sapesse che sei il figlio di Brom.» «Murtagh» disse Eragon. «Lui è convinto che siamo veri fratelli. Me l'ha detto nell'antica lingua.» «E sono sicuro che anche Galbatorix lo pensa. Sono stati i Gemelli a scoprire che tua madre e la madre di Murtagh erano la stessa persona, e l'hanno riferito al re. Ma non hanno potuto informarlo del coinvolgimento di Brom, perché nessuno fra i Varden ne era a conoscenza.» Eragon levò lo sguardo verso la coppia di rondini che volteggiava sulle loro teste e si concesse un sorriso beffardo. «Perché sorridi?» gli chiese Oromis. «Non sono certo che capiresti.» L'elfo si strinse le mani in grembo. «È vero, forse non capirei. Ma non potrai mai saperlo se almeno non provi a spiegarlo.» Eragon impiegò qualche istante a trovare le parole. «Quando ero più giovane, prima di tutto questo» e fece un ampio gesto per indicare Saphira e Oromis e Glaedr e il mondo in generale «mi divertivo a immaginare che, a causa della sua grande bellezza e intelligenza, mia madre fosse stata portata nelle corti dei nobili di Galbatorix. Immaginavo che avesse viaggiato di città in città, e cenato con i conti e le dame nei loro castelli e che... be', che si fosse innamorata perdutamente di un uomo ricco e potente ma che, per qualche ragione, fosse stata costretta a nascondermi a lui e ad affidarmi a Garrow e a Marian, e che un giorno sarebbe tornata per dirmi chi ero e che non aveva mai voluto separarsi da me.» «Non è tanto diverso da ciò che è successo» disse Oromis. «No, infatti, ma... immaginavo che mia madre e mio padre fossero persone importanti e che anche io in qualche modo lo fossi. Il destino mi ha concesso ciò che volevo, ma la verità non è così grandiosa e felice come credevo. Ecco perché sorridevo. Sorridevo della mia inconsapevolezza, e di quanto era improbabile tutto quello che invece mi è capitato.» Una leggera brezza soffiò sulla radura, facendo frusciare l'erba ai loro piedi e agitare i rami della foresta. Eragon osservò l'erba ondeggiare per qualche istante, poi chiese in tono sommesso: «Mia madre era una brava persona?» «Non posso saperlo, Eragon. La sua è stata una vita complicata. Sarebbe sciocco e arrogante da parte mia pensare di poter giudicare una persona di cui so così poco.» «Ma io ho bisogno di sapere!» Eragon congiunse le mani, premendo le dita fra i calli sulle nocche. «Quando chiesi a Brom se la conosceva, lui disse che era una donna fiera e dignitosa e che aiutava sempre i poveri e quelli meno fortunati di lei. Ma come poteva? Come poteva essere quella persona e al contempo la Mano Nera? Jeod mi ha raccontato certe cose... cose orribili, tremende... che lei ha fatto mentre era al servizio di Morzan. Era cattiva, allora? Non le importava che fosse Galbatorix a governare? E soprattutto, perché seguì Morzan?» Oromis tacque un istante. «L'amore può essere una maledizione terribile, Eragon. È capace di renderti cieco e non farti vedere i più grandi difetti di una persona. Dubito che tua madre fosse del tutto consapevole della vera natura di Morzan quando lasciò Carvahall per andare con lui, e in seguito lui non le permise più di disobbedire ai suoi ordini. Divenne la sua schiava in tutto e per tutto, e fu solo cambiando la propria identità che poté sfuggire al suo controllo.» «Ma Jeod ha detto che lei provava piacere a fare quello che faceva come la Mano Nera.» Una lieve espressione di sdegno alterò i lineamenti di Oromis. «I racconti delle atrocità passate spesso sono esagerati e distorti, faresti bene a ricordartelo. Nessuno tranne tua madre sa esattamente ciò che fece o perché o che cosa provava al riguardo, e lei non è più tra i vivi per raccontarlo.» «Ma a chi dovrei credere?» implorò Eragon. «A Brom o a Jeod?» «Quando hai chiesto a Brom di tua madre, lui ti ha detto quelle che pensava fossero le sue principali qualità. Il mio consiglio è di fidarti di lui, che la conosceva a fondo. Se questo non risolve i tuoi dubbi, ricorda che qualunque crimine lei abbia commesso mentre agiva come la Mano di Morzan, alla fine passò dalla parte dei Varden e fece di tutto per proteggerti. Sapendo questo, non dovresti tormentarti oltre sulla natura del suo carattere.» Spinto dalla brezza, un ragno appeso a un filo di seta passò davanti agli occhi di Eragon, dondolando avanti e indietro su invisibili correnti d'aria. Quando il ragno fu sparito dalla visuale, Eragon disse: «La prima volta che siamo stati a Tronjheim, Angela l'indovina mi ha detto che era il wyrd di Brom fallire in ogni cosa che tentava, tranne che nell'uccidere Morzan.» Oromis inclinò il capo. «Qualcuno potrebbe pensarla così. Qualcun altro potrebbe concludere che Brom realizzò tante cose importanti e difficili. Dipende da come scegli di vedere il mondo. Di rado le parole degli indovini sono facili da decifrare. Secondo la mia esperienza, le loro predizioni non portano mai alla pace della mente. Se vuoi essere felice, Eragon, non pensare a quello che sarà o a quello su cui non hai controllo, ma pensa piuttosto al momento presente, e a quello che sei in grado di cambiare.» Eragon fu attraversato da un pensiero. «Blagden» disse, riferendosi al corvo bianco compagno della regina Islanzadi. «Anche lui sa di Brom, è così?» Oromis inarcò un sopracciglio sottile. «Davvero? Io non gliene ho mai parlato. È una creatura volubile, su cui non si può fare affidamento.» «Il giorno in cui io e Saphira siamo partiti per le Pianure Ardenti, mi recitò un indovinello. Non ricordo ogni verso con precisione, ma era qualcosa su uno di due che è uno, mentre uno potrebbe essere due. Forse alludeva al fatto che Murtagh e io condividiamo soltanto uno dei genitori.» «Può essere» disse Oromis. «Blagden era qui a Ellesméra quando Brom mi raccontò di te. Non mi sorprenderebbe scoprire che quel ladro dal becco affilato si era appollaiato su un albero vicino durante la nostra conversazione: ha il brutto vizio di origliare. Ma può darsi che l'indovinello sia stato il risultato di uno dei suoi sporadici attacchi di preveggenza.» Glaedr si mosse, e Oromis si volse a guardare il drago dorato. L'elfo si alzò dalla sedia con un movimento fluido, dicendo: «Frutta, noci e pane vanno bene per placare la fame, ma dopo un viaggio del genere dovresti mangiare qualcosa di più sostanzioso. Ho una zuppa sul fuoco che richiede la mia attenzione. Non scomodarti, prego, te la porto non appena è pronta.» Con passo felpato, Oromis si avviò alla capanna coperta di corteccia e scomparve all'interno. Non appena la porta intagliata si chiuse alle sue spalle, Glaedr sospirò e abbassò le palpebre, come se volesse dormire. Regnò il silenzio, interrotto soltanto dal fruscio dei rami scossi dal vento. L'EREDITÀ Eragon rimase seduto al tavolo rotondo per diversi minuti, poi si alzò e camminò fino al ciglio della rocca di Tel'naeír, dove guardò la foresta che si estendeva un migliaio di piedi sotto di lui. Con la punta di uno stivale spinse giù un ciottolo e lo osservò rimbalzare lungo la parete di roccia finché non scomparve inghiottito dagli alberi. Un ramo si spezzò quando Saphira gli si avvicinò da dietro e si accovacciò al suo fianco. Le squame della dragonessa lo inondarono di centinaia di riflessi azzurrini. Lei guardò dalla stessa parte e gli chiese: Saphira volse la testa verso di lui. Eragon fece come lei gli aveva detto, e da Saphira cominciò a fluire una corrente di sensazioni: paesaggi, rumori, odori, e altro ancora, tutto quello che lei aveva sperimentato al momento del ricordo. Davanti a sé Eragon vide una radura nella foresta, da qualche parte fra le colline ai piedi del versante occidentale della Grande Dorsale. L'erba era fitta e rigogliosa, e festoni di licheni giallognoli pendevano dagli alti alberi inclinati, coperti di muschio. Per via delle piogge che dall'oceano arrivavano nell'entroterra, lì i boschi erano molto più verdi e umidi di quelli della Valle Palancar. Visti attraverso gli occhi di Saphira, i verdi e i rossi erano più attenuati di come sarebbero apparsi agli occhi di Eragon, mentre ogni sfumatura di blu risplendeva più intensa del normale. L'odore del terreno umido e del legno marcio impregnava l'aria. Al centro della radura c'era un albero caduto, e sopra l'albero caduto era seduto Brom. Il cappuccio del mantello era gettato all'indietro in modo da lasciargli il capo scoperto. Aveva la spada adagiata in grembo. Il bastone contorto, inciso di rune, era appoggiato al tronco. L'anello Aren scintillava sulla sua mano destra. Per un lungo momento Brom rimase immobile, poi rivolse gli occhi socchiusi al cielo e il suo naso aquilino gettò una lunga ombra sul volto. Risuonò la sua voce rauca, ed Eragon vacillò, sentendosi fuori dal tempo. "Il sole sempre traccia il suo arco da orizzonte a orizzonte, e la luna sempre lo segue, e i giorni sempre si susseguono l'uno dopo l'altro, indifferenti alle vite che consumano." Abbassando gli occhi, Brom guardò dritto verso Saphira e, attraverso di lei, verso Eragon. "Malgrado gli sforzi, nessun essere sfugge alla morte per sempre, nemmeno gli elfi o gli spiriti. Per tutto c'è una fine. Se mi stai guardando, Eragon, allora la mia fine è giunta e io sono morto e tu sai che io sono tuo padre." Da una saccoccia legata al fianco, Brom trasse la sua pipa, la riempì d'erba di cardo e l'accese, mormorando piano: "Brisingr." Aspirò diverse volte per far prendere la fiamma prima di ricominciare a parlare. "Se mi stai vedendo, Eragon, spero che tu sia felice e in salute, e che Galbatorix sia morto. Anche se penso che sia poco probabile; dopotutto sei un Cavaliere dei Draghi e un Cavaliere dei Draghi non potrà mai riposare finché ci sarà ingiustizia sulla terra." Gli sfuggì un risolino mentre scuoteva il capo, la barba che ondeggiava come acqua. "Ah, non ho tempo per dire nemmeno la metà di ciò che vorrei: avrei il doppio dell'età che ho adesso prima di arrivare alla fine. Per amore di brevità, darò per scontato che Saphira ti abbia già parlato di come tua madre e io ci siamo conosciuti, di come Selena morì e di come mi ritrovai a Carvahall. Vorrei che tu e io avessimo questa conversazione a faccia a faccia, Eragon, e forse l'avremo, e Saphira non avrà bisogno di condividere questo ricordo con te, ma ne dubito. Le sofferenze dei miei anni mi pesano, Eragon, e sento scorrermi nelle membra un freddo che non ho mai provato prima. Credo che sia perché adesso le cose sono passate nelle tue mani. Ci sono ancora molte cose che spero di realizzare, ma nessuna per me stesso, solo per te, e tu arriverai a eclissare tutto ciò che ho fatto. Ne sono sicuro. Tuttavia, prima che la tomba si chiuda su di me, volevo almeno per una volta poterti chiamare figlio... Mio figlio... Da quando sei nato, Eragon, ho desiderato rivelarti chi fossi. È stato un piacere impareggiabile per me guardarti crescere, ma anche una tortura impareggiabile, per via del segreto che serbavo nel cuore." Brom scoppiò a ridere, un suono aspro e secco. "Be', a quanto pare non sono riuscito a tenerti al sicuro dall'Impero, vero? Se ancora ti chiedi chi sia responsabile della morte di Garrow, non devi cercarlo altrove, perché siede qui. È stata la mia idiozia. Non sarei mai dovuto tornare a Carvahall. E ora guarda: Garrow è morto, e tu sei un Cavaliere dei Draghi. Ti avverto, Eragon, attento alla persona di cui ti innamori, perché il destino sembra riservare un morboso interesse per la nostra famiglia." Stringendo le labbra attorno al cannello della pipa, Brom trasse qualche boccata d'erba di cardo, soffiando da un lato il fumo bianco. L'odore pungente arrivò forte nelle narici di Saphira. "Ho la mia parte di rimpianti, ma tu non sei uno di essi, Eragon. Potrai anche fare delle sciocchezze ogni tanto, come lasciar scappare quei maledetti Urgali, ma non sei più idiota di me alla tua età." Annuì. "Anzi, sei molto meno idiota, direi. Sono orgoglioso di averti come figlio. Più orgoglioso di quanto tu possa immaginare. Non avrei mai pensato che saresti diventato un Cavaliere come me, né desideravo questo futuro per te, ma vederti con Saphira, ah, mi fa venir voglia di cantare al sole come un gallo." Brom trasse un'altra boccata. "Capisco che potresti essere arrabbiato perché ho tenuto questo segreto. Non posso dire che sarei stato felice di scoprire il nome di mio padre in questo modo. Ma che ti piaccia o no, siamo una famiglia, tu e io. E visto che non ho potuto riservarti le attenzioni che avrei dovuto come padre, ti darò invece la sola cosa che posso darti, ed è un consiglio. Odiami se vuoi, Eragon, ma ascolta bene quello che ti dirò, perché so di che cosa parlo." Con la mano libera, Brom strinse il fodero della spada, le vene gonfie sul dorso della mano. Sistemò la pipa a un angolo della bocca. "Bene. Il mio è un duplice consiglio. Qualunque cosa tu faccia, proteggi le persone che ami. Senza di loro, la vita è più misera di quanto tu possa immaginare. È una cosa ovvia, lo so, ma non per questo meno vera. Questa è la prima parte del mio consiglio. Quanto al resto... Se sei tanto fortunato da aver già ucciso Galbatorix, o se qualcuno è già riuscito a tagliare la gola di quel traditore, allora, congratulazioni. In caso contrario, ricorda che Galbatorix è il tuo più grande e pericoloso nemico. Fino al giorno della sua morte, né tu né Saphira avrete pace. Potete nascondervi negli angoli più sperduti della terra, ma a meno che non vi uniate all'Impero, un giorno sarete costretti ad affrontare Galbatorix. Mi dispiace, Eragon, ma questa è la verità. Ho combattuto contro molti maghi e diversi Rinnegati, e finora ho sempre sconfitto i miei avversari." Le rughe sulla sua fronte si fecero più profonde. "Be', tranne una volta, ma è successo perché non ero ancora del tutto maturo. Comunque la ragione per cui ho sempre vinto è che uso il cervello, a differenza di molti. Non sono un grande stregone, e nemmeno tu lo sei in confronto a Galbatorix, ma quando si tratta di un duello fra maghi, Brom abbassò la pipa, serio in volto. "Spero che ce la facciate. Il mio più grande desiderio è che tu e Saphira viviate una vita lunga e feconda, libera dalla paura di Galbatorix e dell'Impero. Vorrei poterti proteggere da tutti i pericoli che ti minacciano, ma ahimè, non è nelle mie possibilità. Quello che posso fare è darti il mio consiglio e insegnarti ciò che posso Mentre le sue ultime parole riecheggiavano nella mente di Eragon, il ricordo si dissolse lasciandosi dietro una vuota oscurità. Eragon aprì gli occhi e con un certo imbarazzo si accorse che lacrime gli scorrevano lungo le guance. Proruppe in una risatina soffocata e si asciugò col bordo della tunica. Eragon le posò una mano sul collo e si consolarono a vicenda, contemplando la foresta degli elfi dal ciglio della rupe di Tel'naeír. Poco dopo, Oromis emerse dalla capanna con due scodelle di zuppa, ed Eragon e Saphira voltarono le spalle alla rupe e lentamente tornarono al piccolo tavolo davanti all'immensa mole di Glaedr. ANIME DI PIETRA Quando Eragon spinse da parte la scodella ormai vuota, Oromis disse calmo: «Ti piacerebbe vedere un fairth di tua madre?» Eragon rimase per un istante impietrito, sorpreso. «Sì, moltissimo.» Dalle pieghe della tunica bianca Oromis trasse una tavoletta sottile di ardesia grigia e gliela passò. Eragon accarezzò la pietra fredda e levigata. Sapeva che dall'altro lato avrebbe trovato una perfetta immagine di sua madre, dipinta per magia da un elfo con dei pigmenti fissati sull'ardesia molti anni prima. Ebbe un brivido d'inquietudine: aveva sempre desiderato vedere sua madre, ma ora che gli si presentava l'opportunità aveva paura di restare deluso. Facendo uno sforzo, voltò la lastra di ardesia e colse - chiara come vista da una finestra - l'immagine di un giardino di rose rosse e bianche illuminate dai pallidi raggi dell'alba. Un sentiero di ghiaia correva attraverso le aiuole di rose, e al centro del sentiero c'era una donna inginocchiata, con le mani a coppa intorno a una rosa bianca che annusava, gli occhi chiusi, l'ombra di un sorriso sulle labbra. L'immagine era affascinante. Posò la mano sulla superficie del fairth: avrebbe dato qualsiasi cosa per potervi penetrare e toccarle il braccio. Oromis disse: «Brom mi ha dato il fairth perché lo custodissi, prima di partire per Carvahall, e ora io lo do a te.» Senza alzare lo sguardo, Eragon disse: «Puoi continuare a conservarlo per me? Ho paura di romperlo, con tutti i nostri viaggi e combattimenti.» La pausa che seguì catturò l'attenzione di Eragon. Alzò lo sguardo dal ritratto della madre e notò che Oromis aveva l'aria melanconica e preoccupata. «No, Eragon, non posso. Dovrai trovare un modo per portare il fairth con te.» Poi il vecchio elfo disse: «Non potrai restare qui a lungo, e abbiamo ancora molte cose di cui discutere. Devo indovinare di quale argomento vuoi parlare adesso, o me lo dici?» A malincuore, Eragon posò il fairth sul tavolo a faccia in giù. «Tutte e due le volte che ci siamo battuti con Murtagh e Castigo, Murtagh si è mostrato molto più potente di quanto dovrebbe essere un qualsiasi umano. Sulle Pianure Ardenti ci ha sconfitti perché io e Saphira non ci eravamo resi conto della sua forza. Se il suo cuore non avesse ceduto per quel breve istante, a quest'ora saremmo prigionieri a Urû'baen. Una volta mi hai detto che sai come Galbatorix è diventato tanto potente. Vuoi dircelo adesso, maestro? Per la nostra sicurezza, dobbiamo saperlo.» «Non spetta a me dirvelo» rispose Oromis. «E allora a chi?» domandò Eragon. «Non puoi...» Alle spalle di Oromis, Glaedr aprì uno dei suoi liquidi occhi profondi, largo quanto uno scudo rotondo, e disse: Eragon corrugò la fronte. «Non capisco. Perché mai aiutereste Galbatorix? E come potreste? Ci sono soltanto quattro draghi e un uovo in Alagaësia... o no?» «Ancora vivi...?» Sbigottito, Eragon scoccò un'occhiata a Oromis, ma l'elfo rimase in silenzio, il volto imperscrutabile. Ancora più sconcertante era il fatto che Saphira non sembrava condividere la sua confusione. Il drago dorato appoggiò la testa sulle zampe per guardarlo meglio; le squame sfregarono l'una sull'altra. Le implicazioni delle parole di Glaedr sbalordirono Eragon. Spostando lo sguardo su Saphira, le domandò: Le squame del collo ondeggiarono quando la dragonessa fece uno strano movimento serpentino con la testa. Eragon si accigliò e si voltò verso l'elfo e il drago dorato. «Perché non ce lo avete svelato prima?» Stappando il fiasco di vino, Oromis si riempì di nuovo il calice e disse: «Per proteggere Saphira.» «Proteggerla? Da cosa?» «Tu hai ancora dentro di te il tuo cuore dei cuori?» chiese Eragon. L'erba intorno al tavolo si curvò sotto il getto d'aria bollente che eruttò dalle narici di Glaedr. Sebbene il rimbrotto di Glaedr lo avesse fatto avvampare, Eragon ebbe la prontezza di rispondere come si conveniva, con un inchino della testa e le parole: «No, maestro.» Poi chiese: «Che cosa succede se l'Eldunarí si rompe?» «Fu così dunque» disse Eragon «che Galbatorix s'impossessò degli Eldunarí?» Contrariamente a quanto si aspettava, fu Oromis a rispondere. «Sì, ma non tutti. Era passato così tanto tempo da quando qualcuno aveva minacciato i Cavalieri che molti del nostro ordine avevano smesso di preoccuparsi di proteggere gli Eldunarí. All'epoca in cui Galbatorix si ribellò contro di noi, era abbastanza comune che il drago di un Cavaliere liberasse il proprio Eldunarí per pura praticità.» «Praticità?» «Inoltre» intervenne Oromis «un mago che possiede un Eldunarí può attingere alla forza del drago per arricchire i suoi incantesimi, ovunque si trovi quel drago. Quando...» Un colibrì dai colori brillanti interruppe la conversazione sfrecciando sul tavolo. Con le ali velocissime che sembravano un'unica macchia pulsante, l'uccello si librò sulle scodelle di frutta e bevve avidamente il succo di un mirtillo schiacciato, poi si alzò in volo di scatto e scomparve fra i tronchi della foresta. Oromis riprese a parlare. «Quando Galbatorix uccise il suo primo Cavaliere, rubò anche il cuore del suo drago. Nel corso degli anni in cui Galbatorix si diede alla macchia, spezzò la mente del drago e la piegò al suo volere, probabilmente con l'aiuto di Durza. E quando Galbatorix diede inizio alla vera insurrezione, con Morzan al suo fianco, era già più forte della maggior parte degli altri Cavalieri. La sua forza non era soltanto magica, ma anche mentale, perché la forza della coscienza dell'Eldunarí aumentava la sua. «Galbatorix non cercò solo di uccidere i Cavalieri e i draghi. Il suo scopo era d'impossessarsi del maggior numero possibile di Eldunarí, o rubandoli ai Cavalieri, o torturando un Cavaliere finché il suo drago non cedeva il proprio cuore dei cuori. Quando ci rendemmo conto di quello che stava facendo, ormai era diventato troppo potente per fermarlo. Galbatorix fu aiutato dal fatto che molti Cavalieri viaggiavano non solo con l'Eldunarí del proprio drago, ma anche con gli Eldunarí di draghi il cui corpo non esisteva più, perché spesso si erano stancati di starsene rinchiusi in un deposito e desideravano l'avventura. E naturalmente, quando saccheggiò insieme ai Rinnegati la città di Doru Araeba, sull'isola di Vroengard, Galbatorix s'impossessò dell'intera collezione di Eldunarí lì custoditi. «Galbatorix è riuscito ad arrivare dov'è oggi usando contro l'intera Alagaësia il potere e la saggezza dei draghi. All'inizio riusciva a controllare soltanto alcuni degli Eldunarí che aveva catturato. Non è facile sottomettere un drago, per quanto tu sia potente. Non appena Galbatorix sconfisse i Cavalieri e s'insediò sul trono di Urû'baen, si dedicò alla sottomissione del resto dei cuori, uno dopo l'altro. «Riteniamo che il compito lo tenne occupato per i successivi quarant'anni, durante i quali si disinteressò agli affari di Alagaësia. È questo il motivo per cui il Surda riuscì a staccarsi dall'Impero. Quando ebbe finito, Galbatorix uscì dalla sua reclusione per riprendere il controllo dell'Impero e dei territori confinanti. Per chissà quale ragione, dopo due anni e mezzo di massacri e devastazioni si ritirò di nuovo a Urû'baen, e da allora lì è rimasto, concentrato su un progetto noto soltanto a lui. Sono molti i suoi vizi, ma non spreca il suo tempo nella dissolutezza. Questo è quanto le spie dei Varden hanno scoperto. Di più non sappiamo.» Assorto nei suoi pensieri, Eragon guardava lontano. Finalmente tutte le storie che aveva sentito sul potere innaturale di Galbatorix acquistavano un senso. Si sentì rianimare da un lieve ottimismo, mentre diceva tra sé e sé: Mentre continuava a riflettere, gli venne in mente un'altra domanda. «Perché nelle storie antiche non ho mai sentito parlare dei cuori dei draghi? I bardi e gli studiosi ne parlerebbero, se fossero così importanti.» Oromis posò una mano sul tavolo e disse: «Di tutti i segreti di Alagaësia, quello degli Eldunarí è uno dei meglio custoditi, perfino fra la mia stessa gente. Da sempre i draghi hanno lottato per nascondere i loro cuori al resto del mondo. Ne rivelarono l'esistenza solo dopo il magico patto stretto fra le nostre due razze, e anche allora soltanto a pochi prescelti.» «Ma perché?» «C'è un modo in cui un drago si può difendere attraverso il proprio Eldunarí?» domandò Eragon. L'occhio di Glaedr scintillò più del solito. «Ma allora perché lo hanno fatto?» chiese Eragon. «Non può farlo da solo» disse Oromis. «A meno che un'improvvisa ispirazione magica non gli permetta di infrangere l'Eldunarí dall'interno, e a quanto ne so è accaduto molto di rado. L'unica alternativa è che il drago convinca qualcun altro a rompere l'Eldunarí per lui. Questa mancanza di controllo è un altro dei motivi per cui i draghi esitavano a trasferirsi nel cuore dei cuori: per paura di restare intrappolati in una prigione da cui non c'è scampo.» Eragon percepì il disgusto di Saphira all'idea di fare una fine simile. Lei non ne parlò, e invece chiese: «Non conosciamo il numero esatto» disse Oromis «ma stimiamo che siano molte centinaia.» Un brivido di eccitazione percorse il corpo scintillante di Saphira. Oromis esitò, e fu Glaedr a rispondere. Eragon sentì pulsare la base del cranio e cominciò ad avvertire il peso dei quattro giorni di viaggio. La stanchezza gli rendeva difficile trattenere un pensiero per più di qualche istante; alla minima distrazione gli scivolavano via dalla mente. La punta della coda di Saphira si contrasse. «È vero» disse Oromis, «ma sono prigionieri di Galbatorix come Murtagh e Castigo.» «È una cosa per cui combatteremo entrambi» disse Eragon. «Siamo la loro unica speranza.» Si massaggiò la fronte con il pollice, poi disse: «C'è ancora qualcosa che non capisco.» «Sì?» disse Oromis. «Che cosa ti cruccia?» «Se Galbatorix attinge il proprio potere da quei cuori, come producono l'energia che lui sfrutta?» Eragon fece una pausa, cercando un modo migliore per porre la domanda. Indicò le rondini che volteggiavano nel cielo. «Ogni essere vivente mangia e beve per sostenersi, perfino le piante. Il cibo ci fornisce l'energia di cui il nostro corpo ha bisogno per funzionare, e fornisce anche l'energia che ci serve per operare la magia, sia che ci affidiamo alla nostra forza per evocare un incantesimo sia che ricorriamo alla forza di un altro. Ma come fanno gli Eldunarí? Non hanno ossa né muscoli né pelle, giusto? Non possono mangiare, vero? E allora come sopravvivono? Da dove proviene la loro energia?» Oromis sorrise, i lunghi denti lucidi come porcellana smaltata. «Dalla magia.» «Dalla magia?» «Se si definisce la magia come la manipolazione dell'energia, cosa che è in effetti, allora sì, dalla magia. Da dove di preciso gli Eldunarí attingano questa energia è un mistero sia per noi che per i draghi; nessuno ne ha mai identificato la sorgente. Può darsi che assorbano la luce del sole come le piante o che prendano la forza vitale dalle creature vicine. Qualunque sia la risposta, è stato dimostrato che quando il corpo muore e il drago trasferisce la propria coscienza nel cuore dei cuori, porta con sé anche i residui di forza contenuti nel corpo prima che smettesse di funzionare. In seguito, la riserva di energia aumenta in maniera costante per un periodo compreso fra i cinque e i sette anni, finché non raggiunge la pienezza del suo potere, che è immenso. La quantità complessiva di energia che un Eldunarí può contenere dipende dalle dimensioni del cuore: più vecchio è il drago, più grande sarà il suo Eldunarí, più energia potrà assorbire prima di saturarsi.» Ripensando a quando lui e Saphira avevano combattuto contro Murtagh e Castigo, Eragon