"Il gioco di Zodiac" - читать интересную книгу автора (Baldacci David)

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La zona isolata su un promontorio scosceso sovrastante uno dei rami principali del Cardinal Lake, che si estendeva per una cinquantina di chilometri, era da tempo una delle località preferite dagli adolescenti di Wrightsburg, un posto ideale per gli appuntamenti romantici e per dedicarsi ad attività sicuramente disapprovate dai genitori. Poiché quella notte minacciava pioggia e un forte vento sferzava i rami degli alberi, sulla sommità del promontorio era posteggiata una sola auto. Ciononostante, i due occupanti stavano mettendo in scena uno spettacolo animato.

La ragazza era già nuda; indumenti e biancheria erano piegati con ordine sul sedile posteriore, vicino alle sue scarpe. Il ragazzo stava cercando freneticamente di levarsi la camicia dalla testa senza sbottonarla, mentre lei si stava dando da fare ad abbassargli i pantaloni. Spogliarsi in uno spazio così limitato era davvero un’impresa. La camicia finalmente fu tolta più o meno nello stesso istante in cui la ragazza ansimante gli calò i pantaloni e le mutande. La pazienza, almeno in quelle circostanze, chiaramente non era una delle sue virtù.

Dopo essersi infilato un profilattico, il ragazzo scivolò verso il centro del sedile anteriore e la ragazza gli salì sopra a cavalcioni, faccia a faccia. Ora i finestrini dell’auto erano quasi completamente appannati. Il ragazzo fissò lo sguardo fuori del parabrezza, sopra la spalla della ragazza, ansimando come lei sempre più in fretta mentre chiudeva gli occhi. Era la sua prima volta, sebbene la sua compagna apparisse di gran lunga più esperta. Da almeno due anni sognava quel momento, con livelli ormonali in costante aumento fin quasi alla pura agonia. Sorrise quando lei gemette forte e fu scossa da un brivido prolungato sopra di lui.

Poi aprì gli occhi e il sorriso gli morì sulle labbra.

Una terrificante figura con un cappuccio nero lo fissava di rimando oltre il parabrezza. Attraverso la spessa condensa del loro fiato sul vetro vide spuntare la canna di un fucile. Fece per scrollarsi di dosso la ragazza, pensando istintivamente di avviare il motore e di levarsi di torno. Non ne ebbe il tempo. Il vetro del parabrezza esplose verso l’interno. L’impatto dei pallettoni nella schiena della ragazza la scaraventò contro di lui, ma il suo corpo gli fece da scudo. Però la collisione con la sua testa gli ruppe il naso, facendolo quasi svenire. Inondato dal sangue della sua amica, eppure non ferito in modo letale, strinse a sé il corpo morto, avvinghiandosi a esso come fosse una cara, tenera coperta di Linus, una sicurezza affettiva, capace di proteggerlo e respingere il folle assassino. Avrebbe voluto urlare, ma non ci riuscì. Finalmente lasciò andare la ragazza e scivolò verso il posto di guida. I suoi movimenti erano maldestri, la sua mente offuscata. Era stato colpito da una pallottola? Non lo sapeva, ma era in preda allo shock. La sua pressione sanguigna aumentava e diminuiva rapidamente, con picchi tremendi, sottoponendo ogni parte del corpo a livelli di stress pressoché intollerabili.

Girò una prima volta la chiave di accensione proprio quando la portiera dal lato del conducente si spalancò e comparve di nuovo il cappuccio nero. Mentre fissava impotente il suo aggressore, la canna del fucile ondeggiò adagio verso di lui come il serpente più velenoso del mondo. Il ragazzo iniziò a implorare e poi a piangere a calde lacrime, con il sangue che gli colava dal naso fratturato. Terrorizzato, si ritrasse adagio dall’uomo armato, finché non urtò il corpo della ragazza. «Pietà!» uggiolò come un cucciolo. «No! Dio mio, no!»

I nove pallettoni della cartuccia esplosa dal fucile lo colpirono a rosa alla testa con la forza di un maglio, e cadde all’indietro a fianco della ragazza. La parte anteriore del corpo di lei non recava alcun segno; la schiena però era devastata. Guardandola semplicemente distesa supina era impossibile dire che cosa l’avesse uccisa. La causa della morte del suo ragazzo era di gran lunga più evidente, considerando che non aveva più una faccia.

L’assassino appoggiò il fucile alla fiancata dell’auto, dal lato del passeggero, aprì la portiera e si chinò all’interno. Allacciò un orologio al polso del ragazzo, allungandogli il braccio e appoggiandolo al cruscotto dell’auto, incastrandolo infine tra il cruscotto e la portiera in modo che puntasse verso l’alto. Poi armeggiò con l’orologio che la ragazza indossava già; infine le sfilò dal dito un dozzinale anellino con ametista e se lo mise in tasca. Levò la catenina con la medaglietta di san Cristoforo dal collo del giovane e ripose anche quella in tasca.

Chino sul cadavere del ragazzo, disse: «Mi dispiace. Non sei colpevole personalmente, ma eri parte del peccato originale. Non sei morto invano. Hai rimediato a uno sbaglio da troppo tempo in attesa di riparazione. Trai conforto da questo».

Non si scomodò a pregare per la ragazza. Estrasse un oggetto da una tasca e lo depose sul pavimento dell’auto, chiuse la portiera e si incamminò con passo pesante. Mentre la pioggia entrava attraverso il parabrezza infranto, i due giovani nudi e morti sembravano stringersi l’uno all’altra.

Sul pavimento dell’auto c’era l’oggetto lasciato dall’assassino.

Era un collare per cani.