"Gli abitatori del miraggio" - читать интересную книгу автора (Merritt Abraham)

IL LIBRO DI KHALK’RU

I SUONI NELLA NOTTE

Alzai la testa, per ascoltare non soltanto con le orecchie ma con ogni centimetro quadrato della mia pelle, attendendo il ripetersi del suono che mi aveva svegliato. C’era silenzio, un silenzio assoluto. Non si udiva il minimo fruscio tra i rami degli abeti che sorgevano fitti intorno al piccolo accampamento, né il minimo agitarsi di animaletti furtivi nel sottobosco. Attraverso le guglie degli abeti, le stelle brillavano fioche in quel breve crepuscolo fra il tramonto e l’alba che era la notte estiva in Alaska.

Un vento improvviso piegò le cime degli abeti, e portò di nuovo il suono… il clangore di un’incudine percossa.

Sgusciai fuori dalla mia coperta, girai intorno alle braci morenti del fuoco per raggiungere Jim. La sua voce mi fermò.

«Sì, Leif. L’ho sentito.»

Il vento sospirò e morì, e con il vento morirono i riverberi ronzanti del colpo sull’incudine. Prima che potessimo parlare, tornò a levarsi il vento. Portava l’eco di quel suono… fievole e molto lontano, E poi di nuovo morì il vento, e con il vento il suono.

«Un’incudine, Leif!»

«Ascolta!»

Una raffica più forte fece ondeggiare gli abeti. Trasportava una cantilena lontana: molte voci, di donne e di uomini, che cantavano uno strano coro soffuso. Il canto si concluse con un accordo lamentoso, arcaico, dissonante.

Vi fu un lungo rullo di tamburi, che salì in un rapido crescendo e poi cessò bruscamente. E poi una confusione, clamorosa e sottile.

Fu schiacciata da un rombo sommesso e sostenuto, come di tuono, smorzato dalla lontananza. Sapeva di sfida.

Attendemmo, ascoltando. Gli abeti erano immoti. Il vento non tornò.

«Che suoni strani, Jim.» Cercai di parlare con noncuranza.

Lui si levò a sedere. Un fuscello si accese, fra le braci morenti, e con la sua luce fece spiccare il volto di Jim contro il buio: magro, bruno, aquilino. Non mi guardava.

«Tutti gli antenati piumati degli ultimi venti secoli si sono destati e gridano! È meglio che tu mi chiami Tsantawu, Leif. Tsi’ Tsa’lagi… Io sono un Cherokee! Ora… sono interamente indiano!»

Sorrideva, ma continuava a non guardarmi, ed io ne ero lieto.

«Era un’incudine,» dissi io. «Un’incudine maledettamente grande. E centinaia di persone che cantavano… e come è possibile, in questa desolazione… e non sembravano indiani…»

«I tamburi erano indiani.» Jim si accosciò davanti al fuoco, fissandolo. «Quando si sono scatenati, qualcosa ha suonato un pizzicato con dei ghiaccioli su e giù per la mia spina dorsale.»

«Hanno colpito anche me… quei tamburi!» Credevo che la mia voce fosse ferma, ma lui mi squadrò attento: ora fui io a deviare lo sguardo per fissare le braci. «Mi hanno ricordato qualcosa che ho udito… e creduto di vedere… in Mongolia. Ed anche il canto. Accidenti, Jim, ma perché mi stai fissando in quel modo?»

Gettai un ramoscello nel fuoco. Non seppi trattenermi dal frugare con lo sguardo nell’ombra, quando prese fuoco. Poi affrontai deciso gli occhi di Jim.

«Era un brutto posto, eh, Leif?» mi chiese lui, senza alzare la voce.

Non dissi nulla. Jim si alzò e si avvicinò agli zaini. Tornò indietro portando dell’acqua e la gettò sul fuoco. Poi, a calci, coprì di terra i carboni sibilanti. Se anche mi vide rabbrividire quando le ombre si avventarono su di noi, non me lo fece capire.

«Quel vento veniva da Nord,» disse. «Quindi, i suoni venivano di là. Perciò, qualunque cosa abbia prodotto quei suoni è a Nord, rispetto a noi. Tenuto conto di questo… da che parte ci dirigiamo, domani?»

«A Nord,» risposi io.

Mi s’inaridì la gola, quando lo dissi.

Jim rise. Si buttò sulla coperta, se l’avvolse attorno. Io mi appoggiai al tronco d’uno degli abeti, e rimasi seduto a guardare verso settentrione.