disse: «Galbatorix deve aver dato a Murtagh diversi Eldunarí. Solo così si spiega l'incredibile aumento della sua forza.» Oromis annuì. «Siete fortunati che Galbatorix non gli abbia prestato più cuori, altrimenti Murtagh avrebbe avuto gioco facile a sopraffare voi, Arya, e tutti gli altri stregoni dei Varden.» Eragon si ricordò di come entrambe le volte in cui lui e Saphira si erano scontrati con Murtagh e Castigo aveva avuto l'impressione che la mente di Murtagh contenesse molti esseri. Condivise il ricordo con Saphira e disse: Oromis fece una smorfia e una ragnatela di piccole rughe gli si formò intorno agli angoli della bocca. «Nessuno, che io sappia. Dopo la caduta dei Cavalieri, Brom andò in cerca di eventuali Eldunarí sfuggiti a Galbatorix, ma senza esito. E in tutti gli anni che ho passato a perlustrare Alagaësia con la mente non ho mai colto un pensiero o un sussurro provenire da un Eldunarí. Quando Galbatorix e Morzan sferrarono il primo attacco contro di noi, gli Eldunarí erano stati tutti catalogati e nessuno di loro scomparve senza spiegazione. È inconcepibile che ci sia una grossa scorta di Eldunarí ad attenderci da qualche parte.» Sebbene Eragon non si fosse aspettato una risposta diversa, rimase ugualmente deluso. «Un'ultima domanda; mi risulta che quando un Cavaliere o un drago morivano, il compagno superstite in genere si lasciava morire o si suicidava subito dopo. E che quelli che non lo facevano comunque impazzivano dal dolore. Dico bene?» «Ma che cosa succedeva invece se il drago rigettava il cuore dei cuori prima di morire?» Eragon sentì il terreno tremare attraverso le suole degli stivali mentre il drago dorato cambiava posizione. Glaedr rispose: LE MANI DI UN GUERRIERO Eragon addentò una dolce fragola matura, lo sguardo perso nelle imperscrutabili profondità del cielo. Quando ebbe finito di mangiarla, appoggiò il picciolo sul vassoio davanti a sé e lo spinse al centro con la punta dell'indice, poi fece per parlare. Ma Oromis lo precedette e disse: «E adesso, Eragon?» «Adesso?» «Abbiamo parlato a lungo degli argomenti che più ti premevano. E adesso cosa volete fare tu e Saphira? Non potete trattenervi a lungo a Ellesméra, perciò mi chiedo che cos'altro sperate di ottenere con la vostra visita. O pensate di ripartire già domattina?» «Avevamo sperato» disse Eragon «di poter continuare il nostro addestramento, ma questo ovviamente non è possibile perché non abbiamo tempo. Però c'è qualcos'altro che vorrei fare.» «E sarebbe?» «Maestro, non ti ho raccontato tutto quello che mi è successo quando ero a Teirm con Brom.» Così Eragon raccontò al vecchio elfo di come la curiosità lo aveva portato nella bottega di Angela, di come lei gli aveva letto il futuro e del consiglio che alla fine gli aveva dato Solembum. Oromis si picchiettò le labbra con un dito, meditabondo. «Nel corso dell'ultimo anno ho sentito nominare questa indovina con crescente frequenza, sia da parte tua che dai rapporti sui Varden di Arya. Questa Angela sembra bravissima a comparire dove e quando stanno per verificarsi eventi importanti.» Oromis continuò. «Il suo comportamento mi ricorda molto quello di una maga umana che una volta visitò i palazzi di Ellesméra, anche se non si faceva chiamare Angela. È per caso una donna minuta, con una gran massa di riccioli scuri, occhi vivaci e un'intelligenza tanto acuta quanto bizzarra?» «L'hai descritta alla perfezione» disse Eragon. «È la stessa persona?» Oromis fece un piccolo movimento con la mano sinistra. «Se è lei, si tratta di una persona straordinaria... Quanto alle sue profezie, non starei a pensarci troppo. Che si avverino o no, e senza saperne di più, nessuno di noi può influenzarne l'esito. «Ma quello che ha detto il gatto mannaro è degno di maggior considerazione. Purtroppo non so spiegare nessuna delle sue affermazioni. Non ho mai sentito parlare di un luogo chiamato la Volta delle Anime e, anche se la rocca di Kuthian mi suona familiare, non riesco a ricordare dove ho sentito o visto quel nome. Cercherò nelle mie pergamene, ma l'istinto mi dice che non lo troverò nelle scritture elfiche.» «E che mi dici dell'arma sotto l'albero di Menoa?» «Non so niente nemmeno di quella, Eragon. E io conosco ogni storia di questa foresta. In tutta la Du Weldenvarden ci sono forse soltanto due elfi la cui conoscenza della foresta supera la mia. M'informerò, ma sospetto che sarà un tentativo inutile.» Quando Eragon espresse la sua delusione, Oromis disse: «Mi pare di capire che tu abbia bisogno di un giusto rimpiazzo per Zar'roc, e in questo posso aiutarti. Oltre alla mia, Naegling, noi elfi abbiamo conservato altre due spade dei Cavalieri dei Draghi: Arvindr e Tàmerlein. Arvindr è custodita nella città di Nädindel, che tu non hai il tempo di visitare. Ma Tàmerlein si trova qui a Ellesméra. È un tesoro del Casato di Valtharos, e anche se il signore del palazzo, Lord Fiolr, non se ne separerebbe mai volentieri, credo che te la darebbe se gliela chiedessi con rispetto. Vi organizzerò un incontro per domattina.» «E se la spada non dovesse andar bene?» chiese Eragon. «Speriamo che non accada. Manderò anche un messaggio a Rhunön la metalliera, avvertendola che potresti passare da lei domani sul tardi.» «Ma Rhunön ha giurato che non avrebbe più forgiato spade.» Oromis sospirò. «Già, ma il suo parere sarà lo stesso importante. Se c'è qualcuno che può consigliarti l'arma giusta, è lei. E se dovesse piacerti Tàmerlein, sono sicuro che Rhunön vorrebbe darle comunque un'occhiata prima che te la porti via. Sono passati più di cento anni da quando Tàmerlein è stata usata per l'ultima volta in battaglia, e potrebbe aver bisogno di qualche piccola calibratura.» «Non potrebbe essere un altro elfo a forgiarmi una lama?» «No» disse Oromis. «Non se si tratta di eguagliare l'eccellenza di Zar'roc o di qualsiasi altra spada rubata che Galbatorix abbia scelto d'impugnare. Rhunön è uno dei membri più anziani della nostra razza, ed è stata lei a forgiare tutte le spade del nostro ordine.» «È vecchia quanto i Cavalieri?» esclamò Eragon, stupefatto. «Anche di più.» Eragon tacque un momento. «Che cosa dobbiamo fare fino a domani, maestro?» Oromis guardò Eragon e Saphira, poi disse: «Andate a visitare l'albero di Menoa. So che non sarete in pace finché non lo avrete fatto. Vedete se riuscite a trovare l'arma di cui ha parlato il gatto mannaro. Quando avrete soddisfatto la vostra curiosità, ritiratevi nella casa sull'albero che i servitori di Islanzadi tengono sempre pronta per voi. Domani faremo quel che possiamo.» «Maestro, abbiamo così poco tempo...» «Siete fin troppo stanchi per altre sollecitazioni quest'oggi. Fidati, Eragon, è meglio che ti riposi. Penso che le ore che ti separano da domani ti aiuteranno ad accettare le cose di cui abbiamo parlato. Anche secondo i parametri di re, regine e draghi, questa nostra conversazione non è stata una chiacchierata leggera.» Malgrado le rassicurazioni di Oromis, Eragon si sentiva a disagio all'idea di trascorrere il resto del giorno senza far niente. Era così agitato che avrebbe voluto continuare a lavorare, anche se sapeva di dover recuperare le forze. Si agitò sulla sedia, e quel movimento tradì la sua indecisione; Oromis sorrise e disse: «Se ti aiuta a calmarti, Eragon, ti prometto una cosa. Prima che tu e Saphira torniate dai Varden, potrai scegliere un tipo di magia, e nel breve tempo che ci resta t'insegnerò tutto quello che posso in merito.» Con il pollice Eragon rigirò l'anello che portava all'indice e ponderò l'offerta, cercando di decidere quale fra tutte le branche della magia avrebbe voluto imparare. Infine disse: «Mi piacerebbe imparare a convocare gli spiriti.» Un'ombra passò sul volto di Oromis. «Manterrò la mia parola, Eragon, ma la negromanzia è un'arte oscura e indecente. Non dovresti cercare di controllare altri esseri per i tuoi scopi. Anche senza considerarne l'immoralità, si tratta di una disciplina eccezionalmente pericolosa e complicata. Un mago impiega almeno tre anni di intensi studi prima di poter sperare di convocare gli spiriti senza esserne posseduto. «La negromanzia non è come le altre arti magiche, Eragon; con essa tu cerchi di costringere esseri incredibilmente potenti e ostili a obbedire ai tuoi comandi, esseri che dedicano ogni istante della loro prigionia a trovare una breccia nel vincolo che li lega per potersi ribellare e soggiogarti per vendetta. In tutta la storia, non c'è mai stato uno Spettro che sia stato anche un Cavaliere. E di tutti gli orrori che hanno tormentato questa bella terra, un simile abominio potrebbe essere il peggiore, peggiore persino di Galbatorix. Ti prego, scegli un altro argomento, meno pericoloso per te e per la nostra causa.» «Allora» disse Eragon «potresti insegnarmi il mio vero nome?» «Le tue richieste» disse Oromis «si fanno sempre più difficili, Eragonfiniarel. Potrei riuscire a indovinare il tuo vero nome, se volessi.» L'elfo dai capelli argentei scrutò Eragon con uno sguardo intenso e magnetico. «Sì, credo che ci riuscirei. Ma non lo farò. Il vero nome può essere di grande importanza quando si tratta di magia, ma non è una magia in sé e per sé, e quindi non rientra nella mia promessa. Se il tuo desiderio è capirti meglio, Eragon, allora cerca di scoprire il tuo vero nome da solo. Se te lo dicessi io, tu potresti usarlo, ma lo faresti senza la saggezza che invece acquisteresti nel corso del viaggio interiore per scoprirlo. Una persona deve guadagnarsi l'illuminazione, Eragon. Non ti viene data da altri, per quanto possano essere persone stimate e riverite.» Eragon giocherellò con l'anello per un altro momento, poi sospirò e scosse il capo. «Non so. Le mie domande si sono esaurite.» «Ne dubito» sorrise Oromis. Eragon non riusciva a concentrarsi. Il suo pensiero tornava sempre agli Eldunarí e a Brom. Ancora una volta si stupì della strana catena di eventi che avevano portato Brom a stabilirsi a Carvahall, e che in seguito avevano fatto diventare lui stesso un Cavaliere dei Draghi. Oromis annuì. «Ottima scelta. L'incantesimo è impegnativo ma ha diversi utilizzi. Sono sicuro che ti servirà nella tua lotta contro Galbatorix e l'Impero. Arya stessa può attestarne l'efficacia.» Oromis sollevò il calice dal tavolo e lo mise in controluce, ammirando la trasparenza del vino per qualche istante, poi, posando di nuovo il calice, disse: «Prima che ti avventuri nella città, devi sapere che colui che hai mandato a vivere qui è arrivato, qualche tempo fa.» Ci volle un attimo prima che Eragon capisse a chi si riferiva. «Sloan è qui a Ellesméra?» chiese, stupito. «Vive da solo in un piccolo capanno sulla riva di un ruscello, alla periferia occidentale di Ellesméra. Aveva la morte addosso quando piombò qui dalla foresta, barcollando, ma abbiamo curato le ferite della sua carne, e adesso sta di nuovo bene. Gli elfi in città gli portano cibo e vestiti e si assicurano che non gli manchi nulla. Lo scortano ovunque desideri andare, e a volte gli leggono qualcosa ad alta voce, ma di solito preferisce starsene da solo, senza rivolgere la parola a chi gli si avvicina. Due volte ha cercato di andarsene, ma i tuoi incantesimi glielo hanno impedito.» «No.» «Devo andare a fargli visita?» chiese Eragon, non sapendo che cosa Oromis e Glaedr si aspettassero. «Devi deciderlo tu» rispose Oromis. «Incontrarti di nuovo potrebbe soltanto sconvolgerlo. Però tu sei responsabile della sua punizione, Eragon, e sarebbe sbagliato dimenticarti di lui.» «No, maestro, non lo dimenticherò.» Con un rapido movimento, Oromis spostò la sedia più vicina a Eragon. «Il giorno invecchia e non voglio trattenerti oltre, per non farti perdere ore preziose di riposo, ma c'è un'altra cosa che desidero fare prima che tu te ne vada. Le tue mani, me le faresti vedere? Vorrei capire che cosa dicono di te.» E tese i palmi aperti. Allungando le braccia, Eragon posò le mani su quelle di Oromis e fremette al contatto delle dita sottili dell'elfo sui polsi. I calli sulle nocche di Eragon proiettarono lunghe ombre sul dorso delle sue mani mentre Oromis le inclinava da un lato e dall'altro. Poi, con una leggera ma decisa pressione, le voltò per esaminare i palmi e i polpastrelli. «Che cosa vedi?» chiese Eragon. Oromis rigirò di nuovo le mani e gli indicò i calli. «Adesso hai le mani di un guerriero, Eragon. Bada che non diventino le mani di un uomo che si compiace della carneficina della guerra.» L'ALBERO DELLA VITA Dalla rupe di Tel'naeír, Saphira sorvolò a bassa quota la foresta ondeggiante finché non ebbe raggiunto la radura dove si trovava l'albero di Menoa. Largo quanto un centinaio di tronchi di pino messi insieme, svettava verso il cielo come un possente pilastro sormontato da una chioma gigantesca del diametro di migliaia di piedi. Dall'enorme tronco coperto di muschio un tappeto di radici nodose e contorte si irradiava per più di dieci acri prima di penetrare nella profondità del terreno molle, scomparendo sotto gli alberi della foresta. Intorno all'albero di Menoa l'aria era umida e fredda, e una rada ma perenne bruma scivolava dall'intrico di aghi, bagnando le ampie felci ammassate alla base del tronco. Scoiattoli rossi correvano lungo i rami dell'antico albero, e gli allegri richiami e i cinguettii di centinaia di uccelli risuonavano dalle profondità del denso fogliame. L'intera radura era pervasa da un senso di vigile presenza, perché l'albero conteneva i resti dell'elfa un tempo conosciuta come Linnëa, la cui coscienza ora guidava la crescita di quel tronco e della foresta circostante. Eragon cercò fra le radici qualcosa che gli indicasse la presenza di un'arma, ma come la volta precedente, non trovò nulla da portare con sé in battaglia. Raccolse un pezzetto di corteccia dal tappeto di muschio ai suoi piedi e lo mostrò a Saphira. disse lui. E lo gettò via. Saphira inarcò il collo sinuoso e alzò lo sguardo sull'albero, poi scrollò la testa e le spalle per liberarsi dalle gocce che si erano accumulate sui bordi affilati delle sue squame sfaccettate. Eragon strillò e fece un salto indietro, schermandosi il volto con il braccio quando lo spruzzo d'acqua fredda lo investì. I due setacciarono la radura ancora per diverse ore. Eragon continuava a sperare che si sarebbero imbattuti in qualche cavità o fessura fra le radici contorte dove avrebbero visto spuntare lo spigolo di una cassa sepolta che custodiva una spada. Alla fine, disperato, Eragon espanse la mente verso l'albero di Menoa e cercò di attirare l'attenzione della sua coscienza sonnolenta, per spiegare cosa cercava e chiederle aiuto. Ma fu come tentare di comunicare con il vento o la pioggia, perché l'albero non si accorse di lui più di quanto lui non si sarebbe accorto di una formica che agitava le antenne vicino ai suoi stivali. Delusi, Eragon e Saphira lasciarono l'albero di Menoa proprio mentre il disco del sole baciava l'orizzonte. Dalla radura Saphira volò fino al centro di Ellesméra, dove planò atterrando nella stanza da letto della casa sull'albero che gli elfi avevano preparato per loro. La casa era un insieme di camere rotonde appollaiate sulla corona di un albero massiccio, a centinaia di piedi dal suolo. Un pasto di frutta, verdure, fagioli cotti e pane aspettava Eragon nella stanza da pranzo. Dopo aver mangiato, invece di gettarsi sul letto preferì accoccolarsi accanto a Saphira sulla pedana rivestita di coperte che era il suo giaciglio. Mentre Saphira piombava in un sonno profondo, lui rimase sveglio a osservare le stelle sorgere e schierarsi nel cielo sulla foresta illuminata dalla luna, e pensò a Brom e al mistero di sua madre. Più tardi, quella notte, scivolò nel suo ormai abituale sonno vigile, dove parlò con i suoi genitori. Non riuscì a sentire che cosa dicevano, perché le loro voci erano basse e indistinte, ma in qualche modo percepì l'amore e l'orgoglio che provavano per lui, e sebbene sapesse che non erano altro che fantasmi della sua mente inquieta, da allora conservò per sempre il ricordo del loro affetto. All'alba, un'esile elfa guidò Eragon e Saphira attraverso i sentieri di Ellesméra fino alla residenza della famiglia Valtharos. Mentre passavano fra i tronchi scuri dei pini torreggianti, Eragon fu colpito da quanto fosse vuota e silenziosa la città rispetto alla loro ultima visita; scorse solo tre elfi fra gli alberi, tre figure alte e aggraziate che si allontanarono a passi felpati. Lord Fiolr li aspettava in una sala dal soffitto a volta, illuminata da diversi fuochi fatui fluttuanti. Aveva il viso lungo e severo e più spigoloso di quello della maggior parte degli elfi, tanto che i suoi lineamenti ricordarono a Eragon una lancia dalla punta sottile. Indossava una tunica verde e oro dal colletto alto e svasato, come la cresta piumata di un uccello esotico. Nella sinistra impugnava uno scettro di legno bianco che recava incisi i glifi della Liduen Kvaedhí. In cima allo scettro era incastonata una perla lucente. Lord Fiolr fece un profondo inchino, ed Eragon lo imitò. Poi si scambiarono i saluti rituali degli elfi ed Eragon ringraziò il signore così generoso da permettergli d'ispezionare la spada Tàmerlein. Lord Fiolr disse: «Da lungo tempo Tàmerlein è un trofeo prezioso della mia famiglia, e mi sta particolarmente a cuore. Conosci la sua storia, Ammazzaspettri?» «No» rispose Eragon. «La mia compagna era la saggia e bellissima Naudra, e suo fratello, Arva, era un Cavaliere dei Draghi al tempo della Caduta. Naudra era in visita da lui a Ilirea quando Galbatorix e i Rinnegati si abbatterono sulla città come una tempesta dal nord. Arva combatté insieme agli altri Cavalieri per difendere Ilirea, ma Kialandí dei Rinnegati gli inflisse un colpo mortale. Mentre giaceva morente sui bastioni di Ilirea, Arva consegnò la sua spada Tàmerlein a Naudra perché potesse difendersi. Con Tàmerlein, Naudra si aprì un varco fra i Rinnegati e fuggì, tornando qui accompagnata da un drago e un Cavaliere, anche se morì subito dopo a causa delle ferite riportate.» Lord Fiolr accarezzò lo scettro e dalla perla scaturì un tenue bagliore. «Tàmerlein per me è preziosa come l'aria che respiro. Preferirei separarmi della mia vita piuttosto che separarmi da lei. Purtroppo, né io né i miei discendenti siamo degni di maneggiarla. Tàmerlein è stata forgiata per un Cavaliere, e Cavalieri noi non siamo. Te la presto volentieri, Ammazzaspettri, affinché ti aiuti a combattere Galbatorix. Però Tàmerlein resterà proprietà del Casato di Valtharos, e tu devi promettermi di restituirmi la spada se mai io o uno dei miei eredi te la chiederemo.» Eragon diede la sua parola e Lord Fiolr condusse lui e Saphira fino al lungo, lucido tavolo che cresceva dal legno vivente del pavimento. In fondo al tavolo c'era una rastrelliera ornata dov'era esposta Tàmerlein col suo fodero. La lama di Tàmerlein era di un verde intenso, ricco, così come il suo fodero. Un grande smeraldo ne adornava il pomolo, le decorazioni erano d'acciaio brunito e una serie di glifi correva lungo la guardia crociata. Dicevano in elfico: Non appena le dita di Eragon si chiusero intorno all'impugnatura di Tàmerlein, si accorse che era troppo grande per la sua mano e in quel momento seppe che non era la spada per lui: non gli dava la sensazione di essere il proseguimento del suo braccio, com'era successo con Zar'roc. Malgrado ciò, Eragon esitò, sapendo che sarebbe stato difficile trovare una spada altrettanto bella. Arvindr, l'altra spada citata da Oromis, si trovava in una città a centinaia di miglia di distanza. Saphira disse: E così Eragon rimise Tàmerlein sulla rastrelliera e si scusò con Lord Fiolr spiegando perché non poteva accettare la spada. L'elfo dalla faccia aguzza non parve troppo deluso; al contrario, a Eragon parve di scorgere un lampo di soddisfazione nei fieri occhi di Fiolr. Dalla dimora della famiglia Valtharos, Eragon e Saphira s'inoltrarono negli oscuri recessi della foresta fino alla galleria di alberi di sanguinella che conduceva al patio centrale della casa di Rhunön. Quando emersero dalla galleria, Eragon sentì il tintinnio di un martello su uno scalpello e vide Rhunön seduta su una panca nella fucina al centro del patio. L'elfa era impegnata a scolpire un blocco di lucido acciaio. Eragon non riuscì a capire che cosa stava realizzando, perché il pezzo era ancora grezzo e impreciso. «E così, Ammazzaspettri, sei ancora vivo» disse Rhunön senza sollevare lo sguardo dal suo lavoro. La sua voce stridette come una serie di mole dentellate. «Oromis mi ha detto che Zar'roc ti è stata presa dal figlio di Morzan.» Eragon trasalì e annuì. «Sì, Rhunön-elda. Me l'ha portata via sulle Pianure Ardenti.» «Bah.» Rhunön si concentrò sul lavoro, battendo il martello sul cesello a una velocità sovrumana. Poi si fermò e disse: «Zar'roc ha trovato il suo legittimo proprietario, dunque. Non approvo l'uso che ne fa... come si chiama? Ah, sì... «Come vedi, non l'ho presa.» Rhunön annuì e ricominciò a martellare. «Be', allora bravo.» «Se Zar'roc è la spada giusta per Murtagh» disse Eragon «allora non sarebbe quella di Brom l'arma giusta per me?» Rhunön corrugò le sopracciglia. «Undbitr? Perché ti è venuta in mente la spada di Brom?» «Perché Brom era mio padre» disse Eragon, e provò un brivido nel dirlo. «Le cose stanno così, dunque?» Mettendo da parte martello e scalpello, Rhunön uscì da sotto la tettoia della fucina e si fermò davanti a Eragon. Era un po' curva per tutti i secoli che aveva passato china sul suo lavoro, e perciò sembrava un pollice o due più bassa di lui. «Uhm, sì, mi pare di vedere una certa somiglianza. Era un tipo schietto, Brom. Diceva quello che pensava senza tanti giri di parole. Mi piaceva molto. Non sopporto com'è diventata la mia razza. Sono tutti troppo cortesi, troppo raffinati, troppo perbene. Ha! Ricordo quando gli elfi ridevano e combattevano come creature normali. Ora sono così controllati che certi sembrano non provare più emozioni di una statua di marmo!» Saphira disse: Rhunön volse il viso accigliato verso Saphira. «Squamediluce. Benvenuta. Sì, parlavo dell'epoca prima del patto fra elfi e draghi. I cambiamenti che ho visto nelle nostre razze da allora si potrebbero credere a stento possibili, ma così è andata, ed eccomi qui, una delle poche ancora in grado di ricordare com'eravamo prima.» Poi Rhunön tornò a guardare Eragon. «Undbitr non è la risposta ai tuoi bisogni. Brom perse la sua spada durante la Caduta dei Cavalieri. Se non si trova nella collezione di Galbatorix, allora potrebbe essere stata distrutta, o trovarsi sepolta da qualche parte, sotto i resti delle ossa putrefatte disseminate su un campo di battaglia da tempo dimenticato. E se anche qualcuno riuscisse a individuarla, tu non potresti recuperarla in tempo per affrontare i tuoi nemici.» «E allora che cosa dovrei fare, Rhunön-elda?» chiese Eragon. Le raccontò del falcione che aveva scelto quando si trovava fra i Varden, di come lo aveva rinforzato con gli incantesimi e di quanto era successo nelle gallerie sotto il Farthen Dûr. Rhunön sbuffò. «No, così non funziona mai. Una volta che una lama è stata forgiata e temprata, puoi anche proteggerla con un'infinità di incantesimi, ma non riuscirai mai a rendere il metallo più resistente. Un Cavaliere ha bisogno di qualcosa di meglio: una lama che resista agli impatti più violenti e alla maggior parte degli incantesimi. No. Bisogna cantare gli incantesimi sul metallo fuso mentre lo si estrae dal minerale, e poi anche mentre lo si forgia, allo scopo di alterare e migliorare la struttura stessa del metallo.» «Ma come posso procurami una spada simile?» chiese Eragon. «Me ne faresti una tu, Rhunön-elda?» Le rughe sottili sul volto di Rhunön si fecero più profonde. L'elfa tese un braccio e si massaggiò il gomito; i muscoli dell'avambraccio nudo si contrassero. «Sai che ho giurato di non creare mai più un'arma finché campo.» «Lo so.» «Il mio giuramento mi vincola; non posso romperlo, anche se lo volessi.» Continuando a stringersi il gomito, Rhunön tornò alla panca e si sedette davanti alla scultura. «E perché dovrei, Cavaliere dei Draghi? Dimmelo. Perché dovrei liberare nel mondo un'altra sterminatrice d'anime?» Scegliendo con cura le parole, Eragon disse: «Perché se lo facessi, potresti contribuire alla fine al regno di Galbatorix. Non ti sembra giusto che io lo uccida con una spada da te forgiata, quando è stato con le tue spade che lui e i Rinnegati hanno ucciso così tanti draghi e Cavalieri? Tu odi il modo in cui hanno usato le tue armi. Quale maniera migliore per pareggiare i conti che forgiare lo strumento che segnerà la fine di Galbatorix?» Rhunön incrociò le braccia e guardò il cielo. «Una spada... una nuova spada. Dopo così tanto tempo, esercitare di nuovo la mia arte per...» Abbassando lo sguardo, sporse il mento verso Eragon e disse: «È possibile, dico possibile, che ci sia un modo per aiutarti, ma è inutile pensarci perché non posso provarci.» «Perché non ho il metallo che mi serve!» ruggì Rhunön. «Non penserete che abbia forgiato le spade dei Cavalieri con un metallo qualsiasi? No! Tanto tempo fa, mentre vagavo nella Du Weldenvarden, m'imbattei nei frammenti di una cometa caduta sulla terra. Erano composti da un minerale metallifero che non assomigliava a niente che avessi maneggiato prima, perciò lo portai con me nella fucina e lo raffinai, scoprendo che la lega d'acciaio risultante era più resistente, più dura e allo stesso tempo più flessibile di qualunque altra di origine terrestre. Chiamai il metallo «Col passare dei secoli, i frammenti divennero sempre più rari, finché non cominciai a pensare che non ce ne fossero più. Mi ci vollero ventiquattro anni per trovare l'ultimo giacimento. Con quello forgiai sette spade, fra cui Undbitr e Zar'roc. Dalla Caduta dei Cavalieri ho cercato soltanto un'altra volta l'acciaioluce, ed è stato stanotte, dopo che Oromis mi ha parlato di te.» Rhunön scosse il capo e i suoi occhi acquosi indugiarono su Eragon. «Ho battuto la foresta in lungo e in largo, e ho lanciato molti incantesimi di ricerca e recupero, ma non ho trovato nemmeno una piccolissima scheggia di acciaioluce. Se riuscissimo a procurarcene un po', allora potremmo cominciare a pensare a una spada per te, Ammazzaspettri. Altrimenti questa discussione è superflua.» Eragon fece un inchino all'elfa e la ringraziò per il tempo che gli aveva dedicato, poi insieme a Saphira lasciò il patio e s'inoltrò nella galleria verde e frondosa di alberi di sanguinella. Mentre camminavano a fianco a fianco verso una radura da cui Saphira potesse decollare, Eragon disse: Dalla radura vicino alla casa di Rhunön, Saphira ed Eragon sorvolarono Ellesméra per tornare alla rupe di Tel'naeír, dove li aspettavano Oromis e Glaedr. Quando Saphira atterrò, Eragon smontò, e la dragonessa azzurra e il drago dorato balzarono dalla rupe e risalirono a spirale verso il cielo, volando senza una meta precisa, godendo semplicemente l'una della presenza dell'altro. Mentre i due draghi danzavano fra le nuvole, Oromis insegnò a Eragon a trasportare con la magia un oggetto da un posto all'altro senza che l'oggetto percorresse fisicamente la distanza fra i due punti. «La maggior parte delle forme di magia» disse Oromis «richiede una dose maggiore di energia quanto più è grande la distanza fra te e il tuo obiettivo. Ma la regola non vale in questo particolare caso. Mandare questo sasso che ho in mano dall'altra parte del ruscello richiede la stessa quantità di energia che mandarlo fino alle Isole Meridionali. Per questa ragione, l'incantesimo è utilissimo quando con la magia devi trasportare un oggetto attraverso una distanza così grande che ti ucciderebbe se dovessi farlo nello spazio. D'altra parte è un incantesimo molto debilitante, ed è preferibile evocarlo solo quando tutto il resto ha fallito. Spostare qualcosa di grosso come l'uovo di Saphira, per esempio, ti lascerebbe privo delle forze per muoverti.» Poi Oromis insegnò a Eragon le parole dell'incantesimo con le diverse varianti, e quando Eragon ebbe memorizzato la formula a un livello di perfezione tale da soddisfare Oromis, l'elfo gli chiese di spostare la piccola pietra che aveva in mano. Non appena Eragon ebbe pronunciato l'incantesimo, il sasso scomparve dal palmo di Oromis e un istante dopo riapparve al centro della radura in un lampo di luce blu, accompagnato da un forte boato e una vampata d'aria bollente. Eragon trasalì per il fragore, poi si aggrappò al ramo di un albero vicino per non cadere, con le ginocchia che gli tremavano e una sensazione di gelo per tutto il corpo. Con il cuoio capelluto che gli formicolava, guardò il sasso che giaceva in un cerchio d'erba carbonizzata e appiattita e si ricordò di quando aveva visto l'uovo di Saphira per la prima volta. «Bravo» commentò Oromis. «Ora, sai dirmi perché il sasso ha prodotto quel rumore quando si è materializzato sull'erba?» Eragon prestò molta attenzione a quello che Oromis gli diceva, ma durante tutta la lezione continuò a riflettere sull'albero di Menoa. Sapeva che anche Saphira ci stava pensando, mentre volava alta nel cielo. Ma più ci pensava, più disperava di riuscire a trovare la soluzione. Quando ebbe finito d'insegnargli a spostare gli oggetti, Oromis gli chiese: «Visto che hai rifiutato l'offerta di Tàmerlein di Lord Fiolr, tu e Saphira vi tratterrete ancora a lungo a Ellesméra?» «Non lo so, maestro» rispose Eragon. «Vorrei fare ancora un tentativo con l'albero di Menoa, ma se non ci riesco, allora immagino di non avere altra scelta che tornare dai Varden a mani vuote.» Oromis annuì. «Prima di partire, torna qui con Saphira un'ultima volta.» «Sì, maestro.» Mentre Saphira volava con Eragon in groppa verso l'albero di Menoa, disse: Levando una debole corrente d'aria, Saphira atterrò su una radice a forma di nocca, a diverse centinaia di piedi di distanza dalla base dell'albero di Menoa. Al suo arrivo, gli scoiattoli che abitavano sull'enorme pino lanciarono acuti squittii per avvertire i fratelli. Eragon scese sulla radice e si strofinò i palmi sulle cosce, poi mormorò: «Be', non perdiamo tempo.» Con passi felpati risalì la radice fino al tronco, aprendo le braccia per tenersi in equilibrio. Saphira lo seguì più adagio; i suoi artigli scheggiavano e crepavano la corteccia dove camminava. Eragon si accovacciò su un tratto di legno scivoloso e infilò le dita in una fenditura del tronco per non cadere. Aspettò che Saphira arrivasse, poi chiuse gli occhi, inspirò a fondo l'aria fredda e umida e indirizzò i pensieri verso l'albero. L'albero di Menoa non fece alcun tentativo per impedirgli di toccare la sua mente, perché la sua coscienza era così vasta e aliena, e talmente intrecciata col resto della vita vegetale della foresta, che non aveva bisogno di difendersi. Chiunque volesse prendere il controllo dell'albero avrebbe dovuto estendere il suo dominio mentale su una parte enorme della Du Weldenvarden, un'impresa che nessun individuo da solo poteva sperare di compiere. Eragon sentì provenire dall'albero una sensazione di calore e di luce e avvertì la pressione della terra sulle radici nel raggio di centinaia di iarde. Sentì la brezza muoversi nell'intrico di rami, e un rivolo di linfa viscosa che stillava da un piccolo taglio nella corteccia, e ricevette una moltitudine d'impressioni analoghe dalle altre piante che l'albero di Menoa sorvegliava. In confronto alla consapevolezza che l'albero aveva mostrato di possedere durante l'Agaetí Blödhren, adesso sembrava quasi addormentato; l'unico pensiero che Eragon percepì era così lungo e lento che non riuscì a decifrarlo. Facendo appello a tutte le sue risorse, Eragon inviò un grido mentale all'albero: Eragon non si affidò solo alle parole e alle immagini. Da dentro se stesso e da Saphira fece confluire nell'albero una forte corrente di energia: un regalo di buona fede che sperava sarebbe riuscito a risvegliarne la curiosità. Passarono diversi minuti e ancora l'albero non reagiva, ma Eragon non voleva arrendersi. Le piante, pensò, si muovono a un ritmo più lento rispetto agli umani e agli elfi; c'era da aspettarsi che l'albero di Menoa non rispondesse subito alla loro richiesta. Eragon annuì e arrestò a malincuore il flusso di energia. Mentre continuavano a implorare l'albero di Menoa, il sole raggiunse lo zenit e poi cominciò a discendere; le nuvole si gonfiarono, si rimpicciolirono, si rincorsero nel cielo. Gli uccelli sfrecciavano fra gli alberi, gli scoiattoli squittivano irritati, le farfalle svolazzavano da un posto all'altro, e una fila di formiche rosse marciò accanto allo stivale di Eragon trasportando piccole larve bianche. Alla fine Saphira ringhiò e ogni uccello nei dintorni fuggì terrorizzato. «No, aspetta!» gridò Eragon, che aveva percepito le sue intenzioni. Ma Saphira non lo ascoltò. Fatto qualche passo indietro, si accovacciò e affondò gli artigli nella radice dell'albero, poi, con un potente strattone, staccò tre grosse strisce di legno. «Saphira, fermati!» urlò, orripilato. Una fitta pioggia di gocce d'acqua si riversò a terra. Guardando in alto, Eragon vide i rami del pino tremare e ondeggiare sempre più forte: l'aria riverberò del gemito di legno contro legno. Nello stesso istante, una gelida brezza gli investì le guance, ed Eragon ebbe l'impressione di sentire un sordo brontolio sotto i piedi. Guardandosi attorno, notò che gli alberi che orlavano la radura sembravano più alti e più inclinati verso l'interno, con i rami contorti che si allungavano verso di lui come artigli. Eragon ebbe paura. Serrando le fauci, Saphira interruppe il getto di fuoco e distolse lo sguardo dall'albero di Menoa. Non appena ebbe scorto l'anello di alberi minacciosi, le sue squame ondeggiarono e si rizzarono come il pelo di un gatto irritato. Ringhiò contro la foresta, volgendo il capo da un lato all'altro, poi dispiegò le ali e cominciò ad allontanarsi dall'albero di Menoa. Prima che Eragon riuscisse a fare un solo passo, una radice larga quanto il suo braccio spuntò dal terreno e gli si arrotolò intorno alla caviglia sinistra, immobilizzandolo. Radici ancora più grosse sbucarono ai lati di Saphira e le afferrarono le zampe e la coda, inchiodandola sul posto. Saphira ruggì infuriata e inarcò il collo, pronta a sputare fuoco di nuovo. Le fiamme nella sua bocca tremolarono e si spensero quando una voce risuonò nelle loro menti, un lento sussurro che a Eragon ricordò un fruscio di foglie: Eragon si lasciò sfuggire una smorfia di dolore quando la radice gli si strinse ancora di più intorno alla caviglia. Ancora un po' più di pressione e gli avrebbe spezzato l'osso. Seguì un lungo silenzio, poi la voce disse: Saphira scoprì i denti e rispose: Nel disperato tentativo di far parlare ancora l'albero, Eragon disse: La radura s'increspò di ondulazioni mentre il tappeto di radici si spostava. Il movimento fece scappare fuori dalle tane e dai nascondigli centinaia di conigli, topi, arvicole, toporagni e altre piccole creature che, in preda al panico, andarono a rifugiarsi nel folto della foresta. Con la coda dell'occhio Eragon vide decine di elfi correre verso la radura, i capelli che fluttuavano al vento come vessilli di seta. Silenziosi come fantasmi, gli elfi si fermarono sotto i rami degli alberi che delimitavano la radura a osservare lui e Saphira, senza fare una mossa per avvicinarsi o soccorrerli. Eragon stava per chiamare Oromis e Glaedr con la mente, quando la voce tornò a farsi sentire. L'eccitazione suscitata dalla notizia dell'esistenza del minerale si stemperò nell'angoscia. Saphira ruggì ancora e disse: Un forte stridio riecheggiò nell'aria quando due rami sfregarono fra di loro. L'albero di Menoa non rispose, ma si limitò a esaminare la mente di Eragon scivolando fra i suoi pensieri come un alito di vento. Eragon disse: Gli altri alberi scricchiolarono e gemettero come anime in pena, e poi, fievole e tremolante, la voce tornò: La chioma dell'albero di Menoa si fece immobile e per lunghi minuti nella radura regnò un assoluto silenzio. Poi il terreno cominciò a tremare, e le radici davanti a Eragon presero a contorcersi e a strusciare l'una contro l'altra, perdendo frammenti di corteccia mentre si facevano da parte per sgombrare un piccolo spazio di terra. Dal terreno cominciò a spuntare quello che sembrava un blocco di ferro corroso, lungo circa due piedi e largo un piede e mezzo. Non appena il minerale emerse completamente dal nero e fertile suolo, Eragon sentì una debole fitta al basso ventre. Trasalì e si massaggiò lo stomaco, ma il disagio momentaneo era già svanito. A quel punto, la radice che gli serrava la caviglia si allentò, ritirandosi nel terreno, e lo stesso fecero quelle che trattenevano Saphira. «Ma...» disse Eragon ad alta voce, confuso dal fatto che l'albero di Menoa non gli avesse detto che cosa voleva. Ancora perplesso, si chinò sul minerale, infilò le dita sotto il masso venato di metallo e lo sollevò fra le braccia, sbuffando per il peso. Stringendolo al petto, volse le spalle all'albero di Menoa e cominciò la lunga camminata verso la casa di Rhunön. Saphira lo affiancò e annusò l'acciaioluce. Gli elfi si allinearono lungo il sentiero che Eragon aveva scelto di seguire, fissando lui e Saphira con un'intensità tale da fargli formicolare la nuca e decidere di affrettare il passo. Gli elfi non dissero una parola, ma continuarono a fissarlo con i loro occhi a mandorla come se stessero guardando un pericoloso animale che si aggirava fra le loro case. Uno sbuffo di fumo uscì dalle narici di Saphira. LA MENTE SUL METALLO «Dove l'hai trovato?» esclamò Rhunön, quando Eragon entrò barcollando nel patio della casa e lasciò cadere il masso di acciaioluce ai suoi piedi. Eragon le raccontò in breve di Solembum e dell'albero di Menoa. Accovacciandosi davanti al minerale, Rhunön ne accarezzò la superficie butterata; le sue dita indugiarono sulle venature di metallo che screziavano la roccia. «Siete stati molto sciocchi o molto coraggiosi nel mettere alla prova l'albero di Menoa. Non è una con cui si scherza.» «Per parecchie spade, se l'esperienza non m'inganna» disse Rhunön, rialzandosi. L'elfa scoccò un'occhiata alla fucina al centro del patio, poi batté le mani, gli occhi ardenti di desiderio e determinazione. «Facciamola, allora! Ti serve una spada, Ammazzaspettri? Benissimo, ti darò una spada come non se n'è mai vista una in Alagaësia.» «E il tuo giuramento?» chiese Eragon. «Per adesso non ci pensare. Quando dovete tornare dai Varden, voi due?» «Saremmo dovuti partire il giorno stesso che siamo arrivati» rispose Eragon. Rhunön rimase un attimo in silenzio, pensierosa. «Allora dovrò fare in fretta quello che in genere faccio con calma, e dovrò usare la magia per ottenere ciò che altrimenti mi richiederebbe settimane di lavoro manuale. Tu e Squamediluce mi aiuterete.» Non era una domanda, ma Eragon annuì. «Stanotte non ci riposeremo, ma ti prometto, Ammazzaspettri, che entro domattina avrai la tua spada.» Piegando le ginocchia, Rhunön sollevò senza alcuno sforzo il masso e lo portò alla panca dove c'era la sua scultura abbozzata. Eragon si tolse la tunica e la camicia per non rovinarle, e al loro posto Rhunön gli diede un panciotto attillato e un grembiule di tessuto trattato in modo da non poter prendere fuoco. Rhunön si vestì in modo simile. Quando Eragon le chiese dei guanti, l'elfa scoppiò a ridere e scosse il capo. «Solo un fabbro maldestro usa i guanti.» Poi Rhunön lo condusse in una bassa stanzetta, simile a una grotta, incassata in uno dei tronchi che formavano la sua casa. All'interno c'erano sacchi di carbonella e cumuli sparsi di mattoni d'argilla biancastri. Servendosi di un incantesimo, Eragon e Rhunön sollevarono diverse centinaia di mattoni e li portarono fuori, accanto alla fucina, poi fecero lo stesso con i sacchi di carbonella, ciascuno largo quanto il torace di un uomo. Quando Rhunön ritenne di avere abbastanza materiale, lei ed Eragon costruirono un forno. Era una struttura complessa e, dato che Rhunön si rifiutava di ricorrere troppo alla magia, il progetto sottrasse loro gran parte del pomeriggio. Dapprima scavarono una fossa rettangolare profonda cinque piedi che riempirono con strati di sabbia, ghiaia, argilla, carbonella e cenere, lasciando diversi spazi e canaletti per eliminare l'umidità che altrimenti avrebbe abbassato la temperatura del fuoco. Quando il contenuto della buca ebbe raggiunto il livello del terreno, ci costruirono sopra un trogolo di mattoni, usando come malta una miscela d'acqua e argilla avanzata. Rhunön entrò in casa e ne uscì con una coppia di mantici che collegarono ai fori alla base del forno. Poi fecero una pausa per bere e mangiare qualche boccone di pane e formaggio. Dopo il breve ristoro, Rhunön collocò una manciata di ramoscelli nel trogolo, li accese mormorando una parola e quando le fiamme furono bene avviate, mise sul fondo alcuni ciocchi di quercia stagionata. Per quasi un'ora accudì il fuoco, alimentandolo con la cura di un giardiniere che coltiva le rose, finché la legna fu bruciata completamente trasformandosi in un letto di carboni. Allora Rhunön fece un cenno a Eragon e disse: «Adesso!» Eragon sollevò il blocco di minerale e con estrema cautela lo abbassò nel trogolo. Quando il calore sulle dita divenne insopportabile, lasciò andare il blocco e balzò indietro, mentre una fontana di scintille si levava turbinando come uno sciame di lucciole. Sul minerale e sul carbone rovesciò una spessa coltre di carbonella per attizzare il fuoco. Eragon si spazzolò la polvere di carbonella dalle mani e afferrò i manici di uno dei mantici, cominciando a pompare come faceva Rhunön sull'altro lato del forno. Insieme ravvivarono il fuoco con un flusso regolare d'aria per far aumentare la temperatura. Le squame del petto e del collo di Saphira sprizzavano abbaglianti lampi di luce mentre le fiamme danzavano nel forno. Si accucciò a parecchie iarde di distanza, gli occhi fissi sul cuore pulsante del fuoco. «Sì» disse Rhunön, «ma se lo sciogliessimo troppo in fretta, il metallo non si combinerebbe con la carbonella e non diventerebbe abbastanza duro e flessibile per una spada. Risparmia il tuo fuoco, dragonessa. Ci servirà più tardi.» Con il calore del forno unito allo sforzo di azionare il mantice, Eragon si ritrovò ben presto coperto da un velo di sudore; le sue braccia nude risplendevano alla luce del fuoco. Di tanto in tanto, lui o Rhunön abbandonavano il mantice per spalare un nuovo strato di carbonella sul fuoco. Il lavoro era monotono e dopo un po' Eragon perse la cognizione del tempo. Il costante ruggito delle fiamme, il mantice stretto fra le mani, il fruscio dell'aria soffiata e la presenza vigile di Saphira erano le uniche cose di cui fosse consapevole. Così trasalì quando Rhunön disse: «Dovrebbe bastare. Lascia pure il mantice.» Eragon si asciugò la fronte e la aiutò a togliere i carboni incandescenti dal forno per poi versarli in un barile pieno d'acqua. A contatto dell'acqua i carboni sfrigolarono e sprigionarono un odore acre. Quando finalmente sul fondo del trogolo comparve la pozza rosseggiante di metallo fuso - le scorie e le altre impurità erano state eliminate durante il processo - Rhunön la coprì con un strato alto un pollice di sottile cenere bianca, poi appoggiò la pala su un lato del forno e andò a sedersi sulla panca. «E adesso?» chiese Eragon, sedendosi al suo fianco. «Adesso aspettiamo.» «Cosa?» Rhunön indicò il cielo dove la luce del sole morente tingeva di rosso, oro e viola i brandelli di nuvole passeggere. «Quando lavoriamo il metallo dev'essere più buio, se vogliamo giudicarne il colore con esattezza. Inoltre l'acciaioluce ha bisogno di tempo per raffreddarsi in modo che sia morbido e facile da modellare.» Allungando le mani dietro la testa, Rhunön sciolse il laccio che le teneva i capelli, poi li raccolse e li legò di nuovo. «Nel frattempo parliamo della tua spada. Come combatti, con una o con due mani?» Eragon rifletté un minuto, poi disse: «Dipende. Se posso scegliere preferisco brandire la spada con una mano e portare lo scudo con l'altra. D'altro canto le circostanze non mi sono sempre state favorevoli, e spesso ho dovuto combattere senza scudo. In quel caso, mi piace impugnare l'elsa con entrambe le mani, per imprimere maggiore potenza al colpo. Il pomolo di Zar'roc era abbastanza grande da poterlo stringere anche con la sinistra, se dovevo, ma l'incastonatura del rubino era scomoda e non mi permetteva una presa sicura. Sarebbe bello avere un'elsa leggermente più lunga.» «Ne deduco che non vuoi una vera spada a due mani» disse Rhunön. Eragon scosse il capo. «No, sarebbe troppo grande per combattere al coperto.» «Dipende dalla lunghezza dell'elsa e della lama insieme, ma tutto sommato hai ragione. Che cosa ne diresti invece di una spada a una mano e mezza?» L'immagine della prima spada di Murtagh gli attraversò la mente. E sorrise. «E quanto vorresti che fosse lunga la lama?» «Non più lunga di quella di Zar'roc.» «Mmm. Vuoi una lama dritta o curva?» «Dritta.» «Hai delle preferenze per il guardamano?» «Nessuna in particolare.» Con le braccia incrociate, Rhunön abbassò il mento sul petto e socchiuse gli occhi, le labbra strette in una smorfia di concentrazione. «E quanto dovrebbe essere larga la lama? Ricordati, non importa quanto sia stretta, la spada non si spezzerà.» «Magari un po' più larga di Zar'roc vicino alla guardia.» «Perché?» «Penso che sarebbe più elegante.» Un'aspra risata rauca proruppe dalla gola di Rhunön. «E questo in che cosa migliora l'uso della spada?» Eragon si agitò a disagio sulla panca, a corto di parole. «Non chiedermi di creare un'arma in base all'aspetto» lo ammonì Rhunön. «Un'arma è uno strumento, e se è bella, è bella perché è funzionale. Una spada che non sa adempiere al proprio compito ai miei occhi sarebbe brutta anche se avesse una bella forma e fosse adorna delle gemme più preziose e delle incisioni più elaborate.» L'elfa arricciò le labbra e le sporse in fuori mentre rifletteva. «Dunque, ricapitolando... una spada che vada bene sia per gli sfrenati combattimenti in campo aperto che per difenderti nelle strette gallerie del Farthen Dûr. Una spada per tutte le occasioni, di discreta lunghezza, quindi, tranne che per l'elsa che dovrà essere più lunga della media.» «Una spada per uccidere Galbatorix» disse Eragon. Rhunön annuì. «E in quanto tale dovrà essere ben protetta contro la magia...» Affondò di nuovo il mento nel petto. «Le armature sono molto migliorate nell'ultimo secolo, perciò la punta dovrà essere più stretta di quanto non fossi solita fare, per trapassare le placche e le maglie e scivolare negli interstizi fra i vari pezzi. Mmm.» Da una borsa legata al fianco Rhunön trasse uno spago annodato con cui prese diverse misure delle mani e delle braccia di Eragon. Poi estrasse un attizzatoio di ferro dalla fucina e glielo lanciò. Lui lo afferrò al volo con una mano e inarcò un sopracciglio, stupito. L'elfa gli fece un cenno con l'indice puntato e disse: «Avanti, ora. In piedi, fammi vedere come ti muovi con una spada.» Uscendo da sotto la tettoia della fucina, Eragon obbedì, mostrandole le diverse mosse che Brom gli aveva insegnato. Dopo qualche minuto sentì un clangore di metallo sulla pietra. Rhunön tossì e disse: «Oh, che disastro.» Gli si piazzò davanti impugnando un secondo attizzatoio, la fronte solcata da un fiero cipiglio. Si portò l'attrezzo davanti al viso in segno di saluto e disse: «In guardia, Ammazzaspettri!» L'attizzatoio sibilò nell'aria quando Rhunön gli si avventò contro con un fendente, che Eragon parò saltando di lato. L'attizzatoio che aveva in mano vibrò con violenza quando le due sbarre di metallo cozzarono. Duellarono per qualche minuto. Per quanto fosse evidente che l'elfa non tirava di scherma da un pezzo, Eragon la trovò lo stesso un'avversaria formidabile. Alla fine furono costretti a smettere perché il morbido ferro degli attizzatoi si era piegato, tanto che le sbarre erano storte come i rami di un tasso. Rhunön prese i due attizzatoi ormai inutilizzabili e li posò sulla pila degli attrezzi rotti. Tornò indietro, sollevò il mento e disse: «Ora so esattamente che forma dovrà avere la tua spada.» «Ma come farai?» Negli occhi di Rhunön balenò un luccichio divertito. «Non la farò io. Sarai tu, Ammazzaspettri, a fare la spada in vece mia.» Eragon restò per un momento a bocca aperta, poi balbettando disse: «Iio? Ma non sono mai stato a bottega da un fabbro o da un armaiolo. Non sarei capace di forgiare nemmeno un banale coltellino.» Il luccichio negli occhi di Rhunön si fece più intenso. «Eppure sarai tu a fare la spada.» «Ma come? Mi starai accanto per dirmi come devo martellare il metallo?» «Più o meno» disse Rhunön. «Entrerò nella tua mente per guidarti, in modo che le tue mani facciano ciò che le mie non possono. Non è la soluzione perfetta, ma non so che cos'altro escogitare per eludere il mio giuramento ed esercitare ancora una volta la mia arte.» Eragon corrugò la fronte. «Ma se sarai tu a muovere le mie mani, non è come se la spada la facessi tu?» Il volto di Rhunön si adombrò, e con voce brusca l'elfa disse: «Ammazzaspettri, la vuoi o no questa spada?» «Certo.» «E allora basta con tutte queste domande. Fare la spada attraverso le tue mani è diverso perché io penso che sia diverso. Se non ne fossi convinta, il mio giuramento m'impedirebbe di aiutarti. Perciò, a meno che tu non voglia tornare dai Varden a mani vuote, faresti meglio a tenere la bocca chiusa.» «Sì, Rhunön-elda.» Tornarono davanti al forno e Rhunön chiese a Saphira di staccare dal fondo del trogolo di mattoni la massa ancora calda di acciaioluce rappreso. «Rompila in pezzi della grandezza di un pugno» la istruì, poi indietreggiò a distanza di sicurezza. Saphira sollevò una zampa davanti e la calò con tutta la sua forza sul blocco ondulato di acciaioluce. La terra tremò e l'acciaioluce si spezzò in diversi punti. Saphira lo calpestò ancora tre volte prima che Rhunön fosse soddisfatta del risultato. L'elfa raccolse nel grembiule i frammenti appuntiti e li portò a un tavolo basso accanto alla fucina. Lì divise il metallo in base alla durezza, che, come disse a Eragon, era in grado di determinare dal colore e dalla densità del metallo fratturato. «Alcuni pezzi sono troppo duri e altri troppo morbidi» disse. «Ci vorrebbe una seconda cottura, ma non abbiamo tempo. Usiamo solo i pezzi che già vanno bene per una spada. Per i fili della lama serve un acciaio più duro...» e toccò un cumulo di frammenti dalla grana brillante «... perché la parte sia affilata. L'anima della lama invece dovrà essere fatta con un acciaio leggermente più morbido...» e toccò un cumulo di frammenti di una tonalità più grigia, non così luminosa «... perfetto per flettersi e assorbire il colpo. Ma prima di dargli la forma desiderata, il metallo deve essere ancora lavorato, per eliminare le ultime impurità.» «Lo vedrai fra un momento.» Rhunön si avviò verso uno dei pali di sostegno del tetto della fucina, sedette a terra appoggiandovi la schiena, incrociò le gambe e chiuse gli occhi, il volto immobile e composto. «Sei pronto, Ammazzaspettri?» chiese. «Sì» disse Eragon, malgrado un nodo di tensione gli serrasse lo stomaco. Quando le loro menti s'incontrarono, la prima cosa che Eragon percepì furono i bassi accordi che riecheggiavano nell'oscuro, intricato paesaggio dei pensieri di Rhunön. La musica era lenta e posata, intonata su una chiave strana e inquietante che lo irritò. Eragon non era sicuro di che cosa la melodia gli rivelasse sul carattere di Rhunön, ma cominciò a chiedersi se aveva fatto bene a concederle il controllo del proprio corpo. D'altra parte il pensiero di Saphira accovacciata di fianco alla fucina che lo sorvegliava lo tranquillizzò, e alla fine abbassò l'ultima delle difese intorno alla propria coscienza. Eragon ebbe l'impressione di sentirsi scivolare sulla pelle un pezzo di lana grezza quando Rhunön gli avvolse la mente, insinuandosi nelle zone più intime del suo essere. Tremò al contatto e fu sul punto di ritirarsi, ma poi la voce ruvida dell'elfa risuonò nel suo cranio: Allora Rhunön cominciò a muovergli le braccia, le gambe, gli fece ruotare la testa e saggiò le altre capacità di movimento del suo corpo. Per quanto fosse strano per Eragon sentire la testa e le membra muoversi senza il suo controllo, fu ancora più strano quando i suoi occhi cominciarono a guizzare da un parte e dall'altra come per volontà propria. Provò un'improvvisa sensazione d'impotenza che lo gettò nel panico. Quando Rhunön lo fece camminare e il suo piede urtò lo spigolo della fucina, Eragon riprese subito il controllo di sé e afferrò il corno dell'incudine per paura di cadere. Mentre aspettavano che l'ultima luce svanisse dal cielo di velluto, Rhunön preparò la fucina e si esercitò a maneggiare i diversi strumenti. L'impaccio iniziale con il corpo di Eragon presto scomparve, anche se a un certo punto, allungando la mano per prendere un martello, gli fece urtare la punta delle dita contro il bordo del tavolo. Per il dolore a Eragon vennero le lacrime agli