«Gli antenati si agitano, Leif. Promettono una quantità di guai, immagino… se andiamo a Nord… ‘Cattiva medicina!’ dicono gli antenati. ‘Cattiva medicina per te, Tsantawu! Tu vai ad Usunhi’yi, la Terra che si Oscura, Tsantawu!… A Tsusgina’i, il territorio degli spettri! Stai in guardia! Allontanati dal Nord, Tsantawu!’»

«Oh, dormi un po’, superstizioso d’un pellerossa!»

«Va bene, volevo solo avvertirti.»

Poi, qualche istante più tardi: «‘E udire voci ancestrali che profetizzano guerra’… I miei antenati stanno profetizzando qualcosa di peggiore della guerra, Leif.»

«Accidenti, ma vuoi star zitto?»

Una risata sommessa dall’oscurità; poi silenzio.

Mi appoggiai al tronco dell’albero. I suoni, o meglio i maligni ricordi che avevano evocato, erano riusciti a sconvolgermi assai più di quanto fossi disposto ad ammettere. L’oggetto che da due anni portavo al collo, nel sacchetto di pelle appeso alla catena, era sembrato fremere e diventare gelido. Mi chiesi quanto Jim fosse riuscito ad intuire di ciò che avevo cercato di nascondere.

Perché aveva spento il fuoco? Perché aveva capito che io ero spaventato? Per costringermi ad affrontare la mia paura e vincerla?… Oppure era stato il suo istinto indiano che l’aveva indotto a cercare rifugio nell’oscurità?… Aveva ammesso che i canti ed il rullo dei tamburi avevano scosso i suoi nervi non meno dei miei…

Paura! Certo, era stata la paura che aveva reso madide di sudore le palme delle mie mani, mi aveva serrato la gola fino a quando il mio cuore aveva battuto come i tamburi.

Come i tamburi… sì!

Ma… non come i tamburi il cui rullo era stato portato fino a noi dal vento del Nord. Erano stati simili alla cadenza dei piedi di uomini e donne, giovani e fanciulle e bambini, che correvano sempre più svelti su per i fianchi di un mondo cavo per tuffarsi rapidi nell’abisso… dissolvendosi nel vuoto… svanendo mentre precipitavano… dissolvendosi… divorati dal nulla…

Come quel maledetto rullo di tamburi che avevo udito nel tempio segreto dell’oasi del Gobi, due anni prima!

Allora, come adesso, non era stata soltanto paura. Era paura, in verità, ma colorata di sfida… la sfida della vita contro la sua negazione… una rabbia insorgente, ruggente, vitale… la rivolta frenetica dell’annegato contro l’acqua soffocante, la rabbia della fiamma della candela contro chi sta per estinguerla…

Cristo! Era così terribile? Se ciò che sospettavo era vero, pensare in quel modo significava partire sconfitto!

Ma c’era Jim! Come potevo tenerlo fuori?

In fondo al cuore, non avevo mai riso di quelle percezioni subconsce, qualunque cosa fossero, che lui chiamava le voci dei suoi antenati. Quando aveva parlato di Usunhi’yi, la Terra che si Oscura, un brivido gelido mi era serpeggiato lungo la spina dorsale. Il vecchio sacerdote uiguro non aveva parlato, forse, della Terra Oscurata? Ed era come se avessi udito l’eco delle sue parole.

Guardai nella direzione in cui stava sdraiato Jim. Era sempre stato più simile a me dei miei stessi fratelli. Sorrisi a quel pensiero, perché i miei fratelli non mi erano mai stati simili.

Per tutti, eccettuata mia madre, una norvegese dalla voce sommessa e dal seno fiorente, io ero stato un estraneo in quella vecchia casa, severamente convenzionale, in cui ero nato. Ero il figlio minore, e un intruso indesiderato: come un figlio scambiato. Non era stata colpa mia se ero venuto al mondo simile agli antenati vichinghi di mia madre, con i capelli biondi, gli occhi azzurri, la struttura solida. Non sembravo un Langdon. I Langdon erano bruni e snelli, con le labbra sottili, saturnini, usciti per generazioni dallo stesso stampo. Mi guardavano dall’alto in basso dai ritratti di famiglia con un’ostilità altezzosa, vagamente divertita. Precisamente come mi guardavano mio padre ed i miei quattro fratelli, tutti veri Langdon, quando mi sedevo goffamente alla loro tavola.

La cosa mi aveva reso infelice, ma aveva indotto mia madre a consacrarmi il suo cuore. Come tante altre volte, mi chiesi come aveva potuto accettare mio padre, un uomo cupo ed egocentrico, lei, con il sangue degli scorridori dei mari che le cantava nelle vene. Era stata lei a chiamarmi Leif… un nome incongruo per un Langdon, così come era incongrua la mia nascita.