occhi. Rhunön si scusò e disse: Rhunön prese i pezzi di acciaioluce morbido e duro che aveva deciso di utilizzare e li sistemò nella forgia. Dietro sua richiesta, Saphira scaldò il metallo, schiudendo appena le fauci per sprigionare un sottile getto di fiamme blu e bianche. La ruggente vampa di fuoco illuminò l'intero patio di una potente luce azzurra, che fece scintillare le squame di Saphira di un bagliore accecante. Quando l'acciaioluce divenne di un rosso incandescente, Rhunön fece prendere a Eragon un paio di tenaglie per toglierlo dal torrente di fiamme. Lo posò sull'incudine e con il martello cominciò a battere rapidamente i blocchi di metallo per appiattirli fino a farli diventare spessi meno di un quarto di pollice. La superficie del metallo arroventato scintillava di pagliuzze incandescenti. Non appena finiva una lastra, Rhunön la faceva cadere in un trogolo di acqua salata lì accanto. Dopo aver battuto tutto l'acciaioluce, Rhunön estrasse dal trogolo le lastre - Eragon sentì sulle braccia il calore emanato dal liquido - e le strofinò a una a una con un pezzo di arenaria per rimuovere le scaglie nere che si erano formate sulla superficie. La pulizia portò alla luce la struttura cristallina del metallo, che Rhunön studiò con grande interesse. Divise ulteriormente il metallo per durezza e purezza, secondo le qualità mostrate dai cristalli. Eragon percepiva ogni pensiero e sentimento di Rhunön, e fu sorpreso dalla vastità delle sue conoscenze; nel metallo l'elfa vedeva cose di cui lui non avrebbe mai sospettato l'esistenza, e i calcoli che faceva in merito al trattamento andavano al di là della sua comprensione. Riuscì persino a cogliere il suo disappunto per come aveva impugnato il martello mentre appiattiva l'acciaio. Il disappunto di Rhunön aumentò finché non esplose. Prima che Eragon potesse intervenire, Saphira disse: Rhunön non spiegò la soluzione né a Eragon né a Saphira, ma una per una sistemò le lastre di metallo sull'incudine e le spezzò fino a ottenere scaglie non più larghe di un petalo di rosa. Raccolta la metà delle scaglie di acciaioluce più duro, le ammucchiò formando un mattone, che poi ricoprì di argilla e corteccia di betulla per tenerlo insieme. Posò il mattone su una grossa pala d'acciaio col manico lungo sette piedi, simile a quelle usate dai panettieri per infilare e togliere il pane dal forno bollente. Appoggiò il piatto della pala al centro della forgia e poi fece indietreggiare Eragon, senza però fargli mollare l'estremità del manico. Poi chiese a Saphira di ricominciare a sputare fuoco, e di nuovo il patio luccicò di un tremolante bagliore azzurro. Il calore era così intenso che Eragon ebbe la sensazione che la sua pelle stesse sfrigolando, e notò che le pietre di granito con cui era costruita la forgia si erano colorate di un giallo brillante. L'acciaioluce avrebbe impiegato oltre mezz'ora a raggiungere la giusta temperatura in un fuoco di carbonella, ma grazie all'inferno scatenato dalle fauci di Saphira impiegò appena un paio di minuti per diventare bianco incandescente. A quel punto, Rhunön ordinò a Saphira d'interrompere la fiammata, e quando la dragonessa chiuse le fauci, la fucina piombò nell'oscurità. Pilotato da Rhunön, Eragon tolse la pala dalla forgia e trasportò l'arroventato mattone di metallo coperto di argilla fino all'incudine, dove afferrò un martello e saldò le scaglie di acciaioluce in un solo pezzo. Continuò a battere il metallo allungandolo in una barra, poi lo tagliò in mezzo e lo ripiegò su se stesso, saldando insieme i due pezzi. I tintinnii costanti e regolari del martello sull'acciaio echeggiavano come rintocchi di campane fra gli antichi alberi che circondavano il patio. Quando il colore dell'acciaioluce da bianco incandescente divenne giallo, Rhunön guidò Eragon perché lo riportasse alla forgia, e di nuovo Saphira lo irrorò con il fuoco scaturito dal suo ventre. Per sei volte Rhunön, attraverso Eragon, arroventò e piegò l'acciaioluce, e ogni volta il metallo diventava più liscio e più flessibile, fino a quando non raggiunse un livello di malleabilità tale che lo si poté piegare senza rischiare che si rompesse. Mentre Eragon martellava il metallo, ogni movimento dettato da Rhunön, l'elfa cominciò a cantare sia con la voce di lui che con la propria, formando una piacevole armonia che s'innalzava e calava al ritmo dei colpi di martello. Eragon fu percorso da un brivido lungo la schiena quando sentì che Rhunön incanalava un costante flusso di energia nelle parole che pronunciavano, e si rese conto che la canzone conteneva incantesimi per fare, per plasmare e per legare. Con le loro due voci, Rhunön cantava del metallo che giaceva sull'incudine, descrivendone le qualità - alterandole in modi che superavano la comprensione di Eragon - e impregnando l'acciaioluce di una complessa rete d'incantesimi mirati a dargli una forza e una resistenza di molto superiori a quelle di un qualsiasi altro metallo. Rhunön cantava anche del braccio con cui Eragon impugnava il martello e, sotto la gentile influenza della sua nenia, ogni colpo che lei dava con il braccio di lui finiva sul punto desiderato. Rhunön temprò la barra di acciaioluce dopo averla piegata per la sesta e ultima volta. Ripeté lo stesso procedimento con l'altra metà delle scaglie di metallo duro, forgiando una barra identica alla prima. Poi raccolse i frammenti di metallo più morbido, che piegò e saldò dieci volte prima di ricavarne un cuneo corto e pesante. A quel punto, Rhunön chiese a Saphira di scaldare per l'ennesima volta le due barre di acciaio più duro. Le appoggiò ancora incandescenti sull'incudine, fianco a fianco, le afferrò entrambe con un paio di tenaglie per ciascuna estremità e cominciò a torcerle l'una sull'altra. Sprizzarono scintille quando prese a martellare le barre attorcigliate per saldarle in un unico pezzo. Rhunön piegò, saldò e allungò la massa di acciaioluce altre sei volte. Quando fu soddisfatta della qualità del metallo, appiattì l'acciaioluce in una spessa lamina rettangolare, tagliò la lamina per il lungo con uno scalpello affilato e piegò ciascuna metà al centro, formando una lunga V poco profonda. Tutta l'operazione, calcolò Eragon, era durata sì e no un'ora e mezza. Si meravigliò della rapidità di Rhunön, anche se era stato il suo corpo a svolgere il lavoro. Non aveva mai visto un fabbro modellare il metallo con tanta facilità; Horst avrebbe impiegato ore a fare quello che l'elfa sbrigava in pochi minuti. E per quanto fosse impegnativo forgiare, Rhunön continuava a cantare, tessendo una trama d'incantesimi nell'acciaioluce e guidando il braccio di Eragon con infallibile precisione. Nella confusione di rumori, fuoco, scintille e fatica, mentre Rhunön gli spostava lo sguardo sulla forgia, a Eragon parve di scorgere un terzetto di esili figure ferme ai margini del patio. Saphira confermò il suo sospetto un momento dopo quando disse: Saphira gli inviò un'immagine della bassa e rugosa gatta mannara Maud, sotto sembianze umane, in piedi fra due pallidi elfi non più alti di lei. Uno era maschio, l'altra femmina, ed entrambi erano straordinariamente belli, perfino secondo i canoni elfici. I loro volti solenni a forma di goccia avevano un'espressione saggia e innocente al tempo stesso, rendendo impossibile per Eragon giudicarne l'età. La loro pelle emanava un pallido chiarore argenteo, come se i due elfi fossero talmente pieni di energia da trasudarla dalla pelle. Quando Rhunön si fermò per consentire al corpo di Eragon un breve riposo, lui le chiese chi fossero gli elfi. Rhunön li guardò, permettendo a Eragon di vederli meglio, poi, senza smettere di cantare, col pensiero disse: Rhunön non perse altro tempo a parlare. Fece collocare a Eragon il cuneo di acciaioluce fra le due lastre ripiegate a V, e poi lo martellò finché le lastre non avvolsero quasi completamente il cuneo e i tre pezzi rimasero uniti per attrito. Poi saldò i frammenti insieme e mentre il metallo era ancora incandescente cominciò a trarne un primo abbozzo di spada. Il cuneo morbido costituì l'anima della spada, mentre le lastre più dure ne divennero i lati, i fili e la punta. Quando l'abbozzo fu lungo quasi quanto una spada finita, Rhunön rallentò il ritmo tornando al codolo e ricominciò a martellare lungo la lama, per definire gli angoli e le giuste proporzioni. Poi chiese a Saphira di scaldare la lama a segmenti di non più di sei o sette pollici alla volta: Rhunön tenne la lama davanti a una delle narici di Saphira, da cui la dragonessa doveva soffiare un unico getto di fuoco. Ogni volta che il fuoco veniva sprigionato, una piccola folla di ombre tremolanti si rifugiava ai margini del patio. Eragon osservava con stupore le proprie mani trasformare il blocco grezzo di metallo in un elegante strumento di guerra. A ogni colpo la forma della lama si faceva sempre più nitida, come se l'acciaioluce Quando ebbero finito, sull'incudine giaceva una lama lunga e nera che, sebbene non ancora rifinita e completa, irradiava già un senso di morte. Rhunön permise alle braccia stanche di Eragon di riposare mentre la spada si raffreddava all'aria, poi gli fece portare la lama in un angolo del laboratorio dove aveva sistemato sei diverse pietre da mola e, su di una piccola panca, un vasto assortimento di lime, raschietti e pietre abrasive. Fissò la lama fra due blocchi di legno e passò l'ora seguente a livellare i lati della spada con un coltello a due manici e a rifinire i contorni della lama con le lime. Com'era successo con il martello, ogni passaggio del coltello e ogni sfregamento della lima sembrava produrre un effetto doppio rispetto al normale: era come se gli attrezzi sapessero l'esatta quantità di metallo da eliminare e niente andasse sprecato. Quando ebbe finito di limare, Rhunön accese un fuoco di carbonella nella forgia e mentre aspettava che le fiamme acquistassero vigore preparò una poltiglia liquida di scura argilla a grana fine, cenere, polvere di pomice e linfa cristallizzata di ginepro. Spalmò l'intruglio sui fili e sulla punta, insistendo lungo la cresta centrale. Quanto più spesso era lo strato di soluzione d'argilla, tanto più lentamente il metallo si raffreddava durante la tempra e, di conseguenza, tanto più morbida risultava quella parte della spada. L'argilla si illuminò quando Rhunön la fece seccare con un rapido incantesimo. Seguendo gli ordini dell'elfa, Eragon si spostò alla forgia. Appoggiò la spada di piatto sul letto di carbonella ardente e, pompando il mantice con la mano libera, cominciò a tirarla piano piano verso di sé. Una volta che la punta della lama fu uscita dal fuoco, Rhunön la girò e ripeté i movimenti in sequenza. Continuò a rigirare la lama nella brace finché entrambi i fili della spada non divennero arancione e la cresta centrale di un bel rosso acceso. Poi, con un solo movimento fluido, Rhunön sollevò la spada dalla brace, fendette l'aria con la lama d'acciaio scintillante e la immerse nel trogolo d'acqua accanto alla forgia. Un'esplosione di vapore eruttò dalla superficie dell'acqua, che sibilò, sfrigolò e gorgogliò intorno alla lama. Dopo un minuto l'acqua si placò e Rhunön ritrasse la spada, che aveva assunto un color grigio perla. Rimettendola nel fuoco, portò l'intera lama alla stessa bassa temperatura di prima, in modo da ridurre la fragilità dei bordi, poi la temprò ancora una volta. Eragon si era aspettato che Rhunön gli lasciasse libero il corpo dopo che aveva forgiato, indurito e temprato la lama, ma con sua grande sorpresa l'elfa rimase nella sua mente continuando a controllare i suoi movimenti. Rhunön gli fece spegnere la forgia, poi lo riportò alla panca con le lime, i raschietti e le pietre abrasive. Lo fece sedere e, servendosi di pietre a grana sempre più fine, lucidò la lama. Dai ricordi dell'elfa, Eragon apprese che in genere impiegava più di una settimana a levigare una lama, ma grazie alla canzone che cantavano insieme, Rhunön attraverso di lui fu in grado di completare l'opera in sole quattro ore, durante le quali riuscì anche a dotare entrambi i lati della lama di una stretta scanalatura centrale. Via via che l'acciaioluce diventava più liscio, cominciò a rivelarsi la vera bellezza del metallo: in esso Eragon intravide una trama scintillante dove ciascuna riga segnava il confine fra due strati dell'acciaio vellutato. E lungo ciascun filo della spada compariva una tremolante fascia argentata, larga quanto un suo pollice, che dava l'impressione che i bordi ardessero di fiamme di ghiaccio. I muscoli del braccio destro di Eragon cedettero mentre Rhunön stava coprendo il codolo con un tratteggio decorativo, e la lima che stringeva gli scivolò e gli cadde dalle dita. Eragon si sorprese di quanto era stanco, perché si era concentrato sulla spada a tal punto da dimenticarsi del resto. Sconvolto dalla sua improvvisa assenza, Eragon vacillò sulla sedia e per poco non perse l'equilibrio prima di riconquistare il controllo sulle membra. «Ma non abbiamo finito!» protestò, voltandosi verso Rhunön. La notte gli parve innaturalmente silenziosa senza le note del loro lungo duetto. Rhunön si alzò dal posto dov'era rimasta seduta per tutto il tempo, a gambe incrociate, appoggiata al palo, e scosse il capo. «Non ho più bisogno di te, Ammazzaspettri. Vai a sognare fino all'alba.» «Ma...» «Sei stanco e anche con la mia magia corri il rischio di rovinare la spada se continui a lavorarci. Ora che la lama è pronta, posso occuparmi del resto senza infrangere il mio giuramento, perciò va' in casa mia. Troverai un letto al primo piano. Se hai fame, c'è del cibo nella dispensa.» Eragon esitò, riluttante ad andarsene, poi annuì, si alzò barcollando dalla panca e si avviò a passi strascicati nella polvere. Quando passò accanto a Saphira, le accarezzò un'ala e le augurò la buonanotte, troppo esausto per dire altro. In risposta, lei gli arruffò i capelli con un caldo soffio d'aria e gli disse: Eragon si fermò sulla soglia della casa di Rhunön e si volse verso il patio ombreggiato; Maud e i due bambini elfi erano ancora lì. Alzò una mano per salutarli e Maud gli sorrise, scoprendo i denti aguzzi. Eragon si sentì formicolare la nuca quando i bambini lo guardarono: i loro grandi occhi obliqui emanavano un lieve bagliore nel buio. Quando capì che non si sarebbero mossi, Eragon chinò il capo e si affrettò a entrare in casa, desideroso di sdraiarsi su un soffice materasso. UN VERO CAVALIERE Eragon si mise a sedere di scatto e insieme alle coperte si liberò dei sogni del suo sonno vigile. Aveva gambe e braccia ancora indolenzite per la fatica del giorno prima. S'infilò gli stivali, così eccitato da annaspare coi lacci, afferrò da terra il grembiule sudicio e scese a due a due gli scalini intagliati della casa a cupola di Rhunön. Fuori, il cielo era illuminato dalle prime luci dell'alba, anche se il patio era ancora immerso nell'ombra. Eragon scorse Rhunön e Saphira vicino alla forgia e le raggiunse di corsa, ravviandosi i capelli con le dita. Rhunön era in piedi, appoggiata al bordo della panca. Aveva borse scure sotto gli occhi e le rughe del volto più marcate. La spada giaceva di fronte a lei, nascosta da una tela bianca. «Ho fatto l'impossibile» disse, la voce rauca e incrinata. «Ho realizzato una spada quando avevo giurato che non l'avrei mai più fatto. C'è di più... l'ho fatta in meno di un giorno e con mani che non erano le mie. E malgrado questo, la spada non è né rozza né scadente. No! È la spada migliore che abbia mai forgiato. Avrei preferito usare meno magia durante il processo, ma questo è il mio unico rimorso, ed è ben poca cosa se paragonato alla perfezione del risultato. Ecco!» Afferrando un angolo della tela, Rhunön la sollevò, rivelando la spada. Eragon trasalì. Aveva pensato che nella manciata d'ore in cui l'aveva lasciata sola Rhunön avesse avuto il tempo di fabbricare soltanto un'elsa dalla semplice guardia crociata, e magari un nudo fodero di legno. Invece Eragon vide sulla panca una spada magnifica quanto Zar'roc, Naegling o Tàmerlein, e ai suoi occhi era ancora più bella. La lama era coperta da un lucido fodero dello stesso blu scuro delle squame del dorso di Saphira. Il colore era leggermente cangiante, come la luce screziata sul fondo di un limpido laghetto di foresta. Uno scampolo di acciaioluce brunito, a forma di foglia, ornava il puntale del fodero, mentre una ghiera decorata a viticci stilizzati ne circondava l'imboccatura. Anche la guardia crociata ricurva era fatta d'acciaioluce brunito, così come le quattro coste che sorreggevano il grande zaffiro del pomolo. L'impugnatura a una mano e mezza era di duro legno nero. Sopraffatto da un senso di timore reverenziale, Eragon protese una mano verso la spada, poi si fermò e scoccò un'occhiata a Rhunön. «Posso?» le chiese. L'elfa inclinò la testa. «Certo. È tua, Ammazzaspettri.» Eragon prese la spada dalla panca. Il fodero e il legno dell'elsa erano freddi. Per alcuni minuti ammirò i dettagli del fodero, della guardia e del pomolo. Poi strinse la mano sull'elsa e sguainò la spada. Anche la lama era blu, ma di una tonalità più chiara, come quello delle squame della gola di Saphira. Il colore era iridescente, come quello di Zar'roc: ogni volta che Eragon muoveva la spada, il colore cambiava e scintillava di uno dei tanti toni di blu delle squame di Saphira. Si vedeva la trama all'interno dell'acciaioluce e le pallide fasce lungo i fili della lama erano ancora visibili. Con una sola mano, Eragon tagliò l'aria con la spada, vibrando colpi da un lato e dall'altro, e rise nel sentirla leggera e veloce. Sembrava quasi viva. Poi l'afferrò con tutte e due le mani e fu contento di scoprire che stavano alla perfezione sull'elsa allungata. Provando un affondo, colpì un nemico immaginario, sicuro di avergli sferrato un colpo mortale. «Avanti» disse Rhunön, e gli indicò tre sbarre di ferro piantate nel terreno, proprio davanti alla fucina. «Provala su quelle.» Eragon si concentrò per un istante, poi fece un solo passo e, con un grido, menò un colpo di traverso che tagliò tutte e tre le sbarre. La lama emise una sola nota cristallina, che lentamente si spense. Quando Eragon esaminò il filo nel punto dove aveva colpito il ferro, vide che l'impatto non lo aveva nemmeno scalfito. «Sei soddisfatto, Cavaliere dei Draghi?» chiese Rhunön. «Più che soddisfatto, Rhunön-elda» rispose Eragon, e s'inchino davanti a lei. «Non so come ringraziarti per un simile dono.» «Mi ringrazierai uccidendo Galbatorix. Se esiste una spada destinata ad abbattere quel folle di un re, è senza dubbio questa.» «Farò del mio meglio, Rhunön-elda.» L'elfa annuì, compiaciuta. «Be', finalmente hai una spada tua, com'era giusto che fosse. Adesso sì che sei un «Già» disse Eragon e alzò la spada al cielo, ammirandola. «Ora sono un vero Cavaliere.» «Prima di andartene, però, c'è un'ultima cosa che devi fare» disse Rhunön. «Cosa?» L'elfa indicò la spada. «Devi darle un nome, perché io possa incidere il giusto glifo sulla lama e sul fodero.» Eragon si avvicinò a Saphira e disse: Lei abbassò la testa verso di lui e annusò la spada, poi disse: L'improvvisa sfilza di suggerimenti sorprese Eragon. Un basso ringhio risuonò nel petto di Saphira. Eragon trattenne un sorriso. Gli artigli della dragonessa affondarono nel terreno. Tornando subito serio, Eragon fece una smorfia e si stropicciò il mento, studiando il gioco di luci sulla lama splendente. Mentre fissava le profondità dell'acciaio, lo sguardo gli cadde sul punto di passaggio fra l'acciaio più morbido della cresta centrale e quello più duro dei fili, dove la forma somigliava a una fiamma, e rammentò la parola che Brom aveva usato per accendere la pipa, nel ricordo che Saphira gli aveva mostrato. Poi Eragon pensò a Yazuac, dove per la prima volta aveva usato la magia, e anche al duello con Durza, nel Farthen Dûr, e in quell'istante seppe senza ombra di dubbio di aver trovato il nome giusto per la sua spada. Si consultò con Saphira e quando lei fu d'accordo con la sua scelta sollevò l'arma col braccio teso e disse: «Ho deciso. Spada, ti chiamerò Brisingr!» E con un rumore simile al fruscio del vento, la lama prese fuoco: un involucro di fiamme blu zaffiro avvolse l'acciaio tagliente. Con un grido di sorpresa, Eragon lasciò cadere la spada e balzò all'indietro, temendo di scottarsi. La spada continuò a bruciare sul terreno; le fiamme traslucide incenerirono l'erba tutto attorno. Fu allora che Eragon si accorse che era lui ad alimentare quel fuoco innaturale con la sua energia. Si affrettò a recidere il flusso di magia e il fuoco svanì. Domandandosi come aveva fatto a evocare un incantesimo involontariamente, raccolse la spada e provò a toccare la lama con la punta di un dito. Non era più calda di prima. Accigliata, Rhunön si fece avanti e gli strappò la spada dalle mani, esaminandola dalla punta al pomolo. «Sei fortunato che l'abbia già protetta con un incantesimo contro il calore e gli urti, altrimenti avresti scalfito la guardia e distrutto la tempra della lama. Non far cadere di nuovo la spada, Ammazzaspettri, nemmeno se si dovesse trasformare in un serpente, altrimenti me la riprendo e al suo posto ti darò un martello ammaccato.» Eragon si scusò. Ammansita, Rhunön gli restituì la spada. «Le hai dato fuoco apposta?» gli chiese. «No» disse Eragon, incapace di spiegarsi che cosa fosse accaduto. «Dillo di nuovo» gli ordinò Rhunön. «Cosa?» «Il nome, il nome, dillo di nuovo.» Tenendo la spada il più lontano possibile dal corpo, Eragon esclamò: «Brisingr!» Una colonna di fiamme guizzanti avvolse la lama, investendo il suo volto col calore. Questa volta Eragon avvertì la leggera flessione nella forza causata dell'incantesimo. Dopo un attimo spense il fuoco senza fumo. Ancora una volta esclamò: «Brisingr!» E ancora una volta la lama scintillò di spettrali lingue di fuoco blu. «Ma io non volevo evocare un incantesimo!» protestò Eragon. «Ho soltanto detto «Posso?» chiese Rhunön, tendendo la mano verso Eragon. Lui le passò la spada e anche lei disse «Brisingr.» Un brivido parve correre lungo la lama, ma a parte questo, restò inanimata. Pensierosa, Rhunön restituì la spada a Eragon e disse: «Mi vengono in mente soltanto due spiegazioni per questo prodigio. La prima è che dal momento che sei stato coinvolto nella sua creazione, hai impresso nella lama parte della tua personalità, e perciò la spada entra in sintonia con i tuoi desideri. L'altra è che forse hai scoperto il vero nome della tua spada. Forse sono successe entrambe le cose. In ogni caso hai scelto bene, Ammazzaspettri. Brisingr, sì, mi piace. È un bel nome per una spada.» Poi Rhunön posò la mano al centro della lama di Brisingr e mormorò un incantesimo impercettibile. Il glifo elfico per Eragon rivolse un nuovo inchino all'elfa, e sia lui che Saphira le espressero la loro gratitudine. Un sorriso illuminò il vecchio volto di Rhunön, che toccò entrambi sulla fronte con il pollice calloso. «Sono felice di aver potuto aiutare ancora una volta i Cavalieri. Tornate dai Varden. Va', Squamediluce. Va', Ammazzaspettri. Che i vostri nemici fuggano in preda al terrore alla vista della spada che adesso possiedi.» I due si congedarono, e si allontanarono dalla casa di Rhunön. Eragon stringeva Brisingr fra le braccia come un neonato. ♦ ♦ ♦ SCHINIERI E BRACCIALI Una sola candela illuminava l'interno della tenda di lana grigia, misero sostituto della luce del sole. Roran era in piedi con le braccia tese mentre Katrina gli allacciava i lati della giubba imbottita che aveva fatto per lui. Quando ebbe finito, Katrina strattonò l'orlo, lisciando le grinze, e disse: «Ecco fatto. Troppo stretto?» Lui scosse la testa. «No.» Katrina prese gli schinieri dalla branda dove dormivano insieme e gli si inginocchiò davanti, nella luce tremula della candela. Roran la osservò mentre glieli allacciava. Lei gli circondò la curva del polpaccio con la mano mentre fissava il secondo, la carne calda contro quella di lui attraverso il tessuto dei pantaloni. Katrina si rialzò, tornò alla branda e prese i bracciali. Roran tese le braccia e la fissò negli occhi proprio mentre lei cercava i suoi. Con lenti movimenti studiati, gli assicurò i bracciali sugli avambracci, poi lasciò scorrere le dita dall'incavo dei gomiti fino ai polsi, e lui le afferrò le mani. Lei sorrise e si liberò della sua stretta gentile. Ancora una volta tornò alla branda per prendere la cotta di maglia. Si alzò in punta di piedi e sollevò la cotta di maglia sopra la testa di lui, tenendola alta finché Roran non ebbe infilato le braccia nelle maniche. La maglia tintinnò come ghiaccio quando lei la lasciò srotolare dalle spalle fino alle ginocchia. Katrina gli sistemò in testa la calotta di cuoio, facendogli un nodo sotto il mento per tenerla ferma. Gli prese il viso fra le mani per un attimo, poi lo baciò sulle labbra e andò a prendere l'elmo con la visiera, calcandolo con attenzione sulla calotta protettiva. Roran le cinse la vita ingrossata con il braccio, fermandola prima che tornasse alla branda. «Ascoltami» disse. «Andrà tutto bene.» Cercò di infondere tutto il suo amore nel tono della voce e nella forza dello sguardo. «Non startene qui tutta sola. Promettimelo. Va' da Elain; potrebbe avere bisogno del tuo aiuto. Sta male, e il suo bambino è in ritardo.» Katrina levò il mento, gli occhi lucidi di lacrime che, Roran sapeva, non avrebbe versato finché lui non se ne fosse andato. «Devi marciare in prima linea?» mormorò lei. «Qualcuno deve; tanto vale che sia io. Chi manderesti al mio posto?» «Chiunque... chiunque.» Katrina abbassò gli occhi e rimase in silenzio. Poi estrasse un fazzoletto rosso dal corpetto e disse: «Tieni, porta questo mio dono perché tutto il mondo sappia quanto sono fiera di te.» Gli annodò il fazzoletto alla cintura della spada. Roran la baciò due volte e la lasciò andare, e lei gli portò lo scudo e la lancia. Lui li prese e la baciò una terza volta, poi infilò il braccio nella cinghia dello scudo. «Se mi succedesse qualcosa...» Katrina gli mise un dito sulle labbra. «Ssst. Non dirlo, porta male.» «D'accordo.» La abbracciò un'ultima volta. «Abbi cura di te.» «Anche tu.» Roran odiò separarsi ancora una volta da lei. Sollevò lo scudo e uscì dalla tenda, emergendo nella pallida luce dell'alba. Uomini, nani e Urgali sciamavano nell'accampamento correndo verso il grande spiazzo a ovest dove si andavano radunando i Varden. Roran si riempì i polmoni con l'aria fresca del mattino e s'incamminò; sapeva che il suo gruppo di guerrieri lo stava già aspettando. Arrivato allo spiazzo, cercò la divisione di Jörmundur, e dopo essersi presentato all'ufficiale, si avviò alla testa del gruppo, dove scelse di mettersi vicino a Yarbog. L'Urgali gli scoccò un'occhiata e grugnì: «Un buon giorno per combattere.» «Già, un buon giorno.» Un corno risuonò alla testa dei Varden non appena il sole spuntò all'orizzonte. Roran sollevò la lancia e cominciò a correre, come tutti gli altri intorno a lui, urlando con quanto fiato aveva in gola, mentre nugoli di frecce e massi scagliati dalle catapulte sibilavano sulle loro teste, volando da entrambe le direzioni. Davanti a lui si profilò la muraglia di pietra alta ottanta piedi. L'assedio di Feinster era cominciato. ♦ ♦ ♦ COMMIATO Una volta lasciata la dimora di Rhunön, Eragon e Saphira tornarono in volo alla casa sull'albero. Eragon radunò le sue cose, sellò Saphira e le montò in groppa. Saphira spiccò un salto dalla casa sull'albero. Volò verso ovest finché il numero di abitazioni cominciò a diminuire, poi discese adagio per un dolce atterraggio su uno stretto sentiero coperto di muschio. Dopo aver chiesto e ottenuto indicazioni da un elfo che sedeva fra i rami di un albero vicino, Eragon e Saphira proseguirono attraverso la foresta, finché arrivarono a una piccola capanna con una sola stanza, ricavata dal tronco di un abete inclinato ad angolo acuto, come piegato da un vento incessante. A sinistra della casa c'era un morbido terrapieno, più alto di Eragon di diversi piedi. Un rivolo d'acqua scorreva dal bordo del terrapieno per gettarsi in un limpido laghetto e serpeggiare di nuovo negli ombreggiati recessi della foresta. Il laghetto era orlato da ciuffi di orchidee bianche. Tra i fiori slanciati sporgeva dal terreno una radice nodosa. E sulla radice, seduto a gambe incrociate, c'era Sloan. Eragon trattenne il fiato perché non voleva tradire la propria presenza. Secondo lo stile degli elfi, il macellaio indossava abiti marrone e arancio. Una sottile striscia di tela nera legata intorno alla testa gli nascondeva le orbite vuote. In grembo teneva un pezzo di legno stagionato, che stava intagliando con un piccolo coltello ricurvo. Aveva il volto solcato da molte più rughe di quante Eragon ricordasse, e mani e braccia piene di cicatrici recenti, che risaltavano livide sulla pelle. Mentre Eragon gli si avvicinava, Sloan smise di intagliare e fece un brusco cenno con la testa. «Vattene» gracchiò. Non sapendo che cosa rispondere, Eragon si fermò e restò in silenzio. Con i muscoli della mascella che gli tremavano, Sloan rimosse un altro paio di riccioli dal pezzo di legno, poi batté la punta del coltello contro la radice e disse: «Maledizione! Non potete lasciarmi solo con la mia miseria per qualche ora? Non voglio più ascoltare quei vostri bardi o menestrelli. E potete chiedermelo all'infinito, ma non cambierò idea. E adesso via! Via!» Eragon provò un misto di pietà e di rabbia, e un senso di smarrimento nel vedere un uomo con cui era cresciuto, e che così spesso aveva temuto e disprezzato, ridotto in un simile stato. «Ti trovi bene?» gli chiese nell'antica lingua, adottando un tono leggero e cadenzato. Sloan emise un grugnito di disgusto. «Sai che non capisco la tua lingua e non voglio nemmeno impararla. Le parole mi risuonano nelle orecchie più di quanto non dovrebbero. Se non parli nella lingua della mia razza, tanto vale che non mi rivolga la parola.» Malgrado la sua richiesta, Eragon non ripeté la domanda nella loro lingua. E neppure se ne andò. Imprecando fra i denti, Sloan ricominciò a intagliare. Ogni due passate di lama, accarezzava la superficie del legno col pollice destro per controllare i progressi del proprio lavoro. Dopo qualche minuto, in tono più gentile, disse: «Avevate ragione; fare qualcosa con le mani mi calma la mente. A volte... a volte riesco quasi a dimenticare quello che ho perduto, ma i ricordi tornano sempre e io mi sento soffocare... Sono contento che mi abbiate affilato il coltello. I coltelli di un uomo dovrebbero sempre essere affilati.» Eragon lo guardò ancora per un minuto, poi si voltò e tornò dove Saphira stava aspettando. Mentre si issava in sella disse: Saphira replicò: Da una radura vicino alla casa di Sloan, Saphira si slanciò in aria, librandosi sugli alberi per puntare a nord, verso la rupe di Tel'naeír. Batteva le ali in fretta, con tutta la forza che aveva. Il sole del mattino era ormai spuntato all'orizzonte, e i raggi di luce che lambivano le cime degli alberi creavano lunghe ombre scure che puntavano a ovest, come vessilli purpurei. Saphira planò verso la radura vicina alla casa di legno di pino, dove Glaedr e Oromis erano in piedi ad aspettarli. Eragon fu stupito nel vedere che Glaedr aveva una sella nascosta fra due punte acuminate del dorso e che Oromis indossava pesanti abiti da viaggio, blu e verdi, su cui portava un'armatura dalle scaglie dorate. Gli avambracci erano protetti da lunghi bracciali e a tracolla portava un alto scudo romboidale. Teneva un antico elmo sotto il braccio sinistro e dalla cintola pendeva la sua spada color bronzo, Naegling. Levando con le ali una folata di vento, Saphira atterrò sul prato di trifoglio e schioccò la lingua assaggiando l'aria mentre Eragon scivolava a terra. «Voleremo con voi fino ai margini della Du Weldenvarden, ma lì le nostre strade si separeranno» dichiarò Oromis. Deluso, Eragon chiese: «E poi tornerete a Ellesméra?» Oromis scosse il capo. «No, Eragon. Poi continueremo fino alla città di Gil'ead.» Saphira sibilò, sorpresa quanto Eragon. «Perché Gil'ead?» chiese lui. Oromis chiuse gli occhi per un momento, con un'espressione triste ed enigmatica. «Il tempo di nascondersi è finito, Saphira. Io e Glaedr vi abbiamo insegnato tutto quello che potevamo, nel breve periodo in cui avete avuto la possibilità di studiare sotto la nostra guida. È stata ben poca cosa se paragonata all'istruzione che avreste ricevuto ai tempi antichi, ma visto il precipitare degli eventi siamo già stati fortunati a riuscire a insegnarvi quanto sapete. Io e Glaedr siamo soddisfatti: ora avete tutte le informazioni che possono aiutarvi a sconfiggere Galbatorix. «Perciò, poiché è improbabile che torniate per continuare il vostro addestramento prima della conclusione di questa guerra, ed è ancora più improbabile che esistano un altro drago e un altro Cavaliere da istruire mentre Galbatorix calpesta ancora questa terra, abbiamo deciso che non ci sono altre ragioni per restare confinati nella Du Weldenvarden. È più importante aiutare Islanzadi e i Varden a sconfiggere Galbatorix che restare qui nell'ozio, aspettando che un altro Cavaliere e un altro drago ci vengano a cercare. «Quando Galbatorix saprà che siamo ancora vivi, sarà meno sicuro di sé, e si chiederà se altri draghi e altri Cavalieri sono sopravvissuti al suo tentativo di sterminio. Sapere della nostra esistenza rinsalderà lo spirito dei nani e dei Varden, e annullerà qualsiasi effetto negativo che la comparsa di Murtagh e Castigo sulle Pianure Ardenti può aver avuto sulla risolutezza dei guerrieri. Non solo: altri sudditi dell'Impero potrebbero decidere di unirsi ai soldati di Nasuada.» Eragon scoccò un'occhiata a Naegling e disse: «Certo. Però, maestro, non avrete intenzione di scendere in campo, vero?» «E perché no?» ribatté Oromis, inclinando la testa di lato. Temendo di offenderli, Eragon esitò. Infine disse: «Perdonami, maestro, ma come puoi combattere se ti manca l'energia per evocare incantesimi di un certo peso? E gli attacchi che talvolta ti prendono? E se accadesse nel mezzo di una battaglia? Potrebbe essere fatale.» Oromis rispose: «Come ormai dovresti sapere, la semplice forza di rado decreta il vincitore quando due maghi si affrontano. E in ogni caso ho tutta la forza che mi serve qui, nella gemma della mia spada.» E posò la mano sul diamante giallo che costituiva il pomolo di Naegling. «Per oltre cento anni io e Glaedr abbiamo accumulato in questo diamante ogni briciolo risparmiato della nostra forza, e molti altri hanno aggiunto la loro. Due volte la settimana parecchi elfi di Ellesméra vengono a farmi visita e trasferiscono nella gemma tutta la forza vitale di cui possono fare a meno senza uccidersi. La quantità di energia contenuta in questa pietra è formidabile, Eragon: con essa potrei spostare un'intera montagna. Sarà facile quindi difendere Glaedr e me stesso da spade, lance, frecce o persino da un masso lanciato da una catapulta. Quanto ai miei attacchi, ho aggiunto alcuni incantesimi di protezione alla pietra di Naegling che mi difenderanno nel caso che venissi colpito da convulsioni mentre sono in battaglia. Perciò vedi, Eragon, io e Glaedr siamo tutt'altro che indifesi.» Eragon chinò umilmente la testa e mormorò: «Sì, maestro.» L'espressione di Oromis si addolcì. «Apprezzo la tua preoccupazione, Eragon, e fai bene a essere preoccupato, perché la guerra è una cosa pericolosa e persino il guerriero più esperto potrebbe trovare la morte ad attenderlo nella frenesia della battaglia. Tuttavia la nostra è una giusta causa. Se io e Glaedr andremo verso la morte, allora ci andremo volentieri, perché con il nostro sacrificio potremo aiutare Alagaësia a liberarsi dall'incubo della tirannia di Galbatorix.» «Ma se voi morite» disse Eragon, sentendosi all'improvviso molto piccolo «e noi riuscissimo comunque a uccidere Galbatorix e a liberare l'ultimo uovo di drago, chi addestrerà quel drago e il suo Cavaliere?» Eragon fu sorpreso quando Oromis tese la mano e gli afferrò la spalla. «Se ciò dovesse accadere» disse l'elfo con espressione solenne «allora sarà compito tuo, Eragon, e tuo, Saphira, istruire il nuovo Cavaliere e il nuovo drago secondo le regole del nostro ordine. Su, non fare quella faccia, Eragon. Non saresti solo in questa missione. Sono sicuro che Islanzadi e Nasuada ti circonderanno di saggi studiosi di entrambe le razze per aiutarti.» Eragon si sentì pervadere da una strana inquietudine. Aveva spesso desiderato di essere trattato come un adulto, e tuttavia non si sentiva pronto a prendere il posto di Oromis. Gli sembrava sbagliato persino contemplare l'ipotesi. Per la prima volta capì che alla fine anche lui sarebbe diventato parte della vecchia generazione e che quando questo fosse avvenuto, non avrebbe avuto nessun mentore a guidarlo. Gli si serrò la gola. Lasciando scivolare la mano dalla sua spalla, Oromis indicò Brisingr, che Eragon stringeva fra le braccia e disse: «L'intera foresta ha tremato quando hai svegliato l'albero di Menoa, Saphira, e metà degli elfi di Ellesméra ci hanno cercati con preghiere e suppliche perché accorressimo in suo aiuto. Poi siamo dovuti intervenire a vostro favore con Gilderien il Saggio per impedirgli di punirvi per aver usato metodi così violenti.» Oromis annuì. «Capisco, e non ti sto criticando, Saphira. Volevo solo che sapeste che ogni azione ha le sue conseguenze.» A un suo cenno, Eragon gli porse la spada appena forgiata e gli resse l'elmo mentre Oromis la studiava. «Rhunön ha superato se stessa!» esclamò Oromis. «Poche armi, spade o quant'altro, possono competere con questa. Sei fortunato a possedere una lama così eccezionale, Eragon.» Oromis inarcò appena un sopracciglio affilato mentre leggeva il glifo sulla lama. «Brisingr... un gran bel nome per la spada di un Cavaliere dei Draghi.» «Già» disse Eragon, «ma per qualche ragione ogni volta che pronuncio il suo nome la lama prende...» Esitò, e invece di dire Il sopracciglio di Oromis si sollevò ancora di più. «Davvero? Rhunön ti ha dato una spiegazione per questo straordinario fenomeno?» Mentre parlava, gli restituì Brisingr in cambio dell'elmo. «Sì, maestro» disse Eragon, e gli riferì le due teorie di Rhunön. Quando ebbe finito, Oromis mormorò: «Mi domando...» E il suo sguardo scivolò oltre Eragon, verso l'orizzonte. Poi scosse il capo e tornò a guardare Eragon e Saphira con i suoi intensi occhi grigi. La sua espressione divenne ancora più solenne di prima. «Temo di aver lasciato parlare il mio orgoglio. Io e Glaedr non siamo deboli, ma come hai giustamente sottolineato tu, Eragon, non siamo nemmeno in perfette condizioni. Glaedr ha la sua ferita, e io ho la mia... Non per niente mi chiamano lo Storpio Che è Sano. «I nostri limiti non sarebbero un problema se i nostri nemici fossero semplici mortali. Anche nelle nostre attuali condizioni, potremmo facilmente uccidere un centinaio di umani qualsiasi... un centinaio, un migliaio, poco importa. Ma il nostro nemico è l'avversario più pericoloso che noi o questa terra abbiamo mai affrontato. Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, io e Glaedr siamo in svantaggio, ed è possibile che non sopravviveremo alle battaglie imminenti. Le nostre vite sono state lunghe e piene, e le tribolazioni dei secoli ci pesano, ma voi due siete giovani e freschi e pieni di speranza, e credo che le vostre prospettive di sconfiggere Galbatorix siano superiori a quelle di chiunque altro.» Oromis scoccò un'occhiata a Glaedr e il volto dell'elfo si adombrò di apprensione. «Per questo motivo, per contribuire alla vostra sopravvivenza, e come precauzione contro la nostra possibile morte, Glaedr, con la mia benedizione, ha deciso...» Lo stupore di Saphira fu enorme quanto quello di Eragon. Tutti e due guardarono a bocca aperta il maestoso drago dorato che torreggiava su di loro. Saphira disse: «Ma se Oromis dovesse morire» disse Eragon in tono sommesso «vorresti davvero continuare a vivere senza di lui come un Eldunarí?» Glaedr volse la testa e guardò Eragon con uno dei suoi immensi occhi. Cambiando posizione, Oromis disse: «Non posso fingere di essere lieto di questa decisione, ma lo scopo della vita non è fare ciò che vogliamo, ma ciò che va fatto. Ed è questo che il destino vuole da noi.» Glaedr ritrasse la testa. I muscoli sul suo addome ondeggiarono e si contrassero diverse volte, e il collo cominciò a sussultare come se avesse qualcosa che gli ostruiva la gola. Allargando le zampe, il drago dorato tese il collo in avanti; ogni nervo e tendine del corpo sporgevano in rilievo dalla corazza di squame luccicanti. La sua gola continuò a flettersi e allentarsi, sempre più veloce, finché Glaedr abbassò la testa davanti a Eragon e spalancò le fauci, sprigionando un'acre zaffata di alito caldo. Eragon sgranò gli occhi e cercò di non vomitare. Mentre fissava le profondità della bocca del drago, vide la sua gola contrarsi un'ultima volta, e poi un bagliore di luce dorata comparve fra le pieghe di carne umida e rossa. Un secondo dopo, un oggetto rotondo, del diametro di circa un piede, scivolò lungo la lingua cremisi di Glaedr e gli uscì dalla bocca così in fretta che Eragon per poco non mancò la presa. Mentre le sue mani si stringevano intorno all'Eldunarí viscido di saliva, Eragon boccheggiò, barcollando all'indietro, perché all'improvviso fu travolto da ogni pensiero e da ogni emozione di Glaedr, e da tutte le sensazioni del suo corpo. Il peso di quelle informazioni era schiacciante, come anche l'intimità del contatto. Eragon se lo era aspettato, eppure rimase ugualmente sconvolto nel comprendere che fra le mani teneva l'intero essere di Glaedr. Il drago tremò, scuotendo la testa come se fosse stato punto da qualcosa, e si affrettò a schermare la mente, anche se Eragon poteva ancora percepire il tremolio dei suoi pensieri e il colore delle sue emozioni. L'Eldunarí era come una gigantesca pepita d'oro. La superficie era calda e ricoperta di sfaccettature, tutte di dimensioni e angolazioni diverse. Il centro dell'Eldunarí emetteva un soffuso bagliore, simile a quello di una lanterna su cui sia stato posato un velo, e la luce diffusa pulsava con un lento battito regolare. A prima vista, la luce sembrava uniforme, ma più Eragon la fissava, più dettagli vi scorgeva: piccoli vortici e correnti che fluttuavano e si spostavano apparentemente a caso, punti più scuri quasi immobili, scariche di lampi luminosi non più grandi della capocchia di uno spillo, che brillavano un solo istante prima di essere inghiottiti dalla luce circostante. Era vivo. «Tieni» disse Oromis, porgendogli un robusto sacco di tela. Con grande sollievo di Eragon, l'intimo legame con Glaedr svanì non appena ebbe infilato l'Eldunarí nel sacco e le sue mani non furono più a contatto della pietra. Ancora un po' scosso, si strinse al petto il sacco con l'Eldunarí, intimidito dalla consapevolezza di avere fra le mani l'essenza stessa di Glaedr, e spaventato da quello che sarebbe potuto succedere se avesse fatto cadere il cuore dei cuori. «Grazie, maestro» riuscì a dire in un soffio, chinando il capo verso Glaedr. «No!» tuonò Oromis. «Non a costo della vostra vita! È proprio quello che vogliamo evitare. Prendetevi cura del cuore di Glaedr, ma nessuno di voi due dovrà sacrificarsi per proteggere lui o me o chiunque altro. Dovete restare vivi a tutti i costi, altrimenti le nostre speranze saranno spazzate vie come foglie al vento, e tutto sarà tenebra.» «Sì, maestro» risposero Eragon e Saphira in coro, lui con la voce, lei col pensiero. «E a Blödhgarm e agli altri elfi che Islanzadi ha mandato a proteggermi?» aggiunse Eragon. «Ho permesso loro di entrare nella mia mente quando io e Saphira abbiamo combattuto contro Murtagh l'ultima volta. Noteranno la tua presenza, Glaedr, se ci aiuti nel mezzo di una battaglia.» Oromis si calcò l'elmo in testa. «Arya è la figlia di Islanzadi, perciò immagino che sia giusto che sappia. Tuttavia, come nel caso di Nasuada, non dirglielo se non è assolutamente necessario. Un segreto condiviso non è più un segreto. Se ci riuscite, non pensateci nemmeno, neppure al concetto stesso di Eldunarí, affinché nessuno possa carpire le informazioni dalla vostra mente.» «Sì, maestro.» «E ora mettiamoci in viaggio» disse Oromis, infilandosi un paio di grossi guanti. «Ho saputo da Islanzadi che Nasuada ha cinto d'assedio la città di Feinster e che i Varden hanno un gran bisogno di voi.» Prendendo una piccola rincorsa, Oromis balzò sull'unica zampa davanti di Glaedr e s'inerpicò sul suo alto dorso dentellato. Una volta in sella, cominciò ad allacciare le cinghie intorno alle gambe. «Mentre siamo in volo» disse rivolto a Eragon «possiamo ripassare la lista dei veri nomi che hai imparato durante la tua ultima visita.» Eragon si avvicinò a Saphira e con cautela si arrampicò sul suo dorso; poi avvolse il cuore di Glaedr in una coperta e mise il fagotto in una bisaccia. Infine, come Oromis, assicurò le gambe alla sella. Alle sue spalle sentiva il costante palpito di energia emanato dall'Eldunarí. Glaedr avanzò fino al bordo della rupe di Tel'Naeír e dispiegò le ali poderose. La terra tremò quando il drago dorato balzò verso il cielo striato di nuvole, e l'aria fu squarciata da un rombo possente quando inclinò le ali verso il basso per librarsi sopra l'oceano di alberi. Eragon si afferrò saldamente alla punta cervicale che aveva davanti quando Saphira imitò Glaedr, lanciandosi nel vuoto e precipitando di parecchie centinaia di piedi prima di risalire e mettersi al fianco del drago dorato. Glaedr la superò e prese la guida, puntando a sud-ovest. Battendo le ali a ritmo diverso, i due draghi sfrecciarono sull'immensa foresta che si estendeva a perdita d'occhio. Saphira inarcò il collo ed emise un sonoro ruggito. Davanti a lei, Glaedr rispose allo stesso modo. Le loro grida riecheggiarono feroci, spaventando gli uccelli del cielo e le bestie della terra. IN VOLO Da Ellesméra, Saphira e Glaedr sorvolarono senza soste l'antica foresta degli elfi. A volte la folta massa di alti pini scuri si apriva ed Eragon scorgeva un lago o un fiume sinuoso. Spesso sulle sponde c'erano gruppi di piccoli caprioli che smettevano di abbeverarsi per alzare la testa e osservare i draghi in volo. Ma Eragon prestò poca attenzione al panorama, troppo impegnato a recitare nella mente ogni parola dell'antica lingua che aveva imparato. Se ne dimenticava qualcuna o faceva un errore di pronuncia, Oromis lo costringeva a ripeterla. Arrivarono ai margini della Du Weldenvarden nel tardo pomeriggio del primo giorno. Lì, sul confine ombreggiato fra gli alberi e le praterie, Glaedr e Saphira volarono in cerchio e Glaedr disse: E dal dorso di Glaedr, Oromis gridò: «Che i venti vi siano favorevoli, Eragon, Saphira! Quando ci incontreremo di nuovo, che sia davanti ai cancelli di Urû'baen.» «Che i venti siano favorevoli anche a voi!» gridò Eragon di rimando. Glaedr virò e puntò verso ovest, costeggiando la foresta - una rotta che lo avrebbe portato all'estremità settentrionale del Lago Isenstar, e poi dal lago fino a Gil'ead - mentre Saphira continuò nella stessa direzione a sudovest. Volò tutta la notte, atterrando solo per bere, mentre Eragon si sgranchiva le gambe e liberava il corpo. Questa volta, a differenza dell'andata, non incontrarono venti contrari: l'aria rimase limpida e calma, come se perfino la natura fosse ansiosa di farli tornare dai Varden. Quando il sole sorse sul secondo giorno, li trovò già nel cuore del deserto di Hadarac, diretti a sud, così da evitare i confini orientali dell'Impero. E quando il buio avvolse di nuovo la terra e il cielo, e li strinse nel suo freddo abbraccio, Saphira ed Eragon avevano superato le distese sabbiose ed erano tornati a volare sopra i campi verdeggianti dell'Impero, con l'intento di passare fra Urû'baen e il Lago Tüdosten per raggiungere la città di Feinster. Dopo aver viaggiato ininterrottamente per due giorni e due notti, senza mai dormire, Saphira non fu più in grado di continuare. Atterrata in un boschetto di betulle bianche sulle sponde di un laghetto, si raggomitolò all'ombra e dormì per qualche ora, mentre Eragon restava di guardia e si esercitava a maneggiare Brisingr. Da quando si erano separati da Oromis e Glaedr, Eragon, pensando a ciò che li attendeva a Feinster, provava un senso di perenne ansia. Sapeva di essere molto più protetto dalla morte e dalle ferite rispetto agli altri guerrieri, ma quando ripensava alle Pianure Ardenti e alla battaglia del Farthen Dûr, quando ricordava la vista del sangue che sprizzava dalle membra tagliate e le urla degli uomini feriti e la sferzata incandescente di una spada che attraversava la sua stessa carne, allora gli si torcevano le budella e i muscoli gli tremavano di energia repressa, e non sapeva se desiderava combattere ogni soldato sulla faccia della terra o fuggire nella direzione opposta per andare a nascondersi nel buco più nero e profondo. L'ansia peggiorò quando ripresero il viaggio e scorse schiere di uomini armati che marciavano nei campi. Qui e là, colonne di pallido fumo salivano dai villaggi saccheggiati. Lo spettacolo di tanta devastazione gratuita lo nauseò; distolse lo sguardo e strinse la punta cervicale avanti a sé, socchiudendo gli occhi finché l'unica cosa che vide, attraverso la nebbia scura delle ciglia, furono i bianchi calli sulle sue nocche. Pentito di averla distratta, Eragon le disse: Eragon tirò su con il naso, asciugandoselo nella manica della tunica. Il terzo giorno di viaggio scivolò via con una lentezza esasperante. Gli unici rumori che Eragon sentiva erano il battito delle ali di Saphira, il sibilo regolare del suo respiro ansante e il monotono ruggito dell'aria nelle orecchie. Gli dolevano le gambe e la schiena a furia di stare tanto tempo in sella, ma il suo disagio era minimo in confronto a quello di Saphira: i muscoli le bruciavano di un dolore quasi insopportabile. Eppure la dragonessa non si lamentava e rifiutò l'offerta di Eragon di alleviare la sua sofferenza con un incantesimo, dicendo: Qualche ora dopo il crepuscolo, Saphira sussultò e perse quota di colpo, con una caduta vertiginosa di parecchi piedi. Eragon si rizzò in sella allarmato e volse lo sguardo in cerca della possibile causa dell'inconveniente, ma in basso vide soltanto oscurità, in alto le stelle che brillavano. E così fu. Quella stessa notte, quando ormai mancavano un paio d'ore all'alba, un opaco rossore illuminò l'orizzonte a ovest. Non appena lo vide, Eragon si volse e prese dalle bisacce l'armatura. Indossò la cotta di maglia, il copricapo di cuoio, l'elmo, i bracciali e gli schinieri. Avrebbe voluto avere con sé anche lo scudo, ma lo aveva lasciato dai Varden prima di correre al Monte Thardûr con Nar Garzhwog. Poi rovistò nelle borse finché non trovò la fiaschetta d'argento di faelnirv che gli aveva dato Oromis. Il contenitore di metallo era freddo. Eragon bevve un piccolo sorso del liquore incantato, che sapeva di bacche di sambuco, idromele e sidro. Gli bruciò la gola e un forte calore gli invase il volto. Nel giro di qualche istante, le virtù tonificanti del faelnirv fecero effetto, e la stanchezza cominciò a svanire. Eragon agitò la fiaschetta e notò preoccupato che un terzo del prezioso liquore se n'era già andato, anche se ne aveva bevuto soltanto un altro sorso in precedenza. Mentre si avvicinavano, il bagliore all'orizzonte si frammentò in migliaia di fonti luminose: piccole lanterne, fuochi da cucina, grandi falò, grosse chiazze di pece ardente che spandevano un acre fumo nero nel cielo notturno. Nella luce rossastra dei fuochi, Eragon vide un oceano di punte di lancia ed elmi che scintillavano ai piedi della grande città fortificata. Le mura brulicavano di figure che scagliavano frecce o rovesciavano enormi calderoni d'olio bollente fra le merlature, tagliavano le funi dei rampini gettati oltre i parapetti e respingevano le sgangherate scale di legno che gli assedianti continuavano ad appoggiare ai bastioni. Gemiti e urla si levavano dal terreno, insieme al rimbombo dell'ariete che cozzava contro le porte di ferro della città. Gli ultimi residui di stanchezza abbandonarono Eragon mentre scrutava il campo di battaglia, studiando la disposizione degli uomini, delle costruzioni e delle varie macchine belliche. A ridosso delle mura di Feinster c'erano centinaia di baracche decrepite, ammassate l'una sull'altra, con appena lo spazio per far passare un cavallo: erano le abitazioni dei poveri che non potevano permettersi una casa nel corpo principale della città. Le baracche sembravano abbandonate e molte erano state abbattute perché i Varden potessero attaccare in massa le mura. Le più fatiscenti stavano bruciando e sotto lo sguardo di Eragon le fiamme continuavano a diffondersi, propagandosi da un tetto di paglia all'altro. A est delle baracche, il terreno era solcato da curve linee nere, le trincee che i Varden avevano scavato per proteggere l'accampamento. Dall'altra parte della città, Eragon scorse i moli e le banchine, simili a quelle che aveva