Jim ed io eravamo entrati a Dartmouth lo stesso giorno. Lo vedevo come era allora: il ragazzo alto e bruno dalla faccia aquilina e dagli imperscrutabili occhi neri, Cherokee purosangue, del clan da cui era venuto il grande Sequoiah, un clan che aveva prodotto, in molti secoli, saggi consiglieri e guerrieri forti ed astuti.

Nei registri del college il suo nome era scritto James T. Eagles, ma negli annali della Nazione Cherokee era scritto Due Aquile, e sua madre lo aveva chiamato Tsantawu. Fin dal primo momento avevamo riconosciuto la nostra affinità spirituale. Con gli antichi riti del suo popolo eravamo diventati fratelli di sangue, e lui mi aveva dato un nome segreto, noto a noi due soltanto, Degataga: uno che è così vicino ad un altro che i due sono uno.

La mia unica dote, a parte la forza, è la facilità per le lingue. Ben presto, parlavo il Cherokee come se fossi nato nella Nazione. Gli anni trascorsi al college erano stati i più felici della mia vita. Verso la fine di quel periodo, l’America entrò nella prima guerra mondiale. Avevamo lasciato insieme Dartmouth, eravamo andati al campo d’addestramento, eravamo partiti per la Francia con la stessa nave.

E mentre stavo là, sotto la lenta alba dell’Alaska, la mia mente balzò agli anni intermedi. La morte di mia madre il giorno dell’Armistizio… il mio ritorno a New York, in una famiglia apertamente ostile… il ritorno di Jim al suo clan… la fine del mio corso d’ingegneria mineraria… i miei vagabondaggi in Asia… il secondo ritorno in America e la ricerca di Jim… questa nostra spedizione in Alaska, più per cameratismo e per amore della pace di quei luoghi deserti che per l’oro che avremmo dovuto cercare.

Era una lunga strada, dopo la Guerra… e gli ultimi due mesi erano stati i più felici. Ci aveva portati da Nome alle tundre, e poi al Koyukuk, e infine a quel piccolo accampamento tra gli abeti, da qualche parte tra il corso superiore del Koyukuk e il Chandalar, ai piedi dei primi contrafforti dell’inesplorato Endicott Range.

Una lunga strada… Avevo la sensazione che proprio lì incominciasse la vera strada della mia vita.

Un raggio del Sole sorgente scoccò tra gli alberi. Jim si levò a sedere, mi guardò e sogghignò.

«Non hai dormito molto dopo il concerto, vero?»

«Che cos’hai fatto agli antenati? Non sembra che ti abbiano tenuto sveglio per molto.»

Jim rispose, con troppa disinvoltura: «Oh, si sono calmati.» Aveva volto ed occhi imperscrutabili. Mi stava nascondendo il suo pensiero. Gli antenati non si erano calmati. Era rimasto sveglio, mentre io credevo che dormisse. Presi una decisione fulminea. Saremmo andati a Sud, come avevamo stabilito. Sarei andato con lui fino a Circle. Poi avrei trovato qualche pretesto per lasciarcelo.

Dissi: «Non andremo a Nord. Ho cambiato idea.»

«Sì. Perché?»

«Te lo dirò quando avremo fatto colazione,» risposi io… Non so inventare le bugie molto rapidamente. «Accendi il fuoco, Jim. Io scendo al ruscello a prendere un po’ d’acqua.»

«Degataga!»

Trasalii. Lui mi chiamava con il nome segreto solo nei rari momenti di grande comprensione o di grande pericolo.

«Degataga, tu andrai a Nord! Ci andrai, anche se dovrò precederti per costringerti a seguirmi…» Prese a parlare in lingua Cherokee. «È per salvare il tuo spirito, Degataga. Dobbiamo marciare insieme… come fratelli di sangue? Oppure mi striscerai dietro, come un cane tremante alle calcagna del cacciatore?»

Il sangue mi martellava alle tempie: alzai di scatto la mano verso di lui. Jim si tirò indietro e rise.

«Così va meglio, Leif.»

La rabbia passeggera mi abbandonò, la mia mano ricadde.

«D’accordo, Tsantawu. Andiamo… a Nord. Ma non era… non era per me che ti ho detto di avere cambiato idea.»

«Lo so maledettamente bene!»

Si diede da fare per accendere il fuoco. Io andai a prendere l’acqua. Bevemmo il forte tè nero, e mangiammo gli avanzi di quelle piccole cicogne brune che chiamano tacchini dell’Alaska, e che avevamo preso il giorno prima. Quando avemmo finito, cominciai a parlare.