visto a Teirm, e poi lo scuro e inquieto oceano che si estendeva a perdita d'occhio. Eragon fu percorso da un brivido di eccitazione selvaggia e sentì Saphira fremere sotto di lui nello stesso momento. Strinse l'elsa di Brisingr. Saphira rispose con un ruggito così potente da fargli battere i denti e con una densa fiammata azzurra che illuminò il cielo. Sotto di loro, i Varden che attaccavano le mura e i soldati che le difendevano si fermarono, e per un momento il silenzio avvolse il campo di battaglia. Poi i Varden cominciarono a esultare e a battere le lance e le spade sugli scudi, mentre sonori gemiti di disperazione si levavano dagli abitanti della città. Con gli occhi ancora accecati dal bagliore azzurro, il Cavaliere disse: Saphira s'interruppe quando una mente estranea toccò le loro. Dopo un istante di panico, Eragon riconobbe la coscienza di Trianna. BRISINGR! Saphira fece aderire le ali al corpo e si tuffò in picchiata verso gli scuri edifici della città. Eragon chinò il capo per non farsi investire dal vento. Il mondo vorticò intorno a loro quando Saphira eseguì un'imbardata a destra per mettere in difficoltà gli arcieri. Quando la dragonessa interruppe la picchiata per risalire all'improvviso, Eragon si sentì come schiacciato da un peso enorme, ma la sensazione scomparve non appena Saphira riprese l'assetto orizzontale. Come strani falchi gracchianti, le frecce sibilavano intorno a loro, alcune mancando il bersaglio, altre neutralizzate dagli incantesimi di protezione di Eragon. Passando a volo radente sulle mura di cinta, Saphira ruggì di nuovo e a colpi di artiglio e di coda scaraventò giù dai parapetti gruppi di uomini urlanti che precipitarono sul duro terreno dopo un volo di ottanta piedi. All'estremità del muro meridionale si ergeva un'alta torre quadrata, difesa da quattro baliste che scagliavano giavellotti lunghi dodici piedi sui Varden ammassati davanti ai cancelli della città. Ai piedi della torre Eragon scorse due guerrieri che, la schiena al muro, cercavano disperatamente di respingere le lame insidiose di un centinaio di soldati. Malgrado il buio e l'altezza, Eragon riconobbe subito Arya. Saphira balzò giù dal parapetto e atterrò in mezzo ai soldati, schiacciandone un bel numero sotto le zampe. Gli altri, sorpresi, si dispersero urlando di paura. Saphira ruggì, irritata dal fatto che le sue prede stessero scappando, e con un guizzo della coda falciò un'altra decina di soldati. Un uomo cercò di oltrepassarla correndo. Fulminea come un serpente, la dragonessa lo afferrò tra le mascelle e scrollò la testa, spezzandogli la spina dorsale. Ne uccise altri quattro allo stesso modo. A quel punto tutti gli uomini erano fuggiti tra gli edifici. Eragon si slacciò in fretta le cinghie delle gambe e saltò a terra. Il peso dell'armatura lo fece atterrare su un ginocchio. Sbuffò e si alzò. «Eragon!» gridò Arya, correndogli incontro ansante e madida di sudore. La sua unica armatura era una giubba imbottita, più un elmo leggero dipinto di nero per evitare riflessi indesiderati. «Ben arrivata, Bjartskular. Ben arrivato, Ammazzaspettri» disse Blödhgarm, i piccoli denti appuntiti che baluginavano alla luce delle torce, i gialli occhi fosforescenti. Con la pelliccia del dorso e della nuca tutta arruffata, aveva un aspetto più feroce che mai. Anche lui, come Arya, era coperto di sangue, ma Eragon non riusciva a capire se fossero feriti. «State bene?» chiese. Arya annuì e Blödhgarm disse: «Qualche graffio, ma niente di grave.» «I cancelli» ansimò Arya. «Sono tre giorni che cerchiamo di abbatterli, ma resistono alla magia, e l'ariete ha appena scalfito il legno. Perciò ho convinto Nasuada...» Quando Arya fece una pausa per riprendere fiato, Blödhgarm s'inserì nel racconto. «Arya ha convinto Nasuada a sferrare un attacco stanotte perché noi due potessimo introdurci nella città senza essere visti e aprire i cancelli dall'interno. Purtroppo ci siamo imbattuti in tre stregoni. Con il potere della mente ci hanno impedito di usare la magia, e intanto hanno chiamato i soldati per poterci sopraffare con la semplice forza dei numeri.» Mentre Blödhgarm parlava, Eragon posò una mano sul petto di un soldato morto e trasferì l'energia rimasta in lui nel proprio corpo e quindi a Saphira. «Dove sono gli stregoni adesso?» chiese, passando a un altro cadavere. Blödhgarm si strinse nelle spalle pelose. «A quanto pare si sono volatilizzati per il terrore quando siete comparsi, Shur'tugal.» Eragon assorbì energia da altri tre soldati, e all'ultimo tolse anche lo scudo rotondo di legno. «D'accordo, allora» disse, rialzandosi. «Andiamo ad aprire i cancelli ai Varden.» «Sì, e senza perdere altro tempo» disse Arya. Si voltò, già pronta all'azione, ma poi scoccò un'occhiata a Eragon e disse: «Hai una spada nuova.» Non era una domanda. Lui annuì. «Rhunön mi ha aiutato a forgiarla.» «E come si chiama la tua spada, Ammazzaspettri?» chiese Blödhgarm. Eragon stava per rispondere, quando quattro soldati corsero fuori da un vicolo buio con le lance puntate. Con un unico movimento fluido, Eragon estrasse Brisingr dal fodero e sferrò un colpo che prima tagliò a metà l'asta del soldato alla guida del gruppo, poi lo decapitò. Brisingr parve luccicare di una gioia selvaggia. Con un solo affondo, Arya trafisse altri due uomini prima che avessero il tempo di reagire, mentre Blödhgarm balzava di lato e pugnalava l'ultimo soldato. «Svelti!» gridò Arya cominciando a correre verso i cancelli della città. Eragon e Blödhgarm la seguirono, con Saphira che arrancava alle calcagna, gli artigli che risuonavano sulle pietre della strada. Dal parapetto piovvero nugoli di frecce, e per tre volte gruppi di soldati corsero fuori dalla roccaforte per avventarsi su di loro. Senza mai rallentare, Eragon, Arya e Blödhgarm si sbarazzarono degli avversari a colpi di spada o di pugnale, o fu Saphira a incenerirli con un torrente di fuoco. Mentre si avvicinavano ai cancelli alti quaranta piedi, il rimbombo continuo dell'ariete si fece sempre più forte. Davanti alle porte di ferro, Eragon vide due uomini e una donna ammantati di nero che cantilenavano nell'antica lingua, ondeggiando da una parte e dall'altra con le mani in alto. I tre stregoni tacquero non appena si accorsero della presenza di Eragon e dei suoi compagni e in uno svolazzo di mantelli fuggirono lungo la via principale che portava alla fortezza, dall'altra parte di Feinster. Eragon avrebbe voluto inseguirli. Prima che Eragon, Blödhgarm e Saphira arrivassero ai cancelli, cinquanta soldati dalle scintillanti armature corsero fuori dalle torri di guardia e si schierarono davanti alle grosse porte di ferro. Uno dei soldati batté l'elsa della spada contro lo scudo e gridò: «Non passerete mai, luridi demoni! Questa è la nostra casa e non permetteremo a Urgali, elfi o altri mostri disumani di entrare. Andatevene, perché a Feinster non troverete che sangue e dolore.» Arya indicò le torri di guardia e mormorò a Eragon: «Le leve che azionano i cancelli sono nascoste lì dentro.» «Allora» disse lui «tu e Blödhgarm aggirate gli uomini ed entrate nelle torri. Io e Saphira li terremo occupati.» Arya annuì e svanì con Blödhgarm fra le nere ombre che avvolgevano le case alle spalle di Eragon e Saphira. Con la mente, Eragon sentì che Saphira si preparava ad avventarsi sul gruppo dei soldati. Le posò una mano sulla zampa e disse: Eragon avanzò lentamente verso i soldati tenendo bene in vista lo scudo e la spada. Dall'alto venne scoccata una freccia, ma a poche spanne dal suo petto si fermò e cadde. Eragon guardò le espressioni terrorizzate dei soldati, poi a voce alta disse: «Il mio nome è Eragon Ammazzaspettri. Forse avete sentito parlare di me, o forse no. In ogni caso vi avverto: sono un Cavaliere dei Draghi e ho giurato di aiutare i Varden a deporre Galbatorix dal suo trono. Ditemi, qualcuno di voi ha giurato fedeltà nell'antica lingua a Galbatorix o all'Impero?... Allora, sì o no?» L'uomo che aveva già parlato, doveva essere il capitano, disse: «Non giureremmo mai fedeltà al re, anche se avessimo una spada puntata alla gola. La nostra lealtà appartiene a Lady Lorana. Lei e la sua famiglia ci governano più che bene da quattro generazioni!» Gli altri mormorarono in segno d'assenso. «Allora unitevi a noi!» esclamò Eragon. «Deponete le armi e vi prometto che non sarà torto un capello né a voi né alle vostre famiglie. Non potete sperare di tenere Feinster contro l'alleanza dei Varden, dei surdani, dei nani e degli elfi.» «Questo lo dici tu!» gridò uno dei soldati. «E se Murtagh dovesse tornare qui con quel suo drago rosso?» Eragon esitò, poi con voce sicura disse: «Lui non è un problema per me e per gli elfi che combattono con i Varden. L'abbiamo già messo in fuga una volta.» Con la coda dell'occhio, alle spalle dei soldati, Eragon vide Arya e Blödhgarm scivolare dietro la scala di pietra che portava in cima alle mura e strisciare furtivi verso la torre di guardia a sinistra. Il capitano disse: «Anche se noi non abbiamo giurato fedeltà al re, Lady Lorana l'ha fatto. Che cosa le farete, allora? La ucciderete? La prenderete prigioniera? No, noi non tradiremo la sua fiducia e non permetteremo di passare né a te né ai quei mostri che graffiano le nostra mura. Tu e i Varden non siete altro che una promessa di morte per coloro che sono stati costretti a servire l'Impero! «Perché non sei rimasto in disparte, Cavaliere dei Draghi? Perché non hai tenuto la testa bassa affinché noi potessimo vivere in santa pace? Ma no, le lusinghe di fama, gloria e ricchezza erano troppo allettanti. Per soddisfare le tue ambizioni hai dovuto portare rovina e distruzione nelle nostre case. Ebbene, io ti maledico, Cavaliere dei Draghi! Ti maledico con tutto il cuore. Che tu possa lasciare Alagaësia per non tornarvi mai più!» Eragon fu percorso da un brivido gelido, perché la maledizione dell'uomo riecheggiava quella che l'ultimo Ra'zac gli aveva lanciato nell'Helgrind, e si ricordò che Angela gli aveva predetto la stessa cosa. Con uno sforzo accantonò quei pensieri e disse: «Non voglio uccidervi, ma lo farò, se devo. Deponete le armi!» Nel frattempo, senza far rumore, Arya aprì la porta ai piedi della torre di guardia e sgusciò all'interno. Furtivo come un gatto selvatico, Blödhgarm scivolò dietro i soldati, puntando verso l'altra torre. Se in quel momento uno degli uomini si fosse voltato lo avrebbe visto. Il capitano sputò ai piedi di Eragon. «Non sembri nemmeno umano! Sei un traditore della tua razza, ecco cosa sei!» sibilò, poi alzò lo scudo e la spada e cominciò ad avanzare lentamente verso di lui. «E tu saresti un Ammazzaspettri?» ringhiò il soldato. «Ha! Se mi dicessero che mio nipote di dodici anni ha ucciso uno Spettro, ci crederei di più.» Eragon aspettò che fosse vicino. Poi, con un solo affondo, Brisingr trapassò il centro dello scudo, il braccio che lo reggeva, il petto del soldato e infine uscì dall'altra parte. L'uomo fu scosso da un tremito, poi rimase immobile. Mentre Eragon estraeva la spada dal cadavere, dalle torri di guardia si levò uno stridore di ferro e legno: ingranaggi e catene presero a girare, e le grosse travi che serravano i cancelli della città cominciarono a scivolare all'indietro. «Deponete le armi o morirete!» gridò Eragon. Una ventina di soldati si avventarono su di lui urlando, con le spade sguainate. Gli altri fuggirono verso il centro della città o seguirono il consiglio di Eragon e posarono spade, lance e scudi sui grigi lastroni di pietra e s'inginocchiarono ai lati della strada con le mani sulle ginocchia. Una nebbiolina di sangue avvolse Eragon mentre si faceva strada fra i soldati a colpi di spada, piroettando da uno all'altro senza lasciar loro il tempo di reagire. Saphira schiacciò due soldati, poi con una breve fiammata dalle narici ne bruciò altri due, arrostendoli nelle loro armature. Eragon si fermò in scivolata oltre l'ultimo soldato, il braccio che impugnava la spada ancora teso dopo l'affondo che aveva appena sferrato, e aspettò di sentire l'uomo stramazzare al suolo, prima una metà poi l'altra. Arya e Blödhgarm riemersero dalle torri di guardia proprio mentre i cancelli si aprivano con un lungo e sonoro cigolio, rivelando la testa scheggiata e ammaccata del massiccio ariete dei Varden. Sui parapetti, gli arcieri lanciarono grida sgomente e si ritirarono. Decine di mani comparvero intorno ai bordi dei cancelli aprendoli a forza, e sotto l'arco Eragon vide una massa di Varden dal volto sudicio, uomini e nani insieme. «Ammazzaspettri!» urlarono, e anche: «Argetlam!» e «Bentornato! La caccia è buona oggi!» «Questi sono miei prigionieri!» dichiarò Eragon, puntando Brisingr verso i soldati inginocchiati sul ciglio della strada. «Legateli e assicuratevi che siano trattati bene. Ho dato la mia parola che non sarebbe stato loro torto un capello.» Sei guerrieri si affrettarono a eseguire l'ordine. I Varden si riversarono all'interno dei cancelli, sparpagliandosi nella città in un tintinnio di armature e un rimbombo di stivali. Eragon fu felice di vedere Roran e Horst e parecchi altri uomini di Carvahall nella quarta fila dei guerrieri. Li salutò, e non appena lo scorse Roran alzò il martello e gli corse incontro. Eragon gli afferrò il braccio destro attirandolo in un ruvido abbraccio. Quando si ritrasse, notò che Roran sembrava invecchiato e aveva gli occhi incavati. «Mentre eri via» grugnì Roran «sono morti in centinaia tentando di conquistare le mura.» «Io e Saphira abbiamo fatto il prima possibile. Come sta Katrina?» «Bene.» «Quando avremo finito qui, dovrai raccontarmi tutto quello che ti è successo mentre non c'ero.» Roran serrò le labbra e annuì, poi indicò Brisingr e disse: «Dove hai preso quella spada?» «A Ellesméra.» «Come si chiama?» «Bris...» fece per dire Eragon, ma in quel momento gli altri undici elfi che Islanzadi aveva mandato a proteggere lui e Saphira uscirono dalla colonna di uomini e li circondarono. Arrivarono anche Blödhgarm e Arya; l'elfa era intenta a ripulire la lama sottile della sua spada. Prima che Eragon potesse riprendere a parlare, Jörmundur oltrepassò i cancelli a cavallo e lo salutò gridando: «Ammazzaspettri! È un vero piacere rivederti!» Eragon ricambiò il saluto e gli domandò: «E adesso che cosa dobbiamo fare?» «Quello che ti sembra più opportuno» rispose Jörmundur tirando le redini del suo sauro. «Dobbiamo aprirci la strada fino alla fortezza. Immagino che Saphira non riesca a passare fra le case, perciò volate e colpite le loro forze dove potete. Se riusciste ad aprire un varco nella fortezza, o a catturare Lady Lorana, sarebbe un enorme aiuto.» «Dov'è Nasuada?» Jörmundur indicò un punto alle proprie spalle. «Nella retroguardia dell'esercito, a coordinare le nostre forze con re Orrin.» Jörmundur scoccò un'occhiata alla fiumana di guerrieri che continuava a riversarsi nella città, poi tornò a guardare Eragon e Roran. «Fortemartello, il tuo posto è con i tuoi uomini, non qui a cianciare con tuo cugino.» Il magro e asciutto comandante spronò il cavallo e si allontanò lungo la strada buia, urlando ordini ai Varden. Quando Roran e Arya si voltarono per seguirlo, Eragon afferrò la spalla di Roran e fermò la lama di Arya con la propria. «Aspettate» disse. «Che cosa c'è?» domandarono in coro Arya e Roran, impazienti. «Mio padre!» esclamò Eragon. «Non è Morzan, è Brom!» Roran batté le palpebre. «Brom?» «Sì, Brom!» Perfino l'impassibile Arya parve sorpresa. «Sei sicuro, Eragon? Come fai a saperlo?» «Certo che sono sicuro! Ve lo spiegherò più tardi, ma non vedevo l'ora di dirvi la verità.» Roran scosse la testa. «Brom... non l'avrei mai detto. Però in effetti ha un senso. Sarai felice di esserti liberato del nome di Morzan.» «Più che felice» disse Eragon sorridendo. Roran gli diede una pacca sulla schiena, dicendo: «Abbi cura di te, eh?» e corse dietro a Horst e agli altri. Arya si avviò dietro di lui, ma non aveva fatto che pochi passi che Eragon la chiamò e disse: «Lo Storpio Che è Sano ha lasciato la Du Weldenvarden per raggiungere Islanzadi a Gil'ead.» Gli occhi verdi di Arya si spalancarono e le sue labbra si schiusero come se stesse per fare una domanda, ma prima che ci riuscisse la fiumana di guerrieri la trascinò nel suo flusso verso il cuore della città. Blödhgarm si avvicinò a Eragon. «Ammazzaspettri, perché il Saggio Dolente ha lasciato la foresta?» «Lui e il suo compagno hanno sentito che era tempo di combattere contro l'Impero e rivelare la propria esistenza a Galbatorix.» La pelliccia dell'elfo s'increspò. «Questa è una notizia davvero molto importante.» Eragon salì in groppa a Saphira. A Blödhgarm e alle sue altre guardie disse: «Andate alla fortezza. Ci incontreremo là.» Senza attendere la risposta dell'elfo, Saphira balzò sulle scale che portavano in cima alle mura della città. I gradini di pietra scricchiolarono sotto il suo peso; si arrampicò sull'ampio parapetto e spiccò il volo, planando sulle baracche in fiamme ai piedi dei bastioni di Feinster. Batté rapida le ali per prendere quota. Eragon e Saphira volarono da un punto all'altro di Feinster, atterrando ovunque scorgessero un grosso gruppo di soldati o di Varden in difficoltà. Se non lo attaccavano subito, Eragon cercava di convincere i nemici ad arrendersi. Non sempre ci riusciva, ma ci provava comunque, perché molti degli uomini che affollavano le vie di Feinster erano comuni cittadini e non soldati addestrati. A ciascuno Eragon diceva: "È l'Impero il nostro nemico, non voi. Non impugnate le armi contro di noi e non avrete motivo di temerci." Le poche volte che Eragon scorse una donna o un bambino correre per le vie buie della città, ordinò loro di nascondersi nella casa più vicina e tutti, nessuno escluso, obbedirono. Eragon scrutò le menti di ogni persona intorno a sé e a Saphira alla ricerca di stregoni ostili, ma non ne trovò altri, tranne i tre in cui si era imbattuto, e quei tre stavano bene attenti a tenergli nascosti i propri pensieri. Lo preoccupava il fatto che fossero spariti senza prendere parte al combattimento. Eragon si strinse nelle spalle. Lei annuì e virò verso una schermaglia in una piazza vicina. Combattere in una città era diverso da uno scontro all'aperto, com'erano abituati a fare Eragon e Saphira. Le strade strette e gli edifici ravvicinati ostacolavano i movimenti di Saphira e impedivano di reagire d'istinto quando i soldati attaccavano, anche se Eragon poteva percepire gli uomini in avvicinamento molto tempo prima che arrivassero. I loro scontri con i soldati si trasformavano inevitabilmente in mischie confuse e disperate, interrotte da occasionali esplosioni di fuoco o di magia. Più di una volta Saphira distrusse la facciata di una casa con un involontario colpo di coda. Lei ed Eragon riuscirono sempre a evitare gravi ferite - per una combinazione di fortuna, abilità e incantesimi di protezione - ma gli attacchi li resero più cauti e nervosi di quanto non fossero di solito in battaglia. Il quinto scontro lasciò Eragon così schiumante di collera che quando i soldati cominciarono a battere in ritirata, come finivano sempre per fare, li inseguì, deciso a sterminarli fino all'ultimo uomo. Con sua sorpresa, deviarono bruscamente dalla strada e sfondarono la porta sbarrata di una modisteria. Eragon li inseguì, balzando sui resti distrutti della porta. L'interno del negozio era buio e odorava di profumo stantio e piume di gallina. Per un attimo pensò d'illuminarlo con la magia, ma visto che i soldati erano svantaggiati, si trattenne. Percepiva le loro menti e sentiva i loro respiri affannati, ma non poteva vedere se c'erano ostacoli fra lui e loro. Avanzò lentamente nell'oscurità, tastando il pavimento coi piedi, con lo scudo davanti al corpo e Brisingr pronta a colpire. Fievole come il sospiro di un filo che cade in terra, Eragon sentì un oggetto volare verso di lui. Fece uno scatto all'indietro, e barcollò quando una mazza o un martellò colpì il suo scudo, facendolo a pezzi. Esplosero delle urla. Un uomo rovesciò una sedia, o un tavolo, e qualcosa si fracassò contro il muro. Eragon menò un fendente e sentì Brisingr affondare nella carne fino all'osso. Un peso bloccava l'estremità della spada. Eragon la ritrasse con uno strattone e l'uomo che lo aveva assalito stramazzò ai suoi piedi. Scoccò una rapida occhiata alle sue spalle, nel vicolo stretto dove Saphira lo aspettava. Soltanto allora vide la lanterna montata su un palo di ferro all'angolo della strada e capì che la luce lo rendeva perfettamente visibile ai soldati. Si scansò in fretta dal cono di luce e gettò via lo scudo ormai inservibile. Un altro schianto echeggiò nel negozio, seguito da un frastuono di passi che correvano su per le scale. Eragon si slanciò dietro i soldati. Al primo piano c'era l'alloggio dei proprietari del negozio. Diverse persone urlarono e un bambino cominciò a piangere quando irruppe nel labirinto di piccole stanze, ma lui li ignorò, concentrato soltanto sul suo obiettivo. Alla fine Eragon riuscì a raggiungere i soldati e a chiuderli in trappola, in una stanza angusta illuminata dalla fioca luce di una candela. Erano quattro, e li uccise con altrettanti affondi, facendo una smorfia quando fu investito dagli spruzzi di sangue. Si procurò un nuovo scudo togliendolo a uno dei cadaveri, poi si fermò a guardarli. Gli parve indelicato lasciarli lì, sul pavimento del soggiorno, così li scaraventò fuori della finestra. Mentre tornava alle scale, una sagoma sbucò da dietro un angolo e tentò di pugnalarlo al costato. La punta del pugnale si fermò a un soffio dal suo fianco, bloccata dagli incantesimi. Con un sussulto, Eragon alzò Brisingr per decapitare il nemico, quando si accorse che l'aggressore era un ragazzino di non più di tredici anni. S'impietrì. Rabbrividì. Abbassò Brisingr e tolse il pugnale dalla debole stretta del ragazzo. «Fossi in voi» disse, colpito dalla nota greve che gli venava la voce, «non uscirei finché la battaglia non è finita.» Esitò, poi aggiunse: «Mi dispiace.» Colmo di vergogna, uscì di fretta dal negozio e raggiunse Saphira. Continuarono lungo la strada. Non lontano dalla modisteria, Eragon e Saphira s'imbatterono in parecchi uomini di re Orrin che trasportavano candelabri d'oro, vassoi e posate d'argento, gioielli, e oggetti d'arredamento fuori da una ricca dimora dove avevano fatto irruzione. Eragon strappò una pila di tappeti dalle braccia di un soldato surdano. «Rimettete queste cose al loro posto!» urlò all'intero gruppo. «Siamo qui per «Ammazzaspettri! Ammazzaspettri!» gridò un uomo correndo verso di loro. Le armi e l'armatura lo identificarono come uno dei Varden. Eragon serrò la stretta su Brisingr. «Che cosa c'è?» «Ci serve il tuo aiuto, Ammazzaspettri. E anche il tuo, Saphira!» Seguirono il guerriero per le vie di Feinster finché non arrivarono vicino a un grosso edificio di pietra. Parecchie decine di Varden erano accucciati dietro un basso muro di fronte all'edificio. Parvero sollevati nel vederli. «State indietro!» disse uno dei Varden, facendo un cenno con la mano. «Ci sono dei soldati lì dentro, e hanno gli archi puntati su di noi.» Eragon e Saphira si fermarono appena fuori tiro. Il guerriero che li aveva condotti lì disse: «Non riusciamo a raggiungerli. Porte e finestre sono bloccate e se cerchiamo di aprirle ci scagliano addosso le frecce.» Eragon guardò Saphira. L'edificio tremò e le finestre s'infransero quando Saphira atterrò sul tetto. Eragon e gli altri guerrieri la osservarono ammirati mentre conficcava gli artigli nelle scanalature di malta fra una pietra e l'altra e ringhiando per lo sforzo scoperchiava l'edificio portando alla luce i soldati terrorizzati. Li uccise come fa un terrier coi ratti. Quando Saphira tornò al fianco di Eragon, i Varden indietreggiarono, intimoriti da quella dimostrazione di ferocia. Lei li ignorò e cominciò a leccarsi le zampe per pulirsi il sangue dalle squame. In tutta la città i soldati combattevano con una risolutezza che impressionò Eragon; concedevano terreno solo se costretti e facevano di tutto per rallentare l'avanzata dei Varden. A causa di questa resistenza tenace, i Varden arrivarono nella parte occidentale della città dove si trovava la fortezza solo quando le prime, deboli luci dell'alba cominciavano a rischiarare il cielo. La fortezza era una struttura imponente, alta e squadrata, ornata da numerose torri di diversa altezza. Il tetto era di ardesia perché gli assedianti non potessero appiccarvi il fuoco. Davanti alla fortezza si estendeva un'ampia corte con bassi fabbricati e una fila di quattro catapulte, e il tutto era circondato da una muraglia difensiva intervallata da torrette. Centinaia di soldati erano appostati sui bastioni e altrettanti erano schierati nel cortile. L'unico modo per entrare nel cortile via terra era attraverso un ampio passaggio ad arco che si apriva nel muraglione, protetto sia da una cancellata di ferro che da un grosso portone di quercia a doppio battente. Migliaia di Varden, ammassati davanti al muro di cinta, cercavano di abbattere la cancellata a colpi di ariete - che avevano portato con sé dai cancelli della città - oppure di arrampicarsi sui bastioni con i rampini e le scale da assedio che i difensori continuavano a respingere. Nugoli di frecce sibilanti s'incrociavano in volo al di sopra del muro. Assedianti e assediati erano in una situazione di stallo. Saphira piombò dall'alto e sgombrò la porzione di parapetto che si affacciava sulla cancellata con un potente getto di fuoco, mentre spirali di fumo ardente si levavano dalle sue narici. Atterrò di schianto in cima alla muraglia ed Eragon barcollò per il contraccolpo. La dragonessa gli disse: Il muro era troppo alto perché Eragon riuscisse a saltare con facilità in strada, perciò Saphira infilò la coda fra due merli e la fece ciondolare in basso. Eragon rinfoderò Brisingr e scese usando le punte caudali come i pioli di una scala. Quando raggiunse l'estremità della coda, lasciò la presa e saltò per gli ultimi venti piedi che lo separavano dal terreno. Si raggomitolò per attutire l'impatto, atterrando nella ressa di Varden. «Salve, Ammazzaspettri» disse Blödhgarm, emergendo dalla folla insieme agli altri undici elfi. «Salute a voi.» Eragon sfoderò di nuovo Brisingr. «Come mai non avete già aperto il cancello ai Varden?» «Il cancello è protetto da molti incantesimi, Ammazzaspettri. Ci vorrebbe parecchia energia per abbatterlo. I miei compagni e io siamo qui per proteggere te e Saphira, e non possiamo adempiere al nostro dovere se esauriamo le nostre forze in altri compiti.» Rimangiandosi un'imprecazione, Eragon disse: «Preferiresti che ci stancassimo io e Saphira, Blödhgarm? Questo ci renderà più sicuri?» L'elfo fissò Eragon per un momento, con gli occhi gialli imperscrutabili, poi chinò il capo. «Apriremo subito il cancello, Ammazzaspettri.» «No, fermi» borbottò Eragon. «Aspettate qui.» Si fece strada a spintoni fino a raggiungere la testa dei Varden e a grandi passi si avvicinò alla cancellata ancora chiusa. «Fatemi spazio!» gridò, facendo un cenno ai guerrieri. I Varden indietreggiarono, sgombrando un'area larga venti piedi. Un giavellotto scagliato da una balista fu deviato dal suo incantesimo di protezione e volò in una strada laterale. Dall'interno del cortile provennero i ruggiti di Saphira, insieme a schianti di legno fracassato e corde tese che si spezzavano. Impugnando la spada con tutte e due le mani, Eragon la sollevò sulla testa e gridò: «Brisingr!» La lama esplose in una vampa di fuoco blu e i guerrieri alle sue spalle esclamarono sbigottiti. Eragon fece un passo avanti e vibrò un colpo possente contro una sbarra della cancellata. Quando la spada tagliò il metallo, un lampo accecante illuminò il muro e gli edifici attorno. Eragon avvertì un improvviso calo di energia mentre Brisingr spezzava gli incantesimi che proteggevano la cancellata. Sorrise. Come aveva sperato, gli incantesimi di contromagia con cui Rhunön aveva impregnato la spada erano sufficienti per sconfiggere i sortilegi del ferro. Con movimenti rapidi e regolari, Eragon ritagliò nella cancellata un varco abbastanza grande per passare, poi si fece da parte e la sezione tagliata della grata cadde di piatto sulle pietre della strada con un forte clangore. Attraversò il varco e si avvicinò al portone di quercia che si trovava dall'altra parte del muro di cinta. Appoggiò la punta di Brisingr sulla sottilissima fessura fra i due battenti, e con tutto il suo peso spinse la lama fino a farla spuntare dall'altra parte. Poi aumentò il flusso di energia che alimentava il fuoco della lama, finché la spada non fu abbastanza rovente da aprirsi la strada bruciando il legno massiccio con la stessa facilità di un coltello che affetta del pane fresco. Dalla lama si alzarono copiose volute di fumo che gli pizzicarono la gola e gli fecero lacrimare gli occhi. Eragon spinse la spada verso l'alto, bruciando l'enorme trave di legno che sbarrava la porta dall'interno. Non appena sentì diminuire la resistenza contro la lama di Brisingr, la ritrasse ed estinse la fiamma. S'infilò i guanti imbottiti per non scottarsi impugnando i bordi incandescenti di uno dei battenti e lo tirò a sé con uno sforzo immane. Anche l'altro battente si aprì, come dotato di volontà propria, ma un attimo dopo Eragon si accorse che era stata Saphira a spingerlo dall'interno: la dragonessa sedeva a destra dell'entrata, fissandolo con i suoi luccicanti occhi color zaffiro. Alle sue spalle, i resti delle quattro catapulte distrutte giacevano sul terreno. Eragon si fece da parte accanto a lei, mentre i Varden invadevano il cortile, riempiendo l'aria delle loro ruggenti grida di battaglia. Stremato, appoggiò una mano sulla cintura di Beloth il Savio e integrò la forza che cominciava a mancargli con una parte dell'energia conservata nei dodici diamanti nascosti nella cintura. Offrì il resto a Saphira, altrettanto stanca, ma lei rifiutò, dicendo: Eragon si appoggiò contro il suo fianco e socchiuse le palpebre. Fra i guerrieri che gli passavano accanto, comparve Angela con la sua strana corazza flangiata verde e nera e con l'hûthvír, il bastone a doppia lama dei sacerdoti nani. L'erborista si fermò davanti a Eragon e con un luccichio malizioso negli occhi disse: «Una scena impressionante, ma non credi di aver esagerato?» «Che vuoi dire?» chiese Eragon, aggrottando la fronte. Lei inarcò un sopracciglio. «Avanti, era proprio necessario dare fuoco alla spada?» A quelle parole, Eragon si tranquillizzò e rise. «No, per la cancellata no. Ma mi sono divertito. E poi non dipende da me. Ho chiamato la spada «Hai chiamato la tua spada Fuoco?» esclamò Angela con una nota d'incredulità. «Fuoco? Che nome banale! Tanto valeva chiamarla Lama Fiammeggiante. Fuoco... Bah! Non avresti preferito avere una spada che si chiamasse Mordipecore o Spaccacrisantemi o qualche altro nome più fantasioso?» «Ho già una Mordipecore qui» disse Eragon, appoggiando una mano sul fianco di Saphira. «Perché dovrei volerne un'altra?» Angela gli rivolse un ampio sorriso. «Allora non sei del tutto privo di spirito! Credevo che fossi un caso disperato.» E si allontanò saltellando verso la fortezza, facendo roteare il suo bastone a doppia lama e borbottando: «Fuoco? Bah!» Saphira emise un ringhio sordo e disse: LO SPETTRO DEL DESTINO Nel frattempo anche Blödhgarm e i suoi compagni elfi erano arrivati nella corte, ma Eragon li ignorò cercando invece Arya. Quando la vide correre accanto al destriero di Jörmundur, sventolò lo scudo per attirare la sua attenzione. Arya lo notò e lo raggiunse, muovendosi con la grazia di una gazzella. Da quando si erano separati si era procurata uno scudo, un elmo con la visiera e una cotta di maglia. Il metallo della sua armatura luccicava nella penombra grigia che pervadeva la città. Come si fermò, Eragon le disse: «Io e Saphira entreremo nella fortezza dall'alto per cercare di catturare Lady Lorana. Vuoi venire con noi?» Arya annuì con un deciso cenno del capo. Balzando su una delle zampe di Saphira, Eragon risalì in sella e Arya seguì il suo esempio un attimo dopo, stringendosi a lui, gli anelli della cotta di maglia che premevano contro la sua schiena. Saphira dispiegò le ali di velluto e prese il volo, lasciando Blödhgarm e gli altri elfi a guardarla dal basso, frustrati. «Non dovresti abbandonare le tue guardie con tanta leggerezza» mormorò Arya nell'orecchio di Eragon. Gli cinse la vita e lo strinse forte mentre Saphira virava sul cortile. Prima di aver modo di rispondere, Eragon avvertì il contatto della vasta mente di Glaedr: per un momento la città sotto di loro scomparve e lui vide e percepì solo ciò che Glaedr vedeva e percepiva. Il collo di Eragon subì un colpo di frusta quando Saphira effettuò una brusca imbardata e precipitò per una ventina di piedi prima di recuperare l'assetto. «Qualcosa non va?» chiese Arya. La sua voce squillò nell'orecchio di Eragon. Eragon sentì Arya irrigidirsi contro di lui. «Come fate a saperlo?» chiese. «Te lo spiego dopo. Spero solo che vada tutto bene.» «Lo spero anch'io» disse Arya. Saphira volò alta sopra la fortezza, poi planò silenziosa senza battere le ali e atterrò sulla guglia della torre più alta. Mentre Eragon e Arya s'inerpicavano sul ripido tetto, disse: I due scivolarono fino al bordo del tetto e si calarono sullo stretto cornicione di pietra otto piedi più in basso. Cercando di non pensare alla vertiginosa caduta che lo aspettava se avesse messo un piede in fallo, Eragon strisciò lentamente fino a una finestra a croce. S'intrufolò nell'apertura e si ritrovò in una grande stanza dove ad aspettarlo c'erano solo fasci di dardi e rastrelliere di pesanti balestre. Se c'era stato qualcuno nella stanza, all'arrivo di Saphira doveva essere fuggito. Anche Arya s'introdusse nella stanza dalla piccola finestra. Dopo un'ispezione sommaria, gli indicò una scala in un angolo e si affrettò a raggiungerla, gli stivali di pelle che calpestavano silenziosi il pavimento di pietra. Mentre la seguiva, Eragon percepì uno strano confluire di energie provenire dal piano di sotto e sentì le menti di cinque persone che gli sbarravano i propri pensieri. Temendo un attacco mentale, si concentrò e prese a recitare un brano di poesia elfica. Toccò Arya sulla spalla e mormorò: «Lo senti?» Lei annuì. «Avremmo dovuto portare Blödhgarm con noi.» Scesero insieme le scale, attenti a non fare il minimo rumore. La stanza dove arrivarono era molto più grande di quella del piano di sopra, e dal soffitto alto più di trenta piedi pendeva una lanterna dai pannelli di vetro sfaccettato in cui bruciava una fiamma gialla. Le pareti erano tappezzate di centinaia di dipinti a olio: ritratti di uomini barbuti dalle lunghe vesti ricamate e donne prive d'espressione sedute fra bambini dai denti piatti e aguzzi; lugubri marine dove i marinai annegavano nel mare in tempesta; scene di battaglia in cui gli umani massacravano gruppi di Urgali grotteschi. Nella parete nord una grande finestra dalle imposte di legno si affacciava su un balcone dalla balaustra di pietra. Lungo la parete opposta alla finestra c'erano tavolini rotondi coperti di pergamene, tre poltroncine imbottite e due enormi vasi di ottone con alcuni mazzi di fiori secchi. Su una delle poltroncine era seduta una donna corpulenta dai capelli grigi che indossava una veste color lavanda. Fra lei e parecchi ritratti si notava una forte somiglianza. In testa portava un diadema d'argento tempestato di topazi e di giade. Al centro della stanza c'erano i tre stregoni che Eragon aveva già visto in città. I due uomini e la donna erano disposti a triangolo, i cappucci abbassati e le braccia aperte in modo da toccarsi con la punta delle dita. Ondeggiavano all'unisono, mormorando nell'antica lingua un incantesimo sconosciuto. Una quarta persona era seduta al centro del triangolo: un uomo abbigliato allo stesso modo, però taceva e faceva smorfie come se stesse soffrendo. Eragon si scagliò contro la mente di uno degli stregoni, ma l'uomo era così concentrato nel suo compito che lui non riuscì a penetrarne la coscienza e quindi non poté piegarlo alla sua volontà. L'uomo non parve nemmeno accorgersi dell'attacco. Arya doveva aver provato a fare lo stesso perché, con la fronte aggrottata, mormorò: «Sono bene addestrati.» «Sai che cosa stanno facendo?» bisbigliò lui. Lei scosse il capo. D'un tratto la donna col vestito color lavanda alzò lo sguardo e vide Eragon e Arya acquattati sugli ultimi gradini della scala di pietra. Con sommo stupore di Eragon non gridò aiuto, ma avvicinò l'indice alle labbra e fece loro cenno di avvicinarsi. Eragon e Arya si scambiarono un'occhiata perplessa. «Potrebbe essere una trappola» mormorò lui. «Molto probabile» rispose lei. «Che cosa facciamo?» «Saphira sta arrivando?» «Sì.» «E allora andiamo a salutare la padrona di casa.» Scesero gli ultimi gradini fianco a fianco e attraversarono la sala in fretta, senza mai distogliere lo sguardo dagli stregoni. «Lady Lorana?» chiese Arya sottovoce, quando furono al cospetto della donna seduta. Lei annuì. «Sì, mia bella elfa.» Spostò lo sguardo su Eragon e disse: «E tu sei il Cavaliere dei Draghi di cui ho tanto sentito parlare? Eragon Ammazzaspettri?» «Sì» rispose Eragon. Un'espressione di sollievo illuminò i tratti eleganti della donna. «Ah, quanto speravo che tu venissi. Devi fermarli, Ammazzaspettri.» E indicò gli stregoni. «Perché non ordini loro di arrendersi?» mormorò Eragon. «Non posso» disse Lorana. «Rispondono solo al re e al suo nuovo Cavaliere. Ho giurato fedeltà a Galbatorix... non ho avuto altra scelta... perciò non posso alzare un dito contro di lui o contro i suoi servi; altrimenti mi sarei già sbarazzata di loro.» «Perché?» chiese Arya. «Che cosa temi?» Intorno agli occhi di Lorana si formò una ragnatela di rughe. «Sanno di non poter più sconfiggere i Varden, e Galbatorix non ci ha mandato alcun rinforzo. Perciò stanno tentando, non so come, di creare uno Spettro nella speranza che attacchi i Varden gettando scompiglio e sconforto tra i vostri ranghi.» Eragon rabbrividì al pensiero di dover combattere un altro Durza. «Ma uno spettro potrebbe rivoltarsi anche contro di loro, e contro chiunque altro a Feinster» obiettò. Lorana annuì. «A loro non importa. Il loro unico desiderio è causare quanta più sofferenza e distruzione possibili prima di morire. Sono pazzi, Ammazzaspettri. Ti prego, devi fermarli, per la salvezza del mio popolo!» Non appena ebbe finito di parlare, Saphira atterrò sul balcone fuori dalla stanza, rompendo la balaustra con la coda. Abbatté le imposte di legno con una sola zampata, riducendole in legna da ardere, poi infilò la testa e le spalle nella sala e ruggì. Gli stregoni continuarono a cantilenare, come se non avessero nemmeno notato la sua presenza. «Basta!» esclamò Lady Lorana stringendo i braccioli della sedia. «Bene» disse Eragon. Impugnò saldamente Brisingr e si avviò verso gli stregoni, mentre Saphira faceva lo stesso dalla parte opposta. All'improvviso il mondo gli vorticò intorno, ed Eragon si ritrovò ancora a guardare attraverso gli occhi di Glaedr. Glaedr recuperò l'equilibrio e cercò Castigo. Grazie a Galbatorix, il piccolo, infido drago rosso era più forte e veloce di quanto si fosse aspettato. Castigo caricò il suo fianco sinistro, quello più débole, dove aveva perso la zampa. Precipitarono avvinghiati verso il duro, piatto terreno spezzaossa. Glaedr azzanò, morse e graffiò con gli artigli per tentare di sottomettere il drago più piccolo. Questo cucciolo non mi batterà, Disorientato, Eragon fissò il soffitto. Giaceva sulla schiena all'interno della torre della fortezza. Inginocchiata accanto a lui c'era Arya, la preoccupazione dipinta in volto. L'elfa lo prese per un braccio e lo aiutò ad alzarsi, sostenendolo quando barcollò. Eragon vide Saphira sull'altro lato della stanza che scuoteva la testa, stordita quanto lui. I tre stregoni erano ancora in piedi con le braccia distese, a dondolare e cantare nell'antica lingua. Le parole del loro incantesimo risuonavano con una forza inusuale e riverberavano nell'aria molto più a lungo di quanto avrebbero dovuto. L'uomo seduto ai loro piedi si strinse le ginocchia, il corpo scosso da tremiti, la testa che dondolava di qua e di là. «Che cos'è successo?» chiese Arya, sforzandosi di parlare piano. Attirò Eragon più vicino e abbassò ancora di più la voce. «Come fai a sapere che cosa sta pensando Glaedr da così lontano, e soprattutto quando la sua mente è chiusa perfino a Oromis? Perdonami per essere entrata senza permesso nei tuoi pensieri, ma ero preoccupata. Che genere di legame c'è fra te, Saphira e Glaedr?» «Dopo» disse Eragon, e raddrizzò le spalle. «Oromis ti ha dato un amuleto o qualche altro oggetto che ti permette di contattare Glaedr?» «Ci vorrebbe troppo tempo per spiegarti. Dopo, te lo prometto.» Arya esitò, poi annuì e disse: «Non me ne dimenticherò.» Eragon, Saphira e Arya puntarono sugli stregoni e ne colpirono uno ciascuno. Un sibilo metallico echeggiò nella sala quando Brisingr scivolò di lato senza raggiungere l'obiettivo ed Eragon si stirò una spalla. Anche la spada di Arya rimbalzò su un incantesimo di protezione, così come la zampa destra di Saphira. I suoi artigli stridettero sul pavimento di pietra. «Concentriamoci su questo!» gridò Eragon, indicando lo stregone più alto, un uomo pallido dalla barba ispida. «Presto, prima che riescano a evocare gli spiriti!» Eragon e Arya avrebbero potuto ricorrere a qualche incantesimo per aggirare o abbattere le difese degli stregoni, ma usare la magia contro un altro mago senza controllarne la mente aveva sempre risvolti pericolosi. Né Eragon né Arya volevano correre il rischio di restare uccisi da un incantesimo di protezione di cui non erano ancora a conoscenza. Attaccando a turno, Eragon, Saphira e Arya cercarono di colpire, trafiggere o dilaniare lo stregone barbuto, ma nessuno dei loro tentativi andò a segno. Poi, all'improvviso, dopo una resistenza minima, Eragon sentì una sorta di cedimento sotto Brisingr, che, continuando la sua traiettoria, recise la testa dello stregone. L'aria davanti a lui scintillò. E nello stesso momento avvertì un calo improvviso della forza, mentre le sue protezioni lo difendevano da un incantesimo sconosciuto. L'assalto cessò in pochi secondi, lasciandolo stordito, con lo stomaco in subbuglio. Fece una smorfia, poi attinse energia dalla cintura di Beloth il Savio. L'unica reazione degli altri due stregoni alla morte del compagno fu un'invocazione più serrata. Non tentarono di fuggire né di attaccare. Avevano gli occhi bianchi, le pupille rivoltate all'indietro e una schiuma gialla incrostata agli angoli della bocca; schizzi di saliva volavano dalle loro labbra che si muovevano frenetiche. Eragon, Saphira e Arya si avvicinarono al secondo stregone - un uomo corpulento che portava anelli ai pollici - ripetendo lo stesso procedimento che avevano usato per il primo: assalirlo a turno finché non fossero riusciti ad abbattere le sue protezioni. Fu Saphira a ucciderlo, facendolo volare per la stanza con una feroce zampata. L'uomo atterrò sulle scale e il suo cranio si spaccò contro il bordo di un gradino. Questa volta non ci fu alcuna rappresaglia magica. Mentre Eragon si avvicinava alla strega, un grappolo di luci multicolori sfrecciò nella stanza attraverso la finestra infranta per calare sull'uomo seduto sul pavimento. Gli spiriti sfavillanti lampeggiarono di rabbia, turbinando intorno all'uomo a formare un muro impenetrabile. L'uomo alzò le braccia come se volesse difendersi da qualcosa e strillò. L'atmosfera ronzò e crepitò per l'energia irradiata dalle sfere pulsanti. Eragon sentì sulla lingua un aspro sapore di ferro e poi la pelle prese a formicolargli. I capelli della strega si rizzarono. Dall'altra parte, Saphira sibilò e inarcò il collo, ogni muscolo del corpo teso. Eragon rabbrividì di paura. All'improvviso ogni cosa intorno a lui scomparve, e vide: Glaedr si voltò, ma fu troppo lento. Il drago rosso lo investì colpendolo alla spalla destra, e lo spinse lontano. Ringhiando, Glaedr tese la zampa che gli restava per cingere il feroce cucciolo mordigraffia in una stretta mortale. Il drago rosso urlò e si divincolò, sgusciando per metà dalla stretta di Glaedr, e gli conficcò gli artigli nel petto. Glaedr inarcò il collo e morse la zampa del drago rosso e lo tenne fermo, anche se si contorceva e scalciava come un gatto selvatico. Sentì in bocca il caldo sangue salato. Mentre precipitavano, Glaedr udì rumore di spade contro scudi: Oromis e Murtagh si stavano scambiando una rapida successione di colpi. Castigo si dimenò, permettendogli per qualche breve istante di vedere Murtagh figlio di Morzan. L'umano gli sembrava terrorizzato, ma non poteva esserne sicuro. Malgrado i lunghi anni passati in sintonia con Oromis, gli risultava sempre difficile decifrare le espressioni dei bipedi senza corna e senza coda, con quelle loro facce morbide e piatte. Il clangore di metallo s'interruppe all'improvviso e Murtagh gridò: «Maledetti per non esservi rivelati prima! Maledetti! Avreste potuto aiutarci! Avreste potuto...» Per un momento Murtagh parve soffocare. Glaedr grugnì quando un'inaspettata forza invisibile arrestò la loro caduta, con uno scossone che gli fece quasi perdere la presa sulla zampa di Castigo. Furono sollevati in alto, sempre più in alto, finché la cittàformicaio sotto di loro non fu soltanto una macchiolina indistinta. Perfino Glaedr faceva fatica a respirare l'aria rarefatta. Che cosa fa il cucciolo umano? Sta cercando di uccidersi? «E così siete sopravvissuti, Oromis, Glaedr» disse Galbatorix. Le sue parole erano rotonde e morbide, come quelle di un esperto oratore, e pronunciate in tono falsamente amichevole. «Da tempo sospettavo che gli elfi potessero tenermi nascosto un drago o un Cavaliere. È gratificante trovare conferma ai miei sospetti.» Glaedr... lasciami andare, Con un sussulto, Eragon tornò in sé. Era raggomitolato sul pavimento, il volto rigato di lacrime. Boccheggiando si rialzò, e cercò Saphira e Arya. Gli ci volle un momento per capire ciò che vide. La strega che Eragon era stato sul punto di attaccare giaceva davanti a lui, uccisa da un solo colpo di spada. Gli spiriti che lei e i suoi compagni avevano evocato non si vedevano da nessuna parte. Lady Lorana era ancora seduta nella sua poltrona. Saphira si stava faticosamente rialzando, dall'altro lato della stanza. E l'uomo che prima sedeva sul pavimento, fra gli altri tre stregoni, ora stava in piedi accanto a lui, e teneva Arya per la gola. Il colore aveva abbandonato la pelle dell'uomo, lasciandolo bianco come un osso. I suoi capelli, prima castani, adesso erano di un vivido color rosso sangue, e quando lo guardò e sorrise, Eragon scoprì che anche gli occhi erano diventati rossi. L'uomo aveva gli stessi tratti e lo stesso fare di Durza. «Il nostro nome è Varaug» disse lo Spettro. «Tremate.» Arya scalciò, ma i suoi colpi non parvero avere effetto su di lui. La pressione bruciante della coscienza dello Spettro attanagliò la mente di Eragon, cercando di abbattere le sue difese. La potenza dell'aggressione lo paralizzò: riuscì a stento a respingere i tentacoli della mente dello Spettro, figuriamoci camminare o brandire una spada. Per chissà quale ragione, Varaug era persino più forte di Durza, ed Eragon non sapeva quanto avrebbe potuto resistergli. Si accorse che anche Saphira era stata aggredita: era seduta rigida e immobile davanti al balcone, il muso contratto in un ringhio. Le vene sulla fronte di Arya si gonfiarono e il suo volto divenne rosso, poi viola. Aveva la bocca aperta, ma non respirava. Con il palmo della mano colpì il gomito serrato dello Spettro e gli ruppe l'articolazione con uno schianto secco. Il braccio di Varaug si abbassò e per un momento le punte dei piedi di Arya sfiorarono il pavimento, ma poi le ossa nel braccio dello Spettro tornarono a posto e lui la sollevò ancora più in alto. «Morirai» ruggì Varaug. «Morirete tutti per averci imprigionati in questa fredda corazza di argilla.» La consapevolezza che le vite di Arya e Saphira erano in pericolo privò Eragon di qualsiasi altra emozione che non fosse una feroce determinazione. Con la mente affilata e trasparente come una scheggia di vetro, si avventò contro la coscienza incandescente dello Spettro. Varaug era troppo potente e gli spiriti che lo possedevano troppo diversi perché Eragon riuscisse a sopraffarlo e a controllarlo, così tentò di isolarlo. Circondò la mente di Varaug con la propria: ogni volta che Varaug cercava di allungare la coscienza verso Saphira o Arya, Eragon bloccava il suo raggio mentale, e ogni volta che lo Spettro cercava di spostarsi, Eragon vanificava il suo tentativo muovendosi a sua volta. Combattevano alla velocità del pensiero, scambiandosi affondi e parate lungo il perimetro della mente dello Spettro, un paesaggio così confuso e incoerente che Eragon temette d'impazzire se lo avesse guardato troppo a lungo. Mentre duellava con Varaug, cercando di anticipare ogni sua mossa, Eragon capì che lo scontro avrebbe potuto concludersi soltanto con la propria sconfitta, malgrado gli sforzi immani che stava mettendo in campo. Per quanto veloce, la sua mente non poteva superare le numerose intelligenze contenute nello Spettro. Alla fine la sua concentrazione vacillò e Varaug approfittò dell'occasione per insinuarsi ancora di più nella sua mente, intrappolandolo, immobilizzandolo, sopprimendo i suoi pensieri finché Eragon non poté far altro che fissare lo Spettro con una rabbia silenziosa. Un atroce formicolio gli attraversò il corpo mentre gli spiriti lo invadevano, scivolando in ogni suo nervo. «Il tuo anello è pieno di luce!» esclamò Varaug, spalancando gli occhi per il piacere. «Meravigliosa luce! Ci nutrirà per molto tempo.» Ruggì di rabbia quando Arya gli afferrò il polso e glielo spezzò in tre punti. L'elfa si divincolò dalla sua stretta prima che lo Spettro avesse modo di guarirsi e cadde a terra boccheggiando. Varaug le sferrò un calcio, ma lei lo schivò rotolando di fianco e tese una mano verso la spada che le era caduta. Quando Eragon tentò di liberarsi della presenza soffocante dello Spettro, prese a tremare in tutto il corpo. La mano di Arya si strinse intorno all'elsa della spada. Un urlo di belva sfuggì dalle labbra esangui dello Spettro. Si avventò su di lei e rotolarono avvinghiati sul pavimento, lottando per impossessarsi dell'arma. Con un grido selvaggio, Arya lo colpì alla tempia con il pomolo della spada. Per un momento Varaug si afflosciò e Arya indietreggiò sui gomiti e sui calcagni, poi si rialzò di scatto. Senza pensare alla propria incolumità, Eragon riprese l'attacco contro la coscienza dello Spettro, con l'unico intento di trattenerlo per qualche altro istante. Varaug si alzò su un ginocchio, poi, quando Eragon raddoppiò gli sforzi, vacillò. «Ora!» urlò Eragon. Arya fece un affondo, i neri capelli svolazzanti sulle spalle. E colpì lo Spettro dritto al cuore. Eragon trasalì e si districò dalla mente di Varaug proprio mentre lo Spettro indietreggiava, staccandosi dalla lama di Arya. Aprì la bocca ed emise un prolungato lamento, così acuto e stridente che i vetri della lanterna appesa al soffitto esplosero in una miriade di schegge. Barcollò verso Arya con le braccia tese, poi si fermò e la sua pelle cominciò a sbiadire fino a diventare trasparente, rivelando le decine di spiriti luccicanti intrappolati nella sua carne. Gli spiriti pulsarono e s'ingrossarono; la pelle di Varaug si lacerò lungo i rigonfiamenti dei muscoli. Con un'ultima esplosione di luce, gli spiriti lacerarono il corpo di Varaug e lasciarono la sala della torre attraversando i muri, come se la pietra fosse priva di consistenza. Mentre le pulsazioni del suo cuore rallentavano, Eragon, sentendosi molto vecchio e molto stanco, raggiunse Arya, che era in piedi, aggrappata allo schienale di una poltrona, le spalle curve, una mano sulla gola. L'elfa tossì, sputando sangue. Dato che sembrava incapace di parlare, Eragon posò la propria mano su quella di lei e disse: «Waíse heill.» Gli cedettero le gambe quando perse energia per curarla, e dovette reggersi anche lui alla sedia. «Meglio?» le chiese, quando l'incantesimo si dissolse. «Meglio» sussurrò Arya, e lo ringraziò con un fievole sorriso. Indicò il punto dove prima si trovava Varaug. «Lo abbiamo ucciso... Lo abbiamo ucciso e siamo ancora vivi.» Sembrava sorpresa. «Pochi sono riusciti a uccidere uno Spettro senza morire.» «Perché hanno combattuto da soli, non insieme, come noi.» «Già, non come noi.» «Tu mi hai aiutato nel Farthen Dûr, e io ti ho aiutato qui.» «Sì.» «Ora dovrò chiamare «Lo siamo entrambi...» Saphira li spaventò lanciando un lungo, acuto grido di dolore. Tra i gemiti, graffiò il pavimento con gli artigli, scheggiando la pietra. La sua coda si agitava da una parte all'altra, sfasciando i mobili e gli arcigni ritratti sulle pareti. «Saphira, che cosa succede?» chiese Arya. Quando Saphira non rispose, ripeté la domanda a Eragon. Vibrando di odio per le parole che era costretto a pronunciare, Eragon disse: «Oromis e Glaedr sono morti. Galbatorix li ha uccisi.» Arya barcollò come se avesse ricevuto uno schiaffo. «Ah» disse. Strinse lo schienale della poltrona con tanta forza che le si sbiancarono le nocche. Le lacrime le riempirono gli occhi obliqui, poi si riversarono sugli zigomi alti e le inondarono il volto. «Eragon.» L'elfa allungò una mano e gli afferrò la spalla, e quasi per caso lui si ritrovò a stringerla fra le braccia. Sentì gli occhi invadersi di lacrime. Serrò la mascella nello sforzo di mantenere un contegno. Sapeva che se avesse cominciato a piangere non si sarebbe più fermato. Lui e Arya rimasero abbracciati per un lungo momento, consolandosi a vicenda, poi Arya indietreggiò e chiese: «Com'è successo?» «Oromis ha avuto uno dei suoi attacchi, e mentre era paralizzato, Galbatorix ha usato Murtagh per...» Eragon non riuscì a proseguire e scosse il capo. «Te lo racconterò quando saremo con Nasuada. Anche lei deve sapere, e non me la sento di descriverlo più di una volta.» Arya annuì. «Allora andiamo.» UNA NUOVA ALBA Mentre Eragon e Arya scendevano dalla torre scortando Lady Lorana, incontrarono Blödhgarm e gli altri undici elfi che correvano su per le scale a quattro gradini alla volta. «Ammazzaspettri! Arya!» esclamò un'elfa dai lunghi capelli neri. «Siete feriti? Abbiamo sentito il lamento di Saphira e abbiamo pensato che uno di voi fosse morto.» Eragon scoccò un'occhiata ad Arya. Il voto di segretezza che aveva fatto alla regina Islanzadi non gli consentiva di parlare di Oromis o Glaedr in presenza di estranei alla Du Weldenvarden - come Lady Lorana - senza il permesso della regina, di Arya, o di chiunque avesse potuto succedere a Islanzadi sul trono nodoso di Ellesméra. Lei annuì e disse: «Vi libero dal vostro giuramento, Eragon, Saphira. Parlate di loro a chi volete.» «No, non siamo feriti» rispose allora Eragon. «Ma Oromis e Glaedr sono morti, uccisi in battaglia nei cieli di Gil'ead.» Gli elfi gridarono sconvolti, poi cominciarono a tempestare Eragon di domande. Arya alzò una mano e disse: «Ora basta. Non è questo il luogo né il momento adatto a soddisfare la vostra curiosità. Ci sono ancora soldati ovunque e non sappiamo chi ci ascolta. Serbate la tristezza nel vostro cuore finché non saremo salvi e al sicuro.» Fece una pausa e guardò Eragon, poi aggiunse: «Vi spiegherò le circostanze della loro morte non appena le avrò sapute io stessa.» «Nen ono weohnata, Arya Dröttningu» mormorarono. «Hai sentito quando ti ho chiamato?» chiese Eragon a Blödhgarm. «Sì» rispose l'elfo dalla pelliccia blu. «Abbiamo fatto più in fretta che abbiamo potuto, ma c'erano molti soldati.» Eragon portò la mano voltata al petto nel tradizionale gesto di rispetto degli elfi. «Ti chiedo scusa per averti lasciato indietro, Blödhgarm-elda. Il fervore della battaglia mi ha reso sciocco e troppo sicuro di me, e siamo quasi morti per colpa mia.» «Non c'è bisogno di scusarti, Ammazzaspettri. Anche noi oggi abbiamo commesso un errore. Un errore che ti prometto non si ripeterà mai più. Da oggi combatteremo al fianco tuo e dei Varden senza riserve.» Scesero insieme le scale fino al cortile. I Varden avevano ucciso o catturato gran parte dei soldati della fortezza, e i pochi uomini che ancora combattevano si arresero non appena videro che Lady Lorana era in mano ai Varden. Dato che le scale erano troppo strette, Saphira era scesa volando e li stava già aspettando. Eragon attese con Saphira, Arya e Lady Lorana mentre uno dei Varden andava a chiamare Jörmundur. Il comandante fu stupito nel sentire il racconto di quanto era successo nella torre; poi prese in custodia Lady Lorana. Le rivolse un inchino. «Mia signora, ti garantisco che sarai trattata con tutto il rispetto e la dignità che si competono al tuo rango. Anche se siamo tuoi nemici, restiamo pur sempre esseri civili.» «Grazie» rispose lei. «Le tue parole mi confortano. Tuttavia la mia più grande preoccupazione adesso è la sicurezza dei miei sudditi. Se potessi, mi piacerebbe parlare con il vostro capo, Nasuada, in merito a quanto intende fare con loro.» «Credo che anche lei desideri parlare con te.» Prima di allontanarsi, Lady Lorana disse: «Ti sono veramente grata, bella elfa, e anche a te, Cavaliere dei Draghi, perché avete ucciso quel mostro prima che potesse portare morte e distruzione a Feinster. Il destino ci ha schierato in campi opposti, ma ciò non significa che io non possa ammirare il vostro coraggio e il vostro valore. Potremmo non incontrarci mai più, perciò addio a entrambi.» Eragon s'inchinò e disse: «Addio, Lady Lorana.» «Che le stelle ti proteggano» disse Arya. Blödhgarm e gli elfi sotto il suo comando accompagnarono Eragon, Saphira e Arya a cercare Nasuada per tutta Feinster. La trovarono che si aggirava a cavallo per le grigie strade della città, valutando i danni. Nasuada salutò Eragon e Saphira con evidente sollievo. «Sono felice che alla fine siate tornati. Negli ultimi giorni abbiamo avuto un disperato bisogno del vostro aiuto. Vedo che hai una nuova spada, Eragon, una spada da Cavaliere dei Draghi. Te l'hanno data gli elfi?» «In un certo senso sì.» Eragon scrutò le varie persone che li circondavano e abbassò la voce. «Nasuada, dobbiamo parlare con te da sola. È importante.» «Va bene.» Nasuada studiò gli edifici che costeggiavano la strada, poi indicò una casa che sembrava abbandonata. «Andiamo a parlare lì.» Due dei Falchineri di Nasuada corsero avanti ed entrarono nella casa. Comparvero qualche minuto dopo e con un inchino dissero: «È vuota, Lady Nasuada.» «Molto bene. Grazie.» Nasuada smontò di sella, porse le redini a uno degli uomini del suo seguito e marciò dritta nella casa. Eragon e Arya la seguirono. I tre vagarono nella casa spoglia finché non trovarono una stanza, la cucina, con una finestra abbastanza grande perché Saphira ci infilasse la testa. Eragon aprì le imposte e Saphira posò il capo sul davanzale di legno. Il suo respiro riempì la cucina di odore di carne bruciata. «Possiamo parlare senza timore» annunciò Arya, dopo aver evocato un incantesimo per impedire a chiunque di origliare. Nasuada si massaggiò le braccia e rabbrividì. «Di che si tratta, Eragon?» chiese. Eragon deglutì: avrebbe dato qualunque cosa pur di non dover raccontare i dettagli della sorte di Oromis e Glaedr. Poi disse: «Nasuada... io e Saphira non eravamo gli unici... C'erano un altro drago e un altro Cavaliere a combattere contro Galbatorix.» «Lo sapevo» sospirò Nasuada, gli occhi scintillanti. «Era l'unica spiegazione possibile. Erano i vostri maestri a Ellesméra, vero?» «Non sono più?» Eragon strinse le labbra e scosse la testa, mentre le lacrime gli offuscavano la vista. «Sono morti questa mattina a Gil'ead. Galbatorix si è servito di Castigo e Murtagh per ucciderli; l'ho sentito parlare per bocca di Murtagh.» Ogni traccia di eccitazione abbandonò il volto di Nasuada, sostituita da un'espressione spenta e rassegnata. Si lasciò cadere sulla sedia più vicina e fissò le ceneri nel caminetto freddo. La cucina era silenziosa. Alla fine si riscosse e disse: «Sei sicuro che siano morti?» «Sì.» Nasuada si asciugò gli occhi con l'orlo della manica. «Raccontami di loro, Eragon. Fallo, ti prego.» E così, per la mezz'ora successiva, Eragon parlò di Oromis e Glaedr. Spiegò com'erano sopravvissuti alla Caduta dei Cavalieri e perché avevano scelto di restare nascosti da allora. Descrisse le menomazioni che affliggevano entrambi e si soffermò sul ritratto delle loro personalità, parlando anche di ciò che era stato per lui e per Saphira studiare sotto la loro guida. Il senso di perdita che provava si fece più profondo nel ricordare i lunghi giorni passati in compagnia di Oromis sulla rupe di Tel'naeír e le tante cose che l'elfo aveva fatto per lui e per Saphira. Quando arrivò al duello con Castigo e Murtagh a Gil'ead, Saphira alzò la testa dal davanzale e riprese a lamentarsi, un flebile, lungo gemito pieno di cordoglio. Alla fine Nasuada sospirò e disse: «Vorrei aver conosciuto Oromis e Glaedr, ma ahimè, non era destino. C'è ancora una cosa che non capisco, Eragon. Hai detto che hai «Già, anch'io vorrei sapere come» disse Arya. Eragon cercò qualcosa da bere, ma non c'era acqua né vino nella cucina. Tossì, poi si lanciò nel racconto del loro ultimo viaggio a Ellesméra. Saphira di tanto in tanto interveniva con un commento, ma preferì che fosse lui a raccontare la storia. A partire dalla verità sui suoi genitori, Eragon ripercorse in rapida successione gli eventi del loro soggiorno, dalla scoperta dell'acciaioluce sotto l'albero di Menoa a quando avevano forgiato Brisingr fino alla visita a Sloan. Infine raccontò a Nasuada e Arya del cuore dei cuori dei draghi. «Be'...» disse Nasuada. Si alzò e prese a misurare la cucina a lenti passi. «Tu figlio di Brom, e Galbatorix che succhia come un parassita le anime dei draghi i cui corpi ormai non esistono più. È una cosa troppo grande perché io ne riesca a comprenderne la portata...» Si massaggiò di nuovo le braccia. «Almeno ora conosciamo la vera fonte del potere di Galbatorix.» Arya era rimasta immobile, il fiato sospeso, sbalordita. «I draghi sono ancora vivi» mormorò. Giunse le mani come in preghiera e le tenne strette al petto. «Sono ancora vivi dopo tutti questi anni. Oh, se solo potessimo dirlo al resto della mia razza. Quanto sarebbero felici! E quanto sarebbe terribile la loro rabbia se sapessero della schiavitù degli Eldunarí! Correremmo a Urû'baen e non ci daremmo pace finché non avessimo liberato tutti i cuori dalle grinfie di Galbatorix, per quanti di noi dovessero morire nell'impresa.» «No» disse Arya, e abbassò lo sguardo. «Non possiamo. Ma lo vorrei.» Nasuada la guardò. «Ti prego, non offenderti, ma certo sarebbe stato meglio che tua madre, la regina Islanzadi, avesse ritenuto opportuno condividere queste informazioni con noi. Avremmo potuto servircene molto tempo fa.» «Sono d'accordo» disse Arya, aggrottando la fronte. «Sulle Pianure Ardenti Murtagh vi ha sconfitti» e indicò Eragon e Saphira «perché non sapevate che Galbatorix gli aveva dato alcuni Eldunarí, e perciò non avete agito con la giusta cautela. Se non fosse stato per la coscienza di Murtagh, ora sareste entrambi schiavi di Galbatorix. Oromis e Glaedr, e anche mia madre, avevano le loro buone ragioni per tenere segreta l'esistenza degli Eldunarí, ma la loro reticenza ci è costata quasi la disfatta. Ne discuterò con mia madre la prossima volta che la incontrerò.» Nasuada camminava fra il davanzale e il focolare. «Mi hai dato molte cose su cui riflettere, Eragon...» Tamburellò sul pavimento con la punta dello stivale. «Per la prima volta nella storia dei Varden conosciamo un modo per uccidere Galbatorix che potrebbe funzionare. Se riusciamo a separarlo da questi cuori dei cuori, perderà la fonte della sua forza, e allora tu e gli altri stregoni sarete in grado di batterlo.» «Sì, ma come facciamo a separarlo dai suoi cuori?» chiese Eragon. Nasuada si strinse nelle spalle. «Non lo so ancora, ma sono convinta che è possibile. D'ora in avanti lavorerete per trovare il modo. Tutto il resto non conta.» Eragon sentì che Arya lo studiava con insolito interesse. Turbato, le rivolse uno sguardo interrogativo. «Mi sono sempre domandata» disse Arya «perché l'uovo di Saphira era comparso davanti a te e non in qualche campo sperduto chissà dove. Sembrava una coincidenza troppo grande per essere soltanto un caso, ma non riuscivo a trovare una spiegazione plausibile. Ora invece capisco. Avrei dovuto immaginare che eri il figlio di Brom. Non lo conoscevo bene, ma lo conoscevo, e tu gli somigli molto.» «Davvero?» «Dovresti andare fiero di essere suo figlio» disse Nasuada. «A quel che si dice, Brom era un uomo straordinario. Se non fosse stato per lui, i Varden non esisterebbero. Mi sembra giusto che sia proprio tu a continuare la sua missione.» Arya disse: «Eragon, possiamo vedere l'Eldunarí di Glaedr?» Eragon esitò, poi uscì e andò a prendere il fagotto nelle bisacce di Saphira. Attento a non toccare l'Eldunarí, sciolse lo spago in cima al sacco, facendo scivolare il tessuto intorno alla pietra dorata simile a una pepita. Rispetto all'ultima volta che l'aveva visto, il bagliore dentro il cuore dei cuori era fioco e debole, come se Glaedr fosse a malapena cosciente. Nasuada si protese in avanti e fissò il nucleo vorticante dell'Eldunarí, gli occhi che le risplendevano di luce riflessa. «E Glaedr è davvero lì dentro?» «Posso parlare con lui?» «Potresti provare, ma dubito che risponderebbe. Ha appena perso il suo Cavaliere. Gli ci vorrà parecchio tempo per riprendersi dal lutto, se mai si riprenderà. Ti prego, lascialo in pace, Nasuada. Se avesse voluto parlarti, lo avrebbe già fatto.» «Certo. Non era mia intenzione disturbarlo nel suo dolore. Aspetterò che si riprenda per conoscerlo.» Arya si accostò a Eragon e avvicinò le mani all'Eldunarí, le dita tremanti sospese sulla sua superficie. Fissò la pietra con profondo rispetto, come smarrita nei suoi abissi, poi mormorò qualcosa nell'antica lingua. La coscienza di Glaedr lampeggiò debolmente come in risposta. Arya abbassò le mani. «Eragon, Saphira, vi è stata affidata la più solenne delle responsabilità: la custodia di un'altra vita. Qualunque cosa accada, dovrete proteggere Glaedr. Ora che Oromis è morto, avremo bisogno della sua forza e della sua saggezza più che mai.» Eragon ricoprì l'Eldunarí con la tela del sacco e, le dita intorpidite dalla stanchezza, armeggiò qualche istante prima di riuscire a riannodare lo spago. I Varden avevano riportato un'importante vittoria e gli elfi avevano conquistato Gil'ead, ma i due successi non gli davano alcuna gioia. Guardò Nasuada e chiese: «E adesso?» Nasuada alzò il mento. «Adesso» disse «marceremo verso nord su Belatona, e quando l'avremo conquistata procederemo fino a Dras-Leona ed espugneremo anche quella. E poi a Urû'baen, da Galbatorix, dove sarà vittoria o morte. Ecco che cosa faremo adesso, Eragon.» Dopo essersi separati da Nasuada, Eragon e Saphira acconsentirono a lasciare Feinster per andare nell'accampamento dei Varden, dove avrebbero potuto riposare indisturbati, lontani dai rumori della città. Circondati da Blödhgarm e dal resto delle guardie, si avviarono verso il cancello principale di Feinster senza scambiarsi una parola. Eragon, stringendo ancora fra le braccia il cuore dei cuori di Glaedr, teneva lo sguardo fisso a terra. Non badava agli uomini che gli passavano accanto correndo o marciando; il suo ruolo nella battaglia era concluso, e non desiderava altro che coricarsi e dimenticare i luttuosi eventi di quel giorno. Le ultime sensazioni ricevute da Glaedr gli riverberavano ancora nella mente: Eragon aggrottò la fronte, senza capire. Eragon inciampò in un sasso che non aveva notato. Col cuore gonfio di dolore, chiuse gli occhi per un attimo. Quando arrivarono ai cancelli della città, Eragon si fermò, riluttante a farsi strada fra l'enorme folla che gremiva l'uscita per fuggire da Feinster. Si guardò intorno in cerca di un'altra strada. Quando il suo sguardo passò sulle imponenti mura di cinta, fu preso dall'improvviso desiderio di vedere la città alla luce del giorno. Allontanandosi di colpo da Saphira, corse su per una scala che portava in cima alle mura. Saphira emise un breve ringhio d'irritazione e lo seguì, dispiegando in parte le ali per saltare dalla strada sul parapetto. Rimasero insieme sui bastioni per quasi un'ora a guardare il sorgere del sole. Uno dopo l'altro, i pallidi raggi di luce dorata lambirono i campi verdeggianti, illuminando le miriadi di particelle di polvere che fluttuavano in aria. Quando i raggi colpirono una colonna di fumo, il fumo risplendette di arancio e di rosso, gonfiandosi e salendo più veloce verso il cielo. Gli incendi fra le baracche ai piedi delle mura della città si erano quasi spenti, ma durante la battaglia una ventina di case all'interno di Feinster erano state incendiate, e le alte lingue di fuoco conferivano alla città una bellezza inquietante. Oltre Feinster, l'oceano scintillante si estendeva fino al piatto orizzonte, dove le vele di una nave che navigava verso nord si scorgevano appena. Mentre il sole riscaldava Eragon trafiggendo la sua armatura, la malinconia cominciò a dissiparsi come le volute di nebbia che inghirlandavano i fiumi. Trasse un profondo respiro ed espirò, più calmo. Eragon abbassò lo sguardo sull'Eldunarí che teneva fra le braccia e provò un impeto di compassione e di protezione nei confronti del drago intrappolato nel cuore dei cuori. Strinse la pietra al petto e posò una mano sul fianco di Saphira, grato per la loro compagnia. Eragon sollevò l'Eldunarí di Glaedr sopra la testa, presentandolo al sole e al nuovo giorno, e sorrise, ansioso di scendere di nuovo in battaglia, affinché lui e Saphira potessero finalmente affrontare Galbatorix e uccidere il re oscuro. FINE DEL LIBRO TERZO La storia continuerà e si concluderà con il Libro Quarto del Ciclo dell'Eredità L'ORIGINE DEI NOMI A un osservatore distratto, i vari nomi che un intrepido viaggiatore incontra nel vasto territorio di Alagaësia possono sembrare un banale miscuglio di appellativi senza una propria coerenza interna, cultura o storia. Tuttavia, come per qualsiasi altro paese che differenti culture - e in questo caso differenti razze - hanno ripetutamente colonizzato, Alagaësia deriva i suoi toponimi da una vasta gamma di fonti, fra cui la lingua dei nani, degli elfi, degli umani e persino degli Urgali. Di conseguenza, abbiamo la Valle Palancar (nome umano), i fiumi Anora e Ristvak'baen (nomi elfici) e il monte Utgard (nome nanesco) a breve distanza l'uno dall'altro in un'area di poche miglia quadrate. Sebbene questo sia di rilevante interesse storico, nella pratica si genera parecchia confusione sulla corretta pronuncia dei nomi. Purtroppo, non esistono regole prestabilite per il neofita. La confusione aumenta quando ci si rende conto che in molti luoghi la popolazione locale ha alterato le parole straniere per adattarle alla propria lingua. Il fiume Anora ne è un esempio. In origine Gli interessati sono invitati a studiare le lingue di origine per coglierne le intrinseche sottigliezze. Buon lavoro. GLOSSARIO L'ANTICA LINGUA Adurna rïsa: Acqua, sollevati. Agaetí Blödhren: Celebrazione del Giuramento di Sangue (si tiene una volta ogni cento anni per onorare l'antico patto fra elfi e draghi) Älfa-kona: donna elfo Äthalvard: una congregazione di elfi che si dedica alla conservazione delle canzoni e delle poesie elfiche Atra du evarínya ono varda, Däthedr-vodhr: Che le stelle ti proteggano, onorevole Däthedr. Atra esterni ono thelduin, Eragon Shur'tugal: Che la fortuna ti assista, Eragon Cavaliere dei Draghi. Atra guliä un ilian tauthr ono un atra ono waíse sköliro fra rauthr: Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere protetto dalla sventura. Audr: su Bjartskular: Squamediluce Blödhgarm: Lupo di Sangue Brisingr: fuoco Brisingr, iet tauthr: Fuoco, seguimi. Brisingr raudhr!: Fuoco rosso! Deyja: Muori Draumr kópa: Rifletti l'immagine Dröttningu: principessa Du deloi lunaea: Spiana la terra / polvere. Du Namar Aurboda: La Revoca dei Nomi Du Vrangr Gata: Il Tortuoso Cammino Edur: uno sperone roccioso o un promontorio Eka eddyr aì Shur'tugal... Shur'tugal... Argetlam: Sono un Cavaliere dei Draghi... Cavaliere dei Draghi... Mano d'Argento. Eka elrun ono: Ti ringrazio. Elda: appellativo onorifico di genere neutro di grande rispetto. Eldhrimner O Loivissa nuanen, dautr abr deloi / Eldhrimner nen ono weohnataí medh solus un thringa / Eldhrimner un fortha onr fëon vara / Wiol allr sjon: Cresci, o splendido Loivissa, figlio della terra / Cresci come faresti col sole e con la pioggia / Cresci e fai sbocciare il tuo fiore di primavera / Perché tutti lo vedano. Eldunarí: il cuore dei cuori Erisdar: lanterne senza fiamma usate sia dagli elfi che dai nani (dal nome dell'elfo che le inventò) Faelnirv: liquore elfico Fairth: quadro realizzato con mezzi magici su lastra di ardesia Fell: montagna Finiarel: suffisso onorifico usato per giovani uomini di grandi speranze, unito al nome con un trattino Flauga: Vola Fram: avanti Fricai onr eka eddyr: Sono tuo amico. Ganga: Vai Garjzla, letta!: Luce, fermati! Gedwëy ignasia: palmo luccicante Helgrind: I Cancelli della Morte Indlvarn: un determinato tipo di legame fra un Cavaliere e un drago Jierda: Spezza; colpisci Könungr: re Kuldr, rïsa lam iet un malthinae unir böllr: Oro, sali sulla mia mano e trasformati in sfera. Kveykva: fulmine Làmarae: tessuto fatto di lana intrecciata con fili di ortica (simile per consistenza al mistolana, ma di qualità migliore) Letta!: Ferma! Liduen Kvaedhí: Poetica Scrittura Loivissa: giglio azzurro che cresce entro i territori dell'Impero Maela: Silenzio; taci Naina: Illumina Nalgask: miscela di cera d'api e olio di noci usata per idratare la pelle Nen ono weohnata, Arya Dröttningu: Come desideri, principessa Arya. Seithr: strega Shur'tugal: Cavaliere dei Draghi Slytha: Dormi Stenr rïsa!: Pietra, sollevati! Svit-kona: appellativo onorifico e formale per una donna elfica di grande saggezza Talos: cactus che cresce intorno all'Helgrind Thaefathan: Ingrossa Thorta du ilumëok Di' la verità! Vakna: Svegliati Vodhr: appellativo onorifico maschile di medio rispetto Waíse heill!: Guarisci! Yawë: un pegno di fiducia LA LINGUA DEI NANI Ascûdgamln: Pugni d'acciaio Az Knurldrâthn: Gli Alberi di Pietra Az Ragni: Il Fiume Az Sindriznarrvel: La Gemma di Sindri Barzûl: augurare a qualcuno la malasorte Delva: termine usato per esprimere affettuosità fra i nani; anche un tipo di pepita d'oro tipica dei Monti Beor che i nani tengono in grande valore Dûr: nostro Dûrgrimst: clan (letteralmente, "il nostro casato" o "la nostra dimora") Dûrgrimstvren: guerra di clan Eta: No Eta! Narho ûdim etal os isû vond! Narho ûdim etal os formvn mendûnost brakn, az Varden, hrestvog dûr grimstnzhadn! Az Jurgenvren qathrid né domar oen etal...: No! Non permetterò che accada! Non lascerò che questi stolti senza barba, i Varden, distruggano il nostro paese. La Guerra dei Draghi ci ha lasciati deboli e non... Fanghur: creature simili a draghi, ma più piccole e meno intelligenti dei loro cugini (native dei Monti Beor) Farthen Dûr: Padre Nostro Feldûnost: Barbabianca (una specie di capra nativa dei Monti Beor) Gàldhiem: testa chiara / lucente Ghastgar: gara di tiro con le lance simile alle giostre medievali, e combattuta in groppa alle Feldûnost Grimstborith: capoclan (letteralmente "capo della casa"; il plurale è grimstborithn) Grimstcarvlorss: patrona del casato Grimstnzborith: sovrano dei nani, re o regina indifferentemente (letteralmente "capo delle case") Hûthvír: arma costituita da un bastone a doppia lama, usata dal Dûrgrimst Quan Hwatum il skilfz gerdûmn!: Ascolta le mie parole! Ingeitum: metallurgici; fabbri Isidar Mithrim: Zaffiro Stellato Knurla: nano (letteralmente, "uomo di pietra"; plurale knurlan) Knurlaf: donna / lei Knurlag: uomo / lui Knurlagn: uomini Knurlcarathn: muratori; scalpellini Knurlnien: Cuore di Pietra Ledwonnû: collana di Kílf; usato anche come termine generico per collana Menknurlan: coloro che non sono, o sono senza, pietra (il peggior insulto nella lingua dei nani, difficilmente traducibile) Mérna: lago / pozza Nagra: cinghiale gigante, nativo dei Monti Beor Nal, Grimstnzborith Orik!: Salve, re Orik! Ornthrond: occhio d'aquila Ragni Darmn: Fiume dei Pesciolini Rossi Ragni Hefthyn: Guardia del Fiume Shrrg: lupo gigante, nativo dei Monti Beor Skilfz Delva: Mio / mia Delva (vedere delva per la traduzione) Thriknzdal: linea di tempra sulla lama di un'arma a tempra differenziale Tronjheim: Elmo dei Giganti Ûn qroth Gûntera!: Così parlò Gûntera! Urzhad: orso delle caverne Vargrimst: senzaclan / bandito Werg: l'equivalente in lingua dei nani di bleah (usato ironicamente nel toponimo Werghadn. Werghadn si traduce con "la terra del bleah" o, più liberamente, "la brutta terra") LA LINGUA DEI NOMADI No: suffisso onorifico usato col nome della persona che si rispetta LA LINGUA DEGLI URGALI Herndall: femmine Urgali che governano le tribù Namna: strisce di tessuto contenenti le storie familiari degli Urgali, collocate all'ingresso delle loro capanne Nar: titolo di genere neutro di grande rispetto Urgralgra: nome con cui gli Urgali definiscono se stessi (letteralmente, "quelli con le corna") RINGRAZIAMENTI Kvetha Fricäya. Salve, amici. A causa della sua complessità, Come nel caso di A casa: la mamma, per i suoi manicaretti, i suoi tè, i suoi consigli, la sua comprensione, la sua pazienza infinita e il suo ottimismo; il papà, per il suo singolare modo di vedere le cose, per le sue acute osservazioni sulla storia e la prosa, per avermi aiutato a decidere il titolo del libro, e per la trovata di far incendiare la spada di Eragon ogni volta che viene pronunciato il suo nome (che idea geniale!); e la mia unica fin tutti i sensi) sorella Angela per aver accettato ancora una volta che riprendessi il suo personaggio e per tutte le numerose informazioni su nomi, piante e cose di lana. Alla Writers House: Simon Lipskar, il mio agente, per la sua amicizia, il suo duro lavoro e il necessario calcio nel sedere che mi ha dato agli inizi di Alla Knopf: la mia editor, Michelle Frey, per lo sfibrante lavoro di collaborazione nello sfoltire e consolidare il manoscritto (la prima bozza era molto più lunga); l'editor associato Michele Burke, che ha contribuito all'opera di editing e alla realizzazione delle sinossi di Alla Listening Library: Gerard Doyle, che dà vita al mondo di Alagaësia con la sua voce; Taro Meyer per aver colto perfettamente la pronuncia delle mie lingue; Orli Moscowitz per aver tirato le fila; e Amanda D'Acierno, editor della Listening Library. Grazie a tutti voi. E per quelli che hanno capito l'allusione al "dio solitario", quando Eragon e Arya sono seduti davanti al falò, la mia unica scusante è che Doctor Who può viaggiare ovunque, perfino nelle realtà alternative. Ehi, anch'io sono un suo fan! E infine, ma soprattutto, grazie a voi lettori. Grazie di aver letto Ancora una volta le avventure di Eragon e Saphira sono finite, e ancora una volta siamo arrivati alla fine di questo tortuoso cammino... ma solo per il momento. Molte miglia ancora ci aspettano. Il quarto libro sarà pubblicato non appena l'avrò terminato e vi prometto che sarà il più emozionante. Non vedo l'ora che lo leggiate! Sé onr sverdar sitja hvass! FINE |
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